Le vicissitudini del sepolcro di Galileo in Santa Croce

 

Articolo del dr Paolo Piccardi

 

 

 

Anche questo racconto prende le mosse da un atto notarile conservato nell’ Archivio di Stato di Firenze, mai pubblicato integralmente e che mi sono preso la briga di trascrivere.

 

E’ il crepuscolo e nell’ oscurità delle navate di Santa Croce illuminate dalle fiamme di numerosi ceri scenograficamente disposti attorno ad un catafalco coperto di panno nero, il notaio Piombanti si affanna a fissare su carta, passo per passo, la scena che si sta svolgendo sotto i suoi occhi.

 

E’ un incarico ufficiale il suo, ma il cronista prende il sopravvento sul notaio, troppo emozionato per il privilegio di assistere ad un evento atteso da quasi un secolo e per la cui realizzazione le menti più illuminate, e la nascente massoneria, hanno profuso tutte le loro energie.

 

Siamo infatti nel 1737, anche se il Piombanti, seguendo ancora l’uso fiorentino, scriverà 1736, e il giorno è il 12 Marzo, data non scelta a caso, come vedremo. Sta per iniziare la cerimonia della traslazione delle ossa di Galileo Galilei dal deposito provvisorio nella Cappella del Noviziato al definitivo monumento, immaginato dal fedele discepolo Vincenzo Viviani fino dal giorno della morte del maestro, avvenuta l’ 8 Gennaio 1642.

 

Da quel momento il Viviani non aveva avuto pace, atterrito dalla prospettiva che la memoria del suo idolatrato maestro andasse perduta o addirittura distrutta sotto i colpi che il Vaticano e suoi più zelanti seguaci non cessavano di assestare.

 

Dopo una vita di successi e di onori tributatigli dai regnanti del tempo, Galileo era stato massacrato, nello spirito e nel corpo, dal processo intentatogli dalle autorità ecclesiastiche, culminato nel 1633 con la condanna, sospesa per la ritrattazione che lo stesso Galileo si vide costretto a pronunciare per scampare peggiori conseguenze e per ottenere la magra consolazione di tornare a vivere rinchiuso nella sua abitazione con questa formula: "fu abilitato alla sua villa, con che vivesse in solitudine, né ammettesse alcuno per seco discorrere, per il tempo e arbitrio di Sua Santità".

 

Nella sua dimora Galileo dovette vivere da recluso gli ultimi anni della sua vita, debilitato dalle malattie e dalla cecità, impossibilitato a recarsi dove le cure avrebbero potuto essere più efficaci, costretto a rifiutare gli onori e i preziosi doni che gli giungevano da ogni parte, compresa una catena d’oro inviatagli dai reali d’Olanda in segno di ringraziamento per i suoi studi sul calcolo della latitudine e della longitudine. Su espresso divieto del Vaticano, l’ Inquisizione di Firenze gli impedì anche di ricevere i navigatori, desiderosi di apprendere da lui tali tecniche prima di intraprendere le loro traversate oceaniche.

 

Nel suo testamento, redatto il 21 Agosto 1638 dal notaio Graziadio Squadrini, Galileo aveva espresso il desiderio di essere sepolto in Santa Croce accanto ai suoi antenati, ma la stessa facoltà di dettare le sue ultime volontà era stato oggetto di dispute fra teologi.

 

Solo nel 1979, per voce di Giovanni Paolo II, la Chiesa ha riconosciuto la grandezza di Galileo, che "purtroppo ebbe molto a soffrire da parte di uomini e organismi della Chiesa" dando l’avvio allo studio delle carte relative al processo.

