Storia di La Spezia

 

 

 

La pagina di GINO RAGNETTI

 

Armato della sua bella prosa e di una mente linda e deduttiva Gino Ragnetti ha esplorato gli angoli bui della storia spezzina e poi ci ha raccontato cosa ha visto

E quello che ci racconta e' fresco e vivo . Balza infatti dalle righe una storia ben diversa dalla storia di maniera che per tanto tempo ci ha parlato di una "citta' senza storia "

Cosi la storia di una "citta senza storia " giovera' sicuramente agli spezzini e a chi spezzino non e' ma ama ugualmente questa straordinaria e stupefacente citta'

Gli interrogativi che Gino Ragnetti stimola poi col suo libro sull'ottocento spezzino sono un dito in una piaga ancora aperta

 

 

LA PAROLA A GINO RAGNETTI : qualche brano rubato ai suoi blog

 

Allo spezzino non fare sapere...

La zona più interna del golfo della Spezia ha una storia "ufficiale" che cominciò nel 1200 quando alcune famiglie di contadini scesero da Vesigna, località sui colli, per stabilirsi sul Poggio, una modesta altura all'epoca bagnata dal mare. E' invece pressoché ignorata dagli spezzini la storia di molti secoli prima, di almeno quattordici secoli prima: la storia dei Liguri e della romanizzazione. Lì, proprio in quella zona del golfo c'era Luna, base navale militare usata per quattro secoli dai consoli, dagli ammiragli e dai generali romani.

 

 

 

Una storia che viene da lontano

 

Ho aperto questo blog perché ritengo che la Spezia dovrebbe ritrovare il suo passato, recuperare la sua storia, farla conoscere e farsela accreditare. Sono convinto però che anzitutto dovrebbe cominciare a conoscerla essa stessa, questa storia. Dovrebbe per esempio acquisire la consapevolezza che molti anni prima che alla foce del Magra sorgesse la colonia di Luni, sulle rive del golfo della Spezia già c'era un grande insediamento romano, un arsenale, una base navale militare dei consoli lanciati alla conquista della Sardegna, della Corsica, della Spagna e più tardi della Britannia.

Molte sono le fonti che lo attestano: la Luna citata da Livio e da Strabone non era Luni, non era la colonia fondata sulla sponda sinistra del Magra i cui resti oggi vediamo nella piana di Ortonovo; era invece nel golfo della Spezia, e precisamente nella zona di San Vito di Marola, dov'è oggi l'arsenale.

 

 

 

 

 

Luna: tutto nasce da un equivoco

 

L’equivoco di fondo che condiziona tutta la storia di Luna portando a considerazioni divergenti e spesso contrastanti, è originato dal nome: Luna.
Bisogna anzitutto intendersi sul significato di Luna, dopo di che possiamo disquisirne finché vogliamo.
E allora dobbiamo prendere atto che trecento anni prima di Cristo esisteva Luna e che 177 anni prima di Cristo cominciarono ad esistere Luna e... Luna.
La prima Luna aveva nome etrusco, e significava porto, golfo, insenatura.
La seconda Luna, quella arrivata una sessantina d’anni dopo, aveva nome latino (luna-lunae) ed era il nome della luna, il satellite della terra, Selene per i greci.
Acquisito questo concetto possiamo passare alla cronologia di Luna, l’unico modo per uscire dall’equivoco e svelare il mistero di Luna.
Premessa: siamo in era precristiana, quindi evito di scrivere ogni volta a.C.



