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ing.Pierluigi Carnesecchi

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Storia dei Carnesecchi 1

Storia dei Carnesecchi 2

Storia dei Carnesecchi 3

 

Personaggi

 

Andrea di Bernardo di Cristofano di Berto di Grazino Carnesecchi ( 1442--….)

 

 

 commissario di Cortona nel 1498

 

 

 

 

 

 

Paola Ventrone Cerimonialità e spettacolo nella festa cavalleresca fiorentina del quattrocento 

……………………Tra i vari giochi cavallereschi l’armeggeria fu appunto quello che meglio ottemperava a finalità di carattere propagandistico. Si trattava infatti non di un combattimento vero e proprio, ma di uno spettacolo coreografico nel quale un gruppo di armeggiatori, accompagnati da una folta schiera di donzelli, sfilava per le strade cittadine ostentando sfarzose uniformi, per poi radunarsi in una piazza o in uno slargo a dimostrarel’abilità e l’eleganza dei propri componenti nel cavalcare ritti sulle staffe scorciate e nel "rompere" le lance. Protagonista e promotrice di tali manifestazioni era la cosiddetta "brigata", ossia un tipo di associazione effimera i cui giovani consorti, provenienti in prevalenza dai ranghi dell’aristocrazia cittadina, si riunivano temporaneamente sotto l’autorità di un "signore" o "messere" che sosteneva l’onere del trattenimento. Al messere (titolo che, com’è noto, designava propriamente il cavaliere, benché questa qualifica non fosse richiesta ai giovani delle brigate) spettava quindi fornire al proprio seguito di sodali e di donzelli (perché se il numero dei membri della brigata doveva aggirarsi per legge attorno alle 12 persone i valletti potevano, in compenso, essere anche più di 10 per armeggiatore creando così un corteo imponente) le livree contrassegnate dalla divisa e dal motto della brigata, e finanziare tutti i trattenimenti affiancati alla pubblica dimostrazione, cioè il banchetto, che per costume la precedeva o la seguiva, e l’eventuale ballo ad essa associato.Ma l’abilità dimostrata nel gioco militare era relativamente poco importante rispetto allo sfarzo e allo spreco delle uniformi ingioiellate e indossate a strati sovrapposti, che gli armeggiatori sfilavano ad una ad una per poi abbandonarle "in elemosina" al ‘popolo’ dopo la parata ostentatoria per le vie della città: un gesto di generosità che, dietro l’apparenza del dono, celava l’ulteriore intento di diffondere, con le insegne gentilizie apposte agli indumenti, il ricordo dell’evento e delle casate in esso coinvolte anche dopo il suo effimero accadimento. 

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In età medicea, in un momento di instabilità politica determinato dalla malattia terminale di Cosimo il vecchio, è per esempio rimasto famoso l’episodio dell’armeggeria dedicata da Tommaso Benci a Marietta degli Strozzi: un avvenimento ricordato da diversi cronisti, e celebrato da un poemetto in terza rima di Filippo Lapaccini, che attraverso la finzione di un corteggiamento cavalleresco doveva palesare il gesto di riavvicinamento della fazione pallesca guidata dai Benci – e comprendente alcuni esponenti filomedicei degli Strozzi –all’avverso ed esiliato ramo familiare discendente da Palla Strozzi del quale Marietta di Lorenzo era la nipote, come hanno evidenziato l’ingegnosa interpretazione del Trexler e, con differenti evidenze documentarie, la puntuale analisi di Mario Martelli. Furono proprio le potenzialità destabilizzatrici insite nelle pubbliche esibizioni intese a nobilitare gruppi di privati cittadini che segnarono il destino dell’armeggeria già prima dell’ascesa dei Medici alla guida politica della città……………………………………………..

