Questo articolo e' già apparso, con titolo "Un montigiano dimenticato "celeberrimus in utroque orbe terrarum", in "Estate Savinese 2008", periodico del Comune di Monte San Savino ( giugno 2008), e qui riproposto con qualche lieve modifica.
Il Cassero di Monte San Savino
in un quadro di Valentin de Boulogne
di Renato Giulietti e Angelo Gravano-Bardelli
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Non certo con questa nostra presentazione riusciremo a soddisfare l’anelito di fama (universale!) che contraddistinse in vita un curiosissimo personaggio di Monte San Savino, per lo più ignorato (o sconosciuto?) nelle cronache locali, ovvero Raffaello Menicucci che, vissuto a cavallo tra ‘500 e ‘600, si segnalò, autoproclamatosi ‘conte’ (in realtà era questo solo un suo soprannome!), per aver avuto il privilegio di essere accolto fra i confidenti e favoriti dei personaggi più illustri del suo tempo: ad esempio, il granduca di Toscana, il papa Urbano VIII (e anche, a suo dire, il re dei Mori e il Grande Moghul!). Ma ci sembra utile e opportuno (ri)parlare di questo eccentrico personaggio montigiano che di ampia, benché non certo universale, fama sicuramente godé a Monte San Savino, in Toscana e a Roma per le sue ‘doti’ di grande affabulatore, buffone di corte e ciarlatano, ma anche di benefattore della sua patria, se è vero che ce ne restano diversi ritratti usciti dalla penna e dal pennello (o dal bulino) di noti letterati ed artisti del sec. XVII.
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Raffaello Menicucci, figlio di Camillo (†1616) di Cristoforo (della madre si conosce solo il nome: Faustina), era rampollo di una ragguardevole famiglia, documentata a Monte San Savino almeno sin dal sec. XV con un Giovanni di Domenico (Nanni di Menco) iscritto all'estimo di Monte San Savino del 1440-90 nel quartiere di Castiglione, l'attuale Castiglia. Nato intorno al 1563, Raffaello, sposò (4 maggio 1586) Caterina di Sigismondo detto Bondo Guglielmi – anche quella dei Guglielmi era una famiglia primaria del Monte – che "morse di male di parto" a 40 anni nel 1606. Gonfaloniere della comunità per il trimestre nov. 1617/gen.1618, Raffaello morì il 10 gennaio 1637: ebbe almeno nove figli nel periodo 1587-1606 tra cui il dott. Francesco (†1672), anch'egli gonfaloniere della comunità per ben due volte nel 1644 e 1664(1).
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La famiglia Menicucci - la cui arme nobiliare si vede ancor oggi al Monte su un palazzo in via Sansovino(2) e su un olio seicentesco della quadreria comunale(3) nonché in un disegno settecentesco(4) - poteva vantare (oltre a diversi gonfalonierati nella comunità montigiana sin dal 1506), camarlinghi del vicariato della Valdichiana, alfieri, capitani, dottori come documenta una fede (attestazione), richiesta nel 1650 dal noto giureconsulto e letterato paesano Pier Francesco Minozzi imparentato con questa famiglia: nella ‘fede’ si attesta infatti che "la famiglia de sig.ri Menicucci è delle antiche, e principali di questa Terra del Monte S. Savino e ... gli ascendenti et antenati loro hanno sempre goduto e godono tutti con descendenza antica, in tutti li rami loro, tutti li nobili e primi offitij e dignità della patria ... Tutte le famiglie oggi habitanti e rimaste nel Monte San Savino delli medesimi Menicucci si conservano con le loro proprie entrate e non fanno esercitio di sorte alcuna"(5). I Menicucci ebbero anche un vescovo, Antonio di Simone (†1556), camaldolese, che "ai tre di giugno 1552 da Giulio III suo congiunto fu eletto vescovo di Minori nel Regno"(6) e poi, dall’anno seguente, governò la diocesi di Nepi/Sutri(7). La casa di Camillo Menicucci, padre di Raffaello, si affacciava sulla piazza principale di fronte al pozzo dell’Aialta: è infatti identificabile con quella – oggi dei signori Aldinucci – posta sull’attuale piazza Gamurrini all’angolo con la via che conduce al palazzo Di Monte(8). La famiglia Menicucci si estinguerà con i nipoti di Raffaello entro il secolo XVII(9).