Nel 300 l’odierna provincia della Spezia era ancora sotto la dominazione etrusca. In tutto il Mediterraneo il golfo della Spezia era noto come Luna che in etrusco significava porto. Come rileva George Dennis, famoso diplomatico e archeologo americano dell’800, i nomi delle due uniche città portuali etrusche (Pup e Vit) hanno quale suffisso "luna": Pup-luna e Vit-luna (Populonia e Vetulonia) cioè porto di Vit e porto di Pup. Il golfo oggi della Spezia, non essendoci al suo interno alcun insediamento dal quale mutuare il nome, era semplicemente chiamato Luna (porto). D’altronde era così grande che poteva essere considerato il porto per antonomasia.
Alla fine del quarto secolo Roma è ancora una piccola potenza regionale (Lazio) circondata da popoli ostili: Etruschi, Galli Senoni, Umbri, Sanniti e altre tribù confederate nella Lega Italica. Sul mare domina Cartagine con colonie in Sicilia, Sardegna e Corsica. Roma coltiva però mire espansionistiche, e allora... E allora i vicini di casa si mettono in agitazione e corrono ai ripari alleandosi.
295 – Nella piana di Sentino (Marche) le legioni romane sconfiggono nella Battaglia delle Nazioni gli eserciti coalizzati, e ciò provoca il collasso dell’impero etrusco peraltro ormai ridotto, dopo le invasioni celte nella Padania, alla sola Toscana. Roma ha ora la via aperta verso il nord. Avendo compreso che per sconfiggere Cartagine le occorre una potente flotta, deve andare alla ricerca di un posto adatto per ospitare una grande base navale. E lo individua in Luna (porto in etrusco) da essa tradotta in Luna/Lunae (astro celeste) e, di conseguenza, in Portus Lunae. Comincia l’espansione verso nord.
264 – Roma è arrivata a Pisa, porta fin lì la strada Aurelia, vi stabilisce un avamposto navale, e suo malgrado si trova coinvolta nella prima guerra punica.
241 – Sconfitta Cartagine, Roma acquisisce la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, e si rende conto di avere più che mai bisogno di una sicura base navale per le operazioni militari che sta pianificando avendo come obiettivi non solo le isole ma anche la penisola iberica e i Celti (dai romani chiamati Galli) della Padania. L’accosto fluviale di Pisa si rivela troppo pericoloso (come dimostrano i relitti di numerose navi romane affondate all’ormeggio scoperti a San Rossore ) e non meno pericolosa è la foce del Magra, esposta alle mareggiate, alle piene del fiume e agli attacchi dei Liguri. Perciò le legioni puntano dritte su Luna (Golfo della Spezia). Ma per arrivarci devono risalire la valle del Serchio e discendere la valle del Magra attraversando territori impervi e pericolosi. È in questo momento che cominciano le guerre fra Romani e Liguri. Lo sappiamo dai fasti trionfali tributati dal Senato ai consoli per le vittorie riportate, appunto, sui Liguri, soprattutto su Apuani e Friniati (stanziati nell’Appennino Reggiano) vittorie che hanno consentito ai consoli di raggiungere il Portus Lunae. I fasti (vittorie romane) per quella che è stata definita la prima guerra d’indipendenza apuana datano 236, 233 e 223. Dopo quest’ultima batosta Apuani e Friniati si ritirano sulle loro montagne e per parecchi anni scompaiono dalla scena. Ma la campagna del 236 – primi scontri fra indigeni e invasori – aveva fatto intanto capire ai Romani di che pasta erano fatti i Liguri montani, al punto che il console Cornelio Lentulo Caudino aveva deciso di insediare un avamposto nel Portus Lunae: LUNA. In quel momento nella valle del Magra non c’era nulla, a parte un villaggio ligure pressappoco dov’è oggi Ameglia (da qui la necropoli ligure di Cafaggio).
215 – Guidati da Ampsicora i Sardi si sollevano contro Roma, e dal Portus Lunae parte allora una spedizione al comando del generale Manlio Torquato, spedizione della quale fanno parte anche Quinto Ennio, futuro padre della poesia latina, e Marco Porcio Catone, più tardi conosciuto come Catone il censore.
205 – Sconfitti i Sardi, Torquato fa rimpatriare una legione, e con essa c’è Ennio il quale arrivato nel Portus Lunae scriverà il famoso verso tramandatoci da Persio: "Lunai portum est operae, conoscite cives" (Il porto di luna è straordinario, dovreste vederlo cittadini). Dal momento che la colonia di LUNI non esisteva ancora e che nella valle del Magra non c’era nulla, a quale LUNA si riferiva Ennio?
195 – La terra ligure è ormai sotto il controllo dei legionari che vanno e vengono come vogliono. Nel 195 il console Marco Porcio Catone arriva nel Portus Lunae con 25 navi lunghe e un poderoso esercito, requisisce numerose navi dei Liguri ripari, e qui prepara una grande spedizione. Quindi, dice Livio, parte da LUNA (LUNI non esisteva ancora) e si avvia verso la Spagna.
193 – Questo andirivieni di eserciti stranieri fa imbufalire i Liguri montani i quali dopo una assemblea sacra calano in massa (ventimila) a valle, devastano l’agro lunense (qual era la genesi di quel "lunense" citato da Livio se LUNI non esisteva ancora?) e si avventano su Pisa assediandola. L’assedio dura tre anni con un susseguirsi di scontri a sorti alterne (il console Minucio Termo finisce in trappola in un vallone e rischia di perdere un’intera legione). Infine i Liguri, sconfitti in una durissima battaglia, sono costretti a riparare sulle montagne, mantenendo però il controllo della valle del Serchio e chiudendo ai Romani le piste che conducono al Portus Lunae (Golfo della Spezia).
187 – I Romani sono impegnati con il grosso dei loro eserciti in Medio oriente e contro i Celti quindi qui succede poco o niente, sicché i bellicosi Apuani e i non meno bellicosi Friniati vanno a cercare gloria attaccando Bononia (Bologna). Ma intanto Roma ha capito che un solo esercito consolare non è sufficiente per spuntarla contro i Liguri, per cui mette in campo nello scacchiere ligure entrambi i consoli, e per Apuani e Friniates cominciano i tempi duri. Le legioni forzano la Garfagnana e riprendono il controllo delle piste per il Portus Lunae (LUNI, la colonia non esiste ancora, e in Val di Magra non c’è alcun insediamento).
186 – L’imprudente console Marcio Filippo con un esercito a ranghi ridotti (solo ottomila fanti e 350 cavalieri) senza aspettare il collega Postumio Albino parte alla volta del Portus Lunae, ma, verosimilmente sul Caprione, finisce in trappola in quello che i Liguri chiameranno poi Saltus Marcius: è una rotta completa per Marcio, che perde quattromila uomini e quattordici insegne. Livio scrisse che cessarono prima i Liguri di inseguire che i Romani di scappare. Filippo e i superstiti raggiungono i Portus Lunae, e qui il console congeda i suoi uomini ancora in preda al terrore. La notizia del disastro arriva a Roma assieme a quella della morte del pretore Acinio in Spagna, e allora il Senato spedisce un messaggero dal pretore Calpurnio che si trova nel Portus Lunae per informarlo degli eventi e sollecitarne la partenza per la Spagna, ma, dice Livio, arrivato a LUNA (LUNI non esisteva ancora) il messaggero scoprì che il pretore era già partito.
185 – La disfatta di Marcio Filippo reclama vendetta, e il console Sempronio Tuditano muove da Pisa, entra in terra ligure, devasta campagne, distrugge villaggi, brucia i raccolti, taglia le viti, taglia gli ulivi e fa strage di bestiame per ridurre alla fame l’odiato nemico. E, dice Livio, arriva al fiume Magra e al Portus Lunae (Se il Portus Lunae fosse stato alla foce del Magra Livio, per forza di cose molto stringato nello scrivere, avrebbe detto semplicemente "arrivò al Portus Lunae"). La batosta inflittagli da Tuditano fa ritirare i Liguri sulle montagne e lì se ne stanno buoni senza più dare fastidi per cinque anni.
180 – I consoli Cornelio e Baebio con una mossa a sorpresa entrano in campagna prima del tempo e colgono impreparati gli Apuani catturandoli a migliaia. Tutte le tribù montane si arrendono e quarantamila capifamiglia con mogli e prole vengono deportati nel Sannio. LUNI, LA COLONIA, NON ESISTE ANCORA.
179 – Altro rastrellamento e altra deportazione di Liguri; stavolta sono "solo" settemila.
177 – La Val di Magra è pacificata (si continua a combattere in Val di Vara e nei monti alle spalle della riviera) e il Senato fonda finalmente la colonia di Luni deducendovi duemila coloni.

Fin qui la cronistoria.
Poi ci sono le fonti letterarie. Basta Strabone, il più autorevole geografo dell’epoca.
Abbiamo visto che Livio citava LUNA molto prima che esistesse LUNI. Poi dal 177, evidentemente, si trovarono a convivere una LUNA (che cominciava a perdere valenza militare) e una LUNI/LUNA-LUNAE (colonia essenzialmente agricola: il traffico dei marmi comincerà quasi due secoli dopo, al tempo di Augusto).
Ebbene, dice Strabone: "Fra LUNA e Pisa è corion Macra". Indica tre località. Il corion era un insediamento ad economia soprattutto agricola, difeso, protetto da una cinta (un corion in tempi medievali era per esempio la corte di Casixano che si trovava su un’isola alla foce del Magra). Quindi il corion Macra era un insediamento con economia essenzialmente agricola protetto, difeso da una cinta, e situato sul Magra. E siccome Marco Lucano Anneo in Pharsalia ci dice che LUNI era cinta da mura, e siccome LUNI era una colonia soprattutto agricola, e siccome LUNI era sul Magra, è fuori di dubbio che il corion Macra citato da Strabone era LUNI.
E allora, se Pisa era Pisa, e corion Macra era LUNI, cos’era e dov’era LUNA?
Semplice: era un insediamento inizialmente militare, poi divenuto con la pacificazione della regione quella che Strabone definisce una piccola città ("Luna è città e porto, là dove la città è piccola e il porto invece è molto grande..."), e ubicato a San Vito di Marola, nel luogo esatto in cui conduceva il famoso ponte di pietra (di origine romana, sentenziò Ubaldo Mazzini) che è tuttora sotto via Biassa. Se non ci fosse stata LUNA lì non ci sarebbe stato assolutamente nulla se non un minuscolo insediamento ligure sulle rampe di Costa di Murlo (vedi tomba del guerriero al Museo archeologico). E allora, a che cosa sarebbe servito un ponte di pietra finemente lavorato, lungo 34 metri con una luce di 12 metri? Che cosa ci doveva passare sopra, se non degli eserciti?
In conclusione, al tempo degli Etruschi LUNA era il golfo della Spezia; poi dopo l’avanzata romana fu noto come Luna l’avamposto romano insediato da Cornelio Lentulo Caudino a San Vito dove, non per nulla, sono stati rinvenuti moltissimi reperti romani ("Basta scavare, e qualcosa di trova sempre", diceva Mazzini). Si può ricordare per esempio che nel 1300 nei pressi dell’Acquasanta c’era un grandissimo fabbricato romano che fu demolito in modo da recuperare buon materiale con il quale costruire parte delle prime mura della città di Spezia. A breve distanza da Luna (Pegazzano) passava la pista che conduceva a Biassa e da lì, fra le montagne della riviera, fino a Segesta Tigulliorum (Sestri Levante) e a Genova.

