La popolazione di Faella dall’ Estimo del 1364 al Catasto del 1427

di Paolo Piccardi

 

 

 

Nel 1427 Firenze si dotò di un nuovo strumento per la determinazione del reddito imponibile dei contribuenti, sia della città che del contado.

Fino a quella data l’imposizione fiscale avveniva tramite la determinazione della capacità contributiva di ciascun nucleo familiare da parte di un comitato eletto dalla popolazione stessa. Questo sistema veniva denominato Estimo o Libra, perché gli assoggettati venivano "allibrati" per un determinato valore, che non rappresentava una cifra da pagare, ma un coefficiente, in base al quale veniva suddivisa la somma che, di volta in volta, le autorità ritenevano necessario raccogliere per coprire le spese. Non occorre dire che questo sistema, specialmente in città, portava l’inevitabile conseguenza di disparità, privilegi e incredibili vessazioni, essendo basato sulla ricchezza esteriore e sulle reciproche invidie.

La situazione si aggravò nel 1423, a seguito della guerra contro i Visconti di Milano. Mentre nel decennio precedente Firenze era stata in pace con tutti e le spese per gli uomini in armi furono minime, con gran sollievo dei cittadini, nel solo 1424 le imposte ricavate dalla città e dal contado furono di 770.000 fiorini. Fra il 1424 e il 1427 le imposte assommarono a 2.65 milioni. Il Villani scrisse orgogliosamente della ricchezza dei fiorentini, certo che Milano sarebbe andata in bancarotta prima di Firenze, ma le conseguenze furono invece nefaste: Giovanni Cavalcanti riferisce indignato che alcune fra le migliori famiglie furono ridotte in miseria, altre costrette all’esilio (Frescobaldi, Mannelli, i Panciatichi preferirono trasferirsi a Siena ecc.), altre ancora gettate "nelle obbrobriose e fetide carceri le quali per loro vocabolo sono chiamate le Stinche", come avvenne allo stesso Cavalcanti. La fuga delle famiglie più abbienti rappresentò un disdoro per le stesse, ma anche una perdita di risorse per il Comune, i cui rappresentanti cominciarono a dibattere sull’opportunità di modificare il regime fiscale. Le discussioni iniziarono a partire dal 1424, con i primi rovesci militari e ripresero ogni volta che dovette essere istituita una nuova tassa. Si giunse così, nel 1426, ad avviare lo studio di un nuovo regime tributario, denominato Catasto, che evocò in Giovanni Rucellai l’idea di luminosità, consentendo di "far luce sulle fortune".

Il sistema non era del tutto originale, essendo già stato introdotto a Venezia nel 1411, la cui documentazione, purtroppo è andata completamente perduta, mentre quella di Firenze è giunta intatta fino a noi. Il sistema del Catasto rappresentava una rivoluzione copernichiana, dato che si abbandonava la formula delle commissioni di estimatori, ma si obbligava ogni singolo capofamiglia, dal più ricco e potente al più umile, a presentare una propria dichiarazione, denominata "portata", con l’elenco completo e dettagliato dei beni, dei crediti, dei debiti e delle somme depositate in banca (Monte). La dichiarazione doveva comprendere anche l’elenco dei componenti la famiglia e l’indicazione delle loro età, allo scopo di conteggiare le detrazioni per ogni "bocca". Frequentemente si incontrano anche annotazioni aggiuntive, allo scopo di ottenere la benevolenza degli ufficiali del fisco.

A questo sistema si assoggettarono, sia in città che nel contado, 60.000 famiglie, per un totale di 260.000 persone fisiche, fornendoci una radiografia quanto mai dettagliata della popolazione fiorentina dell’epoca. Le dichiarazioni autografe venivano consegnate ai commissari del Gonfalone cui apparteneva la famiglia. Una schiera di scrivani sintetizzava ogni portata in altro foglio, denominato "campione", dove venivano messi in evidenza solo i dettagli utili ai fini della determinazione dell’ imposizione fiscale. Presso l’ Archivio di Stato di Firenze sono conservati sia i Campioni che le Portate, non solo del 1427, ma anche degli anni successivi. Le "portate" originali degli abitanti del popolo di Santa Maria a Faella sono contenute nella filza "Catasto 156", dalla carta n° 698 alla n° 781, per un totale di 33 nuclei familiari e un numero complessivo di 143 abitanti.