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Il Menicucci non diede tuttavia seguito alla radicata onorabilità della sua schiatta e, conducendo una vita eccessivamente dispendiosa suscettibile di compromettere il patrimonio familiare, costrinse suo padre Camillo a chiedere al luogotenente del marchese Giovanni Antonio Orsini, signore di Monte San Savino, un rescritto, ottenuto nel 1608 – poi ribadito nel 1613 - che dichiarava il figlio "furioso mentecatto prodigo e dissipatore delle sue sustanze". Camillo, preoccupato "che li dua figlioli di Raffaello non vadino per la mala strada", prese dunque con sé i nipoti che favorì (Francesco in particolare) nel proprio testamento insieme alla sua seconda moglie (matrigna di Raffaello) Leandra Cerboni di Marcantonio(10).
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Di Raffaello Menicucci scrisse una biografia l’umanista romano Giano Nicio Eritreo (al secolo Giovan Vittorio Rossi [1577-1647]) nella sua Pinacotheca imaginum illustrium doctrinae vel ingenii laude virorum (1643-48), che contiene trecento brevi profili di contemporanei, alla quale fecero seguito un’altra biografia inserita da Teofilo Spizelius nel suo Felix literatus del 1676 e un’altra ancora contenuta nella Storia dei buffoni di K. F. Flögel del 1789: esse ricalcano però da presso la biografia dell’Eritreo senza nulla aggiungere. Ma già prima dell’Eritreo il Menicucci era stato ritratto, con in capo un bel cappello prelatizio o più probabilmente da viaggiatore, in una stampa incisa nel 1625 dal pittore ed incisore romano Ottavio Leoni (1578-1630), con la dicitura "Raphael Menicuccius celeberrimus in utroque orbe terrarum" e, ancora, in un’altra stampa di Claude Mellan (1598-1688) databile 1626-27: tra l’altro, proprio in una biografia del Mellan dovuta a P.-J. Mariette (1694-1774) si ritrova che il Menicucci fu il buffone di papa Urbano VIII. Ma non basta, poiché abbiamo un altro eccellente ritratto del Menicucci, un olio su tela che si conserva nel Museum of Art di Indianapolis (USA), opera già attribuita al Lanfranco ed oggi data a Valentin de Boulogne (1591/94-1632), ben noto caravaggista francese, datata al periodo 1628-30 e appartenuta alla collezione del card. Giulio Mazzarino (come appare nell'inventario post mortem del 1661). Esiste infine un altro ritratto del Menicucci nella collezione Koelliker di Milano attribuito sempre a Valentin de Boulogne. Tutti questi ritratti dimostrano – come giustamente osserva Bernardina Sani - "un lavoro congiunto della pittura e della grafica su di un personaggio successivamente consacrato dalla biografia dell’Eritreo".
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Movendo da accenni a situazioni storicamente rilevanti, mutuabili dal divertente racconto biografico dell’Eritreo (proposto qui di seguito tradotto, pressoché integralmente, dal latino), salta subito all’occhio che l’edificio sacro di Monte San Savino cui nel testo si fa riferimento - nel quale mantenere fanciulle da consacrarsi a Dio e per l’erezione del quale la famiglia Menicucci si adoperò - altro non è che il futuro monastero di Santa Chiara, la cui costruzione ebbe origine per le ultime volontà espresse nel proprio testamento (marzo 1597) da Silvio di Monte, canonico della cattedrale di Jesi, che lasciò la propria casa posta sulla piazza principale del paese (già appartenuta allo zio Pietro di Monte gran maestro di Malta) affinché con il ricavato della sua vendita si fondasse un monastero di fanciulle. Degli esecutori testamentari - il cui mandato appariva, come è documentato, lungo e difficile da realizzare - faceva parte anche Camillo Menicucci padre di Raffaello, il quale ultimo poté, grazie alle sue conoscenze, ottenere udienza dallo stesso granduca di Toscana che si interessò a sua volta per dare seguito alle volontà del Di Monte e stornare il pericolo che, per le difficoltà incontrate dagli esecutori testamentari nel trovare il giusto luogo ove fondare il monastero, le diverse migliaia di scudi di quel lascito finissero nelle casse del Patrimonio di San Pietro che li reclamava. In una supplica del 14 luglio 1610 rivolta al granduca dichiarano detti esecutori testamentari che assolutamente desiderano "adempire tal santa opera, per fuggire il pericolo che li soprasta che l'Opera di S. Pietro di Roma non ci mettesse le mani, poi che l’altra volta furono citati in Fiorenza d'ordine di detta Opera, et furono astretti litigar lungo tempo"(11). Fu scelta poi, per costruire il monastero, la stessa dimora del Di Monte che, allo scopo, fu ristrutturata quasi sicuramente dal pittore e decoratore aretino Teofilo Torri il quale nelle sue Ricordanze accenna nell’anno 1612 a dei lavori di adattamento a monastero di una casa posta proprio in Monte San Savino(12). Ricordiamo qui che il monastero è individuabile oggi nell’edificio posto a sinistra della chiesa di Santa Chiara.
