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Storia dei Carnesecchi 1434--1494
II parte
I
S'io meritai di te, mio sacro Apollo,quel dì ch'io venni al tuo famoso templo e piansi tanto del suo extremo crollo,acciò che a' tuoi suggetti anco sia exemplo,io son soletto a piè d'un erto collo,aiuta il suon che per piacerti temploa cantar versi del tuo amato Lauro se ti ricorda più de' be' crin' d'auro.
II
Se ti ricorda ancor del tempo antico, se 'l bel Giacintho o Clymen mai ti piacque,da poi che del tuo amor qui canto e dicoonde il principio della giostra nacque,fa' che sia a' versi più ch'all'opra amico,ché tu surgesti fuor delle salse acquecon tanta nebbia il giorno all'orizonte,ch'io dubitai tu piangessi Fetonte.
III
Io dico con color che son discreti,che le cose del mondo son guidatedal corso delle stelle e de' pianeti,né pertanto però son distinate,quantunque questi effetti sien segreti,e ciò che fanno è di necessitate:ogni nostro concetto, ogni nostra opraispira e vien dalla virtù di sopra.
IV
E' si faceva le noze in Fiorenzia,quando al ciel piacque, di Braccio Martello,giovane hornato di tanta excellenzia,ch'i' non saprei chi comparare a quello:fu nel convito ogni magnificenzia,tanto che Giove nol farìa più bellodove fusse Dïana e Palla e Vesta,e tutta la città ne facea festa.
V
Era tornata, tutta allegra Progne,benché e' piangessi la sua Philomena;Amor suoi ceppi preparava e gogne,i gioghi e' lacci e ogni sua catena;e Pan sentia sonar mille zampogne;era di fiori ogni campagna piena;vedeansi Satir' dolcemente iddeeseguir pe' boschi, e Driàde e Napee.
VI
O nupzie sante, o lieto sodalizio,dove altra volta fia Vener contenta!Era Himeneo già posto al suo exercizio,era Giunon tutta occupata e intentaper adornar sì degno sponsalizio;par che 'l gaudio celeste qui si senta,con pace, con amore e con concordia,ché nol turbò la dea della discordia.
VII
Furonvi tutte le ninphe più belle,anzi vi venne ogni amante, ogni dama;fra l'altre duo molto gentil' sorelle,che l'una ha sol di Costanzia ogni famae l'altra è il sol fra le più chiare istelle,quella che il Lauro suo giovinetto ama,Lucrezia, d'ogni grazia incoronata,del nobil sangue di Piccarda nata.
VIII
Venere fece fare una grillandaa questa gentil ninpha di vïole,e fece che 'l suo amante gliel domanda;ella rispuose con destre parole,e priegal, ma 'l suo priego gli comanda,che gli 'mprometta, se impetrar la vuole,ch'al campo verrà presto armato in sellae per amor di lei porterà quella.
IX
E missegliela in testa con un riso,con parole modeste e sì soave,che si potea vedere il paradisoe sentir Gabrïel quando disse: "Ave".Costui, che mai da lei non fia divisoe del suo cor gli ha donata la chiave,acceptòe il don sì grazioso e degno,di prosper' fati e di vittoria segno.
X
Hor, perché il vero sforza ognun che dice,un'altra bella e gentil grillandettanon fu sì aventurata o sì felice,della sorella sua, ma tempo aspetta,ché in gentil core Amor sue cicatricenon salda così presto, ove e' saetta:forse che i fior' ancor faranno fruttoa luogo e tempo, e 'l fin giudica il tutto.
XI
Ma certo il Läur mio, sempre costante,non volle esser ingrato al suo signore;e, perché egli avea scritto in adamantequello atto degno di celeste honore,si ricordò, come gentile amante,d'un detto antico, che "vuol fede Amore";e preparava già l'armi leggiadre;ma nol consente il suo famoso padre.
XII
Non consentì, che la ragion non volse:era di poco quietata la terra,quando Fortuna ogni sua ira sciolsee minacciava di futura guerra,dove poi l'arco a suo modo non colse,ché 'l fier Leone ogni animale atterra.Dunque costui questa grillanda serba,finché si sfoghi la Fortuna acerba.
XIII
E qual si fusse un tempo la sua vita,intenda ogni gentil cor per se stesso:era legata l'anima e smarrita,e si doleva con Amore ispesso,dicendo: "Lasso, hor da me s'è fuggitaogni speranza che tu m'hai promesso:questo non è quel che quaggiù si crede,se 'l terzo ciel tu reggi sanza fede.
XIV
Se tu se' Citherea, se tu se' quellache fusti già magnanima reginain Cipri, giovinetta hornata e bella,dove ogni spirto leggiadro s'inclina,e hor se' degli amanti fatta istella,non si convien tua deità divinaaver tradito me che in te mi fido.Ma s'egli è ver del tuo figliuol Cupido,
XV
con quello stral che più tua virtù mostrae che più infiamma i generosi cori,chi m'ha negata la promessa giostrasaetta al cor, sì ch'ancor lui innamori,e fia tua gloria magna, anzi fia nostra,che certo io so che i miei infilici fioriProserpìna nel campo colse eliso,anzi Rachel più tosto in paradiso".
XVI
(Forse potrebbe ricordarsi ancoradel suo falcon ch'a la rete fu giunto)."Né so s'i' maladico il giorno e l'orach'io fui felice e misero in un punto.Or pigli exempro qui chi s'innamora:vedrà ch'un gentil cor, quand'egli è punto,ricerca cose degne e l'altre sprezza,ch'Amor pur fonte è d'ogni gentilezza".
XVII
E' si dolea, ma con parole honeste;poi cominciò a tentar nuove arte e ingegni,e or cavagli, hor fantasie, hor veste,mutar nuovi pensier', divise e segni,e hor far balli, e or nocturne feste(e che cosa è questo Amor non insegni?),e molte volte al suo bel sole apparve,per compiacergli, con mentite larve:
XVIII
quando, con altri giovinetti amanti,guidava il bel trionpho Autumedonne;né vo' già mai che nessun più si vantid'aver condotto sì famose donne,quando Pennèo dolce armonia e cantisentì, che invidia n'arìa ancor Giansonne,sì gentil barca e sì nitide limpheportâr cantando e le Muse e le nimphe.
XIX
Credo che ancor su pel bel fiume d'Arnorimbomba il suon tra le fresche onde e rivede' dolci versi che d'amor cantarnole nimphe spesso alle dolce ombre estive.O festi giorni e non passati indarno!O liete, o belle, o glorïose divech'ornâr Quaracchi; e chiamal con Silenzioel bel castel ch'è posto in sul Bisenzio!
XX
Così alcun tempo per costui fu lietoe muse e nimphe e piagge e valle e fiumi,e di gentil, magnanimo e discretofûr le sue opre e tutti i sua costumi,perché questo è quel santo läureto,dove tra' fior' non s'asconde angue o dumi,né qui Celen delle sue fronde pasce,ché santo frutto di santo àlbor nasce.
XXI
Ma poi che in tutto fu l'orgoglio spentodel furor bergamasco, al fèr Leonevenne la palma, e ciascun fu contentodi far la giostra nel suo antico agone.L'anno correva mille quatrocentoe sessantotto dalla Incarnazione,e ordinossi per mezo gennaio,ma il septimo dì fessi di febraio.
XXII
Hor qual sarà sì alta e degna musa,o cetra armonizante qui d'Orpheo,o Marsia ch'ancor duolsi e piange e scusa,o Amphïon già in Aracinto Atteo,che non paressi roca e in tutto ottusa?Non val qui il zufoletto melibeoa raccontar sì magna e bella giostra,anzi ogni gloria della ciptà nostra.
XXIII
Gran festa certo ne fe' la ciptate,tanto che mai non la vidi più allegra:non si ricordan le guerre passate,che fûr conforme alla pugna di Fegra,come altra volta in versi ho compilate;e perché e' fussi la festa più intègra,concorson molti giovan' d'alta fama,ch'ognuno il giovinetto honora e ama.
XXIV
E poi che furon vantati i giostranti,manca cavalli: hor per molti paesisùbito volan messaggeri e fantia conti, re, signor', duchi e marchesi;ecco venuti i cava' tutti quanti;assettasi elmi e coraze e arnesi,e scudi e lance e selle s'apparecchia,e vassi rifrustando ogni arme vecchia.
XXV
E burïassi ritoccan per modoche non se ne può aver collo scarpello,tanto e l'oppinïon già duro e sodo,e vassi bucherando hor questo, hor quello;tanto che ancora a pensarvi ne godo,del dolce tempo passato, sì bello.A ogni canto rinfresca la voce:"Che è? che è?", "Il giostrante a Santa Croce".
XXVI
E tutto il popol correva a vedere;e fecion tutti inver mirabil' prove.Non fu in Fiorenza mai simil piacere,e ne godeva in ciel Marte con Giove;e non è maraviglia, a mio parere,ch'ognun si pasce delle cose nuove;e se ci fussi istata allor Clarice,non fu la mia ciptà mai sì felice.
XXVII
Non vi mancò nulla altro d'ornamentoche, certo, al mio parer, donna sì degna.Quanto ti vidi, o mio popol, contento!Quando sarà ch'un secol mai tal vegna?Non certo più, né per rivolgimentoch'ogni cosa al suo termine rassegna,né per tornar Saturno e 'l mondo d'auro,ché non sarà mai più sì gentil Lauro.
XXVIII
E' si sentia mille vage novellee bugïon di libra a rigoletto:al corazzaio, a quel che fa le sellenon si sarebbe un ver per nulla detto;quivi eran gran dispùte di rotelle,di reste, di bracciale e di roccetto;e molto d'Anton Boscol si parlava,e così il tempo lieto oltre passava.
XXIX
E' si diceva di Marin Giovannidelle sue opre già tanto famose;di Ciarpellone e de' suoi lunghi affanni,come in sul campo fe' mirabil' cose;e di molti altri già ne' passati annil'antiche pruove degne e bellicose;ma sopr'a tutte cose, al mio parere,i burïassi si facean valere.
XXX
Era il quinto alimento i burïassi:non rispondevan più se non per lezio;benché alcun par che si ramaricassiche non havea a suo modo discrèzio,pur discrezion fratesca non errassi;e studiava Aristotile e Buezio:donde il giostrante era più biasimato,che s'egli avessi il sepulcro spogliato.
XXXI
L'aquila rossa in sull'elmetto un Martesopra sua stella fe' d'argento e d'oro;la lancia in man dalla sinistra parte,da dextra avea la corona d'alloro,per denotare insieme il premio e l'arte;questo era il primo elmetto e 'l più decoro;l'altro, con l'ale a' piedi e in man la palma,havea la Fama glorïosa e alma.
XXXII
Venne quel giorno tanto disïato.El signor degno di Sansoverino,Ruberto nostro, in alto è diputatocol milite famoso Soderinogiudicatore, e 'l Pandolfin da lato;appresso a lui de' Martegli Ugolino;Niccolò Giugni seguia drieto agli anni,e poi de' Gianfigliazzi era Bongianni.
XXXIII
Libero il campo e lo steccato intorno;e perché spesso il ver reca vergogna,il popol che a veder vi fu quel giornoal secol che verrà parrà menzogna;e quanto ognuno in campo entrassi adornoè interpetrar quel che Nabucco sogna:dell'alte fantasie, divise e segnide' giovan' nostri, glorïosi e degni.
XXXIV
De' Medici vi venne ardito e francoBraccio, e mostrò quanto fussi gagliardo:una fanciulla che copre un vel bianco,famosa in vista, avea nel suo stendardo,e sotto un'alta quercia, umìle e stanco,legato stava un gentile alepardo,e per cimieri in man teneva quelladi fronde una grillanda fresca e bella.
XXXV
Di bianco domaschin d'oro broccatoera il caval del bel cimier coperto;e lui sopra un caval feroce, armato,ch'avea Spazzacampagna il nome certo;e di velluto bianco è covertato,dove alcun lëopardo è ben conserto,legato pure all'arbor del gran Giovecon laccio d'oro, e da quel non si muove.
con seco molti damigellicon certi vestir' dextri e un ricamopur di candida seta, hornati e belli,dove ciascun nel petto avea un ramo;trombetti, burïassi, altri donzelliintorno, tutti a piè, per suo richiamo:e 'l popol ne mostrò grande allegrezza,rispetto avendo alla sua gentilezza.
XXXVII
Dopo costui s'udia di nuovo un grido,e Pieranton giugneva e 'l suo Pier Pitti;e drento allo stendardo hanno Cupidocon atti e gesti lagrimosi e affritti,talché, se fu già lieto in grembo a Dido,eran puniti tutti i suoi delitti,perch'una damigella gli avea avintele braccia e l'ale spennacchiate e stinte.
XXXVIII
Pieranton cavalcava Baiantino,e tutte sue coverte erono a verde,per dimostrare, il giovan pellegrino,come ogni sua speranza si rinverde;e certo col suo averso e reo distino,fra tutti gli altri il dì fama non perde,e porta per cimier di lauro questoun fresco ramo, per più chiosa al testo.
XXXIX
Era il caval di Pier Pitti apellatoFalcone, e molto leggiadro a vedere;domaschin chermisì d'oro broccatola sua coverta, e porta per cimiere,come nello stendardo è figurato,quel falso e ingiusto e spennecchiato arciere;e d'alto a basso riccamente certo,broccato a oro, è il palafren coperto.
XL
E poco stante in sul campo venivadue cavalier' di Bernardin' da Todi,e trombe e lance e barde innanzi giva.Questo è quel dì, Savina, che tu godi:l'un di costoro ha l'arbor coll'uliva;e perché il ver di lor non gabbi o frodi,era cosa a veder molto magnifica,e fece quello effetto che significa;
XLI
quell'altro uno idoletto d'oro haveaper suo cimier; poi nel vexillo o segnoera una dama ch'un giogo rompea:questo è quello stendardo antico e degnod'Alberto, la cui morte fu sì rea,benché dolce è morir per giusto sdegno;e quel caval che 'l suo cimier soffersed'un bel velluto allexandrin coperse.
XLII
Il sesto Dionigi in campo è giuntosopra un caval chiamato l'Abruzzese,che sempre in aria e in terra era in un punto;e poi ch'al tutto al popol fu palese,di gentilezza e d'ogni cosa a puntoparve a chi bene ogni suo effetto intese,e lo stendardo suo cangiante volsech'a tutti gli altri il dì gran fama tolse,
XLIII
come cangiato havea costumi e vitacolei che, presso all'ombra d'un bel faggio,guardava il ciel, ch'a lui si rimarita,come aquila del sol fissa nel raggio,d'onestà pura e candida vestita,e avea sciolto uno animal selvaggioche si pascea sotto l'amate piantedel frutto sol delle sue opre sante.
XLIV
Di sopra a l'elmo avea questo una lanciache si potrebbe interpetrar d'Acchille,da ferir prima e poi saldar la guancia,donde e' si son già fatte assai postille;ma questa, se 'l giudicio mio non ciancia,excita sol l'angeliche faville,e desta e pugne e provoca ogni corea riscaldarsi dello etterno amore.
XLV
Il caval fu del cimier covertatodi quel color ch'è l'alba innanzi al sole;con ricco drappo è l'arbor ricamatoe l'animal che pasce come e' suole;l'Abruzzese coperto è di broccatodel color delle mammole vïuole;e ogni cosa riferiva a quellach'è stata un tempo e fia sempre sua stella.
XLVI
Haveva septe giovani vestitidi quel color che è l'oro quando affina,l'onesto col legiadro insieme uniti,ché tutto è volto alla biltà divina;e perché i suoi concepti sien forniti,non disse: "Il cielo o permette o distina",ma scripse che da' fati chiamato eraa seguitar la sua celeste spera.
XLVII
Io lascio di costui mille ornamenti,acciò che tocchi a ciascun la sua volta,ch'io sento già sonar nuovi stormenti:non vo' tediar qui sempre chi m'ascoltaa 'nterpetrar venti vestigi e venti,ché non parrebbe alfin materia sciolta;e perché fussi l'animale un danio,sallo colui che simulòe già Ascanio.
XLVIII
Il popolo era in dispùta e in bisticcio di Dionigi e di sua leggiadria,quando in sul campo compariva i Riccio;e s'io raccolsi ben sua fantasia,era sì cotto che sapea d'arsiccio d'una sua dama, ch'un falcon fingia,nello standardo suo che innanzi venne,che rinnovava sue leggiadre penne.
XLIX
Dopo questo giostrante istando un poco, giunse in sul campo il gentil Pier Vespucci : nel suo stendardo una fanciulla a gioco Amor beffava con sua balestrucci, e in un bel rivo fiaccole di foco ispegne, onde costui par che si crucci; e per cimiere una leggiadra chioma di questa dama havea, ch'Amor non doma.
L
Di seta verde e fiori d'or contestaavea una coverta molto bella:el caval del cimier copria con questae 'l suo destrier, che Buffato s'appella;velluto alexandrin per sopravestaportava, e tutta ricamata è quella;e lui pareva Hectorre sanza falloco molta gente a piede e a cavallo.
LI
Aveva nello scudo figuratouna ancudine in mar ch'andava a vela.Intanto un gran romor si fu levato,e tutto il popol gridava: "Ci vela":ecco apparir Salvestro Benci armato,e come gentil cor che 'l ver non cela,nello stendardo suo leggiadro e bellonon avea dama, anzi uno spiritello.
LII
Ma il suo cimier è pur d'una fanciulla,ché interpetrar no·llo saprei altrimenti,se non che 'l mio Salvestro ci trastullaa questo modo, e fa impazzar le genti;la sua coverta non s'intende nulla,piena di can', di lupi e di serpenti,e di velluto chermisì è questasopra il caval che si chiama Tempesta.