 

 

 

 

Per chi volesse compierlo, il lungo viaggio nel tempo che propongo agli appassionati di storia, ma soprattutto di storia della terra lunense, comincia con la disperata resistenza degli Apuani e degli altri popoli delle montagne, Friniati e Veleiati soprattutto, contro gli eserciti romani, gli invasori venuti dal sud. Oltre ottant'anni di guerre, con furiose battaglie divampate fra la Garfagnana, la Valle del Magra, il Caprione e l’alta valle del Vara per il possesso del Portus Lunae, cioè il golfo della Spezia, ma anche dei valichi dell’Abetone, dei Carpinelli, della Cisa, del Lagastrello, del Gottero, del Centrocroci, del Velva, del Bracco.

Forse in Garfagnana, o più probabilmente sul Caprione, il colle-promontorio che separa il golfo dalla valle del Magra, gli Apuani colsero la loro più esaltante vittoria uccidendo quattromila fanti fra legionari e alleati dell'esercito del console Quinto Marcio Filippo caduto in un'imboscata mentre cercava di raggiungere appunto il Portus Lunae; e fu verosimilmente qui, nel Portus Lunae, che si rifugiarono gli scampati al massacro. Ciò che dopo le razzie dei Liguri rimase di quello scontro, armi, elmi, corazze, potrebbe essere ancora là, sepolto sotto la vegetazione. E oggi magari, con gli strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione, qualcosa potremmo ancora trovare.

Ottant’anni di guerre, dunque, culminate nell’inevitabile sconfitta degli Apuani e delle tribù liguri loro alleate. Una sconfitta che generò un’altra tragica pagina di storia locale: trascinati con la forza giù dalle loro montagne, decine di migliaia di Apuani furono deportati in una terra lontanissima, il Fortore, nelle vicinanze di Benevento, mentre le loro terre venivano regalate ai coloni romani.

Chiusa in modo così drammatico l’epopea delle selvagge, ma orgogliose tribù delle nostre montagne, si aprì l’era della dominazione romana. Ormai da molti anni padroni del Portus Lunae, i consoli fondarono sulla riva sinistra del Magra la colonia che fu poi chiamata Luni che visse anni di grande floridezza, in particolare nell’epoca imperiale, grazie anche al commercio del marmo delle Apuane.

Ma mentre sulle rive del Magra quella colonia cominciava a vivere di vita propria, qui, nel golfo, Luna continuava a svolgere il suo oscuro ma fondamentale ruolo di base navale per tutte le spedizioni militari dei consoli prima e degli imperatore poi. Ciò fino alla metà del primo secolo dopo Cristo, allorché la costruzione di un grande porto voluto dall’imperatore Claudio dalle parti di Civitavecchia non tolse al Portus Lunae qualsiasi valenza strategica militare provocando la decadenza e la scomparsa della piccola città di Luna, ridotta al piccolo villaggio poi noto con il nome di San Vito di Marola.

Un importante passato romano, dunque, per il golfo; ma un passato che gli spezzini non conoscono, o conoscono poco. C'è qualcuno che ha voglia di parlarne?

 

 

 

 

 

Celti e Liguri, insieme contro Roma

 

 

 

Celti e Liguri, da acerrimi nemici ad amici per la pelle, tutti insieme appassionatamente per combattere l'avversario comune: i romani.
Nella zona della Spezia la presenza celta è scarsamente significativa. C'è una leggenda secondo la quale Pitelli, piccolo paese collinare dal quale si ammira lo straordinario spettacolo del Golfo dei poeti, si chiama così perché su quel colle viveva una comunità di Piti, tribù celta formata da guerrieri che amavano dipingersi il volto di blu.
Il mio amico Paolo De Nevi, editore del mio libro (Luna, una misteriosa città romana nel golfo della Spezia) nel quale riporto questa credenza, sostiene invece che il paese si chiama Pitelli perché circondato da dirupi, "piti" in dialetto sprugolino-pitellese ("Andare giù per i piti" significa infatti correre a rompicollo giù per le scarpate).

L'altropologo Giovanni Sittoni affermava dal canto suo che una piccola tribù eurasica viveva nella zona dell'attuale Genicciola, ma di insediamenti importanti non ne sono mai stati individuati.Un dettaglio che testimonia di contatti antichissimi fra i Celti (che i Romani chiamavano Galli) e i Liguri ha incuriosito di recente gli archeologi: la scure di rame trovata addosso a Oetzi, la mummia del cacciatore preistorico scoperta anni fa in ottimo stato di conservazione nel sarcofago di ghiaccio del Similaun, nelle Alpi italo–austriache, è simile alle asce che compaiono come armamento nelle statue–stele della Lunigiana. Oetzi era dunque un apuano? Chissà!