 

Al contrario di quanto comunemente si crede, la maggior parte delle carte del processo non esiste più. Furono trafugate da Napoleone nel 1810 insieme all’ intero archivio Vaticano per essere destinate ad un erigendo Archivio di Stato, che la brevità del periodo napoleonico rese inattuato. Stipati in migliaia di ceste e di casse, i documenti furono trasportati a Parigi subendo le prime perdite durante il trasporto, fra le intemperie e le piene dei fiumi. Giunti a Parigi, venne fatta una selezione per adattarne il volume alla capacità del deposito provvisorio. Caduto Napoleone, il Vaticano, non potendo sopportare le enormi spese di trasporto, ordinò una ulteriore selezione, vendendo il superfluo (o quello che veniva ritenuto tale) ai pizzicagnoli per incartare gli alimenti. La stessa sorte toccò alle carte di Galileo custodite in via S. Antonino nella casa del Viviani, alla morte del quale vennero vendute al vicino produttore di mortadelle, fino a quando il Nelli non se ne accorse, riuscendo a salvare il salvabile.

 

In definitiva, dei 4000 volumi di carte relative al processo (o ai processi) Galilei ne rimangono circa 200 e, in definitiva, tutto quello che è stato pubblicato fino ad ora è stato tratto da un solo volume, contrassegnato con il numero 1187. Per strano destino della sorte, fu l’ultimo dei volumi restituiti dalla Francia, e solo alla fine del 1843.

 

Viviani aveva speso tutta la vita e tutte le sue sostanze nell’ intento di glorificare Galileo fino alla massima consacrazione in Santa Croce con un monumento situato esattamente di fronte a quello di Michelangelo, di cui Galileo doveva essere la reincarnazione, a detta del Viviani, il quale aveva fatto coincidere la data del battesimo di Galileo con quella della morte di Michelangelo, esattamente il 19 Febbraio 1564. In seguito verrà notato come l’ 8 Gennaio1642, giorno della morte di Galileo, coincida con la data di nascita di Newton, tanto che Kant ebbe a scrivere: "Michelangelo si è reincarnato in Newton, passando per Galilei".

 

Viviani aveva anche vagheggiato che il monumento funebre di Galileo dovesse essere quanto mai somigliante a quello di Michelangelo e come esso contornato da tre statue rappresentanti l’Astronomia, la Geometria e la Filosofia, così come quello di Michelangelo era adornato da quelle dell’ Architettura, della Pittura e del Disegno. Il progetto non riuscì compiutamente, perché la Chiesa proibì l’ inserimento della statua della Filosofia, rappresentante il pensiero eretico di Galileo.

 

Dovette scontrarsi subito, il devoto Viviani, con l’ opposizione delle autorità vaticane, che, nell’ immediatezza della morte di Galileo, furono avvertite dallo zelantissimo Nunzio apostolico a Firenze, Giorgio Bolognetti, che il Granduca Ferdinando II desiderava esprimere la gratitudine di Casa Medici, alla quale Galileo aveva intitolato i satelliti di Giove, erigendogli un fastoso monumento funebre.

 

Il cardinale Barberini informò prontamente il Papa Urbano VIII, il quale convocò Francesco Niccolini, rappresentante dei Medici al Soglio Pontificio e gli fece casualmente osservare quanto inopportuna sarebbe stata una esaltazione funebre di colui che aveva suscitato tanto scandalo nella Chiesa. Il Niccolini consigliò prontamente Firenze che si evitassero cerimonie pubbliche. Per maggiore chiarezza, il Barberini scrisse al Nunzio Apostolico in Firenze di far giungere all’orecchio del Granduca che non solo sarebbe stata cosa sconveniente l’erezione di un monumento funebre a colui che era morto ancora in periodo di espiazione di pena, ma che anche l’eventuale orazione funebre avrebbe dovuto essere preventivamente sottoposta all’ esame ecclesiastico. Contravvenire a tale ordine avrebbe potuto indurre la Chiesa a prelevare d’imperio il cadavere per portarlo a Roma, così come aveva fatto con quello della Contessa Matilde, senza sentire il bisogno di avvertire l’autorità civile.

 

In definitiva Galileo non ebbe neppure un funerale degno di questo nome, accompagnato solo dai pochi parenti e dai fedeli discepoli, senza che venisse pronunciata alcuna orazione funebre. Si riuscì unicamente ad esaudire il suo desiderio di essere sepolto in Santa Croce, ma solo in uno stanzino a cui si accedeva dalla cappella del Noviziato.