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Pochi anni dopo, nel 1618 – ma qui parla solo l’archivio storico comunale di Monte San Savino – allorché la comunità del Monte decise di alienare sia il cassero (o rocca), in cui era situato il Monte Pio, sia la selva di Griccena, fu lo stesso Menicucci ad acquistare il cassero sborsandone il valore di 800 scudi e divenendo così proprietario di un edificio simbolo del potere locale nel quale lo stesso marchese Bertoldo Orsini, dal 1613 signore di Monte San Savino, teneva in affitto alcune stanze(13). E quanto orgoglioso debba essersi sentito il Menicucci del suo acquisto dimostra il fatto che nel quadro del Valentin egli si fa ritrarre con un foglio in mano sul quale è disegnato proprio il cassero con la dicitura "Rocca del Conte". Godutone il possesso per una quindicina di anni (ne aveva quasi subito fatto sgomberare il Monte Pio), nel 1635 il Menicucci avanzava una supplica al marchese Orsini per rimettere in vendita il cassero, accennando al diritto di prelazione che ne aveva lo stesso marchese "per statuto congruale" possedendo dei suoi immobili (granaio e stalle) proprio accanto al cassero (fra questo e il monastero delle clarisse). Ma l’Orsini, evidentemente non interessato all’acquisto, sottoscrive nella supplica: "Venda à che gli pare". Ereditato poi dal figlio Francesco, il cassero fu da questi di nuovo venduto al Comune nel 1639(14).
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Ecco dunque, qui di seguito, il curioso ritratto che del Menicucci e delle sue ‘gesta’ tragicomiche ci ha lasciato l’Eritreo il quale distilla nella sua ricercata prosa latina, "sapida e ricca di sottintesi", un’approfondita conoscenza del lessico plautino (che ben s’adatta al contenuto comico della biografia) accanto ad almeno una citazione virgiliana (Aen. I, 287).
"[...] Già da tempo il Menicucci, celebre a Roma e in tutta la Toscana, aspira alla nostra Galleria e richiede che il suo ritratto venga in essa collocato per ottenere l’immortalità del suo nome della quale egli fu sempre bramosissimo.
Nacque nella cittadella di Monte San Savino, famosa ed illustre per aver avuto sommi pontefici, cardinali di Santa Romana Chiesa, famosi comandanti di massimi eserciti, maestri dei cavalieri dell’onorata milizia gerosolimitana, arcivescovi, vescovi e non pochi altri nobili personaggi. Fu di statura più vicina alla media che all’alta, abbastanza corpulento, di capo grande, di viso pieno, dallo sguardo ripugnante, scuro di pelle, ma di carattere scurrile, anche se non del tutto sgradevole. Poteva produrre versi estemporanei, pronunciare arguti motti, suscitare ilarità, fare la parte del parassita non grossolano; ma, nel conservare ed accrescere il patrimonio di famiglia vuoi con l’astuzia vuoi per lo zelo, superò decisamente, per abilità ed oculatezza, molti del suo tempo. C’è chi pensa che egli fosse portato alla follia [...] per insinuarsi ed entrare in familiarità con personaggi di rango e così far fortuna e servire in onore e interesse la sua patria; né di rado o poco per essa egli si prodigò, ma spesso e per molto; come accadde per una grossa eredità che, se non avesse egli trattenuto con la sua accortezza, sarebbe finita altrove fuori dalla sua patria. Un cittadino, ricco fra tutti, aveva fatto testamento ed il mandato era quello di costruire un edificio sacro dove fossero mantenute alcune fanciulle consacrate a Dio; se la costruzione non fosse stata fatta e quelle non vi si fossero insediate, l’eredità – veramente ingente - sarebbe passata alla Fabbrica di San Pietro; e poiché le cose andavano a rilento ed eran già venuti coloro che questa eredità richiedevano per la Santa Sede, il Menicucci, come quella persona alla quale, per essere così scanzonata, non venivano mai negate le udienze, si rivolse al granduca di Toscana; lo informò della cosa e gli spiegò per filo e per segno come sarebbe stato deleterio per la sua patria se fosse stata spogliata di quella fortuna, e indecoroso per lui stesso, granduca, che tante migliaia di scudi lasciassero i confini del suo dominio per prendere un’altra dritta: per la qual cosa, incalzandolo da presso e con suppliche alfin moleste, fece sì che quel principe si prendesse l’impegno, disponesse e decidesse la cosa, con poca spesa, insieme agli esecutori testamentari.