La prima ondata di popolazioni celte era arrivata in Italia nel VI secolo a.C. a seguito di movimenti migratori innescati nelle steppe asiatiche da stagioni particolarmente fredde e da prolungati periodi di carestia. Ciò aveva attivato una serie di spinte e controspinte verso occidente, diciamo dei "tamponamenti" fra popoli, che avevano obbligato le tribù stanziate nella Pannonia, l'odierna Ungheria, a spostarsi verso il valico di Tarvisio e scendere nelle pianure del nord della penisola, terre scarsamente abitate, fertili, calde e ricche di acqua. La prima invasione aveva motivazioni predatorie e facendosi strada attraverso i dominii etruschi arrivò fino a Roma, messa più volte a sacco. La seconda (quarto secolo) ebbe invece uno scopo stanziale, l'insediamento in terre più ospitali. Ma per imposessarsi di quei territori i Celti dovettero scacciarne i Liguri, all'epoca frammentati in un'infinità di tribù insediate dall'Iberia a quasi tutta la valle Padana sino al moderno Veneto. Sospinti dalle orde celte (Boi, Insubri, Senoni, Cenomani, ecc.) i Liguri padani furono costretti a ritirarsi sull'Appennino e sulle Apuane: molti (Apuani, Friniati, Briniati, Veleiati, per limitarci alla nostra provincia) restarono lassù, sulle vette, vivendo di pastorizia, di abigeato e di agricoltura in quasi assoluta solitudine e povertà, mentre altri scesero a valle, sul mare, instaurando relazioni con progrediti popoli di navigatori, dandosi alla pirateria e ai commerci, salendo quindi alcuni gradini lungo la scala della civiltà. Erano i Lunensi, i Tigullii, i Genuati, ecc..
Poi, attorno alla metà del terzo secolo a.C., sulla scena comparvero i romani, per cui Celti e Liguri si trovarono a combattere fianco a fianco contro un nemico comune, il che favorì una certa integrazione fra quelle genti. Una prova di questa integrazione fu scoperta all'inizio degli anni Sessanta del '900 sulle prime rampe della strada di Costa di Murlo, alle pendici del monte Parodi, l'altura più alta fra quelle che circondano il golfo della Spezia: una tomba litica, che noi giornalisti dando prova di scarsa fantasia battezzammo "Tomba del guerriero" (nella foto), contenente fra gli altri oggetti un elmo celta e una spada ligure, segni evidenti di un'ormai avviata ibridazione dei due popoli. Questi reperti sono esposti al museo archeologico del castello San Giorgio.
Ma com'erano questi pagani. Gli storici del tempo (Posidonio di Apamea e Diodoro Siculo) li descrivevano come tipacci enormi con capelli rossicci ritorti sul capo e lunghi baffi che scendevano a ricoprire la bocca. In battaglia, incitati dai tamburi e dalle carnix, le lunghe trombe che emettevano orribili muggiti, molti combattevano nudi per mostrare sprezzo della morte, e "quando sfidano qualcuno a duello, squassano le armi per atterrire, decantano le glorie degli avi e le proprie; disprezzano e umiliano l'avversario, per sminuire la sua fiducia in sé. Appendono al collo dei cavalli le teste mozzate dei nemici e mentre i servi ne prendono le spoglie insanguinate, innalzano le loro grida di vittoria. Conservano quelle spoglie come trofei nelle loro abitazioni e le teste in cassette di legno di cedro unte con grasso per mostrarle agli ospiti".
Posidonio fu colto addirittura da malore allorché mentre viaggiava nelle loro terre si imbatté in un gruppo di cavalieri celti i destrieri dei quali recavano, appese al collo, intere collane di teste mozzate grondanti sangue.
I loro sciamani (druidi) ritenevano di poter indovinare il futuro squarciando il petto d'un poveraccio per studiarne le convulsioni nell'agonia o osservare in quale direzione colava il sangue di vene e arterie recise e da ciò trarre gli attesi auspici, ma tra loro non mancavano i musici, i poeti, i filosofi. Il celta, in verità, era sì un un tipo rustico, ma possedeva pure un senso della spiritualità molto elevato che lo spingeva ad entrare quanto più possibile in sintonia con i fenomeni della natura, nei quali individuava la divinità. La sua società era suddivisa in tre classi: la sacerdotale, composta da druidi, bardi e vati; la guerriera, alla quale appartenevano gli aristocratici, i cavalieri e l'oligarchia dirigente-combattente; e la produttrice, della quale facevano parte commercianti, artigiani, agricoltori e allevatori.
I druidi, la principale autorità della comunità, erano sacerdoti che praticavano i sacrifici, emettevano le sentenze e davano un'istruzione ai giovani, ma, soprattutto, officiavano i riti sacri nei nemeton (santuari) della tribù, di solito una semplice radura circondata da fitte foreste (il dio albero). I bardi coltivavano la musica e le poesie, arti alle quali i Celti attribuivano un valore sacrale. I vati, infine, erano gli stregoni, individui ai quali si riconoscevano doti divinatorie.
Quanto alla classe guerriera, è facile capire cosa fosse: militari forti, feroci e spietati, che però consideravano primari valori quali l'onore, il rispetto, la lealtà.

Raccontava Polibio, descrivendo l'avvio di una battaglia fra Boi e Insubri da un lato e Romani dall'altra, che "innumerevole era la quantità dei buccinatori e dei trombettieri schierati: un così prolungato e assordante clamore essi produssero quanto tutti insieme intonarono il peana, che perfino i luoghi vicini, e non solo le trombe dell'esercito, riecheggiavano il frastuono. Terribili erano inoltre l'aspetto e gli uomini nudi schierati dinnanzi a tutti gli altri, tutti nel pieno delle forze e di bellissimo aspetto".Liguri sulle montagne e Celti nelle pianure resero molto dura la vita ai Romani, ma il futuro era ormai scritto. Prima i Sanniti (Sannio), poi i Senoni (Marche), quindi i Boi (Emilia) e i Cenomani (fra l'Adda e l'Oglio), e infine gli Insubri (Milano) furono sconfitti e sottomessi con perdite spaventose, decine di migliaia di caduti. Nello stesso tempo, dovettero cedere uno dopo l'altro le armi gli Apuani (Garfagnana e alto Magra), i Friniati (Appennino parmense e reggiano), i Veleiati (Appennino piacentino) e gli Ingauni (Ponente ligure).
A quel punto tutta la penisola si trovò sotto il domino romano.

 

Copyright©Gino Ragnetti

 

 

 

 

 

 

 

Aiuto, arrivano i romani

 

I guai per i nostri antenati, gli antichi Liguri, cominciarono in un giorno di primavera del 241 prima di Cristo allorché i Romani, sconfitti i Cartaginesi e acquisite la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, poterono dare il via alla tanto sospirata Operazione Luna, la conquista cioè del grande golfo che si trovava di là dalla foce dell'Auser, il Serchio dei giorni nostri.

Le legioni erano già arrivate da tempo sulle rive dell'Arno trovando nei pisani pronti e fedeli alleati, un'amicizia interessata, perché essi intravedevano la possibilità di liberarsi una volta per tutte degli Apuani, loro pericolosi vicini.

Finalmente affrancati da pesanti impegni militari, i consoli volsero dunque la loro attenzione verso nord certi di riuscire a sbarazzarsi in breve tempo delle selvagge tribù che vivevano sulle montagne. Già potevano contare su amici sicuri quali i Genuati (Genova) e i Tigullii (Segesta Tigulliorum, l'odierna Sestri Levante) e quindi ritenevano che non avrebbero dovuto penare troppo per soggiogare quella gentaglia ferma ancora all'età della pietra; gente che viveva su picchi quasi inarrivabili, dedita alla coltivazione della terra e all'allevamento del bestiame, ma che non disdegnava affatto l'abigeato né i saccheggi ai danni delle assai meno bellicose popolazioni del piano.