 

Questo ingiusto trattamento bruciò per tutta la vita nell’ animo di Vincenzo Viviani, il quale non rinunciò mai al suo proposito di glorificare in modo degno il maestro ed operò in due direzioni convergenti ad un unico fine: da un lato cercò di dimostrare che non di eresia si era macchiato Galileo, ma di trascuratezza nel non aver relegato il pensiero copernicano in un puro ambito speculativo. In subordine, era stata la Divina Provvidenza stessa ad umiliare nell’ orgoglio lo scienziato che aveva raggiunto vette di entusiastica ammirazione in ogni dove, pertanto non della volontà di Galileo si trattava, ma di un imperscrutabile disegno divino.

 

Dall’ altro lato, l’azione del Viviani tese a non far cadere nell’ oblio gli insegnamenti di Galileo e a non mortificare la ricerca scientifica, che da lui aveva preso le mosse e che era ridotta ad essere bersaglio ininterrotto delle critiche degli intellettuali ligi alla tradizione, i quali avevano ottenuto anche la soppressione dell’ Accademia del Cimento nel 1667.

 

Per il raggiungimento dei suoi scopi Vincenzo Viviani investì tutte le sue sostanze. Con i proventi della sua attività di astronomo per il Re di Francia, Luigi XIV, acquistò un terreno in via S. Antonino, dove fece edificare dall’architetto Nelli la propria dimora, la cui facciata fece tappezzare di enormi cartigli contenenti il busto e l’ elenco delle opere e delle virtù di Galileo. Grato per la lauta ed inaspettata pensione assegnatagli dal Sovrano Francese, il Viviani nominò la casa "Deodata", ma i passanti, alla cui attenzione i cartigli erano destinati, pensarono bene di chiamarlo "Palazzo dei cartelloni"

 

 

 

Analoghe, ma più brevi iscrizioni e una copia del busto che ornava la sua casa furono apposte, con la complicità di un frate di Santa Croce di nome Pierozzi, anche sulla parete dello stanzino in cui riposavano le spoglie di Galileo, affinchè non se ne perdesse la memoria.

 

 

 

 

 

 

Vincenzo Viviani arrivò perfino a convincere il patologicamente bigotto Cosimo III de’ Medici a far affrescare dal Gabbiani la Stanza della Meridiana in palazzo Pitti, dove, con la raffigurazione delle ultime scoperte astronomiche, riuscì a far inserire anche la glorificazione di Galileo.

Viviani morì senza aver potuto vedere la realizzazione del suo sogno, ma negli ultimi suoi anni potè vedere compiute le statue da collocare in Santa Croce nell’ agognato monumento funebre: dal Ticciati la Geometria e dal Foggini l’ Astronomia, nonché il busto di Galileo. Dettò il suo testamento disponendo affinchè le sue spoglie riposassero sempre accanto a quelle di Galileo, sia nello stanzino provvisorio che nel monumento funebre definitivo. Dispose inoltre che tutte le sue sostanze venissero destinate alla realizzazione di tale monumento.

 

Torniamo al nostro notaio Piombanti e alla cerimonia di traslazione, che poté finalmente avere luogo, dopo che il giureconsulto avv. Neroni aveva chiesto al S. Uffizio se sussistessero impedimenti all’ erezione del monumento funebre, precisando che nessuno metteva in dubbio l’errore di Galileo, che tale monumento era stato approntato per imposizione di volontà testamentaria e, infine, che erano già stati spesi 4000 scudi. La risposta era stata favorevole, con l’unica pretesa di poter visionare in precedenza l’iscrizione che si pensava di apporre.