LIII
Questo cavallo il capo avea d'un drago,lo spirto in corpo di Bucifalasso,che ve 'l cacciò per arte qualche mago,anzi più tosto quel dì Sathanassocostretto là dalla Sibilla al lagoe sopra questo facea gran fracasso,e no·llo arebbe stordito el dì Busse,né re Bravier con Burrato o Brïusse.
LIV
Iacopo intanto giunse in sulla piazzadi messer Poggio con gran gentilezza.Nello stendardo in vesta paonazzasaette e archi una fanciulla spezza.I suoi scudier' parevon di corazzavestiti tutti con molta destrezza.Del caval del cimiere il guernimentofu di velluto ner broccato ârgento.
LV
Era il cimier questa sua nimpha o dama;e di velluto coperse ancor neroil suo caval, che Santiglia si chiama,e porta in sul groppon l'orribil ferocapo ch'ancora ha per Medussa fama,con ricche perle e non sanza mistero,ché dinanzi erano idre figurate,forse del sangue del Gorgon create.
LVI
Ma questo non sarà la chiosa al testo,ché sempre il vero a punto non si dice:il popol commendò fra gli altri questo.E intanto Carlo Borromei felice giunse in sul campo molto hornato e presto,e porta in ogni segno la fenice,ch'era nel foco ove ella more e nascefra mirra e nardo, le sue estreme fasce.
LVII
Havea quel giorno una berretta in testacon certa rete di perle di sopra,che non si vide mai simìle a questa;e de' pensar che lo scudo e sé copradi ricca, bella e gentil sopravesta.Fu legiadria per certo ogni sua opra,ma 'nterpetrar non sapre' Danïelloperché tal rete si portassi quello:
LVIII
forse Cupido l'avea preso al giacchio,forse questo era uno amante arretato.El palafren che porta il bel pennacchioè di purpurea seta e d'oro hornato,e 'l suo caval, chiamato Bufolacchio,di raso chermisì fu covertato,di perle ricamato a melarance,ch'eran premi d'amor, tributi e mance.
LIX
Hora ecco Benedetto Salutati venire in campo sopra un bel destriere;e porta ne' suo' segni al vento dati una fanciulla e certe luce e sperecon bianchi veli onesti aviluppati;e nota che 'l caval c'ha il bel cimierecoperto è colle barde d'arïento,che cento libre fu stimato e cento.
LX
Il suo caval si chiamava Scorzone,molto possente e tutto era morello;la suo coverta, dal capo al tallone,un giardin sembra nel tempo novello:quivi eran pomi di tante ragione,ch'a primavera non saria sì bello;era per modo di perle coperta,che bianca si può dir questa coverta.
LXI
Insino alla testiera del cavalloera tutta di perle ricamata.La sopravesta sua, tu puoi pensallo,di ricche gemme si vedea ornata:però chi non si sente di quel giallonon facci troppo lunga sua pensata.Sicché questo era molto hornato tuttoe di prodezza ancor n'apparve il frutto.
LXII
Era un altro caval, con un ragazzo,di chermisì broccato d'or, col pelocoperto tutto insino in sullo spazzo;e tutti i suoi scudier' che vanno a telocon cioppette di raso paonazzo. El gran tumulto e 'l suon rimbomba al cielodi trombe, tamburino e zufolettoe "Pescia" e "Salutati" e "Benedetto".
LXIII
Avea insino a qui la fama e 'l grido Benedetto quel dì d'ogni giostrante;ma certo il mio poeta, in ch'io mi fido,troppo mi piace in un suo decto, Dante:"Così ha tolto l'uno all'altro Guido";così fa d'ogni raggio il più micante,così tolse a costui quel Lauro il pregio,che hor da Febo e Marte ha privilegio.
LXIV
E' mi parea sentir sonar Miseno, quando in sul campo Lorenzo giugne a sopra un caval che tremar fa il terreno;e nel suo bel vexillo si vedea di sopra un sole e poi l'arcobaleno,dove a lettere d'oro si leggea:"Le tems revient", che si può interpetrarsi tornare il tempo e 'l secol rinnovarsi.
LXV
Il campo è paonazzo d'una banda,dall'altra è bianco, e presso a uno allorocolei che per exempro il ciel ci mandadelle bellezze dello etterno coro,ch'avea tessuta mezza una grillanda,vestita tutta âzurro e be' fior' d'oro;e era questo alloro parte verde,e parte, secco, già suo valor perde.
LXVI
Poi, dopo a questo, Giovanni Ubaldino e 'l buon Carlo da Forme erono armati,che dal signor Ruberto e quel d'Urbino,per ubidir Lorenzo, eron mandati;e porta i lor pennacchi un ragazzino,e di seta hanno i corsier' covertati,di bianco e paonazzo e rose e rami,de' qua' l'un par che 'l Prencipe si chiami.
LXVII
Il re Ferrando magno e serenissimo al suo Lorenzo donato l'avia, tanto che sempre gli sarà carissimo,e dimostrò quel dì gran gagliardia;leardo tutto pomato, era altissimo,e volentier gli era data la via,e tristo a quel che gli si para avante,però che gli urti suoi son di leonfante.
LXVIII
Dodici veramente hornati e degni giovani venien poi molto galanti, tanto che par che la ragion m'insegni ch'io debba questi nomar tutti quanti: de' Soderini il primo par che vegni Paolanton, poi Giovan Cavalcanti, Bernardo Rucellai poi dopo a questi,giovani singular', famosi, honesti;
LXIX
e de' Ridolfi poi Giovan Batista, poi Pier Cappon, s'intende quel di Gino;poi seguitava sì legiadra lista Allexandro gentil di Boccaccino,perché qui fama volentier s'acquista;poi Francesco Gerardi e Pier Corsino,Pier degli Alberti e 'l Marsupin seguiva,e poi Giulian Panciatichi veniva;
LXX
undici insino a qui contati habbiamo: l'ultimo apresso era Andrea Carnesecchi. Ognuno, un gonnellin con un ricamo,che tutto il popol par che vi si specchi, e parte rose fresche in su 'n un ramo, e parte son rimasi sol gli stecchi e son le foglie giù cascate al rezzo,tra 'l bianco e 'l paonazzo e 'l verde in mezzo.
LXXI
Era, quel verde, d'alloro un broncone che in tutte sue divise il dì si truova,e lettere di perle vi s'appone,che dicon pur che 'l tempo si rinuova;e poi d'intorno a questi è un frappone,che di vederlo a ogni cieco giova;e lucciole sì fise d'oro e belle,che pare il cielo impiro con suo stelle.
LXXII
Di seta cappelletti paonazzicon un cordon di perle, anzi gallozze,con certe penne d'oro e certi sprazzidi ricche gemme e altre cose sozze;e perché tu non creda io mi diguazzi,arnesi e falde e non calze da nozzee tutti e fornimenti de' cavallis'accordon col vestir, ch'un sol non falli.
LXXIII
Veniva un palafren poi dopo al fianco,e di broccato paonazzo questod'argento coperto era; e nondimanco non creder che questo anco sia per resto,ch'un altro covertato era di bianco,broccato come quello, e sarà il sestoper denotar tutti i concepti suoi;e pifferi e trombon' seguivan poi.
LXXIV
Poi, per cimier, la sua fatale iddeanel campo azzurro, pur d'oro vestita,la lancia in man di Marte e 'l premio avea,che la bella grillanda era fornita,che Cesare o poeta hornar solea,e fu quel dì d'ogni grazia exaldita. Dunque ogni cosa al gentil Lauro mostrafelice annunzio alla futura giostra.
LXXV
El caval covertato è insino in terradi drappo allexandrin d'oro diviso;apresso un tamburin fa "tutta terra",che si potea sentir di paradiso;poi seguitava un bel corsier da guerrach'avea le barde azurre e 'l fiordalisodel gran re Cristianissimo alto e degno,che gli donò questo honorato segno.
LXXVI
Dopo tanti splendor' veniva il sole,dopo la leggiadria la gentilezza,la rosa dopo il giglio e le vïuole:Lorenzo, armato con molta fierezza,sopra un caval che salta quanto e' vuole,e tanto l'aria quanto il terren prezza;e come e' giunse in sulla piazza quello,chi dice e' pare Anibàl, chi Marcello.
LXXVII
Questo caval Falsamico si chiama,dall'alta maestà del re mandato,che succedette al regno e alla famad'Alfonso, che ancor pianga il mondo ingrato,ché certo mai di lui fia sanza brama,ch'era per gloria e per trïomphi nato.Sicché ogni cosa s'acordava il giornoper honorar questo campione adorno.
LXXVIII
Era coperto di perle e di setaquesto caval, ver amico e possente;ma non è fantasia tanta discretache dir potessi quanto hornatamenteluceva, più che non fa la cometa,con fresche rose e palide e languente,questa ricca coverta, la quale erahornata, allegra più che primavera.
LXXIX
Aveva nello scudo a mezzo il pettoun balascio ch'al mondo è forse raro,chiamato libriccino o vuoi libretto,ch'al suo signor famoso fu sì caro,però che, benché e' ceda allo specchietto,non è piropo di nocte sì chiaro,e altri tanti balasci e rubini,che v'era i cherubini e' serafini.
LXXX
Io lascio insino a qui già mille cose,che pure a tutto il popol fûr palese:era atraverso il broncon fra le rosecon ricche perle el suo brieve franzese,e tante gioie degne e prezïose,che certo Febo il giorno vi s'accese;abbiti, Palla, sanza invidia omailo scudo, ch'ancor piange chi tu sai.
LXXXI
E perché e' paia ch'io non sogni e canti,non ho dimenticato una berrettach'avea tre penne piene di diamanti,che par che surghin fuor d'una brocchetta,tanti zaffìr' ch'io non saprei dir quanti,e rigata è dal mazzocchio alla vettadi perle, che minor vidi già pèsca,fra certi spicchi fatti alla turchesca.
LXXXII
Messer Francesco v'è da Sassatella;Iacopo Guicciardin dopo venia;Pier Francesco de' Medici v'è in sella;Filippo Tornabuon presso seguia.Mai non si vide compagnia sì bella,né tante gemme mai vide Soriaquant'ha costui, che lo facean sì adorno,che 'l sol parea coll'altre stelle intorno.
LXXXIII
Poi seguitava il suo fratel Giuliano,sopra un destrier tutto d'acciaio coperto,che mai più fe' né rifarà Milanosì ricche barde, e chi il vedea per certogiurato harebbe vedere Africanoquando più trïomphante ebbe più mertoche riportassi al Capitolio a Romad'Anibàl Baracchin la ricca soma.
LXXXIV
E poi, di dietro a questo, era un drappellodi burïassi: il fedele Ulivierie Strozzo degli Strozzi e 'l suo fratelloe Antonio Boscol sopra un bel corsieri,Bernardo Bon, Malatesta e 'l Ciampello,Giovenco suo che 'l servia volentieri;e di velluto paonazzo questihavevon gonnellin' pel mestier lesti.
LXXXV
Poi veniva la turba di canaria,ch'erono a piè co lui cento valletticon tante grida che intronavan l'aria,e di velluto avean cento giubbettiazurri, allucciolati ch'un non varia,cento celate e cento mazzocchiettiin testa con tre penne a una guisa,e cento paia di calze a sua divisa.
LXXXVI
E pifferi e trombetti e 'l tamburino,ch'eran quindici in numer: son vestitidi seta, chi giornea, chi gonnellino,colle divise sue tutti puliti;non vi rimase solo un ragazzinoche non sièno a proposito guerniti;e chi dinanzi e chi drieto alle spalle,giunti in sul campo, gridan: "Palle, palle!".
LXXXVII
Né prima furno allo steccato drento,che Guglielmo e Francesco erano a fronte;de' Pazzi è lo standardo dato al vento;el caval di Guglielmo è detto Almonte,quel di Francesco, Roman, s'io non mento,benché suo nome è più tosto Chiarmonte;è drento allo stendardo una donzellain veste paonazza, hornata e bella.
LXXXVIII
E sotto un pino, in atto molto humìle,have fatti cader giù pomi e rami;quivi era un catellin bianco e gentile,che par che d'ubidir costei sol brami,e di que' rami ha fatto un suo covile,e stassi, e forse aspetta ch'ella il chiami;e per cimier questa fanciulla ancoraportava, e così fa chi s'innamora.
LXXXIX
Una ricca coverta sanza falloazurra ha il suo caval che 'l cimier porta,broccato domaschin non bico, a giallo;e molti giovan' degni ha per sua scorta,con lance tutti in man, destri a cavallo,de' quali il nome dir qui non importa,e di broccato allexandrino adornoera ciascun, con ricche gioie intorno.
XC
Il suo caval, che Roman s'appellava,che per saltare in aria è sempre in zurro,di raso tutto allexandrino hornava,e di que' rami poi nel campo azurrocon tante perle e gemme ricamava,che più Fetonte non n'avea nel curroquel dì che, incauto, troppo in basso corree Giove il fulminò dall'alta torre.
XCI
Il cimier di Guglielmo era un paone,il quale il destro piè tenea sospesoe l'altro in mezzo a certa fiamma pone;e non è maraviglia a chi l'ha intesoche piaccia tanto a lui quanto a Giunone;e par che non si curi essere incesoun bel dalfin che s'apressava al foco,ma, come salamandra, il prenda in gioco.
XCII
Questo paon gli era molto nel coree sarà sempre, ch'un giorno, uccellando,vide che molto piacea al suo signore,ch'alla sua casa arrivò cavalcando:avea in pugno Guglielmo uno astore,e nel passare e costei salutando,lo domandò se piglierebbe quello,donde poi sempre amato ha questo uccello.
XCIII
L'amante nell'amato si trasforma:questa sentenzia è tante volte detta,perché convien ch'un gentil cor non dorma dove Cupido oro e fiamma saetta,e va cercando, investigando ogni orma,quel che l'amata donna più diletta,ch'amor non vèn dalle cose belle,ma per conformità che è dalle stelle.
XCIV
Le sue coverte fûr tutte broccated'azurro e chermisì, d'argento e d'oro,e tutte d'ermellin' son foderate, perché questo animal gentile e sorola sua natura è, benché voi il sappiate,prima morir, patir ogni martoro che macular la sua pura bellezza, che fa per honor chi vita isprezza.
XCV
E, soprattutto, un Marte era a vederlo,destro nell'armi, allato al suo Francesco,che, se l'un peregrin, par l'altro smerloche del cappello uscito sia di fresco.Ma la Fortuna che intendea d'averlohavea già teso e preparato il vesco,ch'a luogo e tempo mosterrà palesecome oppor si diletta all'alte imprese.
XCVI
Il popol per costor fu tutto lieto,e non sapea di lor future sorte.Venne in sul campo un coll'elmo segreto,che si facea appellar Boniforte:non so se sia più forte che l'aceto.Questo fu il sezzo e chiusonsi le porte,ch'eron diciotto e dodici stendardi.Oltre, vedrem se saranno gagliardi,
XCVII
ché mancheria d'Omer lo stile e l'arte,e mancheria degli altri antichi ingegni,e non ci basteria cento altre cartea contar le divise e' contrassegnie tante cose magne a parte a parte.Dunque convien ch'alla giostra si vegni,ch'io credo ognun che legge i colpi aspetti,come il dì si facìe su pe' palchetti.
XCVIII
Per gentilezza, come far si suole,ognun corre una lancia a suo piacere,e va pel campo a spasso quanto e' vuole,perché la dama lo possi vedere.Ma, poi ch'a mezogiorno era già il sole,parve a color che si stanno a sedereche si dovessin metter l'elmo in testa.Hor qui comincia una dolente festa!
XCIX
Hor oltre, su, giostranti, al badalone!Quel di Lorenzo guarda il gagliardetto,ed èvi Cin col suo Monte Fiascone.Eron tutte le dame al dirimpetto:però, prima ch'egli entrino in prigione,credo ch'ogni giostrante, poveretto,hare' voluto un bacio alla franciosa,che in ogni guancia lasciassi la rosa.
C
Lorenzo l'elmo, ridendo, si mise,ch'era della grillanda coronatode' fior', ch'un tratto anche una nimpha risequando a' suoi piè si gli fu inginocchiato;poi si cavò le sue prime divise,e volle a fiordalisi esser hornato,che gli mandò il gran re degli altri regidi Francia già con ricchi privilegi.
CI
Però di Falsamico suo discese,e, dismontato, montò in su Baiardo,che 'l gentil Borsi, famoso marchese,gli avea mandato, e molto era gagliardo;ma, come Busse ricordare intese,dopo alcun colpo, divenne codardo,e cominciò a fuggir coll'altre rozze[qual chi] fugge Buontempo dalle nozze.
CII
Havea tre volte Boniforte corsola lancia invan col gentil Pier Vespucci,e ogni volta il caval via trascorso,tanto ch'ognun di lor par che si crucci;pure, alla quarta, s'appiccava il morso,sicché e' convien che dell'uova si succi,ché l'uno e l'altro allo scudo fe' còlta,e passa col caval via a briglia sciolta.
CIII
Ben se' contento, o bellicoso Marte,e io t'aiuterò di quel ch'io posso,per quanto qui potrà mostrar nostra arte.Ecco che Dïonigi tuo s'è mosso,e Giovanni Ubaldin dall'altra parte;sicché ciascun ha lo scudo percosso,e rotto l'aste, e' corsier' via trascorsi,poi rivoltati per virtù de' morsi.
CIV
Intanto i fiordalisi sono in campo:e non è ver che 'l sol più acceso in leocome questi, quel giorno, renda lampo.Venne a Lorenzo incontra il Borromeo,e l'uno e l'altro caval mena vampo,perché qui aspira ogni fato, ogni iddeo.Le lance si spezzâr subitamente,e "Palle!" e "Borromei!" gridar si sente.
CV
Ma in questo tempo il fier napoletano,che si chiamava il buon Carlo da Forme,la lancia abassa ch'egli aveva in mano;ma Guglielmo de' Pazzi ancor non dorme:a lanci, a salti, atraversava il pianocome il leon che assaltar vuol le torme,tanto ch'ognun ch'era intorno a vederepensò che Giove e 'l ciel voglia cadere.