L’insania del Menicucci – se pur insania si può chiamare quella che uno simula per trarne profitti – era dovuta soprattutto al suo smodato desiderio di propagare per il globo intero la sua fama e il suo nome; e si vantava che quello era già un dato acquisito: niente infatti voleva che più si sapesse e di nient’altro parlava se non del fatto che la fama del suo nome era diffusa nelle regioni del cielo dalle quali è circoscritta la terra. Pertanto non v’era gente in tutto il mondo – o fornita di raffinatezza e di cultura, oppure bruta e barbara per la ferità dei costumi, oppure affine a noi per similarità di lingua ovvero di straniera favella – che non lo conoscesse, né v’era alcun luogo della terra, vicino o remoto, sia frequentato sia solitario, che ignorasse la sua fama, né v’era alcun re o imperatore o signore che non bruciasse dall’incontenibile desiderio di vederlo e di conoscerlo. E nominava soprattutto un non meglio identificato Idaliane, che diceva essere un potentissimo re dei Mori; ma nessuno egli aveva sulla bocca più di frequente che il Grande Moghul del quale in Giappone non v’era re più illustre o i confini del cui impero si estendessero più lontano; a questi aggiungeva l’imperatore della Cina e non pochi altri che enumerava uno per uno. [...]
Ma affinché di quella fama potesse avvalersi con qualche titolo, ritenuti vili e rifiutati gli altri, recepì quello di conte e voleva che da tutti fosse chiamato conte Menicucci. In giro aveva contese con tutti: infatti, per essersi procurata una tanto insigne gloria, chiedeva d’essere anteposto ad ogni altra persona. E così al suo passare comandava che tutti s’alzassero, gli dessero luogo in strada, che quando entrava si spostassero sulla sinistra, e che nelle riunioni d’amici, nei convivi gli fosse dato il primo posto a sedere davanti a tutti. E a proposito di ciò si narrano su di lui molti detti e fatti giocosi, sciocchi e ridicoli; basterà riferirne uno. A Firenze, in un affollato convivio, essendogli stato assegnato un posto a tavola dopo i giovinetti favoriti del granduca, pensò che non avrebbe mai consentito che al suo celebre nome venisse fatto un simile affronto iniziando a mangiare giù in fondo con quegli adolescenti benché nobili, ricchi e rispettabili [...]. C’era nel salone di quella riunione conviviale un armadio così grande ed alto da arrivare sin quasi al soffitto; come lo vide disse: "Questo luogo così ben in vista ed alto è abbastanza degno perché vi pranzi un uomo la cui fama ha per confine il cielo". E comandò che si portasse una scala con la quale poter salire sulla sommità di quello, abbastanza spaziosa, e che ivi si collocassero il tavolo apparecchiato e la sedia; poi ordinò che gli venissero servite prelibate pietanze e, così come sogliono fare i suonatori di tromba, cominciò a gonfiare ambedue le gote, dilatate da succulenti bocconi, e ad ingurgitare con avidità cibo e vino assoluto. Il che quando videro quei giovinetti, tutti si misero a ridere e a commentare; e cominciò ciascuno a rimuginare dentro nei propri pensieri per escogitare in che modo la stravagante sortita di quel personaggio potesse ritorcersi contro di lui; e tutti insieme convennero in ciò: dapprima di rimuovere di nascosto la scala per togliergli ogni possibilità di fuga e poi di appiccargli tutt’intorno un fuoco di paglia bagnata con acqua; fatto ciò, il poveraccio fu assalito da un fumo così acre che gli penetrò in gola e negli occhi e quasi gli tolse ogni facoltà di vedere e di respirare mentre invano implorava l’aiuto di Dio e degli uomini; lo stesso granduca ed altri accorsero a tale pubblico spettacolo che fu per tutta la brigata di inenarrabile trastullo; e dopo che fu abbastanza ridicolizzato da tutti, tormentato dal fumo e a malapena ancora vivo, il Menicucci fu portato via di lì.