 

La folla che si è radunata in S. Croce è numerosa. Oltre ai rappresentanti della chiesa che ospita la cerimonia e il rappresentante della Chiesa Metropolitana figurano accademici, scienziati e artisti, tutti accumunati nella soddisfazione di veder coronato il sogno del Viviani. Manca qualsiasi rappresentante dell’ autorità granducale, per timore di urtare la suscettibilità della Chiesa col dare troppa importanza alla memoria di Galileo, ma da più parti venne attribuita a Gian Gastone stesso la decisione di rompere gli indugi e di contrastare l’ opprimente tutela che la Chiesa esercitava su tutta la vita cittadina, così come aveva voluto Cosimo III. Fra i presenti spiccano alcune figure degne di nota: il dott. Antonio Cocchi, uno dei fondatori della prima loggia massonica fiorentina e cognato del notaio Piombanti, il Peruzzi, fecondo letterato che comporrà memorie ed epitaffi celebrativi di Galileo, Giovanni Lami, in odore di massoneria, archivista e bibliotecario della Riccardiana, il quale, nelle sue memorie, ribadirà il preciso intervento del granduca nel dare esecuzione alle ultime volontà del Viviani.

 

Il Piombanti annota per prima cosa la data: è il 12 Marzo e il giorno non è stato scelto a caso: proprio il 12 Marzo del 1564 le spoglie di Michelangelo fecero il loro ingresso in Santa Croce, dopo essere state avventurosamente trafugate da Roma dal nipote Lionardo, e furono provvisoriamente adagiate sul tavolone che ancora oggi si trova al centro della Sagrestia. Anche l’ora è la stessa, le ventiquattro, che, nello stile fiorentino dell’ epoca, corrispondeva al momento del tramonto, quindi, circa le sei di sera.

 

L’ emozionato notaio sa che la sua elegante penna d’oca non è chiamata a trascrivere uno dei consueti aridi contratti, ma la celebrazione di un avvenimento che passerà alla storia e, al momento di scrivere il nome dell’ uomo le cui spoglie troveranno la finale collocazione, non si trattiene dal glorificarlo con le parole. "Nobil Uomo Galileo Galilei Fiorentino Insigne e Celeberrimo Filosofo, Geometra, et Astronomo, degno d'immortale e sempre gloriosa memoria" e immediatamente dopo precisa che il sepolcro a lui destinato è collocato esattamente "dirimpetto al Sepolcro del Chiarissimo Michel Angelo Buonarruoti altro Nobilissimo lume della detta città".

 

Ci spostiamo nell’ angusta stanzetta a lato della Cappella del Noviziato, dove sappiamo riposare le salme di Galileo e del Viviani e sulla cui parete il Viviani, con la complicità del frate Gabriele Pierozzi, aveva fatto apporre scritte celebrative e la copia in gesso marmorizzato del busto di Galileo che troneggiava sulla facciata del suo "palazzo dei cartelloni".

 

La stanzetta contiene due bassi "depositi" in mattoni, il primo dei quali viene abbattuto dagli operai, riportando alla luce la cassa che contiene le spoglie del Viviani, la cui identità è confermata da una lamina di piombo con inciso il suo nome, inchiodata all’ interno del coperchio. Eseguita la ricognizione e il riconoscimento, introdotto un tubo di piombo con una pergamena in ricordo del Viviani scritta dal Peruzzi, la bara viene trasportata a spalla per tutta la lunghezza della chiesa fino al sepolcro definitivo e calata nella cavità predisposta al di sotto di esso.

 

La processione rientra nella stanzetta e viene smurata la seconda bassa struttura, facendo venire alla luce, fra la sorpresa degli astanti, non una ma due casse di legno, la prima delle quali sfondata e piena di calcinacci. La seconda cassa è quanto mai inaspettata e i presenti si domandano sgomenti quale corpo possa mai contenere.

 

Si procede alla ricognizione del cadavere contenuto nella cassa sfondata e, rimossi i calcinacci e separate le vesti di lino bianco superstiti, ci si rende conto che le ossa sono di un uomo vecchio e sdentato, ma che è impossibile identificarlo, data l’assenza di qualsiasi scritta o contrassegno.

 

Il panico si impadronisce degli astanti, che si affrettano ad aprire la terza cassa, nella quale appaiono, fra il sollievo di tutti, i resti di una giovane donna. Scampato il pericolo di un secondo corpo maschile, e quindi dell’ incertezza dell’ identificazione delle ossa di Galilei, tutti accettano immediatamente l’ ordine del Provveditore di Santa Croce di mettere da parte la terza bara e di attribuire a Galileo le ossa contenute nella cassa sfondata.