CVI
E ruppe la sua lancia a mezo il petto,che forse saria me' fussi ancor salda,però che la corazza non ha retto,che si schiantò come fusse di cialda,e mal potrà giostrar, quest'è l'effetto,benché la voglia pur sia prompta e calda.Dunque Thesifo e le sorelle a garaal primo colpo innanzi se gli para.
CVII
Havea già Benedetto Salutatila lancia bassa e spronava Scorzone;un de' baron' da Bernardin mandatidall'altra parte la sua in resta pone;i colpi furon gravi e smisurati,ma però non si mosson dell'arcione,anzi parean confitti e con gran chiodi,e "Pescia!" e "Bernardin!" si grida e "Todi!".
CVIII
Il caval Belledonne si chiamavach'aveva Braccio, e tutto era leardo;un tratto a' fianchi per modo il serravache salta più che quel suo leopardo,e per ventura Lorenzo scontrava,che 'l sopragiunse col suo buon Baiardo;e se gli avessi apiccato il roccetto,non arebbe a quel colpo Orlando retto.
CIX
Non hebbe però il dì maggior percossaLorenzo, benché sua vendetta fece:giunse allo scudo una aste dura e grossa,che s'apiccò come fussi di pece,e fu sì grande del colpo la scossa,che 'n cento pezzi la lancia disfece;e ogni cosa vedea sempre quellanimpha legiadra, anzi fatal sua stella.
CX
Havea più volte già corso Francesco,e riscontrossi in Pier Anton de' Pitti,e colle lance si scossono il pesco,tanto ch'a pena si salvoron ritti,ché l'uno e l'altro cavallo era frescoe' lor cor' generosi e magni e invitti;e, oltr'a questo, ciò che vuole Amoreè molto facil cosa all'amadore.
CXI
Né anco il Bracciolin si stava il giorno,e, rivoltato un tratto il suo Santiglia,la lancia chiese a chi gli era d'intorno.Allor Pier Pitti girava la briglia,e l'uno e l'altro i roccetti apiccorno:dèttonsi colpi che fu maraviglia,sicché le lance se ne feron rocchi,tanto che gambi parvon di finocchi.
CXII
L'altro di que' di Bernardin da Todisi riscontrava in sul campo col Riccio:le lance resson, gli scudi eron sodi,tanto ch'ognuno scardassa il ciliccio,né so ben qual più di costor mi lodi;i destrier' di cadere hebbon capriccio,e mancò poco, pur quel poco basta,e in mille pezzi si troncava ogni asta.
CXIII
Dove lasc'io il mio gentil Salvestro,che cogli spron' tempestava Tempesta,il suo caval molto feroce e destro,e vanne all'Ubaldin testa per testa?Dèttegli un colpo che fu di maestro,perché e' gli pose ove e' propose a sesta,benché quello anco sua virtù non cela,sicché di nuovo si grida: "Ci vela!".
CXIV
Tra queste grida Lorenzo rispronae riscontrava da Forme il suo Carlo,e una grossa lancia e verde e buonagli ruppe all'elmo e faceva piegarlo,che la percossa per molto lo 'ntruona,che si credette di sella spiccarlo,e passan d'ogni parte con gran frettai veloci destrier' come saetta.
CXV
Né creder tu che Benedetto intantoe Francesco de' Pazzi stia a vedere;né anco Braccio ne ridea da canto;facea Pier Pitti quel che fu dovere;e chi parea già disarmato e infranto,e chi per terra si vedea cadere;e l'aria e 'l cielo e la terra rimbomba,non si sentia più tamburin né tromba.
CXVI
El mio Salvestro mille volte buono,el Riccio e gli altri, ognun pare uno Hettorre;così s'han trangugiato il primo suono,e molte volte due contra a un corre.E burïassi rincarati sono,ma molto più chi sapea ben ricòrre,ché molta gente in questo giorno toma,e bisognava, a rizar, la ciloma.
CXVII
E dirò pur che troppo gentilmenteAndrea del Fede servì Benedetto;e Ulivier Sapìti veramentesegni mostrò di giusto amor perfetto,perché e' servia molto discretamenteLorenzo, sanza aver di sé rispetto,e stette sempre agli urti, a' calci, a' cozzi;e così fece inver Giovanni Strozzi.
CXVIII
Ripreso avea Pier Vespucci la lancia;intanto Carlo da Forme farfalla;corsegli adosso per dargli la mancia,e così fe', ché 'l suo pensier non falla,che si pensò di strisciargli la guancia:il colpo scese e pigliava la spalla,e come vetro trattò lo spallaccio,e mancò poco a portarne via il braccio.
CXIX
Non si potea valer più il giovinetto,ch'a tutto il popol ne 'ncrescea di quello.Il Riccio intanto si mette in assetto,ma 'l Bracciolin, ch'ebbe l'occhio al pennello,del suo Santiglia faceva un cervietto:non si cognosce più bestia ch'uccello,e dètte, ch'era già vespro, l'asciolverea·rriccio tal, che gli scosse la polvere.
CXX
Allor si mosse Pierantonio ad volo;dall'altra parte venne Dïonigi,e fu falcon, se quello era terzuolo,anzi parea de' baron' di Parigi,talché tremava della terra il suolo;dèttonsi colpi più scuri che bigi,anzi più scuri che cupo di perso,perché e' si poson le lance a traverso.
CXXI
Ma Carlo Borromei già non soggiorna,come colui che disïava honore,e col suo Bufolacchio innanzi torna.Videl Guglielmo, e con molto furore,benché Fortuna a suo modo lo scorna,parve ch'uscissi alla starna l'astore,e fece quel che potea finalmente,ma la sua lancia più che l'altra sente.
CXXII
Era già tutto fracassato e stancoper le percosse e l'arme che l'accora,e la corazza ha confitta nel fianco,e non s'arrende alla Fortuna ancora,ma come generoso core e francovolea provarsi insino all'ultima hora,per racquistar, se potessi, sua fama,e morte sol per salute richiama.
CXXIII
E oltr' a questo, il suo caval fellonegià cominciava a far la chirintana,ch'ebbe al principio ogni reputazione,oggi in sul campo diventò di zana;e tanto fe' che ne portò il mellone,perché e' parea di Burrato l'alfana,e sbuffa e morde e traheva alla staffa,e hor faceva il drago, hor la giraffa.
CXXIV
E non manco di questo disperatoera il dì Braccio, e pien di sdegno tutto:e' si dolea che già dua volte urtatol'avea Carlo da Forme come un putto;e non credea che fussi a caso istato,anzi diceva un atto vile e brutto,tanto che corse nel fianco a ferillo,dove e' pensò delle gotte guarillo.
CXXV
Egli era al suo cavallo uscito un zoccolo;però volava l'ira, s'e' gualoppa:are' voluto in mano acceso un moccoloe ogni cosa fussi istato istoppa,ché non ve ne sare' campato un bioccolo,perch'ogni sua speranza vedea zoppa,tanto che 'l buon napoletan ne pianse,ché la corazza gli sfondava e infranse.
CXXVI
E bisognò che del campo partisse,perché la lancia di rosso si tinse.Iacopo in resta la sua intanto misse,fecesi innanzi e 'l suo cavallo istrinse;ma, come e' par che le grida s'udisse,Guglielmo tanto il furore il sospinse,che, come e' vide dipartito quello,non bisognò toccar molto el zimbello.
CXXVII
E' si misse per ira il capo in grembo,e si scontorse e si faceva u·nicchio,e, se non fusse che pigliava a schembo,e' ne portava del capo uno spicchio,o forse non saria bastato un lembo.L'elmo sì forte risonò pel picchio,che gl'intronò le cervella e l'orecchio:dunque fu colpo di maestro vecchio.
CXXVIIII
Berardin' chi qua chi là correa,e Bernardino a un facea la scorta,perché il caval la befanìa parea.Lorenzo, sempre sua lancia ben porta,e Benedetto il dì gran fama havea,che si condusse al soglio della porta;e Dïonigi e l'Ubaldino e Carlo,ognun poteasi un paladin chiamarlo.
CXXIX
Non si sare' sentito in questa zuffaapena le bombarde da Tredozio.Come un leone irato ognuno sbuffa;ch'al perso tempo il suo contrario è l'ozio,tanto ch'a molti cascherà la muffa,e saracci bisogno d'ossocrozio;e le terribil' tube risonavanoe 'nsino al ciel lo strepito mandavano.
CXXX
Questo secondo suon fu pien d'omèi:già Pieranton duo volte in terra è ito;era caduto Carlo Borromeie sopra un altro caval risalito;e chi Fortuna incolpa e gli altri iddei,e chi per morto è fuor del campo uscito.Eran per terra miseri e meschiniCarlo da Forme e Giovanni Ubaldini.
CXXXI
Dunque la giostra pareva confusa,ché dove è moltitudin sempre aviène:così tutte le cose al mondo s'usa,e sempre chi fa tosto non fa bene;e forse ancor la festa fa qui scusa,né so s'ognuno aperto o a sportel tiene;ma dirò quel che si potre' pur dire,che molto santa cosa è l'ubidire.
CXXXII
Il bando andò che si chiudessi il giorno,ma e' s'intendea per le botteghe certo:credo che molti giostranti osservorno,e per paura non tennono aperto,che tanti l'un sopra l'altro cascorno,che spesso il campo ne parea coperto,tanto che Marte depone giù l'irae per piatà sovente ne sospira.
CXXXIII
Era Lorenzo dismontato in terrae sopra Falsamico rimontava,ché 'l suo Baiardo non volea più guerra,e molta fama sopr'esso acquistava,e ogni volta ch'a' fianchi lo serraognuno a furia il campo scomberava,ché non valea qui disciprina o morso,ma insino allo steccato sempre ha corso.
CXXXIV
Hor, chi avessi Guglielmo veduto,e' si dolea sopr'al suo fiero Almonte,e certo, se non fusse l'elmo suto,s'are' col guanto spezata la fronte,tanto ch'a tutto il popol n'è incresciuto:troppo Fortuna vendicò su' onte,e pose nella vista sempre all'elmoil giorno a torto al famoso Guglielmo:
CXXXV
ch'are' voluto più tosto esser morto,come già Cesar ne' campi di Gneo,che superato, vegendo a che portol'avea condotto il suo fato aspro e reo;benché il futuro gli mostrassi scortoper molti segni ogni augurio, ogni iddeo,e' maladiva ciò che fa Natura:così il portava il dì la sua isciagura.
CXXXVI
E disperato scorreva la piazza,come fa l'orso talvolta accanito,che ciò che truova abbatte, atterra e spazza,o come spesso il girfalco ho sentito,che quanti uccelli scontra, tanti amazza;e questo e quello e quell'altro ha ferito,e fece a molti oltre a sua voglia ingiuria,come voleva e la rabbia e la furia.
CXXXVII
E anco il suo Francesco si dolea,ché la Fortuna gli fa mille torti,e la cagione occulta non sapea;ma s' tu sapessi l'arbor che tu porticome egli è consecrato e a quale iddea,non l'aresti fuor tratto de' sua orti:tu violasti a Ciballe il suo legno,tal ch'ogni iddeo n'ha conceputo isdegno.
CXXXVIII
Riprese Benedetto Salutatola lancia, intanto il suo caval rivolta,ma, come questo Lorenzo ha mirato,ne vien con Falsamico a briglia isciolta,che Belzebù vi par drento incantato,e cogli ispron' martellava a raccolta:tremò la terra, quando e' si fu mosso,con tanta furia gli correva adosso.
CXXXIX
Vedes'tu mai falcon calare a piombo,e poi spianarsi, e batter forte l'ale,c'ha tratto fuor della schiera il colombo?Così Lorenzo Benedetto assale,tanto che l'aria fa fischiar pe rombo;non va sì presto folgor, nonché strale:dèttonsi colpi che parén d'Achille,e balza un Mongibel fuor di faville.
CXL
Ma de' destrier', con qual furor non dico,inverso Santa Croce va Scorzone,così dall'altra parte Falsamico,ch'al suo signor dà gran riputazionee anche al sangue di Chiarmonte antico;e mentre che venìa con quel ronzione,gittò Giovenco scosto dieci braccia:come un ser margotto in terra il caccia.
CXLI
Io vidi questo dì tre buon' cavagli,Falsamico, Scorzone e l'Abruzese,e non ispero ma' più ritrovalli,cercando il mondo per ogni paesee perché questa regola non fallie Dïonigi una gran lancia presee misse al suo caval nuove alie e penne,con tanta furia al Borromeo ne venne.
CXLII
Non fu mai in selva leopardo al varcoâsaltar cervio così presto o damma,né così tosto saetta esce d'arco;e quanto più correa, sempre rinfiammasanza temer del suo signor lo 'ncarcoo di sua forza mai minuir dramma;e puose Dïonigi ov'egli aposta,e così Carlo gli fe' la risposta.
CXLIII
Le lance in pezi n'andorono a 'n bronchi;ma non pensar che Braccio anco si stiae 'l Bracciolino e gli altri pain monchi,che tante lance quel dì si rompia,che spesso a Marte volavano i tronchi,tanto ch'un tratto Francesco corria,e perché e' corre e Lorenzo era surto,gittò el caval sozopra in terra d'urto.
CXLIV
Né prima in terra il giovinetto fue,che tutto il campo correa âiutarlo;ma quel caval per la sua gran virtùevolea far quel che non poté alfin farlo,e hor si riza e hor cadeva giùe,sicché fa sospirar chi può mirarlo,e credo ancor che sospirassi quellac'ha fatta il ciel sopra ogni donna bella.
CXLV
Era a vedere il suo famoso padre,e comandò che l'elmo gli sia tratto;così pregava la piatosa madre,e volentier sarebbe suto fatto,ma e' rispondea con parole legiadre:"Questo non era la promessa e 'l patto"al suo signore, e poi sogiugne e diceche in ogni modo il dì moria filice.
CXLVI
Hor ritorniamo al badalone, a Cino,che, vegendo Lorenzo non si riza,si pose a bocca un gran fiasco di vinoe bevel tutto quanto per la istiza;ma po' che vide che 'l suo paladinoera già ritto e come un barbio guiza,ricominciò a sonar per festa il cornopur da Gambassi, molto chiaro, il giorno.
CXLVII
A ogni giuoco Cino volea bere.Lorenzo intanto è montato in su Branca,e sopra questo famoso corsiereil perso tempo alla fine rinfranca,però ch'egli era e possente e leggiere,leardo tutto che nulla gli manca:non rifarebbe Natura sì bello,non ch'arte o 'ngegno o scultura o pennello.
CXLVIII
Questo cavallo a costui fu mandatodal buon signor di Pesero Sforzesco,che lungo tempo l'avea molto amato,e in tutte le sue pruove era pugliesco:nelle battaglie avea sempre honoratoil suo signore e parea ancor fresco,ch'avea ben consumati dodici annie stato i mille guerre e i mille afanni.
CXLIX
Era la giostra all'ultimo ristretta:qui si cognobbe, nella istremitade,più di Lorenzo la virtù perfetta.I' chiamo in testimonio una cittade:non parve a matutin la lucernetta,che si rinnalza ispesso e spesso cade,ma stette come lauro sempre verde,ché generoso cor mai valor perde.
CL
E insino al fin, come verile amante,tenne la lancia e 'l forte iscudo al petto;tenne la fede del suo amor costante:alle percosse, a ogni cosa ha retto,con animo che certo al suo adamantesi potria comparar del giovinetto,ch'era al principio del ventesimo anno,quando e' fu pazïente a tanto afanno.
CLI
Ma che dich'io? Chi ti fe', Tisbe, arditauscir la notte fuor di Bambillona,e disprezar già, Leandro la vita?e Pulifemo la zampogna suonae' monti sveglie; e chi infiammò te, Arcita?Colui ch'a nullo amato amar perdonae tante cose far fe' al grande Achille,così a te, Lauro: io ne dire' qui mille.
CLII
E Dïonigi il dì fermo al berzaglioanco Amor tiene e Carlo e 'l Salutato(el campo si vedea tutto in travaglio)e Bernardin più volte avea lasciatoe preso qualche tratto nel guinzaglio,con quel caval che parea spiritato,e lo menava a man, perch'era saggio,benché ogni volta no lasciò al vantaggio.
CLIII
Intanto il sol bagnava i sua crin' d'auronell'Oceàno e scaldava le spalledel freddo corpo dell'antico Mauro,sicché e' faceva le salse onde gialle,forse a pietà commosso del suo Lauro,ch'ancor faceva gridar "Palle! Palle!"e forse a nuova gente rende il giornoch'aspettan come noi là il suo ritorno.
CLIV
Per color ch'a giudicare avènola terza volta vollon si sonasse,talché Pluton si pensò che 'l terreno,credo, ch'a questa volta rovinasse,e Marte fu d'ogni dolcezza pieno,Vener non credo già mai si mostrassequanto quel giorno bella e lieta in faccia,quando il suo Adon la fe' già 'ndare in caccia.
CLV
Trassonsi l'elmo i giostranti di testae, posto fine a sì longo martoro,fu dato al giovinetto con gran festail primo honor di Marte coll'alloro,e l'altro a Carlo Borromei si resta.Adunque retto giudicâr costoro:laüro al Lauro, la Fama alla fama,e da' balcon' giù discese ogni dama.
CLVI
Hora ha' tu la grillanda meritata,Läuro mio, de' fioretti novelli,hora ha luogo la fede accetta e datain casa già del tuo Braccio Martelli,hora tanta Cirra per te fia chiamatache versi mai non si udîrno sì belli:e pregherremo il ciel sopra ogni cosache la tua bella iddea ti sia piatosa.
CLVII
E qualche stral sarà nella faretra,che scalderà nel cuor questa fenice;segneren l'età tua con bianca petra,che lungo tempo possa esser felice;noi soneren sì dolce nostra cetra,che fia ritolto a Pluto uridice;noi ti faren qui divo, e sacro in cielo,e 'l simulacro ancor, come già a Belo.