 

 

 

.........................si potrebbe ricavare l'impressione che i Medici fossero i soli "registi" delle feste pubbliche ma sarebbe un grave errore. Ad esempio per quanto riguarda le giostre, l'iniziativa spettava diritto ai Capitani di Parte Guelfa, quando esse erano organizzate per festeggiare un avvenimento in genere politico che interessava l'intera comunità urbana e inoltre ogni grande famiglia aveva il privilegio di allestire uno spettacolo per esaltare un avvenimento personale. Uno degli esempi più famosi è l'"armeggeria" allestita il 14 febbraio 1464 in pieno carnevale dalla famiglia di Bartolomeo Benci Il pretesto fu l'omaggio tutto "cortese" reso da Bartolomeo Benci alla dama del suo cuore, Marietta Strozzi, che aveva la fama di essere una delle più belle donne di Firenze. Il fasto di quell'omaggio fu all'altezza della donna celebrata. Apriva il corteo una "brigata" di otto giovani delle più grandi famiglie di Firenze ( i Carnesecchi, i Marsuppini, i Pucci, i Vespucci, gli Altoviti ecc.). ognuno circondato da trenta giovani che sostenevano torce accese (il corteo si svolgeva di notte) e "avevano tutti le calze alla divisa e gonellini della divisa del giovane che accompagnavano". Anche il "signore" della brigata, il giovane Bartolomeo Benci, era circondato da cavalieri in tenuta di gala con la sua divisa. Il corteo si diresse verso il palazzo di Marietta Strozzi ' detto "palazzo Strozzino", seguito da "un piuttosto kitsch trionfo d'Amore", almeno secondo P. Orvieto. sul quale si vedevano "molti spiritegli d'amore con archi in mano" e "in su la cima di detto trionfo era un cuore sanguinante acceso in fiamme di fuoco, che del continuo ardevano con certi razzi". Bartolomeo Benci seguiva il carro indossando vesti coperte di pietre preziose. Giunti al palazzo di Marietta, gli otto giovani' della "brigata" deposero il costume di gala e l'armeggeria ebbe inizio: ognuno ruppe una lancia "a piè della finestra dov'era detta dama" e intanto il carro che recava il trionfo d'Amore andò in fiamme lanciando razzi.

 "Dietro la pellicola della facciata amorosa (gli emblemi delle divise, il cuore sanguinante, i razzi d'amore, le ali che bruciano ecc.), dietro le quinte dei trionfo d'amore, l'armeggeria indicava a potenti e cittadini una nuova ferrea coalizione Benci-Strozzi, probabilmente antimedicea (se non altro per l'esclusione di ogni componente della famiglia dei Medici). 0 almeno, se pur si ammette il beneplacito dei Medici (che nel 1466 revocano l'esilio nei confronti degli Strozzi) pur sempre di un panegirico delle famiglie Benci e Strozzi si tratta." Questa tesi è condivisa da L Ricciardi, che si spinge anche oltre vedendo nell'"armeggeria" di Bartolomeo Benci "un gesto provocatorio e di intimidazione" nei riguardi dei Medici i quali attraversavano un periodo delicato dei loro rapporti con una parte dell'oligarchia. Si deve constatare che due anni dopo Piero de' Medici revocò il "bando" che aveva costretto all'esilio gli Strozzi permettendo loro di rientrare a Firenze e riconciliarsi con la sua stessa famiglia. (Pierre Antonetti)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

 Paola Ventrone Cerimonialità e spettacolo nella festa cavalleresca fiorentina del quattrocento 