 

Il notaio Piombanti non si occupa più della terza cassa, ma da altre memorie degli avvenimenti di quel giorno, lasciateci da altri personaggi presenti, sappiamo che anch’essa fu deposta nel loculo sottostante il sepolcro definitivo, pur senza essere riusciti a darle un’ identità. Se era accanto al corpo di Galileo, si pensò bene di non recidere il legame. Le ipotesi più accreditate identificano la giovane donna in Virginia, la figlia naturale di Galileo che prese i voti con il nome di Suor Maria Celeste nel convento delle Clarisse. Dalle numerose lettere che scrisse al padre e che sono pervenute fino a noi ci possiamo rendere conto della sua sollecitudine per la salute e per le vicende del padre. Lo consigliava anche negli aspetti pratici della vita e fu lei che gli suggerì di acquistare la villa "Il Gioiello" di Arcetri, situato a poche decine di metri dal suo convento e nel quale Galileo trascorse gli ultimi anni.

 

Virginia morì a 34 anni, nel 1734, e nessuna registrazione riporta il luogo in cui fu sepolta. Si può presumere che il Viviani, quando nel 1674, con la complicità del frate Pierozzi, fece apporre la memoria che contrassegnava la sepoltura provvisoria di Galileo, facendo cadere i calcinacci che sfondarono il coperchio ormai consunto della basa di Galileo, abbia ritenuto opportuno deporvi anche le spoglie della figlia, ma sono solo supposizioni e nessuno sa esattamente come andarono le cose.

 

 

Adagiata la salma di Galileo sul catafalco, i convenuti le resero omaggio e approfittarono della circostanza per appropriarsi di "reliquie": chi prese una vertebra, chi un dito, chi un dente. Il dito stecchito che si ergeva, perpendicolarmente alla mano posata sul petto, è tuttora esposto al Museo delle Scienze.

 

 

 

Il Piombanti non se ne accorse o finse di non accorgersene perché di tale spoliazione della salma nel suo atto non c’è traccia.

 

Rifatto in fretta un nuovo coperchio, ed introdotto nell’ interno della cassa un "cannone di piombo", come lo definisce il Piombanti, contenente un’ epigrafe composta dal solito Peruzzi, si riformò la processione per trasportare la salma di Galileo al sepolcro definitivo. Affinchè tutti coloro che si erano maggiormente battuti per la consacrazione di Galileo in Santa Croce potessero avere l’onore di portarla a spalla, nel centro della chiesa il corteo sostò e i quattro portatori ricevettero il cambio di altri quattro.

 

Con la riposizione del feretro all’ interno del loculo sotto il monumento a lui destinato, accanto al fedele Viviani, la cerimonia si concluse, senza alcuna orazione funebre affinchè la Chiesa non avesse alcun pretesto per recriminare.

 

Per concludere, un’ultima annotazione sull’atto rogato dal notaio Piombanti: è strano che non sia mai stato trascritto integralmente nelle tante pubblicazioni che hanno trattato della vita di Galileo e delle vicissitudini della sua salma, iniziando dal libro del Nelli. Gli estratti che sono stati pubblicati, invariabilmente, hanno tagliato almeno la parte che riguarda la misteriosa terza bara, causa di imbarazzo, non solo per coloro che furono presenti alla cerimonia, ma, evidentemente, di tutti i successivi cultori di Galileo.

 

Recentemente, con una buona dose di oscurantismo nelle motivazioni, i frati custodi di Santa Croce hanno negato agli studiosi la possibilità di effettuare, sui resti custoditi nel monumento a Galilei, una ricognizione che avrebbe consentito di sciogliere ogni dubbio sul grado di parentela fra Galileo e i resti della terza bara.

 

Paolo Piccardi

 

 

 

 

 

 

Paolo Piccardi

 

 

 

 

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