CLVIII
Habbiti, Emilio, e tu Marcello e Scipio,e tuo trïonfi sanza invidia in Roma,o quel che librò il popolo mancipioe tolse al Campito' sì grieve soma,perché tu fusti, o mio Läur, principiodi riportar te stesso in sulla chioma,di riportar honor, vittoria e 'nsegnaalla casa de' Medici alta e degna.
CLIX
I cittadin' vi vennon tutti quantiil dì seguente teco a rallegrarsi;vennonvi tutti i più legiadri amanti,vennon tutte le ninfe a sollazarsicon suon', con festa e con sì dolci canti.Or sia qui fin, poiché convien posarsi,perché il compar, mentre ch'io iscrivo, aspettae ha già in punto la sua vïoletta.
CLX
Hor fa', compar, che tu la scarabilli,e se tu fussi domandato atornoper che cagione hor tal foco sfavilli,ch'è stato un tempo da farne un susorno,digli che son per Giulian certi isquilliche destan, come carnasciale il corno,il suo cor magno all'aspettata giostra,ultima gloria di Fiorenza nostra.
DIARIO FIORENTINO di Luca Landucci
Terza parte
E a dì 15 d'aprile 1470, venne presi da Prato 15 uomini che volevano dare Prato, e furono inpiccati.
E a dì 26 di maggio 1471, conperai de' primi zuccheri della Madera che ci venissino mai; la quale isola fu dimesticata pochi anni innanzi dal Re di Portogallo, e cominciato a farvi e zuccheri; e io ebbi de' primi che ci venissino.
E a dì 27 di maggio 1471, si tirò su la palla di rame dorata in su la lanterna della cupola di Santa Maria del Fiore, in lunedì.
E a dì 30 detto, posorono la croce in su detta palla, e andorovi su e calonaci e molta gente, e cantoronvi el Taddeo.
E a dì 28 di luglio 1471, ci fu nuove come papa Pagolo era morto, e morì a' dì 26 detto 1471, in venerdì notte poco innanzi dì.
E a dì 9 d'agosto 1471, fu creato papa Sisto quarto. Fu da Savona: era frate di San Francesco e Generale dell'Ordine; poi fu fatto Cardinale da papa Paolo e al presente fatto Papa. Fu creato in venerdì, la vigilia di San Lorenzo, e nel dì di San Sisto fu coronato.
E a dì 23 di settenbre 1471, si partì di Firenze sei inbasciadori al detto Papa, che fu Lorenzo de' Medici e messer Domenico Martegli, messer Agnolo della Stufa, messer Bongianni Gianfigliazzi e Piero Minerbetti e Donato Acciaiuoli, a visitare el detto Papa; e el detto Papa fece cavaliere Piero Minerbetti e tornò cavaliere.
E a dì 22 d'ottobre 1471, si vinse in Palagio che non si mercatassi più a fiorini di suggiello, facessisi a fiorini larghi di grossi, a lire 5, soldi 11 per fiorino di grossi a venti quattrini el grosso; e che fussino fermi a 20 per cento meglio, e più si vinse che si vendessino e beni della Parte.
E a dì 27 d'aprile 1472, ci fu come Volterra s'era ribellata di fatto, si mandò fanti.
E a dì 6 di maggio 1472, ci venne el Vescovo di
Volterra inbasciadore e non fece nulla. E a dì 7, si caricò le bonbarde per là. E a dì 10 detto, vi giunse el Conte d'Urbino colla giente d'arme; e insino a dì 19 detto, presono tutte le loro castella; e a dì 24 detto presono di molti prigioni di que' drento e tolsono loro la bastia. E a dì primo di giugno, ci venne inbasciadori a chiedere acordo, e quasi erano d'acordo; e giunti là fu guasto ogni cosa. E insino a ora avevano rotte due bonbarde. E a dì 8 di giugno, mozzorno la testa a uno de' Bartolini; e a dì 9 detto, ruppono un altra bonbarda.
E a dì 18 di giugno 1472, ci venne el cavallaro coll'ulivo, che s'era avuta a patti, salvo l'avere e le persone. Fecesi festa assai; e come furono drento, comincia un loro conestabole, ch'era viniziano, a gridare sacco, e' nostri entrorono drento e mandorola a sacco; e non si potè riparare nè osservare loro e patti. El Conte fece inpiccare quello viniziano e un sanese. Nondimeno e poveretti andorono male. El Conte venne in Firenze a dì 27 di giugno 1472; fugli donato la casa del Patriarca, una bandiera, due bacini, due mescirobe d'ariento, di lire 180 e uno elmetto. Andossene a dì primo di luglio 1472.
E a dì 2 di giugno 1473, si tirò in sul canpanile di Santa Maria del Fiore una canpana, la più grossa che vi sia, fatta di nuovo.
E a dì 5 di luglio 1473, andò a morire un Lazzerino del Mangano e fugli mozzo la testa; el quale fece questa cattività: tolse una fancelletta di circa 12 anni e viololla in tal modo ch'ella morì; e poi la sotterrò fuor della Porta alla Giustizia. E di poi fu trovata perch' e cani la scopersono. Mandando più bandi, non si poteva
trovare; esendo preso, per altro, confessò tale eccesso; che ci andò anni di tenpo.
E a dì 18 di luglio 1473, ci fu come a Roma era morto u' nostro Arcivescovo ch'era de' Neroni di Firenze, e fu dato al Cardinale di San Sisti, ch'era chiamato frate Piero.
E a dì 11 di dicenbre 1473, fu in Camaldoli, in casa una poveretta, ch'aveva parecchi fanciulle da marito, e raccomandandosi a' loro Crocifisso in casa vidono sudarlo, e, dicendolo in vicinanza, vi cominciò andare giente, e sentendolo e frati del Carmino v'andorono e tolsolo con divozione, e posolo in uno tabernacolo in quella Cappella della Croce, e fu in divozione.
E a dì 25 di settenbre 1474, ci fu una lettera di mano di Matteo Palmieri, ch'era capitano di Volterra, la quale vidi io e lessila; la quale conteneva questa maraviglia, che in questi dì era nato là, in quello di Volterra, un fanciullo, cioè un mostruo, ch'aveva el capo di bue, e aveva tre denti, con un vello di peli nella testa, a uso d'un corno; e in sul capo aveva aperto come una melagrana che pareva che n'uscissi razzi di fuoco. Di poi le braccia aveva pilose tutte, co' piedi di lione e cogli unghioni di lione. El corpo colla natura sua aveva di femina umana; e 'l resto delle ganbe e insino a' piedi, aveva di bue come 'l capo. E visse circa di 3 ore. La madre morì el quarto dì. Le donne che lo levorono e che v'erano intorno tramortirono di paura. E questo fu
manifesto al detto Matteo, perchè gli fu presentato innanzi come cosa spaventevole. El detto Matteo capitano di Volterra scrisse qui a Firenze di sua mano; e io copiai la detta lettera, le parole formali, non levai ne' posi nulla alla lettera di Matteo. E perchè el detto Matteo era conpare di mio padre e battezzomi lui, e benchè fussi diritta a altri cittadini, mi vene nelle mani la propia lettera.
E a dì primo d'aprile 1475, fu preso un garzonetto d'anni 23 in circa, contadino di quassù di verso le Sieci, el quale, la notte della Pasqua di Resurresso, si rinchiuse in Santa Maria del Fiore, e albergò sotto l'altare di Nostra Donna di verso la calonica; la mattina la rubò, tolse certi arienti, di braccia, ganbe e occhi, e in maggiore dispregio vi fece suo agio. E nota se questo pazzerello sarebbe stato de' fini, che 'l giovedì santo fu lasciato dal Capitano per ladro. El sabato poi fu inpiccato quivi dal canpanile. Onne fatto ricordo più per questo che degli altri, perchè essere cavato di prigione el giovedì, e la domenica fare un tale eccesso.
E a dì 7 di maggio 1475, io Luca Landucci andai a Roma per giubileo, e menai meco una mia suocera; e penamo, tr' andare e tornare, 15 dì.
E a dì 29 di dicenbre 1476, ci fu come el Duca di Milano fu tagliato a pezzi e morto da un suo cittadino chiamato Giovanni Andrea el quale si mosse per certe ingiustizie gli vedeva fare. Si misse alla morte per popolo, per zelo del bene comune. Furono parecchi congiurati; e 'l primo che gli dette fu questo Giovanni Andrea, el quale finse porgiergli una lettera con una mano e co l'altra gli dette con uno coltello. Feeiono come
Scevola romano, ch'ànno messo la vita per la vita. Molto tardi si truova simili uomini. E questo credo che conduchino e peccati per permissione divina. E questo fu el dì di Santo Stefano, in chiesa, quando udiva messa. E volendo fuggire fuora, non poterono, per popolo grande, e massime le donne che inpaniorono co' panni in modo ch'e Baroni del Duca, e massime un certo Ghezzo che gli stava a lato, dettono e ammazzorono el detto Giovanni Andrea. E 3 altri furono presi e inpiccati. Alcuni dissono qui, che gli avevano fatto isquartare a 4 cavagli que' tre che presono.
E a dì 15 di giennaio 1476, ci fu come el Duca di Borgogna fu morto da' Svizzoli, nella guerra faceva a detti Svizzoli; e sconfitta tutta la sua giente in tal modo che non si seppe mai dove si fussi detto corpo del Duca, e non fu mai ritrovato; in modo che gli era in oppinione che non fussi morto, ma fussi trafugato e che gli avessi un dì a uscire fuora. Questo duca di Borgogna fu tenuto un crudele uomo, per modo che gli era in pubrica boce e fama, che gli era lui in ponente e 'l Gran Turco in levante, che si dilettavano del sangue dell'uomo, che feciono [con] infinite crudeltà straziare gli uomini. El Signore alle volte gli leva di terra. La morte di questo Duca fu maravigliosa, perchè era con tanta giente che non poteva perdere, che loro erano a petto a lui niente. Ma perchè non voleva da'loro patto veruno, e come disperati, si comunicorono e uscirono fuori con una bandiera dipintovi drento una Nunziata, raccomandandosi alla Nunziata di Firenze; e andorono poca giente contro alla gran giente, e vinsono, come piaque al Signore, per miracolo della Nunziata di Firenze. E nota che gli arecorono quella propia bandiera, con che vinsono, alla Nunziata qui di Firenze; la quale vidi io
a'Servi, e tutto 'l popolo, e ancora v'e a' Servi, e molti altri doni.
E a dì 7 di giugno 1477, rincarorono la gabella del vino, dove pagava soldi 14 la missono a soldi 20, e promissono che non s'intenda per più che 5 anni.
E in questo tenpo fu finito la cupola de'Servi.
E a dì 15 d'agosto 1477, serròno 4 porti di Firenze, la prima Sa' Miniato, la seconda la Giustizia, la terza Pinti, la quarta la Porticciuola delle mulina.
E a dì 15 di giennaio, fece Papa Sisto parecchi Cardinali; ne fece uno a lo 'nperadore. E fece che si guardassi la festa di San Francesco come le feste comandate.
E a dì 25 di marzo 1478, avemo dal Santo Padre una indulgienzia plenaria in Santa Maria del Fiore per un dì, dal primo vespro de' 24 di marzo insino a l'altro vespro de' dì 25 di marzo 1479 (sic), el quale si prese con grande devozione. E fu la causa frate Antonio da Vergiegli che predicava questa quaresima in Santa Maria del Fiore, e fece frutto assai.
E a dì 25 di marzo 1478, si diliberò una leggie in Palagio che niuno ammazzassi l'uomo non potessi tornare mai a Firenze.
E a dì 26 d'aprile 1478, circa ore 15, in Santa Maria del Fiore, quando fu celebrato la messa grande, e levato el Signore, fu morto Giuliano di Piero di Cosimo de' Medici e Francesco Nori, intorno al coro di detta chiesa di verso la porta che va a' Servi; e Lorenzo de' Medici fu ferito nel collo e fuggissi in sacrestia e non ebbe male. Furono morti da una certa congiura fatta da messer Iacopo de' Pazzi e Francieschino de' Pazzi e Guglielmo de' Pazzi, el quale Guglielmo era cognato di Lorenzo de' Medici, cioè aveva per donna una loro sorella, ch'aveva nome la Bianca. E fucci e figliuoli di messer Piero de' Pazzi. cioè Andrea e Renato e Niccolò, e la Casa de' Salviati, che fu messer Francesco vescovo
di Pisa e Iacopo Salviati ch'era gienero di Filippo Tornabuoni, e un altro Iacopo pure de' Salviati, e Iacopo di messer Poggio [Bracciolini e Bernardo] Bandini della casa de' Baroncegli, e Amerigo Corsi e molti altri. La quale congiura condussono qui el Cardinale di San Giorgio, el quale era giovanetto; el quale entrò in Firenze el sopradetto dì e venne insieme in detta Santa Maria del Fiore, e, come ò detto, levato el Signore, missono mano alle spade, e dettono a Giuliano, che fu Francesco de' Pazzi, l'altro quello de' Bandini, si disse. E morto Giuliano, vollono fare el simile a Lorenzo, e non riuscì loro, si fuggì in sacrestia. In questo tenpo, el vescovo de' Salviati, con Iacopo di messer Poggio, e due sua parenti ch' avevano nome Iacopo tutti a due, andorono in Palagio, con alquanti preti, fingiendo volere parlare alla Signoria, e parlo col Gonfaloniere, e nel parlare alquanto isbigottì. El Gonfaloniere s'avide di tradimento, e chi si serrò di qua e chi di là, e serrorono gli usci, e feciono sonare a parlamento. E tra 'l romore che venne di Santa Maria del Fiore della morte di Giuliano, e del sonare di Palagio, imediate fu la città in arme. E fu menato Lorenzo de' Medici a casa sua. E in questo tenpo, messer Iacopo de' Pazzi corse a cavallo in verso la Piazza de' Signori, gridando Popolo e libertà, per pigliare el Palagio; e, non sendo riuscito al Vescovo di pigliare el Palagio, non ebbe l'entrata. Andossene verso casa sua, e fu consigliato se n'andassi con Dio, e fuggissi per la Porta alla +, insieme con molti fanti e con Andrea de' Pazzi. In questo tenpo fu
tutta la città in arme, in piazza e a casa Lorenzo de' Medici. E fu morto in piazza una brigata d'uomini di quegli della parte della congiura, e gittati dalle finestre de' Signori in piazza, vivi: infra gli altri, un prete del Vescovo fu morto in piazza, e isquartato e levatogli la testa, e per tutto 'l dì fu portata la detta testa in su 'n una lancia per tutto Firenze, e straccinato le ganbe e un quarto dinanzi, con un braccio, portato in su 'n uno spiedo per tutta la città gridando senpre: Muoino e traditori. In questa medesima sera, el Cardinale fu menato in Palagio, ch' appena gli fu salvata la vita nell'andare, e tutta sua brigata presi, che non ne scanpò niuno. El Vescovo rimase preso in Palagio con tutto 'l resto. E per questa sera inpiccorono Iacopo di messer Poggio alle finestre del Palagio de' Signori, e così el Vescovo di Pisa e Franceschino de' Pazzi ingnudo, e circa di 20 uomini, tra 'l Palagio de' Signori e del Podestà e del Capitano, tutti alle finestre. Poi l'altro dì 27, inpiccorono Iacopo Salviati gienero di Filippo Tornabuoni, e l'altro Iacopo Salviati, pure alle finestre, e molti altri della famiglia del Cardinale e del Vescovo. E l'altro dì 28 d'aprile 1478, venne preso messer Iacopo de' Pazzi, che fu preso nella Falterona, con nove sua fanti, da que' di Castagno, e da altri; e fu ancora preso a Belforte Renato de' Pazzi. E in questa medesima sera de 28 dì d'aprile, circa a ore 23, fu inpiccato alle finestre del Palagio de' Signori, sopra la ringhiera, messer Iacopo de' Pazzi e Renato de' Pazzi e molti altri loro fanti, in tanta copia, che per questi 3 dì furono più di 70 uomini. El Cardinale rimase preso in Palagio, e no' gli fu fatto villania, se non che gli feciono scrivere di sua mano, al Santo Padre, di tutte le dette novità. E in questo dì e prigioni delle Stinche attesono a ronpere le Stinche, e
andoronsene tutti, ecetto ch'uno isventurato, che fu preso e inpiccato cogli altri.
E a dì 29 detto, si posò un poco e quietò, sanza più sangue; ma pure gli uomini erano ismarriti di timore.
E a dì 30 detto, fu l'Ascensione, e fecesi l'ossequio di Giuliano fratello di Lorenzo de' Medici, in Sa' Lorenzo.
E a dì primo di maggio 1478, entrò la Signoria nuova.
E in questa sera venne preso Andrea de' Pazzi e 'l Brigliaino.
E in questa sera, tornando da Pisa, messer Piero Vespucci fu preso e menato in Palagio, perchè dissono ch'egli aveva fatto fuggire uno ch'era colpevole al trattato.
E a dì 3 di maggio 1478, circa a ore 18, fu preso nella Badia di Firenze un prete, ch'era cancelliere di messer Iacopo de' Pazzi, e un altro con lui, da Volterra, ch'erano stati nascosti insino a questo dì, dal caso in qua.
E in questa sera, fu inpiccato el Brigliaino e uno cancelliere del Cardinale, pure alle finestre; e, quando tagliavano e capresti, gli facevano cadere giù in sulla ringhiera. S'azzuffavano e fanti per rubare le calze e' farsetti.
E a dì 4 di maggio detto, fu inpiccato el sopradetto prete e 'l Volterrano, che furono presi in Badia, al Palagio del Podestà; e più fu tagliato la testa a
Giovanbatista conte da Montesecco, in sulla porta del Podestà, pe' medesimo caso.