Sappiamo che la zona compresa fra Castelfranco e Piandiscò era particolarmente fertile, e quindi popolosa, tanto che già nel 1260 i Pazzi del Valdarno, signori del luogo, quando furono richiamati gli uomini abili per il servizio militare in previsione della spedizione contro Siena, che passerà alla storia come "la battaglia di Montaperti", ottennero l’inconsueta esenzione di ben 50 dei loro uomini, che sarebbero stati impiegati nel raccolto del grano.

Se osserviamo la "libra" del 1364, contenuta in "Estimo 227" presso l’ Archivio di Stato di Firenze, possiamo notare che a quell’ epoca il popolo di Santa Maria a Faella era composto da soli 18 nuclei familiari. Evidentemente, stava ancora patendo le terribili conseguenze della "morte nera", che dimezzò la popolazione europea fra il 1347 e il 1350. Nel Valdarno la peste arrivò molto tardi, perché in un documento notarile del 1350 Montecarelli presentava ancora 39 capifamiglia, ridotti a 12 nel 1364. Possiamo ritenere che anche Faella abbia subito un tale spopolamento.

Nel 1364 il primo contribuente di Faella era Piccardo di Palese Piccardi, abitante a Campiglia, all’ epoca appartenente al popolo di S. Maria a Faella, allibrato per 300 lire, seguito da Nerio Francecschini (190 lire) e da Magio Cioni, Giovanni Chiarini, Maffeo e Laco Cianti, tutti allibrati per 100 lire.

Il 27 Dicembre 1384 il notaio Ser Santi di Giovanni Benciatti trascrisse sui suoi registri i risultati delle deliberazioni della commissione eletta ed incaricata dal popolo di Faella di determinare la loro "libra". L’ elenco si è ulteriormente ridotto a 16 capifamiglia, capitanati da Maffeo e Laco Cianti, ai quali viene assegnato una capacità contributiva di 8, seguito da Antonio Piccardi (6). Il fratello Paolo Piccardi, pur mantenendo i possedimenti di Faella, si era trasferito a Firenze, dove era stato allibrato.

Arriviamo al Catasto del 1427 e, per la prima volta, non abbiamo solo l’elenco dei capifamiglia, ma un insieme di dichiarazioni autografe, stilate su fogli "mezzani" di carta bambagina di cm. 31x22. Non tutti sapevano leggere e scrivere e in 11 portate si leggono i nomi di coloro che compilarono materialmente la dichiarazione, mentre le altre 22 o sono autografe o lo scrivano non ha apposto il suo nome. Alcune calligrafie sono bellissime, degne dei codici miniati del ‘300, mentre altre denotano l’incertezza della mano o la sbrigativa velocità di chi doveva scriverne molte, per aiutare gli analfabeti. Tipico il caso dei fratelli Magio e Matteo di Filippo, farmacisti di Castelfranco, a dimostrazione del fatto che anche all’ epoca per scrivere ricette occorreva una pessima calligrafia.

Le portate, che furono compilate nella prima quindicina dell’ Agosto del 1427, iniziano con l’ indicazione del Quartiere di appartenenza, San Giovanni, del Piviere di Santa Maria a Sco, del Comune di Castelfranco di Sopra e, infine, del popolo di Santa Maria a Faella e si rivolgono direttamente ai "Signori Ufiziali chiamati per il popolo e comune di Firenze a porre il catasto a contadini".

I dichiaranti si presentano con il loro nome, seguito dal nome del padre. Solo sette indicano un cognome: Maconi, Boschi, Brizi, Martini, Morelli, Pucciarelli, Talani.

Proseguono con l’ indicazione delle case e dei terreni posseduti, tutti completi dell’ indicazione dei microtoponimi e dei confinanti, degli animali, dei crediti e dei debiti, terminando con l’elenco completo dei componenti la famiglia, con l’indicazone del grado di parentela e dell’ età. Stava nella facoltà del dichiarante l’apposizione di formule di chiusura nella quale si elencavano malattie, disgrazie o altre motivazioni che potessero smuovere a compassione gli ufficiali del Catasto.