Affinché non si credesse che la fama del suo gran nome gli fosse venuta dal nulla, egli narrava che aveva raggiunto una simile celebrità perché era ormai voce diffusa che un bel giorno l’intero globo terracqueo sarebbe stato dominato dal suo proprio regno: e ciò si sforzava di spiegare con un anello con il quale timbrava le lettere: vi era impresso un astro che stava sopra il sole e la luna: e lui era quell’astro che teneva soggetti a sé la luna, cioè l’impero dei turchi, e il sole, cioè gli altri regni.
Era spesse volte scioccamente stravagante; infatti straparlava spesso del tafano o estro, spiegando in che cosa questo si distinguesse dalla vespa e dal fuco; quali fossero la sua forza, la forma, la natura e il colore; e giù con altre amenità di questo genere, ovviamente insulse. Si recava spesso, invitato o meno, a cene e pranzi perché non sembrasse che rinunciava all’arte del parassita. Non imitava però le cattive abitudini di alcuni che si fanno aspettare dagli altri invitati [...] bensì laddove si dava un pranzo o una cena egli arrivava prima che fosse pronto o ancor prima che il vivandiere fosse di ritorno dalla spesa. E nell’attesa snocciolava ai presenti le sue solite litanie sulla sua fama presso tutte le genti e soprattutto presso i giapponesi; fama che egli desiderava che divenisse proverbiale e, così come un gravoso lavoro di qualcuno viene detto ‘erculeo’ da Ercole che sostenne le famose sette fatiche, allo stesso modo anche la fama di ciascuna illustre persona il Nostro voleva che fosse detta fama ‘menicuccia’ da lui stesso che era illustre fra tutti; e soprattutto ricordava lo speciale favore del quale egli godeva presso il grande Moghul; e, quando la conversazione stagnava, inseriva quel noioso discorso sui tafani. In realtà lui che in vita desiderò essere non uno dei tanti ma persona distinta per fama e nome, alla fine, morendo a casa sua, andò fra i più, non fra senatori o cavalieri o abbienti, ma fra i plebei o proletari o nullatenenti [...]".
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Note
1. Cfr., per tutto il capoverso, APREM, n. 22, c. 101v; n. 25, c. 211; n. 30, c.15v; n. 33, c.144v; n. 2115, cc. 29v, 110; n. 2116, c.15; n. 2480, atto n. 15; n. 2484, c. 1809; ASA, n.17, c. 2v.
2. Cfr. AAM, Libro delle case et anime di S. Agata, c.42v.
3. È il ritratto dell'arcivescovo Rosso degli Ubertini dovuto al pittore locale Francesco Giovannoni (cfr. R. Giulietti, La quadreria del palazzo comunale di Monte San Savino, Monte San Savino, 1997, pp.80-82).
4. Armi delle famiglie della nobil Terra di Monte San Savino (BCA, ms seconda metà sec.XVIII), c.61.
5. APREM, n. 7, c. 153; n.31, cc. 32, 36.
6. R. Restorelli, Notizie istoriche de' vescovi che ebbero per patria la Nobil Terra del Monte San Savino, in Id., Notizie istoriche spettanti alla nobile Terra di Monte San Savino ed agli eccellenti personaggi di diverse famiglie più cospicue che la illustrarono raccolte dal sacerdote don Restorello Restorelli maestro de' maggiori in detta Terra l'anno 1772 (BCMSS, ms n.17) cc. 24-25.
7. L. van Gulik, C. Eubel, Hierarchia Catholica, vol. III, pp.246, 306.
8. APREM, n. 2316, c. 504.
9. Il dott. Francesco di Raffaello ebbe da Caterina Gagnioni di Montepulciano (morta nel 1671) almeno otto figli tra il 1627 e 1642, tra cui Pietro (n. 1632 - m. 1696), dottore e chierico, e Marcantonio (n. 1636 - m. 1699), sacerdote, con cui si estingue il ramo familiare (APREM, n. 2116, c. 94).