E a dì 5 di maggio 1478, si vendette a lo 'ncanto, e cavagli e' muli di questi messer Iacopo e degli altri.
E a dì 9 di maggio detto, ci venne l'anbasceria del Papa, e finalmente, dopo pochi dì, rimandorono la detta anbasceria, e non renderono el Cardinale che volevano rimenare. E in questi dì, feceno molti provigionati in piazza e un Bargiello ch'andava per la cittè dì e notte, e le guardie de' cittadini tutta la notte. Non era chi andassi fuora da l'un' ora in là, nè piccolo nè grande; non si sentiva un motto per la città, la notte, e non si portava arme.
E a dì 15 di maggio 1478, fu disotterrato messer Iacopo de' Pazzi, di Santa +, e sotterrato lungo le mura di Firenze, tra la Porta alla Croce alla Porta alla Giustizia, drento.
E a dì 17 di maggio 1478, circa a ore venti, e fanciugli lo disotterròno un'altra volta, e con un pezzo di capresto, ch'ancora aveva al collo, lo straccinorono per tutto Firenze; e, quando furono a l'uscio della casa sua, missono el capresto nella canpanella dell'uscio, lo tirorono su dicendo: picchia l'uscio, e così per tutta la città feciono molte diligioni; e di poi stracchi, non sapevano più che se ne fare, andorono in sul Ponte a Rubaconte e gittorolo in Arno. E levorono una canzona che diceva certi stranbotti, fra gli altri dicevano: Messer Iacopo giù per Arno se ne va. E fu tenuto grande miracolo,
la prima ch'e fanciugli sogliono avere paura de' morti, e la seconda si è, che putiva che non se gli poteva apressare; pensa, da' 27 dì d'aprile insino a' 17 di maggio se doveva putire! E bisognò che insino colle mani lo toccassino a gittarlo in Arno. E sì del vederlo andare a galla, chè andò insino disotto a Firenze, vedendolo tutta volta sopra l'aqua, erano pieni e ponti a vederlo passare giù. E un altro dì, qua giù in verso Brozzi, e fanciugli lo ritrassono fuori dell'aqua, e inpiccorolo a un salcio, di poi lo bastonorono, di poi pure rigittato in Arno. E dissesi ch'era stato veduto passare tra' ponti di Pisa, ch'andava senpre a galla.
E a dì 19 di maggio 1478, mandorono Andrea de' Pazzi, con due sua frategli minori, in una prigione nuova, in uno fondo di torre a Volterra.
E a dì 20 di maggio 1478, Guglielmo de' Pazzi sodò di stare a' confini; e fu mandato in villa sua e quivi confinato fralle 5 miglia e le venti. E messer Piero Vespucci fu messo nelle Stinche, per senpre; ch'aveva fatto fuggire uno certo Napoleone Francesi, ch'aveva el bando dietro, perchè era in detta congiura di messer Iacopo.
E a dì primo di giugno 1478, si vendevano e panni e masserizie a lo 'ncanto, di detti Pazzi e altri, sotto el Tetto della Zecca, ch'enpievano da l'un lato a l'altro, ch'erano molte ricche.
E a dì 5 di giugno 1478, fu licenziato el Cardinale.
E a dì 7 detto, fu acconpagniato, di fuori del
Palagio, dagli Otto e molti cittadini, insino alla Nunziata; aveva grande paura di non essere morto dal popolo. E in detto dì, ci fu come el Papa ci scumunicava.
E a dì 12 di giugno 1478, si partì di Firenze el Cardinale.
E a dì 13 di giugno 1478, si vinse in Consiglio di porre molte gravezze, Sesti, Decime; e a' preti 50 mila fiorini.
E a dì 2 di luglio 1478, ci venne lo 'nbasciadore del Re di Francia.
E a dì 5 di luglio 1478, si fece la festa di San Giovanni, la quale avevano lasciata nel dì suo, e fecesi molto bella di difici, processione; corsesi el palio, e girandola e tutto spiritegli, giganti e molte belle cose, come se fussi stato el dì propio.
E a dì 10 di luglio 1478, ci venne un altro inbasciadore del Re di Francia, ch' andava al Papa, e alogiorono in casa Giovanni Tornabuoni.
E in questi dì vennono e cavagli del Duca di MiIano per la via di Pisa, e passorono da Poggibonizi, e quegli del Re ch'accostavano tuttavolta.
E a dì 13 di luglio 1478, ci mandò el Re di Napoli un tronbetto colla tronba spiegata, co l'arme del Re, e andò alla Signioria a notificare la guerra, mandando a dire che, lui e 'l Santo Padre, ci farebbe ogni pace e piacere se Firenze mandassi via Lorenzo de' Medici: la qual cosa non fu consentito da' cittadini, onde poi ci fu mosso guerra.
E a dì 19 di luglio 1478, e Sanesi scorsono in sul nostro e predorono roba e prigioni, e presono Calciano, a dì 22 detto.
E a dì 23 detto, presono Rincine e disfeciola e menorono uomini e femine, piccoli e grandi; e nostri ci facevano peggio di loro, atendevano a rubare per tutto la Valdelsa e feciono di grandissimi danni, per modo che ognuno isgonbrava per tutto e non si teneva sicuro niuno se none in Firenze; dipoi ognindì si faceva qualche scorreria; e' nimici scorsono a Panzano e ruborono e arsono.
E a dì 27 di luglio 1478, e nostri scorsono sopra Sanesi e ruborono e arsono le mulina e tolsono, in più volte più di 100 cavagli. E in questo tenpo e nimici avevano el canpo alla Castellina, e 'l nostro era in sul Poggio Inperiale. E in questi dì si mandò el canpo a Imola. Feciono nostro capitano el Marchese di Ferrara, dandogli 50 mila fiorini l'anno durante la guerra, e, non sendo guerra, 30 mila fiorini, e lui debbe tenere 1500 cavagli a sue spese.
E a dì 31 di luglio 1478, e nostri feciono una grande preda di verso Volterra. Chi cerca el male lo truova. E' furono poco intendenti a lasciarsi levare a cavallo a fare la guerra in su' loro, che toccherà a loro e due terzi di male, e' resto a noi; e 'l Re di Napoli e 'l Papa, che l'ànno ordinata, se ne passeranno di mezzo.
E a dì primo d'agosto 1478, e nimici presono Lamole e andorone presi più di cento persone, e tuttavolta bonbardavano la Castellina. L'ordine de' nostri soldati d'Italia si è questo: tu accendi a rubare di costà e noi faremo di quà; el bisogno d'accostarci troppo non
è per noi: lasciono bonbardare parecchi di un castello e non conparisce mai soccorso. Bisogna venga un dì di questi Tramontani che v'insegnino fare le guerre.
E a dì 10 d'agosto 1478, torno lo 'nbasciadore francioso e 'l fiorentino da Roma, con poco accordo e profitto.
E a dì 15 d'agosto 1478, se n'andò lo 'nbasciadore francioso; e in questi dì si perse la Castellina. E messer Niccolò Vitellozzi, in questo tenpo, atendeva là, e misse a sacco certi Castellucci di Città di Castello e arsevi drento uomini e donne e fanciugli con ogni crudeltà. Dipoi, messer Lorenzo di Città di Castello arse a noi, in quello d'Arezzo, certe nostre fortezze, e fece ei simile, arse degli uomini. Furono due uomini crudeli. Sogliono capitare male. E piatosi non capitorono mai male. Così si leggie nella Santa Scrittura.
E a dì 18 d'agosto 1478, si perdè la Castellina, scanpò le persone.
E a dì 19 d'agosto 1478, fu inpiccato un contadino alla giustizia, e fu spiccato per morto e posto nella bara, e venuto al Tenpio si risentì e non era morto. Lo portorono a Santa Maria Nuova; dipoi morì infra pochi dì. Lo vide tutto Firenze.
E a dì 19 detto, andò el canpo de nimici a Radda e a Panzano.
E a dì 20 detto, bonbardorono tuttodì e detti castegli.
E a dì 21 detto, ci venne un commessario viniziano che soldava per noi 3000 fanti pagati da loro.
E a dì 22 d'agosto 1478, venne una scorreria de' nimici insino al Ponte a Grassina e menoronne un fabro e altri assai.
E a dì 24 d'agosto 1478, venne un sospetto verso Rovezzano, e sonovvi a martello, e fuggì drento in Firenze ogni persona colla roba, per la porta alla +, che pareva veramente che fussi perduto lo stato. Mai si vide una tale cosa di paura, in modo che ogniuno era avilito. Non si tenevano sicuri in Firenze, con grandissimo disagio e danno de' poverini.
E a dì detto, si perdette Radda e missono a sacco e arsono assai.
E a dì 25 d'agosto 1478, fu inpiccati 3 che furono presi fuori della Porta a Sa' Niccolö ch' andavano robando sotto spezie de' nimici, e foro quegli che dettono tanto terrore, che feciono isgonbrare fuori della Porta alla +: costoro erano fiorentini.
E a dì 27 d'agosto 1478, si perdè Meletuzzo e San Polo, che vi fu trattato del conestabole che v'era drento.
E a dì detto, fu preso Pretone e 'l fratello conestabile di Radda, e Iacopo Vecchietti, che v'era comessario; e mandati alle Stinche perchè si disse che gli avevano traditi gli uomini di Radda. Venne anche preso uno di que' di San Polo ed ebbe della fune.
E a dì 2 di settenbre 1478, ci fu come a Vinegia si scoprì trattato, e che mozzorono la testa e inprigionorono alcuni.
E a dì 7 di settembre 1478, venne in Firenze el capitano nostro, ch'era el Marchese di Ferrara, entrò in Firenze in lunedì, circa a ore 22, con una grande conpagnia di balestrieri a cavallo, e scoppiettieri, e
fugli fatto un grande onore, e messo in casa che fu già sua. Aveva circa 50 muli carichi di cariaggio, e stette qui in Firenze insino a dì 12 detto, e prese el bastone, e andò in canpo, detto dì in sabato.
E a dì 14 di settenbre 1478, si perdè Brolio per forza. E in questo dì morì uno di morbo nella casa del Capitano, in prigione, el quale v'era per la vita, e funne cavato uno amalato, da quegli ch'erano sopra el morbo, e portato nello Spedale della Scala, dove si portavano gli altri amorbati. E in questo tenpo ci faceva danno assai el morbo in modo che fu otta che n'era amalati in quello spedale 40, o più, e morivano quando 7, o quando 8 per dì, e già vi fu dì d'undici, e anche per la terra, che non andavano allo spedale.
E a dì 25 di settembre 1478, si perdè Cacchiano e arsòlo.
E a dì detto, si mandò le bonbarde a Casoli di Volterra, e andòvi el canpo nostro: non andorono mai a soccorrere que' che si perdevano.
E a dì 29 detto, si riebbe Castelnuovo. E in questo tenpo ci era amalati di morbo, tra la terra e lo spedale, 60 o 70, e anche cominciava nel canpo.
E a dì 29 di settenbre 1478, andò el canpo de' nimici al Monte a Sansovino. Si cominciorono un poco a scostare.
E a dì 5 d'ottobre 1478, andò el canpo nostro a canpo a Casoli.
E a dì 6 detto, venne presi qui sei sanesi, che ve n'era uno ch' andava podestà di Castelnuovo, el quale s'era riavuto.
E in questi dì era amorbati allo Spedale della Scala circa 100, e per Firenze molte case, e, infra l'altre fu trovato uno morto in Santa Maria Novella, di morbo, in su 'n una di quelle panche.
E a dì 11 d'ottobre 1478, fu trovato un fanciullo amorbato in su la porta dello Spedale di San Pagolo, e non si trovava chi lo portassi allo Spedale della Scala.
E in questi dì, e nimici bonbardavono el Monte a Sansovino.
E a dì 14 d'ottobre 1478, una donna amorbata andava a la Scala; e servigiali se gli feciono inanzi e piglioronla sotto le braccia, e quando fu allo Spedale del Porcellana, cascò morta; i' modo che la morìa si poteva dire grande.
E a dì 20 d'ottobre 1478, si fece una tregua col canpo de'nimici per 8 dì, a disdire due dì inanzi. Non piaque agl'intendenti.
E a dì 31 detto si disdisse, e strinsono el Monte a Sansovino. E fu nel nostro carpo un trattato; e 'l capitano lo 'npiccò uno de' sua principali di canpo.
E a dì primo di novenbre 1478, furono cassi gli Otto che sedevano, e 'l notaio loro, perchè avevano arsi certi libri.
E a dì primo di novenbre 1478, si perdè el Monte a Sansovino; e dèssi a patti, salvo l'avere e le persone. E dissesi per ogniuno che se non si faceva la triegua, ch'egli era rotto el canpo de'nimici, che non aveva rimedio, perchè era assediato di vettovaglia e non poteva durare 3 dì, ch'egli era spacciato; e 'l nostro
canpo non volle mai andare a trovare e nimici. Donde si venissi el male, ogniuno si maravigliava che non si seguitassi la vittoria, ch'avàno un grande onore.
E a dì 14 di novenbre 1478, venne preso da Pistoia un padre e un figliuolo per un trattato. Ebbono della colla.
E a dì 15 di novenbre 1478, cavorono messer Piero Vespucci delle Stinche, e mandorolo al Podestà; e nel detto di lo missono nelle Stinche, a qualche buon fine.
E a dì 3 di dicenbre 1478, mandorono quello pistolese, che si chiamava Piero Baldinotti, in su 'n uno carro, e fu inpiccato, e 'l figliuolo fu confinato nelle Stinche per senpre.
E in questi tenpi andavano a le stanze e nostri soldati in quel di Pisa e altrove, e così el Capitano.
E a dì 7 di dicenbre, andò inbasciadore a Vinegia messer Tomaso Soderini.
E a dì 24 dicenbre 1478, si trovò inpiccato in casa un contadino, quaggiù in questi piani, uno cittadino de' Popoleschi, che s'era inpiccato con uno sciugatoio.
E in questo dì venne Arno molto grosso che isboccò dirinpetto a messer Bongianni; fece molti danni.
E in questo tenpo ci faceva la morìa danno assai, come piace a Dio.
E in questi dì di Pasqua, si stavano e cittadini con sospetto di guerra, e la morìa, di scomuniche papali, di novità. Sono e cittadini molto inpaguriti, e non è chi voglia lavorare. E poveri non truovano da lavorare, nè di seta, nè di lana, o poco, per modo che si duole el capo e'menbri. Iddio ci senti.
E a dì 10 di giennaio 1478, giunse in Firenze 4 inbasciadori franciosi, e quali due ne va al Papa e due al Re di Napoli. Esposono qui alla Signoria, come andavano per mettere pace in Italia e tra' Christiani, e intendere le diferenzie, e giudicare secondo ragione, e protestare, a chi inpedirà la pace, che 'l Re farà inpresa contro di lui; e se 'l Papa fussi quello che scordassi, richiederlo a Concilio; e fatta la pace, si facci inpresa contro agl' Infedeli, tutte le potenzie. Partinsi a dì 16 detto.!
E a dì 17 di giennaio 1478, ci venne un certo romito e predicava, e minacciava di molti mali. Era stato in quello di Volterra a servire uno spedale di lebrosi. Era giovanetto di 24 anni, scalzo, con un saccaccio in dosso; e diceva che gli era aparito San Giovanni e l'Angiolo Raffaello. E una mattina, salì in sulla ringhiera de'Signori per predicare; gli Otto lo mandorono via. E così tutto 'l giorno veniva tal cose.
E in questi dì si fuggì da Pisa un figliuolo del Duca di Milano, ch'era confinato quivi, e andossene a Gienova al signore Ruberto e accostossi co lui.
E a dì 27 di giennaio 1478, tornò Gostanzo di Levante mio frate.
E a dì 4 di febraio 1478, fumo predati in Chianti.
E in questi dì la morìa era molto alenata. Lodato sia Idio.
E a dì 8 di febraio 1478, giunse 4 galee in Porto pisano, dua di Ponente e dua di Barberia, che s'accozzorono insieme. Vennono con gran sospetto per pagura dell'armata del Re e de'Gienovesi. Fu tenuta una grande nuova.
E a dì 9 di marzo 1478, fu inpiccato uno in Mercato Nuovo, che dicevano ch'era viniziano, che tolse la sera dinanzi certi fiorini di su 'n uno banco, di dì chiaro; e quegli del banco lo presono e missollo al Rettore, e quivi fu inpiccato.
E in questi dì ci venne adesso una cavalcata in quel di Pisa, dal signore Ruberto, con molta giente, e venne insino a la porta di Pisa e missevi fuoco drento, e fece poco danno alla porta; e cavalcò in Val di Calci, e arse le mulina, e fece una grande preda, e ritornossi poi di là dal Serchio. E da lato di qua venne el Duca di Calavria insino al Poggio Inperiale per torlo, e nogli riuscì.
E in questo tenpo consono e nostri insino a Siena, e predorono e presono un certo Castelluccio chiamato Selvoli, e tennolo un buon pezzo e molti dì, insino a dì 4 d'aprile 1479.
E in questi dì ci faceva danno la morìa; era ritocca molto bene.
E in questi tenpi s'attendeva a fare fanti, e' Viniziani ci mandavano giente assai, e tutti gli mandavano in quel di Pisa.
E in questi dì giunse el nostro Capitano in quel di Pisa. Aspettavasi el conte Carlo con molti cavagli.
E a dì 12 d'aprile 1479, si fece fatti d'arme a Pisa, el nostro Capitano e 'l signore Ruberto, e morivvi alquante persone. E dissesi che 'l nostro Capitano non volle vincere e che non faceva el dovere, e non si diceva altro per popolo.
E a dì 18 d'aprile 1479, la morìa ci faceva danno in modo che io me n'andai in villa mia a Dicomano, colla mia brigata, e lasciai la bottega a li miei garzoni aperta.