Dalle portate risulta che i nuclei familiari sono diventati 33, per un totale di 143 abitanti. 18 famiglie abitano nel borgo di Faella, due abitano a Campiglia e i rimanenti sparsi fra Piandiscò e Castelfranco. Cinque famiglie non possiedono case, ma vivono nell’ abitazione del podere di altri, dei quali sono mezzadri. Contrariamente a quanto si può riscontrare nelle portate di altri luoghi, le case di Faella non vengono descritte con le loro pertinenze, quali forno, frantoio, aia, pergola ecc. Solo Niccolo’ di Pagolo, abitante nel borgo di Faella, indica che la sua casa dispone anche di un orto e Luca di Simone Brizi dichiara un orto e una pergola "appiccate alla casa".

Nessuno dichiara una professione diversa da quella di coltivatore, alcuni in proprio, magari con l’abbinamento della cura di terreni di altri, mentre 11 si dichiarano mezzadri di proprietari che abitano in Firenze, fra i quali i Della Foresta di Figline, Oddo di Vieri Altoviti e Palla di Nofri Strozzi di Firenze.

Palla di Nofri Strozzi, il cui cognome derivò dal soprannome affibbiato ai suoi antenati a causa della loro particolare abilità di banchieri, aveva investito i proventi delle sue attività cittadine nell’ acquisto di terreni nel contado. Martino di Andrea Martini, di 60 anni, dichiara orgogliosamente che la sua famiglia lavora i terreni degli Strozzi da ben 150 anni, ma non deve aver fatto fortuna, perché, dopo aver indicato solo gli otto componenti della sua famiglia e un elenco di debiti. termina la sua portata dichiarando di non avere "Niuna sustanza e non ho rendita niuna di niuna mia cosa se non delle braccia mie e della mia famiglia".

Gli Altoviti, pur abitando in SS. Apostoli a Firenze, possedevano da tempi immemorabili ampi feudi di concessione imperiale sia nella zona di Bagno a Ripoli che nel Valdarno Superiore, dal Leccio fino a Cascia. Tali possedimenti vennero continuamente accresciuti, anche pochi anni prima della compilazione del Catasto. Interessante notare che in due atti di acquisto del 1389 e del 1391 gli Altoviti si fecero assistere, in qualità di testimone, da Giovanni di Niccolò Vitali di Calabria, pittore, abitante a Faella dove, nel 1411, comprò un terreno in località Conicorto. Emigrato o morto, nel catasto del 1427 non appaiono né il pittore né i suoi discendenti. Gli Altoviti dovevano essere particolarmente legati a Faella, perché un atto del 1430 attesta che Monna Nanna, figlia di Attavante de’ Gherardini e moglie di Oddo di Vieri Altoviti, abitava nel borgo di Faella e con tale atto acconsente che il marito, che abita in Borgo S. Apostoli, venda una casa a Cosimo de’ Medici e a suo figlio Lorenzo il Magnifico. Rimasta vedova, nel 1492 Monna Nanna venderà una casa nel borgo di Faella, ma i suoi discendenti continueranno ad abitarvi, come attestano le fedi di battesimo dei secoli seguenti..

Altri cittadini fiorentini possessori di proprietà a Faella furono i fratelli Francesco e Niccolò, figli di quel Paolo Piccardi che abbiamo visto emigrare in città alla fine del 1300, i quali ereditarono il podere di Campiglia, con la casa che adesso ospita l’ agriturismo "Monna Lisa" contornata da 32 terreni, più altri campi nelle vicinanze, tutti concessi a mezzadria. Pochi anni dopo i Piccardi venderanno la casa di Firenze e rientreranno stabilmente a Campiglia.

Ser Santi di Giovanni, il notaio che ci ha lasciato la più importante raccolta di atti stilati in Piandiscò, aveva numerosi terreni a Faella pur abitando alle Lacciaie, a San Miniato a Scò, della cui chiesa fu grande benefattore, edificando a sue spese anche una cappella.