Consoli del 241 erano Quinto Lutazio Cerco e Aulo Manlio Torquato, e a uno dei due ( non si sa a quale) fu affidato il compito di andare a dare un'occhiata a Luna. La missione filò via liscia come l'olio forse perché gli Apuani, che avevano combattuto insieme a loro contro gli Etruschi, consideravano i Romani ancora loro alleati. Fatto sta che, scollinato il Termo, o magari il Buonviaggio, le legioni si trovarono davanti un grande golfo circondato da montagne coperte da fitte foreste. Per la prima volta un legionario romano metteva piede sulla terra sulla quale quindici secoli più tardi sarebbe nata Spezia.

Insediato un avamposto nell'angolo più protetto e sicuro del vasto seno, il console tornò a Pisa per raccontare ciò che aveva visto: era proprio quello che Roma andava cercando da tempo: un porto in grado di ospitare numerose flotte, di farvi accampare eserciti, e da lì partire per le operazioni militari che avevano quali teatri la Sardegna, la Corsica, la Valle Padana e lo stesso Tirreno. Perché Cartagine era sempre là, sconfitta ma non doma, e si stava riarmando.

Nei due anni seguenti i Romani consolidarono le loro posizioni a Luna, ma quell'andirivieni di soldati mise in agitazione gli Apuani i quali, sempre affiancati dai loro inseparabili cugini Friniati, popolazione stanziata sul versante tosco-emiliano dell'Appennino, cominciarono a contrastare il passo agli invasori, con le armi in pugno.

Iniziò così la prima guerra d'indipendenza apuana. "E nessuna guerra – sottolineò Gaetano Poggi – costò tanta fatica e tanto sangue come quella contro i Liguri Apoani, a tal che fu osservato che i Romani impiegarono più tempo a conquistare i Liguri che a conquistare poi tutto il resto del mondo".

A quanto se ne sa, il primo scontro d'una certa rilevanza fra i due eserciti avvenne nel 238 a.C. quando Tiberio Sempronio Gracco riuscì a rompere le linee difensive apuane e a raggiungere Luna dove con tutta probabilità la guarnigione nei mesi precedenti se l'era passata davvero brutta.

Negli anni seguenti il controllo dei sentieri che risalendo la valle del Serchio e discendendo la valle del Magra conducevano a Luna passarono più volte di mano: nel 237 erano controllati dagli Apuani, ma l'anno seguente ci pensò Publio Cornelio Lentulo Caudino a riprenderseli con una vittoria che fu salutata con scene di esultanza dai pisani, e che al console valse i fasti trionfali.

Fu in quell'occasione, però, che i Romani si resero conto di avere sottovalutato il nemico: non sarebbe stato tanto facile sottometterlo, sicché per rafforzare le sue posizioni Cornelio ordinò la costruzione di alcuni campi fortificati a presidio del territorio. Uno forse venne eretto nei pressi della foce del Magra, l'altro nel Portus Lunae, il Golfo della Luna, come i Romani chiamavano il golfo della Spezia.

Il fatto che il Senato avesse ritenuto di concedere il trionfo al console, ci dà l'idea della portata militare di quello scontro: non una banale scaramuccia, bensì una battaglia in piena regola, con molti morti da una parte e dall'altra, conclusasi con la fuga dei guerrieri liguri verso le vette meno accessibili, dove i legionari mai li avrebbero inseguiti.

La guerra proseguì a fasi alterne negli anni successivi, con gli Apuani che, sempre più incattiviti, finivano per sfogare la loro rabbia contro gli insediamenti dei coloni giù al piano, con sanguinose scorrerie e saccheggi che tenevano in apprensione gli stessi abitanti di Pisa. Al tempo medesimo, i guerriglieri tenevano sotto pressione le armate quirite rendendo la vita difficile ai consoli che dovevano raggiungere il Portus Lunae. In ogni punto delle piste che risalivano il Serchio, che si inoltravano fra le selve della Garfagnana e della Lunigiana, potevano esserci bande di Apuani e di Friniati appostate in agguato, pronte ad attaccare i convogli non troppo ben difesi.

La loro presenza era ormai un incubo. "Durum in armis genus", ne diceva Livio, e fra i soldati si diffondeva la convinzione che "fosse più facile sconfiggere i Liguri che trovarli". Erano dei fantasmi, che colpivano con furia selvaggia, e scomparivano nella selva.

Nel 234 Roma mandò a Luna un'imponente massa di uomini, inducendo gli Apuani a starsene bene al riparo. Da Pisa verso la sella dei Carpinelli e poi al Magra e quindi a Luna mossero ben tre eserciti, all'incirca quarantamila soldati, due destinati a operazioni off shore – uno in Sardegna, l'altro in Corsica –, mentre il terzo, al comando di Lucio Postumio Albino, doveva vedersela con i Liguri. I quali Liguri però di fronte a un così poderoso schieramento preferirono tenersi alla larga, con grande scorno per Postumio il quale sperava di potersi comprire di gloria a spese di quei selvaggi.

Ma per i ribelli delle montagna stava comunque per arrivare il giorno della resa dei conti. Nel 233 toccò infatti al console Quinto Fabio Massimo Verrucoso, colui che sarà soprannominato "il temporeggiatore" per la tattica attendista scelta per contrastare Annibale, venire da queste parti, fra le Apuane, il Gottero e il mare, per dare una lezione agli indigeni ribelli e mettere in sicurezza le piste che conducevano a Luna.

Fabio scatenò le sue legioni attaccando gli Apuani senza pietà, ovunque si trovassero fra la Versilia e la Lunigiana, non diede loro tregua, li incalzò fin quasi ai loro rifugi sulle vette più alte, riuscendo alfine a "respingere i Liguri sui monti, liberando dai loro saccheggi la finitima regione d'Italia", raccontò Plutarco.

In virtù di questa eclatante vittoria Fabio ottenne l'autorizzazione a recarsi a Roma portandosi dietro l'esercito, e così celebrare il meritato trionfo. Ma non ci fu sfarzo nel suo corteo – il più ambito riconoscimento per un condottiero –, non aveva né oro, né argento, né gioielli da mostrare al popolo festante, perché gli Apuani erano un popolo povero, che non viveva certo nel lusso; sicché dietro il carro trionfale il vincitore poté trascinare solo uno stuolo di capi nemici ridotti in catene.

Oltre a liberare Pisa dall'incubo degli Apuani, l'impresa di Fabio portò finalmente sotto il solido controllo di Roma la pista tra l'Arno, Luna e Genova, un itinerario grazie al quale le armate della Repubblica potevano spostarsi rapidamente per controbattere all’espansione dei Cartaginesi nella penisola iberica.

Finì così, con una bruciante sconfitta, la prima guerra d'indipendenza apuana. Nei decenni seguenti gli Apuani se ne restarono sulle loro montagne a leccarsi le ferite, a ricostituire i loro arsenali, e ad addestrare nuove schiere di giovani guerrieri. Perché sapevano che sarebbe presto venuto il giorno in cui avrebbero dovuto riprendere le armi.