E in questi tenpi ci venne el conte Carlo e feciolo capitano, e feciono due canpi, e anco nel Perugino; afrontò la giente della Chiesa e ruppeg]i in modo n'andorono ingniudi. E allora si poteva ronpere el Duca, ma per difetto del Duca di Ferrara, nostro Capitano, e anche la mala concordia de' cittadini, nella lasciò fare, ch'era vinto sanza dubbio. E 'l Duca di Calavria andò a canpo a Colle. Ogniuno c'inganna senpre, e però non si può essere vittoriosi, perchè piace così a Dio pe' peccati.
E a dì 8 di novenbre 1479, sonò a martello in Mugiello, di mezza notte, e andò sottosopra tutto el Mugiello, con grande sospetto. E avemo voglia di venire in Firenze. Vennono e nimici a Piancaldoli e presolo e non passorono in Mugiello.
E a dì 15 di novenbre 1479, el Duca di Calavria prese Colle di Valdelsa. Stette circa a 7 mesi a canpo inanzi la potessi avere. Trasse 1024 colpi di bonbarda, disfece la maggiore parte delle mura; e poi andorono a le stanze.
E a dì 24 di novenbre 1479, venne un tronbetto
coll' ulivo, a notificare la pace che s'era già praticata.
E a dì 6 di dicenbre 1479, si partì di Firenze Lorenzo de' Medici, e andò a Napoli al Re.
E a dì 8 di dicenbre 1479, si perdette Sarzana.
E a dì 23 di dicenbre 1479, venne preso Bernardo Bandini de' Baroncegli di Gostantinopoli, che lo dette preso el Gran Turco; el quale s'era fuggito di Firenze quando fu morto Giuliano de' Medici, credendo essere sicuro della vita quivi.
E a dì detto, ci fu come el Duca di Calavria aveva preso Siena, avengachè non fu vero; ma bene è vero questo, che n'era signore se voleva; e'Sanesi non avevano rimedio veruno, perchè l'avevano messo drento colla sua giente, e faceva di Siena quello che voleva a sua posta.
E a dì 28 di dicenbre 1479, fu inpiccato, alle finestre del Capitano, Bernardo Bandini ch'era venuto preso di Gostantinopoli, ch' era in quella congiura di messer Iacopo, e dissesi che fu lui quello che dette a Giuliano de' Medici. Ebbesi certi mezzi col Turco, che lo concedette loro.
E a dì 20 di giennaio 1479, si dubitava che la pace non andassi inanzi. E la morìa ci faceva danno assai.
E a dì 13 di marzo 1479, giunse Lorenzo de'Medici a Livorno, quando tornava da Napoli. Fecesi maraviglia che fussi tornato, perchè tutto 'l popolo dubitava che 'l Re nollo lasciassi tornare a sua posta; e massime
si sapeva dell'altre cose ch'egli aveva fatte a gran maestri. Idio l'aiutò.
E a dì 15 detto, giunse in Firenze alle 21 ore.
E a dì 16 detto, giunse la pace, la notte, circa alle 7 ore, e fecesi festa assai di fuochi e canpane.
E a dì 22 di marzo 1479, si apersono le porte che s'erano serrate poco tenpo inanzi.
E a dì 25 di marzo 1480, si bandì la pace e fecionci venire la Nostra Donna di Santa Maria Inpruneta. Fecesi festa.
E a dì 29 di marzo 1480, ci mandò el Papa un'agravatoria, che fu el mercoledì santo, che non si potessi comunicare; e non fu apalesata, in modo quasi ogniuno si comunicò, contro a coscienza chi lo sapeva.
E a dì 9 d'aprile 1480, si mandò due inbasciadori al Papa e a Napoli, che fu messer Antonio Ridolfi e Piero di Lutozzo.
E a dì 28 d'aprile 1480, fu cavato di prigione messer Piero Vespucci; e partissi di Firenze e andò a Siena al Duca di Calavria, e quivi si stette.
E in questo tenpo si ragionava che 'l Papa aveva
fatto lega co' Viniziani, Sanesi e Duca d'Urbino. Non fu vero.
E a dì 7 di maggio 1480, vinsono dieci Sesti e una Decima, e feciono 3000 fiorini di Sgravo e 1000 fiorini d'Agravo.
E in questo tenpo mandorono al Duca di Calavria 30 mila fiorini per volta, più volte. Pensa se bisognava de' Sesti e delle Decime. Ogniuno che viene a' danni nostri, quando egli à disfatto el contado e rubato, e Fiorentini ànno per un savio uso di dare danari per pagamento di quel danno ci ànno fatto. E non è solo una volta stato, ma sarà ancora per l'avenire. Chi vuole danari da' Fiorentini, ci venga a fare male.
E a dì 27 di maggio 1480, fu preso la donna di Giovanni de' Pazzi e uno de' Giugni, e molti altri che volevano iscarcerare e Pazzi di Volterra.
E a dì 2 di giugno 1480, entrò el signore Ruberto in Firenze.
E a dì 3 di giugno 1480, fu ristituito messer Piero Vespucci, di stare in Firenze; e renderogli lo stato, come volle el Duca.
E in questo tenpo tornò el grano a soldi 15 lo staio e a ogni pregio.
E a dì 20 di giugno, confinò el Duca di Calavria 18 tra cavalieri e cittadini di Siena. E teneva in piazza e sua provigionati, in modo ch'e' n'era signiore a sua posta. E non pareva a' Sanesi avere fatto punto bene, e veniva
fatto; ma e' voleva prima fare el simile a noi; e, come piaque a Dio, per sommo miracolo, venne questo, che
E a dì 6 d'agosto 1480, venne a Otranto l'armata del Turco, e posevi el canpo; onde fu necessario, per comandamento del Re, partirsi e ritornare nel Reame alla difesa di quello. Aveva el Turco in tre luoghi el canpo: a Rodi, e coll'Unghero.
E a dì 18 d'agosto 1480, giunse in Firenze un Cardinale, figliuolo del Re, che veniva d'Ungheria, andava a Roma.
E a dì 2 di settenbre 1480, arse due botteghe d'arte di seta in Porta Santa Maria, presso a Vacchereccia; e l'altra notte, arse tutto 'l Canto di Vacchereccia insino al Chiassolino del Buco. E gittossi el fuoco da l'altro lato della via dirinpetto, e arse tutto l'altro Canto di Vacchereccia, per modo ch'egli arse circa di 20 botteghe di setaiuoli e banchi; che fu una grande perdita, che furono molti che non iscanporono nulla.
E in questi tenpi molto si ragionava della perdita d'Otranto, e dubitavasi ancora di Leccio.
E a dì 27 di settenbre 1480, venne in casa Lorenzo de' Medici, al Poggio a Caiano, un certo romito; e' sua famigli lo presono e cominciorono a dire che voleva amazare Lorenzo; e mandorolo al Bargiello e dettogli dimolta fune.
E a dì 15 d'ottobre 1480, morì a Santa Maria Nuova quello sopradetto famiglio, cioè romito, perchè fu molto straziato da diversi martìri. Si disse che lo dissolorono e piedi, e poi gli davano el fuoco, tenendolo co' piedi ne'ceppi, per modo che gocciolavano e piedi el grasso; poi lo rizzavano e facevalo andare sopra el sale grosso:
in modo che di tal cose morì. Non s' intese el vero, s'egli era peccatore o no: chi diceva sì e chi no.
E a dì 4 di novenbre 1480, si fece 12 inbasciadori per andare al Papa; e a dì 15 si partirono.
E a dì 5 di dicenbre, ci fu come el Papa ci aveva ribenedetti; e fecesi fuochi e festa assai.
E a dì 14 di dicenbre 1480, ci passò el Cardinale di Mantova, ch' andava a Roma. Veniva da Mantova.
E a dì 11 di giennaio 1480, si fece due altri inbasciadori per a Roma, che fu messer Guido Antonio Vespucci e Pierfilippo Pandolfini.
E a dì 12 di giennaio 1480, Antonio Pucci, esendo gonfaloniere, vinse un balzello di 30 mila fiorini; e levò alla gravezza nuova, e fecela albitraria.
E a dì 6 di febraio 1480, venne un tremuoto circa ore 4 2/4 avengachè non fussi molto grande.
E a dì 31 di marzo 1481, si riebbe le castella, cioè Colle, Poggibonizi, el Monte a Sansovino e 'l Poggio Inperiale e altre cose, ecetto che la Castellina, Montedomenici e Piancaldoli e Sarzana. Poco ci faceva la morìa.
E a dì 13 d'aprile 1481, ci mandò el Papa un giubileo di colpa e pena, e dettelo in sei chiese: in Santa Ilaria del Fiore, in alla Nunziata de' Servi, a Santa +, a Santa Maria Novella, a Santo Spirito, a Sa' Iacopo in Canpo Corbolini. E' comincia questo dì detto e dura insino a Pasqua. El quale, chi lo vuole conseguitare, debba vicitare queste 6 chiese, 3 mattine, confesso e pentuto; e debbe porgiere aiuto, a dette chiese, per andare contro al Turco.
E a dì 28 di maggio 1481, ci fu nuove che 'l Turco
era morto, e così fu; e nondimeno non si muove ancora e Cristiani.
E a dì 2 di giugno 1481, fu preso uno de' Frescobaldi e uno de' Baldovinetti e uno de' Balducci; e a dì 6 furono inpiccati alle finestre del Bargiello, o vuoi dire del Capitano, perchè avevano confessato volere amazzare Lorenzo de' Medici.
E a dì 8 di giugno 1481, si serrò la Porta a Faenza, perchè la morìa faceva gran danno di fuori di detta Porta, e in Firenze c' era in 3 o 4 case.
E a dì 4 d'agosto 1481, feciono 12 uomini ch'avessino ogni autorità di potere fare quanto tutto 'l popolo di Firenze. La prima cosa che feciono si fu, che chi avessi debito in Comune pagassi, per ogni fiorino, 3 fiorini di paghe guadagniate.
E a dì 22 d'agosto 1481, noi speziali facemo che noi non istessino a bottega el dì delle feste alle 22 ore come s'era usato insino a qui, ma stessi coloro che tocca per tratta, tutto 'l dì, che sono 4 botteghe in tutto la terra.
E a dì 22 d'agosto 1481, nevicò in sulle montagne di Pistoia.
E a dì 10 di settenbre 1481, maritò Lorenzo de' Medici una figliuola a Iacopo Salviati.
E a dì 18 di settenbre 1481, ci fu come Otranto s'era riavuto. Fecesi festa e fuochi e altre cose.
E a dì 2 d'ottobre 1481, giunse in Firenze el
signore Gostanzo di Pesero; e aveva una bella giente d'arme, parecchi isquadre e balestrieri a cavallo, e andava a Milano.
E a dì 8 d'ottobre 1481, Gostanzo mio fratello ebbe el Palio di Santa Liperata, e fu el primo ch'egli avessi col suo barbero chiamato el Draghetto. Ne menò dua di Barberia: vendenne uno al Conte d'Urbino, che si chiamava el Pellegrino: ebbene cento ducati.
E a dì 15 di novenbre 1481, si fuggirono e prigioni delle Stinche. Apersono colle propie chiavi, che le dette loro un garzone ch'aveva nome Domenico di Cristofano che stava a guardare le Stinche. Uscirono in sulle 7 ore di notte. Quel garzone s'andò con Dio.
E a dì 30 di novenbre 1481, s'incamerò la gravezza chiamata Scala.
E a dì 26 di dicenbre 1481, Gostanzo mio fratello ebbe, col suo Draghetto, el Palio di Prato.
E a dì 4 di marzo 1481, non parve a chi poteva, questi principali, che la gravezza nuova detta Scala fussi el bisogno della città. Rifeciono vegghiare el Sesto, e raddoppiato, e traendo, secondo che parve a' più intendenti. Egli è el vero; chi stava male, col Sesto rimase disfatto a fatto.
E in questo tenpo e Viniziani dinunziorono la guerra al Duca di Ferrara, e molto si dubitava di guerra.
E a dì 14 di marzo 1481, fu inpiccato un Cancelliere del Conte Girolamo alle finestre del Bargiello; el quale fu preso da uno degli Altoviti ch' era rubello, e per essere ribandito, codìo costui, e infra Pionbino e Pisa lo prese; e fu ribandito.
E a dì 18 di marzo 1481, fu preso un cavallaro del signore Ruberto, al Ponte a Valiano, che portava lettere del figliuolo del signore Ruberto: le quali lettere dettono un poco di lume d'un trattato, in modo che si partì di qui Antonio Pucci e altri cittadini, andorono in quel di Pisa, e in pochi dì feciono dimolti fanti.
E a dì 25 di marzo 1482, morì madonna Lucrezia donna di Piero di Cosimo de' Medici, e madre di Lorenzo, e morì el dì della Nunziata. E in tal dì, el Papa ci aveva mandato el perdono in Santa Maria del Fiore, di colpa e pena.
E a dì 15 d'aprile 1482, fu ristituti e cavati di prigione e Pazzi ch'erano in carcere a Volterra e mandati fuori d'Italia; avengachè ne fu cavati due più mesi fa, de' minori, per malattie, perchè vi sarebbono morti.
E in questi anno è venuto a Rodi tremuoti grandi, in modo che v'è rovinato chiese e morto molta giente, massime in una chiesa vi morì 40 Cavalieri Fieri. Non ò el dì a punto, ma in questo anno è stato.
E a dì 20 d'aprile 1482, è nato scandolo a Roma
tra gli Orsini e' Colonnesi; e mandorono sottosopra la città come si suole fare senpre. Per le quistioni di questi grandi ne patisce tutto el popolo.
E in questo tenpo si fornì la cupola di Santo Spirito, e di fatto vi si predicò sotto essa.
E a dì 28 d'aprile 1482, venne in Firenze el Duca d'Urbino, e stette in casa Giovanni Tornabuoni e fugli fatto grande onore. E a dì 29 detto, si partì e andò a Milano per essere capitano, e fermossi a Ferrara, e quivi era el signore Ruberto. E insino a dì primo di giugno 1482, strignevano un castello, che si chiama Ficheruolo.
E in questi dì, el Duca di Calavria strigneva da l'altra parte Ostia, a Roma; e a dì 10 di giugno si disse che l'aveva avuta, ma non l'ebbe. E misse a sacco Corneto. E in questi dì e Sanesi rimessono alcuni de' loro usciti.
E a dì 12 di giugno 1482, venne in Firenze el signor Gostanzo, che tornava da Ferrara.
E in questo tenpo molto si parlava d'una divozione di Nostra Donna trovato a Bibbona, d'un tabernacolo fuora di Bibbona, un trarre di balestro; ch'è una Vergine Maria a sedere con Cristo in braccio come si levò di croce, come si dipingono l'altre Piatà. La quale cominciò insino a dì 5 d'aprile 1482, la quale si trasfigurava, cioè diventava d'azurra rossa, e di rossa poi nera e di diversi colori. E questo dicono avere fatto molte [volte] insino a questo dì, e sanato diversi infermi e fatto molti miracoli e di molte paci, intanto che vi
correva tutto mondo. E non si dice altro in questo tenpo; e io ò parlato a molti che dicono di veduta averla veduto trasfigurare, in modo ch'egli è necessario a crederlo.
E a dì 20 di giugno 1482, ci fu come messer Niccolò Vitegli aveva avuto a nostro proposito Città di Castello; e in detto dì si mandò là una bonbarda. Era appiccato la guerra in più luoghi.
E a dì 2 di luglio 1482, s'ebbe Ficheruolo.
E a dì 4 di luglio 1482, ci fu come avevano avuto le rocche di Città di Castello e tutto.
E a dì 11 di luglio 1482, fu confinato Antonio Belandi da Siena, e mandato a Monte Alcino per sua confini.
E a dì 25 di luglio 1482, ci fu come la Chiesa aveva rotto el Duca di Calavria e avevano presi 300 uomini d'arme, che v'era 19 signori; e così fu.
E a dì 27 d'agosto 1482, fu veduto da molti qui, sopra a Firenze, certe fiamme di fuoco andare per l'aria, inverso levante, circa a un'ora di notte; e fu veduto a Dicomano e altrove.
E a dì 10 di settenbre 1482, morì el Conte d'Urbino a Bologna.
E a dì 14 di settenbre 1482, morì el Magnifico Ruberto a Roma, ch'aveva avuto sì grande onore e vittoria a ronpere el Duca di Calavria a Roma e pigliare 300 uomini d'arme. In 4 dì morì due sì gran capitani, quando credevano essere ben filici. Vedi che errori sono nel mondo, mettersi in tanti pericoli d'amazzare altri o
essere morto lui, per un poco di fumo di questo mondo, non pensando che cos'è amazzare l'uomo, e come presto s'à rendere ragione, e che si muore.
E a dì 24 di dicenbre 1482, venne in Firenze el Cardinale di Mantova, ch'era legato, e andava a.Ferrara. Fecesigli onore.
E a dì 5 di giennaio 1482, venne in Firenze el Duca di Calavria. Partissi a dì 8 detto e andò a Ferrara e menò seco circa 800 cavagli; aveva seco molti Turchi. Fugli fatto un grande onore.
E a dì 6 di febraio 1482, ci passò una parte di que' Turchi che 'l Duca rimandava indietro, perchè se ne gli era fuggiti circa a 400, e andato nel canpo de' Viniziani. Quegli che gli restorono rimandava indietro, e qui in Firenze se ne fece una brigata cristiani.
E a dì 12 di febraio 1482, si partì di Firenze Lorenzo de' Medici, e andò inbasciadore a Ferrara molto a ordine.
E a dì 8 di marzo 1482, tornò Lorenzo de' Medici da Ferrara. Ebbe onore assai là, come valentuomo.
E a dì primo d'aprile 1483, a Siena, fu gittato a terra delle finestre del palagio de' Signori, 4 uomini, e inpiccati da 6; e quali erano della parte del Monte de' Nove; e fuggissi dimolti cittadini in su quello di Firenze.
E a dì 6 d'aprile 1483, venne in Firenze lo 'nbasciadore del Turco.