10. Sposata il 6 ottobre 1584 (APREM, n. 2480, atto n. 99; n. 2483, c. 1076; ACVA, n. 36, c. 31).
11. APREM, n. 2552, c. 347.
12. T. Torri, Ricordanze (BCA, ms. n.108), cc. 82, 87v, 100v.
13. APREM, n. 26, cc. 222-23; n. 1209, c. 85; n. 2486, atto n. 46.
14. APREM, n. 2555, c.696; n. 29, c.34.
Fonti
AAM – Archivio Arcipretura di Monte San Savino
ACVA – Archivio Curia Vescovile di Arezzo
APREM – Archivio storico Preunitario del Comune di Monte San Savino
ASA – Archivio di Stato di Arezzo
BCA – Biblioteca Città di Arezzo
Bibliografia essenziale
* G. V. Rossi (Ianus Nicius Erythraeus), Pinacotheca tertia imaginum virorum aliqua ingenii & eruditionis fama illustrium qui auctore superstite e vita decesserunt, Coloniae Ubiorum apud I. Kalcovium, 1648, pp. 296-300;
* T. Spizelius, Felix literatus ex infelicium periculis et casibus, Augsburg 1676, pp. 225 segg.;
* K. F. Flögel, Geschichte der Hofnarren, Leipzig 1789, pp. 315-16;
* P.-J. Mariette, Abecedario de P.-J. M. et autres notes inédites de cet amateur sur les arts et les artistes, a c. di Ph. de Chennevières e A. de Montaiglon, Parigi 1854-56, tomo III, p. 329;
* F. Guelfi, C. Baldi, Monte San Savino attraverso i secoli, Siena 1892, p. 150;
* E. Schleier, The Menicucci Portrait restudied, in "Bulletin of the Art Association of Indianapolis", 52,4, 1965, pp. 78-86;
* J.-P. Cuzin, Pour Valentin, in "Revue de l’Art", 28, 1975, pp. 53-61;
* A. F. Janson, A. I. Fraser, 100 Masterpieces of Painting: Indianapolis Museum of Art, Indianapolis 1980;
* B. Sani, La fatica virtuosa di Ottavio Leoni, Torino 2005, p. 165 e tav. 152;
* M. Gregori, Una ‘capoccia’ del Valentin: un altro ritratto di Raffaello Menicucci, in "Paragone. Arte", 59, 2008, Ser. 3, 79, pp. 3-14;
* F. Petrucci, Pittura di ritratto a Roma – Il Seicento, Roma 2008, pp. 156-57;
* A. Bacchi, T. Montanari, I marmi vivi. Bernini e la nascita del ritratto barocco, Firenze 2009, pp. 274-77.
Didascalie illustrazioni
1- Ottavio Leoni (1578-1630), Ritratto di Raffaello Menicucci (1625), bulino e puntasecca, 144x111 mm (Roma, Ist. Naz. per la Grafica, Gabinetto delle stampe, inv. 93032).
2- Claude Mellan (1598-1688), Ritratto di Raffaello Menicucci (1626-27): incisione.
3- Stemma Menicucci in pietra del sec. XVII (Monte San Savino, via Sansovino).
4- Particolare con stemma dipinto Menicucci: dal ritratto dell'arcivescovo Rosso degli Ubertini (Monte San Savino, Palazzo comunale).
5- L'arme Menicucci (Armi delle famiglie della nobil Terra di Monte San Savino, BCA, ms anonimo della seconda metà sec. XVIII, c.61). Il disegno è corredato dalla seguente didascalia: "Stemma gentilizio del antica famiglia Menicucci del Monte S. Savino estinta. Il campo dentro è color d'oro, per fuori turchino".
6- La facciata di casa Menicucci, oggi Aldinucci (Monte San Savino, piazza Gamurrini).
7- Il portale di casa Menicucci, oggi Aldinucci.
8- Particolare del portale suddetto, con giglio araldico.
9- Valentin de Boulogne (1591/94-1632), Ritratto di Raffaello Menicucci: olio su tela, 80,6x65,1 cm (Indianapolis, Museum of Art, Delevan Smith Fund).
10- Particolare del ritratto suddetto. Il disegno sul foglio che il personaggio reca in mano rappresenta il cassero (o rocca) di Monte San Savino – che il Menicucci acquistò nel 1618 - e riporta, oltre al nome del personaggio, la dicitura "Rocca del Conte".
11- Il cassero di Monte San Savino (sec. XIV).
12- Valentin de Boulogne (1591/94-1632), attr., Ritratto di Raffaello Menicucci, olio su tela (Milano, Collezione Koelliker).
13- Incisione di Ottavio Leoni con firma del Menicucci.
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