Il territorio di Piandiscò fu sempre appetito dai possidenti fiorentini e da un documento del 1643 conservato presso la Biblioteca Moreniana apprendiamo che i terreni bagnati dal Faella fino al Resco rispondevano ai nomi di Acciaioli, Altoviti e Medici, questi ultimi per matrimonio con una figlia di Concino Concini, Segretario di Maria de’ Medici, regina di Francia, che tanti beni aveva acquistato fra Terranova, Pulicciano e Piandiscò.

I mezzadi erano fortemente indebitati con i loro datori di lavoro: Gli Altoviti dovevano avere 24 fiorini d’oro da Jacopo di Mito e 13 da Checco di Francesco. Antonio di Jacopo deve non solo a Palla di Nofri Strozzi 50 fiorini, ma anche 25 al suo precedente proprietario, da lui abbandonato ormai da 20 anni. Martino di Andrea Martini deve ai Della Foresta 30 fiorini. Bartolo di Martino Maconi lavora le terre dell’ Arte di Calimnala, con la quale ha contratto un debito di 46 fiorini.

26 capifamiglia, ossia quasi l’ 80%, dichiarano di possedere la casa dove abitano e alcuni terreni, tutti indicati con i rispettivi confini e toponimi, alcuni dei quali tuttora esistenti: Bagnerese, Al Bagnuolo, A Barbaraia, I Borri, Calabronaia, Campiglia, Al Casalino, Al Colto, In Corbinaia, Il Corniuolo, La Costa, Alla Doccia, Al Faeto, In Discheto, A Francoli, Alla Grillaia, Nel Lupo Secco, Maladdobbati, Malosso, Martinozzo, Nel Meleto, Montalpero, Oltre Faella, In Orbini, Nella Pilaia, Al Prato, A Ripa Bella, Soffia Gatta, La Stannese, Agli Stecconi, Valle Maggiore, Alla Via Dal Poggio, Alle Vignole.

I terreni dichiarati sono in totale 87 suddivisi fra 24 proprietari, il maggiore dei quali ne possiede otto, un numero ben lontano dall’ estensione dei terreri di proprietà dei cittadini.

Quasi del tutto assenti i buoi di proprietà dei Faellesi, solo quattro in tutto, tre dei quali di proprietà di Mone di Ceccherino, il quale dichiara che valgono complessivamente 20 fiorini e che li adopra sia per le proprie terre che per quelle di altri. Magio di Tieri Talani dichiara di possedere la metà di un bue, ma non rivela chi è il proprietario dell’ altra metà. Checco di Francesco lavora un podere di Palla di Nofri strozzi con l’ aiuto di due buoi di proprietà dello stesso Strozzi, del quale ha anche un’asina e quattro porci. Jacopo di Cristofano dichiara di essere proprietario dela quarta parte d’uno paio di buoi, che ha in comune coll’erede di Guidotto di Nieri. Matteo di Maffio di Matteo, che presenta la sua portata a Faella, ma che abita a Firenze, dichiara di possedere una vacca con due giovenchi, che ha affidato ad un coltivatore di Terranuova con contratto di soccida. Non ci sono cavalli, gli asini sono 8 in tutto, i maiali 26 e gli ovini, fra capre e pecore, 36. Gli animali da cortile non vengono dichiarati. Era in uso il contratto di soccida, in base al quale il proprietario affidava uno a più animali alle cure di altri. Magio di Tieri Talani custodisce due porcelli di Nanni di Agnolo da Figline, Matteo di Maffio di Matteo, che abita a Firenze, ma che presenta la sua portata a Faella, ha affidato un bue a Martino di Niccolò di Terranova e un bue a Nanni di Modine e, infine, Piero di Laco di Campiglia, le cui venti pecore si trovano presso Benedetto da Codilungo.

Non tutti i proprietari dichiarano l’ entità dei raccolti, e di coloro che lo fanno è difficile credere nell’ attendibilità, perché più volte si afferma che i terreni rendono poco o che sono stati dissodati da troppo poco tempo. Dai dati dichiarati risulta che la produzione era limitata al grano, per un totale di stata 339, equivalenti a Kg. 6780 e al vino, 124 barili, pari a 5.642 litri. Ininfluenti le quantità di castagne (Kg. 40) e di orzo (Kg. 160), perché dichiarati solo da due contribuenti. Spicca con tutta evidenza la totale mancanza di produzione di olio. Anche se nelle altre frazioni di Piadiscò e di Castelfranco l’ olivicoltura rappresentava una produzione nettamente minoritaria, in nessuna altra parte l’ olio risulta totalmente assente.