E a dì 7 d'aprile 1483, e Sanesi tagliorono la testa a tre cittadini sanesi, che fu uno Antonio Belandi e un Cavaliere di quegli che fece el Duca di Calavria. Così fanno le parti, degli uomini superbi che con sono contenti a lo stato che dà Idio.
E a dì 23 d'aprile 1483, scurò la luna. È seguito in questo dì, cascò morto un garzonetto di circa 12 anni, lo quale vidi io morto in San Simone, e un altro ser Bonaccorso notaio, e così una fanciulla. Tutti caddono morti. Fu tenuto in Firenze un forte dì, e un grande effetto della luna.
E a dì 30 di maggio 1483, si fece venire la Nostra Donna di Santa Maria Inpruneta, perchè si racconciassi el tenpo, ch'era piovuto più d'un mese; e inmediate s'acconciò bello.
E a dì 14 di giugno 1483, si conpilò la lega co' Sanesi, per 25 anni, e rendettoci le castella.
E in questi dì morì a Faenza un Frate de' l'Ordine de' Servi, el quale fece molti miracoli: sonare le canpane da loro, quando morì; sanare infermi. Corevavi e paesi di là, e io favellai a chi disse di veduta, a un di fede. E ognindì si dicava di queste cose, quando apariva in un fiume e quando in un monte, di questi miracoli; e chi parlava a una donna, ch'era la Vergine. E
questo dico perchè el mondo era sollevato a 'spettare gran cose da Dio.
E a dì 21 di giugno 1483, si pose in un tabernacolo d'Orso Sa' Michele quel San Tomaso a lato a Giesù, e 'l Giesù di bronzo, el quale è la più bella cosa che si truovi, e la più bella testa del Salvatore ch' ancora si sia fatta, per le mani di Andrea del Verrocchio.
E in questo tenpo el Duca di Calavria e 'l signore Ruberto si partirono da Ferrara e andorono in Lonbardia, dove si fece male assai da l'una parte e da l'altra; e fuvvi avelenato el signore Gostanzo.
E a dì 15 d'agosto, vennono e fuori usciti di Siena a' danni de' Sanesi al castello di Sitorno; e non feciono nulla. Furono presi molti uomini di quel castello e menati a Siena.
E in questi dì, e Fiorentini disfeciono un castello in Val d'Arno di sopra, che si chiamava Monte Domenici che si rubellò. E però lo disfeciono.
E in questo tenpo d'agosto 1483, el Duca di Calavria prese dimolte castella in Lonbardia de' Viniziani, per modo che non potevano resistere, el canpo di Viniziani, e molto lo soprafaceva. E questo fu perchè la Chiesa scomunicava tutti quegli che davano aiuto a' Viniziani, per modo che non potevano avere giente d'oltramonti. E l'armata del Re di Napoli venne nel porto d'Ancona, e quella de' Viniziani la veniva a trovare. E a dì 5 di settenbre 1483, quella del Re si partì e noll'aspettò. Aspettavasi di sentire gran cose, se si fussino afrontati.
E a dì 7 di settenbre 1483, venne inbasciadori in
Firenze dal Re di Francia, ch' andavano a Roma per conpilare la pace d'Italia; e giunti qui, ebbono nuove che 'l Re loro era morto, a dì 30 d'agosto 1483. E a dì 13 di settenbre detto, si morì uno di questi 3 inbasciadori in Santa Maria Novella; e gli altri si partirono e andorono a Roma.
E in questo tenpo, per paura della fame e della guerra grande di Lonbardia, si partiva di là molte famiglie. Passavano di qui molte famiglie e andavano in quel di Roma a 50 e 100 per volta, intanto che furono parecchi migliaia; e anche per la Romagna ne passava assai, e d'altri paesi. Dissesi che furono più di 30 mila persone. Era grande conpassione a vedere passare tante povertà, con uno asinuzzo, colle loro miserie d'un paioluzzo, una padella e simile poverta, in modo che facevano lacrimare chi gli vedeva scalzi e ignudi. E queste cose fanno le maladette guerre. E nulla passrava sanza nostra spesa.
E a dì 8 d'ottobre 1483, si disfece certi muriccioli ch'erano intorno alla Piazza di Mercato Vecchio, che si feciono di poco.
E a dì 23 d'ottobre 1483, venne in Firenze un Cardinale Legato, ch'andava al Re di Francia inbasciadore per confermagli la corona del suo padre ch'era morto. E questo Cardinale era quello Cardinale che 'l Re ch'era morto, tenne in prigione e in gabbia molti anni.
E a dì 10 di novenbre 1483, si partì di Firenze 3 anbasciadori fiorentini mandati al Re di Francia; che fu messer Gientile vescovo d'Arezzo e Antonio Canigiani e Lorenzo di Piero Francesco de' Medici.
E a dì primo di giennaio 1483, entrò la Signoria, e furono più rigidi che gli altri. Mandavano pe' cittadini e volevano che ogniono pagassi quello aveva debito. E
mandavagli al Bargiello e alle Stinche. Molto eravamo tribolati e affannati dalle tante guerre.
E oltre a l'altre tribolazioni, valeva el grano soldi 50 lo staio; e più vendevasi le fave soldi 40 lo staio; vendevasi el pane bianco soldi 1, denari 8 la libra; e andò la farina a lire 3 lo staio.
E a dì primo di marzo 1483, tornorono e nostri anbasciadori di Francia, e tornò Antonio Canigiani cavaliere fatto dal Re di Francia. Fugli fatto onore.
E in questi tenpi, andò lo staio delle fave infrante a lire 4 lo staio, e' ceci a lire 5, el grano a soldi 59, e ogni cosa caro; e fra pochi dì, andò el grano a lire 3 soldi 8 lo staio.
E a dì 6 d'aprile 1484, giunse a Pisa 7 nave di grano, che furono 7 mila moggia; delle quali ne rimase qui 3 mila moggia, e 4 mila n'andò a Ferrara e per la Lonbardia, che v'era grandissima carestia.
E a dì 9 d'aprile, giunse 3 altre navi di grano a Livorno; e nondimeno valeva soldi 50 lo staio, e 'l Comune lo dava a soldi 42.
E a dì 14 di giugno 1484, la morìa ci ricominciò; e in questa mattina sotterrò, uno de' Brogiotti, 3 figliuoli a un tratto, di morbo, due femine e un maschio.
E a dì 19 di giugno 1484, valse el grano nuovo soldi 33 lo staio.
E in questo tenpo, di luglio 1484, si comincia una divozione a Prato, d'una Vergine Maria, la quale vi correva tutto el paese. Faceva de' miracoli come quella
di Bibbona, in modo che si cominciò a murare e ordinare una grande spesa.
E a dì 9 d'agosto, ci fu nuove della pace; e fecesi fuochi e festa.
E a dì 14 d'agosto, ci fu come el Papa era morto, e giunse alle 6 ore. E morì a dì 13 detto a ore 14, che fu Papa Sisto. E a dì 20 si sonò per la sua morte.
E in questo tenpo s'attendeva qui a fare giente assai, per mandare a Sarzana e Pietrasanta.
E a dì 30 d'agosto 1484, ci fu come el Papa era fatto, e sonò a ore 4 in lunedì. E fu un cardinale gienovese che si chiamava messer Giovanni de' Zeboni di Gienova e cardinale di Molfetta; e chiamossi Papa Innocenzio 8.
E a dì 8 di settenbre 1484, si bandì la pace in Firenze, e fecesi festa.
E a dì 23 d'ottobre 1484, fu preso per lo Stato un figliuolo di Filippo Tornabuoni ch'aveva nome Alessandro, e fu confinato in Cicilia. E dissesi perchè pensava contro a Lorenzo de' Medici, ch'era suo parente; e forse non fu, diciamo quello si diceva per la città.
E in questo tenpo si strigneva molto forte Pietrasanta. Eravi molti nostri comessari cittadini con bella giente.
E in questi dì, si cavò di San Giovanni e ceri e' palii, e ordinorono che non vi stessino più. Feciolo nettare tutto, e ch' egli stessi così senplice sanza quelle frasche; che prima vi si poneva tutta l'offerta di ceri e di palii, in modo che non si vedeva.
E a dì 6 di novenbre 1484, venne in Firenze morto Antonio Pucci, ch'era comessario a Pietrasanta.
E a dì 7 detto, s'ebbe Pietrasanta, la quale si dette a Lorenzo de' Medici. E a dì 11 detto, s'ebbe la rocca e fu fatto castellano Piero di Filippo Tornabuoni, e commessario Iacopo Acciaiuoli; e Bartolino Tedaldi, sopra la muraglia. Ginnse qui le nuove alle due ore, e la mattina non s'aperse botteghe; e fecesi festa assai e fuochi. E 'l dì medesimo venne in Firenze messer Bongianni Gianfigliazzi morto, ch'era comessario là.
E a dì 15 di giennaio 1484, vennono e Gienovesi a Livorno coll'armata, e apressoronsi alle torri e non feciono nulla. Partironsi a dì primo di febraio 1484.
E a dì 15 d'aprile 1485, si tirò in sul Palagio de' Signori due travi di quercia grosse e lunghe di gran peso, per sostenere la canpana grossa de' Signori e per acconciarla meglio.
E a dì 18 d'aprile 1485, venne in Firenze un tronbetto.
E a dì 23 d'aprile 1485, si vendeva lo staio del grano soldi 16.
E a dì 17 di luglio 1485, feciono e Fiorentini capitano el Conte di Pitigliano, e dettogli el bastone. E' Sanesi feciono loro capitano el Signore da Farnese.
E insino a questo dì, Gostanzo mio fratello aveva vinto 20 palii col suo barbero Draghetto, cioè 20 palii da dì 8 d'ottobre 1481, insino a dì 25 di giugno 1485; che fu el primo Santa Liperata, e poi di Sant'Anna; San Vettorio più volte. Vinse una volta San Vettorio e vendettolo agli Aretini fiorini 40 d'oro, e andò Arezzo e rivinsero là un' altra volta. E andò a correre a Siena, e anco con un cavallo di Lorenzo de' Medici, che si chiamava el Lucciola, del pari al palio; e quello di Gostanzo andò una testa di cavallo inanzi. E fu giudicato dal popolo che v'era alla presenza, che fussi inanzi, e dicevano: andate alla Ragione, che no' lo proveremo. Nondimeno Gostanzo non v'andò, per reverenza di Lorenzo. E com'ella s'andassi, e' fu dato a Lorenzo. Un altro anno, pure a Siena, gli fu fatto maggiore villania: che andando inanzi el cavallo di Gostanzo un gittare di balestro, e giunto al palio, scavalcò e salì in sul palio. E giunse poi uno altro cavallo; e dissono che quello di Gostanzo non aveva passato el palio, e che quell'altro l'aveva passato. E pero lo dettono a quell'altro. Vedi che massima ingiustizia, che colui ch'à preso el palio non l'abbi avere. Fu isventurato, avendo tanta bontà di cavallo. Tanto andò dietro a questo barbero che ne cavò la morte. Morì a dì 12 di settenbre 1485.
E a dì primo di dicenbre 1485, arsono in Roma le case degli Orsini a Monte Giordano, e fuvvi novità assai. E vennevi el Duca di Calavria in aiuto degli Orsini, perchè erano in guerra col Papa; e seguitò la guerra in Roma.
E a dì 11 di dicenbre 1485, venne un certo vento caldo da mezzodì, come fussi di luglio, e gocciolavano tutte le mura delle case drento, per tutto Firenze, insino nelle camere, avenga che fussino bene asciutte.
E in questi dì di febraio e di marzo 1485, si faceva giente in Firenze tuttavolta, per mandare al Duca che faceva contro alla Chiesa; per modo che fu scomunicato in Firenze tutti quegli ch'avevano renduto partito contro alla Chiesa, e non si potevano comunicare. Ogni intendente si maravigliava che si facessi contro alla Chiesa, massime che non aparteneva a noi questa guerra. Epure si seguitava questo errore pe' nostri peccati e per non temere Iddio.
E a dì 9 di maggio 1486, qui alla Piazza de' Tornaquinci, dalla casa de' Tornabuoni, intervenne che uno orso rilevato qui nella città, molto grande, passato l'ordine usato, sendo da' fanciugli accanito, prese una fanciulla per la gola, di circa a anni 6, figliuola di Gio. vacchino Berardi; e con dificultà di molti uomini gliele trassono di bocca tutta sanguinosa e molto bene stracciata la gola. E come piaque a Dio non perì.
E a dì 10 di maggio 1486, ci fu come la guerra di Roma, el Duca di Calaveia s'era apiccato col signore Ruberto, e fatto gran fatti d'arme, e morivvi assai giente. E ebbe el meglio el Duca.
E a dì 10 di luglio 1486, el Duca di Calavria molto strigneva la Chiesa, e non era sanza nostra spesa.
E a dì detto, morì uno maestro Antonio di Guido, cantatore inproviso, molto valente uomo. In quella arte passò ogniono; però si nota quì.
E a dì 30 di settenbre 1487, si trasse le reliquie di San Girolamo, cioè una mascella e un osso del braccio,
dell'altare della + di Santa Maria del Fiore, e furono legate in ariento e oro, molto riccamente, con grande spesa. E fecesi una bella processione, e posta in detta Cappella molto divotamente. E questo fece di sua propio spesa el laldabile messer Iacopo Manegli, calonaco in detta Chiesa. E dissesi, aveva speso 500 fiorini d'oro, e oltre a questo, dotato una Cappella. E ogn'anno va quella bella reliquia a processione divotamente.
E a dì 9 di novenbre, ci passò dua inbasciadori viniziani, ch'andavano a Roma.
E a dì 11 di novenbre, ci venne certi animali che si disse gli mandava el Soldano; poi s'intese ch' era'stati pure certi amici di Firenze per avere qualche buona mancia. Gli animali furono questi: una giraffa molto grande e molto bella e piacevole; com'ella fussi fatta se ne può vedere i' molti luoghi in Firenze dipinte. E visse qui più anni. E uno lione grande, e capre e castroni, molto strani.
E a dì 12 di novenbre 1487, un garzone che governava e lioni, esendo dimesticato co loro, i' modo ch'egli entrava infra loro e toccavagli, massime uno di loro: e in questo dì un garzonetto di circa 14 anni, figliuolo d'uno de'Giuntini, cittadino fiorentino, volle entrare ancora lui con quello governatore. E stato così un poco, questo lione se gli gittò a dosso, e preselo pe' capo dirietro; e con fatica, quello che gli governa, isgridandolo, glielo levò da dosso. E strinsero e asannollo in modo che 'n pochi dì morì.
E a dì 18 di novenbre 1487, el sopradetto anbasciadore del Soldano presentò alla nostra Signoria la sopradetta giraffa, e lione e l'altre bestie; e stette a sedere in mezzo della Signoria, in sulla ringhiera de' Signori, parlando e ringraziando per bocca d'uno interpetro. Fu,
per questa mattina, in piazza un grande popolo, a vedere tale cosa. Era parata la ringhiera colle spalliere e tappeti, e a sedere tutti e principali cittadini. Stette qui quello inbasciadore molti mesi. Fugli fatto le spese e doni assai.
E a dì 25 di novenbre 1487, el detto anbasciadore presente Lorenzo de' Medici di certe cose odorifere, in begli vasegli alla moresca; e fiaschi pieni di balsamo, e un bello e grande padiglione vergato alla moresca, che si distese, e vidilo.
E a dì 12 di marzo 1487, un frate Bernardino dell'Ordine di San Francesco, eletto predicatore in Santa Maria del Fiore per la Quaresima, e predicando e persuadendo el popolo a fare un Monte di Piatà, e di mandarne gli Ebrei, per modo riscaldandosi, per molti dì di Quaresima; e fanciugli presono animo contro agli Ebrei. E in questo dì andorono molti di questi fanciugli, andorono a casa uno ebreo chiamato Manullino, che faceva el presto alla Vacca; e vollono assassinarlo e mettere a sacco quel presto. Ma subitamente, gli Otto mandorono e loro famigli a riparare, e mandorono bandi, a pena delle forche. E presto si spense tale fuoco. Onde a dì 13, l'altra mattina, gli Otto mandorono a dire al detto frate che non predicassi più, e mandatolo a l'Osservanza di Samminiato, e' non bastò loro, che l'altra mattina, a dì 14 detto, che fu in venerdì di marzo, gli Otto ancora di nuovo mandorono e lor famigli e
alcuni degli Otto in persona, e comandorono ch'egli sgonbrassi el contado nostro e partissi via. Onde parve al popolo, che vuole vivere da cristiani, che fussi un cattivo pronostico per noi, perchè era tenuto un santo. E videsi in poco tenpo capitare male alcuni di quegli Otto: chi fiacco el collo a terra d'un cavallo, e chi una cosa e chi un'altra. Infra gli altri, quello ch'andò in persona a cacciarlo dall'osservanza, morì allo spedale e inpazzò. Parve che fussi finito male. Iddio nel guardi.
E a dì 16 d'aprile 1488, ci fu come el conte Glirolamo, signore d'Imola, era stato tagliato a pezzi, nella città di Furlì, dagli uomini della terra. E così fu.
E in detto dì, si mandò di qui a Piancaldoli molta giente, comandati, Romagniuoli e di Mugello, in modo che, a dì 29, s' ebbe. E quello castellano, ch' era da Imola, si dètte. E costoro gli dettono fiorini 4000 e una casa e l'arme a vita, qui in Firenze, e qui stette.
E a dì primo di maggio 1488, ci fu come el Duca di Milano era entrato in Furlì, e fece morire alcuni.
E a dì primo di giugno 1488, ci fu come el Signore di Faenza era stato tagliato a pezzi con consentimento della moglie di messer Giovanni Bentivogli, ch'era madre della moglie di detto Signore di Faenza. E così fu.
E a dì 5 di giugnio 1488, ci fu come messer Giovanni Bentivogli era stato preso da que' di Faenza, a stanza de' Fiorentini; e gridato Marzocco nella città. E così fu.