Nel frattempo i due consoli gironzolavano per la Liguria senza avere nulla da fare, quasi in vacanza. La vita era così tranquilla che nel 222, secondo lo storiografo genovese Francesco Maria Accinelli, il console Lucio Porzio fece erigere un tempio dedicato a Venere Ericina sullo sperone roccioso di Porto Venere.

Passarono quarant'anni, finché un giorno...

 

 

 

Il primo poeta nel Golfo dei Poeti

 

Il primo a parlare del Portus Lunae fu un giovane soldato inquadrato in una formazione di alleati italici che operavano di supporto alle legioni dell'Urbe. Nato nel 239 a.C. a Rudiae, l'odierna località Rugge del comune di San Pietro in Lama, nei pressi di Lecce, si chiamava Quinto Ennio e nel suo futuro, malgrado indossasse allora elmo, corazza e schinieri, non c'era la gloria conquistata con la spada bensì quella portata in dono dalla penna: nel mezzo del cammin della sua vita fu infatti riconosciuto come il padre della letteratura latina.

Sul finire del 219 con la conquista di Sagunto da parte dei Cartaginesi era cominciata la seconda guerra punica e, stanche delle vessazioni dei pretori che imponevano tasse sempre più pesanti, le popolazioni sarde sobillate da Cartagine che soffiava sul fuoco dello scontento, avevano colto l'occasione per sollevarsi in armi contro gli occupanti romani riuscendo ad ottenere prime esaltanti vittorie sul campo.
Alla loro testa c'era un ricco sardo punicizzato, tale Ampsicora (o Amsicora) che con un abile lavoro diplomatico era riuscito a portare sotto le sue bandiere anche le feroci tribù nuragiche delle montagne compresi gli irriducibili e temibili Pelliti.

Allarmato da quanto stava avvenendo sull'isola dove le guarnigioni se la stavano vedendo brutta, il Senato della repubblica nel 215 era corso ai ripari affidando a un condottiero collaudato, il pretore Tito Manlio Torquato, che al suo attivo aveva già due mandati consolari e uno di censore, il compito di riportare l'isola sotto il controllo di Roma. Nel 235, durante il suo secondo consolato, Manlio era già stato in Sardegna e con una serie di brillanti operazioni aveva sottomesso numerose tribù uccidendo migliaia di nemici, il che gli aveva fruttato i fasti trionfali decretati dal Senato. È probabile che già in quell'occasione avesse usato il Portus Lunae come base logistica di partenza e di arrivo.

Manlio aveva quindi una buona conoscenza del terreno e delle capacità di combattimento dei sardi, per cui non sottovalutò la missione preoccupandosi, al momento di effettuare la leva delle reclute, di scegliere gli elementi migliori e già esperti. Portò così al Portus Lunae una legione composta da circa cinquemila uomini e il solito contingente fornito dagli alleati: altre quattro o cinquemila unità, oltre a seicento cavalieri, metà romani e metà alleati. Fra di essi c'era anche il nostro amico Ennio, all'epoca ventiquattrenne.

Al momento della pugna l'esercito romano si schierava con i legionari disposti in linea come principale forza d'urto, e ai due lati si disponevano le Alae sociorum, le forze alleate, con compiti di protezione e di rincalzo, mentre la cavalleria restava in retroguardia pronta a intervenire sia per sostenere reparti in difficoltà, sia per cercare di sfondare là dove gli strateghi avevano individuato il punto debole del nemico.

Manlio non incontrò ostacoli nella sua marcia di trasferimento da Pisa fino a Luna perché i Liguri montani (Apuani, Friniates e Briniates) reduci dalla pesantissima sconfitta inflitta loro nel 233 da Quinto Fabio Massimo detto il Verrucoso (vedi post precedente), se ne stavano ancora asserragliati nei loro castellari sulle montagne a leccarsi le ferite.
Giunto in Sardegna, Manlio prese il comando anche delle tre legioni già stanziate nella regione e messa insieme una forza di 25mila uomini soffocò l'insurrezione battendo nella pianura di Cormus, le truppe guidate dal figlio di Ampsicora, il giovanissimo Hosta, che cadde in battaglia. Dal canto suo Ampsicora, a sua volta sconfitto nel tavoliere di Sanluri, si uccise per non cadere nelle mani del nemico.

Secondo Silio Italico fu proprio Ennio a indossare i panni del tragico giustiziere che di fatto pose fine alla rivolta di Ampsicora, perché sua sarebbe stata la lancia che uccise nel corso d'un duello in battaglia lo sventurato Hosta.

Nel 205, finita con la sconfitta cartaginese la seconda guerra punica che aveva visto Annibale scorrazzare su e giù per la penisola, Roma poté ritirare forti contingenti di truppe dalla Sardegna, e fra i soldati che tornarono ci furono anche il nostro Ennio, e un legionario con il quale egli aveva stretto amicizia in Sardegna, tale Marco Porcio Catone, un personaggio che da lì a poco si troverà a svolgere un ruolo di grande risalto nella vita politica e militare della repubblica e che da alcuni studiosi sarà anzi indicato come l'"inventore" del Portus Lunae.

Ebbene, giunto con le navi a Luna (nome etrusco del golfo della Spezia), affascinato dalla straordinaria bellezza del luogo Ennio inserì nella sua opera principale, "Annales", un verso che è entrato di diritto nell'antologia della nostra terra: "Lunai portum, est operae, cognoscite, Cives!" (Uopo è veder di Luna il porto, amici).

Purtroppo di "Annales", un poema epico di trentamila versi in 18 libri, sono arrivati fino a noi solo alcuni frammenti, circa 600 versi, fra i quali non c'è quello che più ci interessa, quello sul Portus Lunae. Per nostra fortuna ci ha pensato però un altro poeta, un paio di secoli più tardi, a farcelo conoscere: lo riportò nella sua sesta satira Aulo Persio Flacco (foto) al quale il Comune della Spezia ha dedicato una strada. Forse nativo di Volterra, forse di Luna, sulle rive del nostro golfo Persio visse certamente alcuni dei momenti più belli della sua breve vita. Ma di lui riparlerò presto.

Dopo una vita vissuta sotto la protezione di Quinto Fulvio Nobiliore e della famiglia "degli Scopioni", il che gli valse la concessione della cittadinanza romana, sul declinare della sua esistenza Ennio, con la sola compagnia del poeta Cecilio Stazio e di una nutrice, sopportò con grande serenità e coraggio la povertà e la vecchiaia finché la morte, causata dalla gotta, non lo colse nel 169.

Se non mi sbaglio, al cantore di Luna, al poeta che per primo esaltò nel mondo la straordinaria bellezza del golfo dei poeti regalandogli uno slogan turistico da fare invidia ai guru del marketing turistico internazionale, la Spezia non ha intitolato neanche una via.

Credo che sarebbe il caso di farlo.