La somma del valore dei beni dichiarati ammonta a 1.158.75 Fiorini d’oro, una cifra modesta, se ripartita fra i 33 nuclei familiari, fra i quali solo Maffio di Matteo e Magio di Tieri Talani, rispettivamente con 125 e con 100 Fiorini, superano di poco quella che viene ritenuta la soglia che divide il benessere dalla semipovertà.

A fronte dei capitali posseduti, tutti immobilizzati in case, terreni e animali, abbiamo una massa di debiti pari 327,5 fiorini, ma per la maggior parte dovuti ai proprietari dei poderi condotti a mezzadria, come abbiamo visto, mentre diverse sono le pendenze per doti non ancora riscosse:

Guido di Bartolo Boschi, sposato con Donna Sandra, dichiara di dover "avere la detta Monna Sandra per resto di sua dota di ragione dell’erede di Barnaba di Pacino da Castelfranco da M.a Caterina sua donna L. 50 delle quali ne quistiona tra le dette persone". Ossia, dopo la morte di Barnaba di Pacino, padre di Sandra, resta debitrice del resto di dote Monna Caterina, vedova di Barnaba. Guido di Bartolo si rende conto dell’ indigenza della suocera e aggiunge in una carta successiva: ""Lire 50 che nell’altra sua portata e dice di avere per cagione della per donagione per le nozze se le per pieta’ perdute e non le puo’ domandare sicche’ cassa quella quantita’". La dote veniva gestita dal marito, ma restava di proprietà della moglie, che ne sarebbe rientrata in possesso in caso di vedovanza.

Agnolo di Andrea "Ha da avere da Mora di Bartolo luogo detto da Campiglia F. 40 i quali ha avere per dote di M.a Papina mia donna che fu sua nuora. Di detti F. 40 tengo tutte … e beni del detto Mora cioe’ sono entrato in tenuta … non ho avuto altro frutto". Ser Mora di Bartolo Mannozzi, che diede nome alla "Casa Mora" di Piandiscò, era un notaio originario di Montecarelli. Suo figlio aveva sposato Monna Papina, che, rimasta vedova, si era risposata con Agnolo di Andrea e pretendeva dal vecchio suocero la sua dote.

Martino di Andrea Martini dichiarò: "Ho debito con Michele di Giorgio da Figline per stoviglie per dare a una sua fanciulla quando la mandadi a marito F. 8 Ho debito della dota della mia fanciulla ch’io ho maritata a Maffio di Cecco da San Giovanni mio genero F. 6" Ossia, Martino Martini ha sposato due figlie ma non ha i contanti per saldare la dote promessa.

L’ anno successivo, 1428, vennero riaperti i termini per presentare eventuali aggiunte alle dichiarazioni e di tale facoltà si avvalsero Guido di Bartolo Boschi, che dichiarò semplicemente di aver sottostimato i suoi beni di 14 fiorini d’oro, Antonio di Michele Pucciarelli che si era dimenticato di elencare un terreno e, infine, Vanni di Laco, che aveva omesso di elencare i beni ereditati da Monna Santa, sua moglie gli animali che teneva a soccida da Benedetto di Codilungo e, credendo di non aver indicato i quattro figli, ne ripetè i nomi.

Le portate al Catasto si susseguirono periodicamente, fino a quando il regime republicano del Savonarola modificò radicalmente il sistema, limitando le dichiarazioni ai soli passaggi di proprietà, per giungere poi alla Decima Granducale, che riprese il metodo della descrizione analitica dei beni, senza contare gli "Stati delle Anime", che ogni parroco era tenuto a fare in occasione della benedizione delle case. Nel 1884 Faella contava 112 famiglie per un totale di 1135 individui, ma va notato che era mutata l’estensione del territorio, una parte del quale era passato a San Miniato a Sco.

 

 

 

 

 

 

 

 

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