E a dì 12 di giugno 1488, fu licenziato messer Giovanni Bentivogli da' Fiorentini. Andò Lorenzo de' Medici in Mugello, dove fu fatto venire el detto messer
Giovanni, e parlò con lui e fecegli onore e rimandollo a Bologna, e bene acconpagnato e pacificato.
E a dì 17 detto, e Bolognesi, per dispetto, come ingrati, feciono certi marzocchi di paglia e certe arme de' cittadini nostri, e arsogli in sulla piazza di Bologna, in dispregio.
E a dì 24 di giugno 1488, el dì di Santo Giovanni, quando andava l'offerta, fu preso un bolognese che tagliava e puntali di cintole, e rubava; e non v'andò un'ora che, sanza riguardo della solennità d'un tanto Santo, lo 'npiccorono alle finestre del Capitano. E stettevi tutto 'l dì insino alla sera, quando el palio andava a le mosse. E in questa ora si levò un vento così grande, tenpesta d'aqua e di gragniuola, che mai fu veduto simile. Per modo che, le tende che si pongono sopra la Piazza.di San Giovanni si stracciorono in migliaia di pezzi, che ventorono cenci da niente; e bisognò rifarle tutte di nuovo. Fu tenuta una cosa molto maravigliosa e ammirativa; stimando fussi per tale omicidio. Fu molto ispaventevole nel cospetto di savi e buoni uomini, perchè parve un poco di passione de' popoli, sendo bolognese, e avendo di pochi dì arsi que' marzocchi a Bologna. Si corse un poco a più furia. Si poteva serbarlo a un altro dì. E per quella sera non si potè correre el palio.
E insino a dì 28 di marzo 1487, intervenne questo caso, che fu inpiccato uno alle forche qui di Firenze, e poi fu spiccato, e finalmente non era morto. Fu portato a Santa Maria Nuova, e stette insino a dì 11 d'aprile 1487. E perchè que' di Santa Maria Nuova lo vidono di mala natura, e per certe parole ch'egli usava, di fare ancora certe vendette e altro; gli Otto deliberorono di farlo di nuovo inpiccare, e così fu inpiccato la seconda volta.
E in detto dì 15 d'aprile 1487, furono rotti e
Gienovesi da' Fiorentini a Serezzana, e morivvi uomini assai. E tolsono loro tutte l'artiglierie e la bastìa, e soccorsono Serezzanello, e mandorono qui due prigioni, messer Luigi dal Fiesco e un suo nipote.
E a dì 22 di giugno 1487, si prese Sarzana a ore 12. E qui fu le nuove a ore venti.
E a dì 30 di luglio 1488, morì madonna Clarice, donna di Lorenzo de' Medici.
E a dì 12 di settenbre 1488, venne in sul Palagio de' Signori una saetta, circa a ore 14, e dètte in su' lione e venne giù. E trovò due forestieri su presso alle canpane, che fu un Cancelliere del Conte di Pitigliano, e fecero cascare quasi morto e tramortì; e l'altro fu poco meno: pure non morirono. Nè fece troppo danno al Palagio. Parve una cosa d'amirazione, toccare a due forestieri, sendo in Palagio centinaia d'uomini. Andavano per vedere el palagio e le canpane.
E a dì 15 di giennaio 1488, passò di qui la figliuola del Duca di Calavria, ch' andava a marito al Duca di Milano, con grande cavalleria e con molti Signori e con molte matrone e damigelle, ch' andavano co lei; con grandissima baronia. Feceseli un grande onore, e grande spesa sanza misura.
E a dì 10 marzo 1488, ci fu come el Papa aveva fatto 6 Cardinali che furono questi: due franciosi, uno milanese, due sua nipoti, e uno fiorentino, che fu figliuolo di Lorenzo de' Medici. Al nome di Dio ch'è una grande grazia alla– città nostra in gienerale, e in particulare al suo padre e alla sua Casa.
E a dì 12 d'aprile 1489, ci fu come a Vinegia era nato uno mostruo di questa qualità: la bocca fessa per lungo del naso, e un occhio dal naso e uno dirietro all'orecchio; e fesso tutto 'l viso, come se gli fussi stato dato una coltellata. E dinanzi alla testa aveva un corno ch'era la natura. Visse 3 in 4 dì. Tagliorono quel corno e subito morì. Dicono che le parti da basso essere di strana maniera. Aveva coda d'animale.
E in questi dì ne naque un altro a Padova, el venerdì santo, ch' aveva a ogni braccio due mani, e due teste. E visse 2 in 3 giorni. Una di quelle teste morì prima, e tagliatola, l' altra visse poco. E in oltre una donna di 60 anni à fatto tre figliuoli a un corpo. Queste cose strane sono state qui a Vinegia in pochi dì. Questa lettera fu scritta apunto come ell' è qui, e fu mandata nel banco di Tanai de'Nerli. E di quivi la copiai, e fu vero. Questi segni significano grande tribulazione alle città dove vengono.
E a dì 10 di luglio 1489, si cominciò a recare ghiaia, per fare e fondamenti del palagio di Filippo Strozzi a lato al Canto de' Tornaquinci, che si cominciò prima da questa parte de' Tornaquinci.
E a dì 16 detto, si cominciò a cavare e fondamenti, pure da questa parte, e presono della Piazza circa braccia 10.
E a dì 6 d'agosto 1489 si cominciò a rienpire e
fondamenti, a ore 10, a punti di luna. E Filippo Strozzi fu el primo che vi cominciò a gittare giù la ghiaia e la calcina, da questa parte, e certe medaglie.
E a dì 20 detto, fu fornito di rienpiere questa parte della Piazza de' Tornaquinci. E tuttavolta si disfacevano le case, con grande numero di maestri e di manovali; ch' erano occupate tutte le vie intorno di montagne di sassi e di calcinacci e di muli, d'asini che portavano via e recavano ghiaia; per modo che con difflcultà di chi passava per queste vie. E noialtri artefici stavamo continuamente nella polvere e nella noia della giente che si fermava per vedere, e chi per non potere passare colle bestie cariche.
E a dì 21 di luglio 1489, si cominciò a murare sopra detti [fondamenti].
E in questi tenpi si faceva tutte queste muraglie: l'Osservanza di Samminiato de' Frati di San Francesco; la sacrestia di Santo Spirito; la casa di Giuliano Gondi, e la Chiesa de' Frati di Santo Agostino fuori della Porta a San Gallo. E Lorenzo de' Medici cominciò un palagio al Poggio a Caiano, al luogo suo, dove à ordinato tante
belle cose, le Cascine. Cose da signori! E a Serezzana si murava una fortezza; e molte altre case si murava per Firenze, per quella Via che va a Santa Caterina, e verso la Porta a Pinti, e la Via nuova da' Servi a Cestello, e dalla Porta a Faenza verso San Bernaba, e in verso Sant' Ambrogio, e in molti luoghi per Firenze. Erano gli uomini in questo tenpo atarentati al murare, per modo che c'era carestia di maestri e di materia.
E a dì 18 di maggio 1490, si puose al palagio degli Strozzi la prima cornice sotto e bozzi, in sul Canto de' Tornaquinci; che senpre si faceva qui innanzi a gli altri canti.
E a dì 2 di giugno 1490, si rizzò l'antenna e 'l falcone da tirare su le pietre, pure qui in sul Canto.
E a dì 11 di giugno 1490, si puose el primo bozzo al detto palagio.
E a dì 27 di giugno 1490, io Luca Landucci apri la bottega nuova qui dirinpetto al detto palagio degli Strozzi; e feci la 'nsegna delle Stelle. E lasciai quella bottega vecchia di sul canto, chi è de' Rucellai. E questa nuova è de' Popoleschi.
E a dì 21 di settenbre 1490, cadde una pietra in Santa Maria del Fiore, grande d'una mezza soma di
mulo, da uno di quegli occhi della cupola alti, di verso la sacrestia dove non si parano e preti; e cadde allato al coro. Ed era l'ora quando si paravano e preti per dire el vespro. E non fece male a persona, ch'era già piena la chiesa di giente, che fu cosa meravigliosa, come piaque a Dio che ci aiuta.
E a dì 19 d'ottobre 1490, si puose el drago di bronzo al palagio.
E a dì 22 di dicenbre 1490, si scoprì la capella di Santa Maria Novella, cioè la capella maggiore. L'aveva dipinta Domenico del Grillandaio; e fecela dipigniere Giovanni Tornabuoni. E fece il coro di legname intorno alla capella. Che costò solo la pittura fiorini 1000 d'oro.
E a dì 10 di giennaio 1490, ghiacciò tutto Arno in modo che vi si fece su alla palla, e arsevisi su scope; fu gran freddo.
E a dì 17 di giennaio 1490, questa notte che seguita verso e 18 dì, piovve una certa aquitrina, la quale in mentre che pioveva ghiacciava, e giugniendo in su gli alberi faceva ghiacciuoli. E fu in tanta quantità che 'l peso tirava in terra gli albori e ronpeva tutti e rami E nota che fu nella somità de' monti. Circa a un mezzo miglio presso a' fiumi non fece danno. E cominciò da Fiesole, insino in Mugiello; e a San Godenzo e a Dicomano fece grandissimi danni. E a me, a Dicomano, cavò delle barbe parecchi castagni grossi e querce, e ruppe quasi tutti e rami d'ulivi e d'ogni altro legniame, per
modo tale che a uno mio podere, de' rami soli si fece circa 20 cataste di legnie e assi di castagni di più d'un braccio larghe; che mai fu veduto al mondo tale cosa. Per tal modo che chi si trovò in tali luoghi, credeva che gli avessi a finire el mondo, sentendo ronpere e schiantare ogni cosa sanza rimedio, a sentire tutti boschi e 'l grande remore. Era tale filo d' erba che pesava parecchi libbre, le secce del grano ne' canpi parevano organi per tutto. E pagliai parevano tetti tutti invetriati, nè si poteva andare per terra in veruno luogo. A chi toccò fu pericolato. E poderi per molti anni restorono guasti che non feciono frutto, gli ulivi restorono piantoni e le querce tutte guaste. Fu una cosa incredibile e vera.
E a dì 19 di gennaio 1490, venne Arno molto grosso e rovinò el mulino del Ponte a Rubaconte a lato a Santa Maria delle Grazie, e affogovvi un portatore. E uscì Arno in più luoghi del lato suo. Questo mulino faceva filatoio.
E a dì primo di maggio 1491, si mutò le monete, cioè si cominciò a spendere le monete bianche. E feciono che 'l grossone valessi 16 quattrini e mezzo, come valevano e vecchi di questa moneta bianca; e che si dovessi pagare le gravezze e le gabelle di moneta bianca, che fu al popolo un poco d'agravamento; che si paga più el quarto, e 'l popolo aveva bisogno d'aleggerire. E' fu aggravato per permessione divina, pe' nostri peccati, perchè e' sono più tristi e poveri ch'e ricchi e grandi, comunemente. Sia a lalde di Dio.
E a dì primo di maggio 1491, si cominciò uno rialto tralla Loggia de' Signori e 'l Palagio, in tanto alto che s'andava al pari dalla porta del Palagio nella Loggia; con iscale, e di verso San Piero Scheraggio e di verso
la Piazza; in modo che non potevano passarvi più n'e cavagli, nè altre bestie; e anche un poco incomodo agli uomini, avere a salire e scendere. A chi piace, e chi no: a me non piaceva troppo.
E a dì 15 di maggio 1491, morì questo Filippo Strozzi che murava el detto palazzo; e non vide andato su insino alla lumiera. Vide fatto insino alle canpanelle. Ben puoi vedere che cosa sono le speranze di queste cose transitorie. E' pare che l'uomo ne sia signore, egli è l'oposito, loro sono signore di noi. Durerà questo palazzo quasi in eterno: guarda se questo palazzo à signoreggiato lui, e di quanti ancora sarà signore. Siàno dispensatori e non signori, quanto piace alla bontà di Dio. Ogni cosa è posto nella volontà di Dio e a decoro del suo universo. Onde io priego Iddio che gli abbi perdonato e sua peccati.
E a dì 7 di settenbre 1491, fu fornito di volgiere l'arco della porta di questo palagio, qui tra' Ferravecchi.
E a dì 5 di giennaio 1491, gli Spagniuoli ch'erano qui in Firenze per stanza, feciono fuochi e festa assai perchè ebbono nuove, come el loro Re di Spagna aveva conquistato tutta la Granata, e vinto e scacciato tutti e Mori ch'erano in quello regno di Granata: la quale nuova, non tanto fu la groria e utilità di quello Re, ma utilità e groria di noi e di tutti e Cristiani e corpo della Santa Chiesa. Fu stimato dagli uomini buoni e fedeli un grande aquisto per la fede di Cristo, e principio all'aquisto degl' Infedeli di Levante e di Gierusalem.
E a dì 10 di marzo 1491, el figliuolo di Lorenzo de' Medici cardinale, ebbe el cappello dal Papa. Fugli
dato alla Badia d'andare a Fiesole; e andogli incontro molti cittadini, e venne in Firenze, e andò a vicitare la Signoria; e l'altro dì andò a udire messa in Santa Maria del Fiore. E in detto dì gli fu presentato dalla Signoria di Firenze 30 carichi di portatori d'arienti, bacini, mescirobe e piattegli, e di tutti gli strumenti che si possono adoperare d'ariento, ad ogni grande signore, che (secondo che si disse) furono stimati più di 20 mila fiorini; benchè a me non mi pareva possibile; pure si diceva per pubrica boce e fama, e però lo scrivo. Per certo fu un ricco e magno dono. A lalde di Dio.
E a dì 12 detto, el detto Cardinale andò a Roma al Papa.
E a dìprimo d'aprile 1492, si cominciò a porre el davanzale al palagio.
E a dì 5 d'aprile 1492, venne la sera, circa a 3 ore di notte, una saetta in sulla lanterna della cupola di Santa Maria del Fiore, e ruppela presso che mezza, cioè levò uno di que' nicchi di marmo, e molti altri marmi, di verso la porta che va e' Servi, per tale miracoloso modo che ne' nostri dì non vedemo d'una saetta tale effetto. Per modo che, se fussi stato da mattina, quando si predicava (che si predicava ogni mattina in quello tenpo con 15 mila persone d' udienti) bisognava di necessità vi morissi centinaia di persone. Ma nol permisse el Signore. Cadde quel nicchio e dètte in sul tetto della chiesa tralle due porte che va a' Servi, e ruppe el tetto e poi la volta in cinque luoghi, e poi si ficcorono nell'amattonato in chiesa. E cadde molti mattoni e materia della volta, che agiugneva insino alle panche della predica, ch' avrebbe giunti molti a sedere. E anche in coro cascò materia ma non grossa. E di fuori, cascò molti pezzi di marmo, dalla porta che va e' Servi;
de' quali un pezzo ne cascò sopra que' passatoi nella via e ficcò el passatoio e se sotterra; e un altro ne passò la via, e dette in sul tetto della casa dirinpetto alla detta porta che va e' Servi; e passò el tetto e poi più palchi e poi la volta, e ficcassi sotterra nella volta; non fece male a persona; ch'era la casa piena di giente. Stavavi un Luca Rinieri. Pensa che appena rimasono vivi di stupore e di terrore, per gran fracasso; chè non tanto quello ch'andò nella volta, ma più pezzi ch'andorono in su quei tetti di fuora ch' erono quivi intorno, e anche fece danno a quella tribuna di fuori della cupola.
E nota che quello nicchio grande cadde in chiesa e fece una grande buca nell' amattonato, e non si guastò di niente quanto fussi un grosso. Fu tenuta una cosa molto amirativa e significativa di qualche cosa grande, però che gli era tenpo sereno sanza nugoli; venne così inproviso.
E a dì 8 d'aprile 1492, morì Lorenzo de' Medici a Careggi, a' luogo suo; e dissesi, che sentendo lui le nuove dell'effetto della saetta, così amalato, dimandò donde era cascata, e da che lato. Fugli risposto, e fugli detto; e che disse: Orbè: io sono morto, ch'è cascata verso la casa mia. E forse non ne fu nulla, ma pure si diceva.
E a dì detto, lo recorono in Firenze, la notte alle 5 ore, e messolo in San Marco nella Conpagnia; e quivi stette tutto dì 9, che fu lunedì. E a dì 10, martedi, si seppellì in Sa' Lorenzo, circa a ore 20. Ben può pensare ogniono ch'è la vita umana nostra; questo uomo era, secondo el mondo, el più grorioso uomo che si trovi, e 'l più ricco e 'l maggiore stato, più riputazione. Ogniuno lo predicava che governava l'Italia, e veramente era una savia testa; e ogni suo caso gli riusciva a bene. E al presente aveva condotto quello che per gran tenpo niuno cittadino l'aveva saputo fare: avere condotto el suo figliuolo al cardinalato. E non tanto à nobilitato la casa sua, ma tutta la città. E con tutte queste cose non potè andare più là un'ora, quando venne el punto. E però: uomo, uomo, qual cosa abbiàno noi da 'nsuperbire? El vero atributo umano è la vera umiltà e però ogni volta che noi insuperbiàno, e che noi ci stimiàno più che gli altri, e non riconosciàno da Dio ogni benifizio spirituale, corporale e tenporale; allora usciàno de' termini umani. Ogni cosa ch'esce de' termini sua, quella cosa è guasta, e le cose che gli doverrebbono fare bene gli fanno male. La vera propietà dell'uomo si è la vera mansuetudine e umilità, e stimare Iddio ogni cosa, e' resto nulla, se non in tanto quanto l'à fatta buona Iddio: el quale sia benedetto in etterno da tutte le creature, com'è degno. El quale mi perdoni e miei peccati, e così perdoni al sopradetto morto, come voglio che perdoni a me; e così a tutte le creature umane.
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ing. Pierluigi Carnesecchi La Spezia anno 2003