 

 

Copyright©Gino Ragnetti

 

 

 

Andiamo a Luna in compagnia di Strabone

 

L’uomo che possiede le chiavi per risolvere il giallo dell’ubicazione del Portus Lunae, e dunque di Luna, è Strabone di Amasia, un greco nato nel 64 a.C. e deceduto nel 24 d.C., considerato il più autorevole, il più attendibile geografo dell'epoca.

Nella sua opera principale, Geografia, Strabone ci ha lasciato due frasi che ci consentono di sciogliere il mistero del Portus Lunae, e quindi di Luna.

In questa sede mi limiterò ad analizzare la prima frase. Eccola: "Si vuole che la più grande estensione longitudinale del Tirreno sia il Litorale tra Luni e Ostia (...). Tra queste (città) è Luna, città e porto, che i greci chiamano città e porto di Selene. La città non è grande ma il porto è grandissimo e bellissimo racchiudendo in sé molti altri porti tutti profondi come doveva essere la base (talassocrazia) di uomini dominatori di tanto mare e per tanto tempo. Il porto è circondato da alti monti dai quali si vede il mare aperto e la Sardegna (in realtà è la Corsica) e, ai due lati, una gran porzione di costa".

Vorrei soffermarmi intanto su un fatto. Chi legge avrà notato di sicuro che Strabone prima parla di Luni, e poi di Luna (farà riferimento a Luna anche nella seconda frase che esamineremo prossimamente). Ecco, io penso che quando diceva "tra queste città è Luna" lui non volesse dire che Luna era fisicamente ubicata tra Luni e Ostia, bensì che fosse insieme a quelle città, ne facesse parte. Il che, se così fosse, ci darebbe implicita conferma che all’epoca di Strabone esistevano Luni (la colonia nella piana di Ortonovo) e Luna (base militare nel golfo della Spezia). Ed è la tesi che sostengo io e che non è esclusa dal Museo Archeologico nazionale di Luni: "Tre sono sostanzialmente le ipotesi sulla ubicazione del porto di Luni: 1) Il porto di Luni è situato nel Golfo della Spezia; 2) Il porto di Luni è situato alla foce della Magra; 3) il porto di Luni è situato nel golfo della Spezia ma esisteva un porto secondario".

Qui dovrei aprire una polemica con il Museo dal momento che parla di "porto di Luni". Se la frase riguardasse il porto della colonia, nulla da dire; ma se invece, come credo, fosse riferita al Portus Lunae sarebbe un errore. Perché il Portus Lunae (Luna) era già operativo quando Luni (colonia) ancora non esisteva. Di conseguenza il Museo dovrebbe riferirsi solo al Portus Lunae, e non all’ancora inesistente Luni. Ma su questo possiamo sorvolare.

Una domanda che mi pongo leggendo il testo di Strabone è questa:

come mai lui, che è greco, che in greco scrive, e che dice: "... che i greci chiamano Selene", non usa il nome Selene né tanto meno il termine Portus Lunae, parlando invece solo e soltanto di Luna?

Perché, è la mia risposta, lui sapeva benissimo che quel Luna era un nome etrusco. Erano stati infatti gli etruschi, sotto il cui controllo era ancora quel territorio, a battezzare con il nome di Luna il grande porto; Luna che in etrusco nulla aveva a che spartire con il satellite della Terra. Luna infatti era un nome comune, non un nome proprio: significava porto, golfo, laguna (il Lun dei liguri). Come fa notare George Dennis, celebre diplomatico e archeologo americano dell’800, Luna lo ritroviamo appunto quale suffisso identificativo nelle uniche due città etrusche affacciate sul Tirreno, vedi Pup-Luna e Vit-Luna, le odierne Populonia e Vetulonia. Come dire Porto di Vit e Porto di Pup (per noi potrebbe essere Spezia-Luna, vale a dire Porto della Spezia).

Quel grande golfo fu chiamato invece semplicemente Luna (cioè Porto) perché al suo interno all’epoca della dominazione etrusca non c’era ancora alcuna città dalla quale mutuare il nome. Perciò in tutto il Mediterraneo esso era conosciuto come Luna. Luna che, nell’ottica romana, divenne Portus Lunae e per i greci Selene anche se, ripeto, la Luna astro celeste non c’entrava nulla.

Lasciamo perdere per il momento, magari ne parleremo un altro giorno, il riferimento a Luna piccola città, riferimento peraltro molto interessante, e soffermiamoci invece su un’altra parte di questa frase che ci porta a concludere che il Portus Lunae non era nei pressi della foce del Magra.

Strabone descrive Luna (il Portus Lunae) come un porto molto grande e molto bello, con tanti porti profondi dal suo interno e tutto circondato da alte montagne.

Bene, se questa, come sostengono molti eminenti studiosi, è la descrizione del Portus Lunae alla foce del Magra, dov'è il Magra?

Il Magra non c'è; Strabone non lo cita. E se nella descrizione del Pertus Lunae non c'è il Magra, è chiaro che il Portus Lunae non poteva essere alla foce del Magra.

Troppo semplice? Vero, verissimo, è tanto semplice che sono rimasto stupito allorché controllando e ricontrollando mi sono dovuto arrendere al fatto che nessuno fra tutti coloro che negli ultimi sei secoli si sono cimentati in codesta disputa, che parteggiassero per l'una o per l'altra ipotesi, ha notato e fatto notare che nella descrizione di Strabone il fiume non c'è. Nessuno se n’è accorto. E se il fiume non c'è, ripeto, non poteva essere il Portus Lunae alla foce del Magra.

Un’altra traccia importante ci viene dal percorso fatto da Strabone, scendendo da nord a sud lungo la costa ligure-tirrenica. Egli prima ci parla di Luna, poi del Magra ("che in antico segnava il confine fra l’Etruria e la Liguria"), e infine di "korion Macra". E su questo korion Macra per ora taccio per non rovinarvi la sorpresa (solo chi mi ha ascoltato l’altra sera all’Accademia Capellini o chi ha letto il mio libro "Luna, una misteriosa città romana nel golfo della Spezia", sa che cosa era il korion Macra). È comunque interessante il particolare, mi pare, che Strabone scendendo verso sud parli prima di Luna e poi del Magra. Come dire: Luna era a nord del Magra. Luni, invece...

Per concludere questa fluviale chiacchierata, vorrei ripetere quanto ho accennato in un post all’argomento "Un’altra traccia ci porta a Luna" pubblicato nel gruppo di Facebook che porta il medesimo titolo di questo blog.

Come dicevo prima, secondo molti apprezzati studiosi la frase di Strabone citata è la descrizione del Portus Lunae alla foce del Magra. Quindi alla foce del Magra doveva esserci il porto lì descritto, grandissimo e bellissimo, con molti porti profondi al suo interno, tutto circondato da alti monti; porto che è poi evidentemente scomparso con l’andare dei secoli, visto che lì un porto del genere oggi non c’è. Per contro a quel tempo esisteva, così come esiste tutt’oggi il golfo della Spezia. Ne consegue che all'epoca di Strabone uno di seguito all'altro dovevano esserci due golfi molto simili, grandissimi e bellissimi, ecc. ecc.. Bene: come mai Strabone ne descrive invece uno solo?

 

 

 

 

 

 

La Spezia - A quattro anni di distanza dalla pubblicazione di "Luna - Una misteriosa città romana nel Golfo della Spezia", il giornalista e scrittore spezzino Gino Ragnetti sforna un altro libro di sicuro interesse storico. Si tratta di "Ottocento - Quando Spèza divenne Spezia", edito dall'Accademia lunigianese di scienze "Giovanni Capellini".

Il volume ripercorre il XIX secolo, periodo nel quale la cittadina nel cuore del Golfo dei poeti subì la trasformazione che l'avrebbe cambiata per sempre, trasformandola in città militare.

 

 

 

 

Spezia, quel futuro rubato

 

 

Il secolo della devastazione

 

Ottocento, il secolo che ha visto devastare, trasfigurare, violentare il golfo della Spezia. Negli ultimi quarant'anni di quel secolo quello che era considerato una meraviglia della natura venne totalmente artificializzato e sottomesso - nel supremo interesse del Paese, sia chiaro - alle esigenze militari. E tale è rimasto per molto tempo (in buona parte tale è ancora oggi).

Ciò che si è sottaciuto finora è che in quegli ultimi quarant'anni del XIX secolo si consumò un genocidio incruento: l'eliminazione, forse non voluta ma letale nei suoi effetti, di un popolo, il popolo sprugolino. Gli abitanti del piccolo borgo che con tenacia e intelligenza si stavano edificando un futuro turistico al pari di Nizza e Cannes, furono sommersi, fino a del tutto scomparire, dalla marea di decine di migliaia di immigrati qui chiamati per costruire gli stabilimenti militari, arsenale, cantiere di San Bartolomeo, polveriere, forti, caserme, casematte, depositi, ridotte.

Con gelida indifferenza in quegli anni fu cancellato il Dna sprugolino, sostituito da un melting pot di razze, genti, provenienti da tutte le regioni italiane, che parlavano i loro dialetti e che volevano conservare le loro usanze. Nel giro di pochi decenni la popolazione del borgo quadruplicò, con una schiacciante prevalenza dei "nuovi spezzini" sui vecchi che inevitabilmente furono pian piano "diluiti" nel nuovo corpo sociale che si andava creando di pari passo a una metodica devastazione dell'ambiente. Nel corso di quegli anni il piccolo borgo ligure colorato, fatto di casette, piazzette e carrugi fu fagocitato e soppiantato da una città piemontese grigia con palazzi, chilometrici viali e vaste spianate, più simile a una caserma che a una città; la calda spiaggia vellutata fu sostituita da freddi banchinamenti squadrati, rigidi, duri; gli alberghi che erano stati aperti per dare corpo al grande sogno turistico dovettero chiudere uno dopo l'altro; gli abitanti di un intero paese (San Vito) furono costretti ad abbandonare le loro case, le loro terre perché espropriate dalla Marina; una decina di chiesette, cappelle, oratori, furono atterrati insieme allo stesso villaggio di San Vito: perfino i morti furono deportati.

Ma l'Ottocento fu anche il secolo delle guerre e della dominazione napoleonica; fu il secolo della "luminosa stagione di mezzo", come l'ha definita Andrea Marmori, durante la quale Spezia sognò e progettò un suo futuro economico basato sull'industria dell'ospitalità; fu il secolo del Risorgimento, epopea che vide in prima fila moltissimi oggi dimenticati figli della Lunigiana storica, la terra che va dal mare all'Appennino, dalla Versilia a Deiva Marina. E fu il secolo della Nuova Spezia, dei grandi palazzi, dell'urbanizzazione dei colli, e delle grandi navi da guerra.

 

 

 

 

Di questo e di molto altro parlo nel mio nuovo libro - "OTTOCENTO - Quando Spèza divenne Spezia" - che è stato presentato venerdì 16 dicembre alle 17 nel salone delle conferenze dell'Accademia lunigianese di scienze Giovanni Capellini dal presidente della stessa Accademia professor Giuseppe Benelli e dall'avvocato Andrea Baldini. Mi è costato cinque anni di duro lavoro - sono quasi 900 pagine - ma credo che ne sia valsa la pena. L'ho fatto volentieri, perché non si perda la memoria del popolo scomparso: il popolo sprugolino.

 

 

"Ottocento, quando Spèza divenne Spezia"

 

La Spezia. "Ottocento", proprio come le pagine fitte fitte di parole, informazioni inedite, aneddoti e segreti della Spezia del XIX secolo, è l'ultimo libro scritto da Gino Ragnetti, giornalista e scrittore spezzino.
Questa volta la curiosità di Gino, non ha scrutato nel passato remoto della civiltà apuana in conflitto con l'Impero romano, come era accaduto con Luna, il volume pubblicato nel 2007, contenente una tesi a dir poco affascinante: la presenza di una città romana nel cuore del golfo. Con il volume presentato questo pomeriggio all'Accademia "Capellini", che è editore di "Ottocento - Quando Spèza divenne Spezia", gli occhi celesti del giornalista si sono posati sul periodo che più di tutti ha rivoluzionato il destino del golfo, creando una nuova storia, quella di un piccolo centro che diventava una importante e moderna città militare, con tanto dell'innesto di migliaia di abitanti.
Un secolo non lontano, raccontato spesso, ma mai con tanta completezza e precisione. Il secolo della creazione di una nuova identità, che merita di essere conosciuto meglio.
"Il libro di Ragnetti - ha detto infatti il presidente dell'Accademia Giuseppe Benelli - non può mancare nelle case degli spezzini. E' la raccolta di tutta una vita e contiene cose rare, nuove anche per me. Nelle pagine è dimostrato un legame affettivo con la storia che gino vuole reinterpretare, senza nostalgia, proponendo alle nuove generazioni una istanza nuova, per guardare in modo diverso il presente e il futuro. Lo spessore della ricerca che sta alla base di "Ottocento" è nel bisogno di trovare risposte, non solo nell'amore e nella conoscenza, è la volontà di comunicare qualcosa di importante".
E tra i messaggi che Gino vuole far passare c'è quello del ricordo di quel nucleo autentico di spezzinità che fu la città prima dell'arrivo di migliaia di lavoratori da fuori, quelli che diedero il "la" all'attuale Spezia. "Gli abitanti del periodo pre arsenalizio - rammenta Ragnetti - sono gli ultimi veri spezzini. Non dimentichiamocene".
Alla presentazione del libro, che fa parte della collana Erbaspada e che sarà in vendita nelle librerie Ricci e Contrappunto, hanno preso parte anche il vice prefetto aggiunto Stefania Ariodante, il sindaco della Spezia Massimo Federici, il presidente della Provincia Marino Fiasella, il presidente di Carispezia Andrea Corradino.

Da Cittadellaspezia.it del 17 dicembre 2011.

 

 

 


 

 

 

 

 

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