……………………Tra i vari giochi cavallereschi l’armeggeria fu appunto quello che meglio ottemperava a finalità di carattere propagandistico. Si trattava infatti non di un combattimento vero e proprio, ma di uno spettacolo coreografico nel quale un gruppo di armeggiatori, accompagnati da una folta schiera di donzelli, sfilava per le strade cittadine ostentando sfarzose uniformi, per poi radunarsi in una piazza o in uno slargo a dimostrarel’abilità e l’eleganza dei propri componenti nel cavalcare ritti sulle staffe scorciate e nel "rompere" le lance. Protagonista e promotrice di tali manifestazioni era la cosiddetta "brigata", ossia un tipo di associazione effimera i cui giovani consorti, provenienti in prevalenza dai ranghi dell’aristocrazia cittadina, si riunivano temporaneamente sotto l’autorità di un "signore" o "messere" che sosteneva l’onere del trattenimento. Al messere (titolo che, com’è noto, designava propriamente il cavaliere, benché questa qualifica non fosse richiesta ai giovani delle brigate) spettava quindi fornire al proprio seguito di sodali e di donzelli (perché se il numero dei membri della brigata doveva aggirarsi per legge attorno alle 12 persone i valletti potevano, in compenso, essere anche più di 10 per armeggiatore creando così un corteo imponente) le livree contrassegnate dalla divisa e dal motto della brigata, e finanziare tutti i trattenimenti affiancati alla pubblica dimostrazione, cioè il banchetto, che per costume la precedeva o la seguiva, e l’eventuale ballo ad essa associato.Ma l’abilità dimostrata nel gioco militare era relativamente poco importante rispetto allo sfarzo e allo spreco delle uniformi ingioiellate e indossate a strati sovrapposti, che gli armeggiatori sfilavano ad una ad una per poi abbandonarle "in elemosina" al ‘popolo’ dopo la parata ostentatoria per le vie della città: un gesto di generosità che, dietro l’apparenza del dono, celava l’ulteriore intento di diffondere, con le insegne gentilizie apposte agli indumenti, il ricordo dell’evento e delle casate in esso coinvolte anche dopo il suo effimero accadimento. 

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 .........................si potrebbe ricavare l'impressione che i Medici fossero i soli "registi" delle feste pubbliche ma sarebbe un grave errore. Ad esempio per quanto riguarda le giostre, l'iniziativa spettava diritto ai Capitani di Parte Guelfa, quando esse erano organizzate per festeggiare un avvenimento in genere politico che interessava l'intera comunità urbana e inoltre ogni grande famiglia aveva il privilegio di allestire uno spettacolo per esaltare un avvenimento personale. Uno degli esempi più famosi è l'"armeggeria" allestita il 14 febbraio 1464 in pieno carnevale dalla famiglia di Bartolomeo Benci Il pretesto fu l'omaggio tutto "cortese" reso da Bartolomeo Benci alla dama del suo cuore, Marietta Strozzi, che aveva la fama di essere una delle più belle donne di Firenze. Il fasto di quell'omaggio fu all'altezza della donna celebrata. Apriva il corteo una "brigata" di otto giovani delle più grandi famiglie di Firenze ( i Carnesecchi, i Marsuppini, i Pucci, i Vespucci, gli Altoviti ecc.). ognuno circondato da trenta giovani che sostenevano torce accese (il corteo si svolgeva di notte) e "avevano tutti le calze alla divisa e gonellini della divisa del giovane che accompagnavano". Anche il "signore" della brigata, il giovane Bartolomeo Benci, era circondato da cavalieri in tenuta di gala con la sua divisa. Il corteo si diresse verso il palazzo di Marietta Strozzi ' detto "palazzo Strozzino", seguito da "un piuttosto kitsch trionfo d'Amore", almeno secondo P. Orvieto. sul quale si vedevano "molti spiritegli d'amore con archi in mano" e "in su la cima di detto trionfo era un cuore sanguinante acceso in fiamme di fuoco, che del continuo ardevano con certi razzi". Bartolomeo Benci seguiva il carro indossando vesti coperte di pietre preziose. Giunti al palazzo di Marietta, gli otto giovani' della "brigata" deposero il costume di gala e l'armeggeria ebbe inizio: ognuno ruppe una lancia "a piè della finestra dov'era detta dama" e intanto il carro che recava il trionfo d'Amore andò in fiamme lanciando razzi.

 

 

 

 

 

 L'armeggeria che fece Bartolomeo Benci e altri composta per Filippo Lapaccini ( Anno 1469 )

 L'armeggeria di Bartolomeo Benci messa in rima da Filippo Lapaccini

 

  

 Invitto trïonfante e sacro Amore,che 'n terza spera trïonfando regni,vittorïoso arcier, sommo signore,

oggi il tuo gran valor non si disdegni,ma scalda il petto mio con quello straleche 'nfiammò già il pastor degli occhi degni.

Voi, sante suore, se 'l mio priego vale,prestate tanto a me di vostra aitache 'l camin truovi onde al cielo si sale.

Era da noi la gran luce partitae già imbrunito tutto il nostro cornoe ogni stella fuor co' raggi uscita,

quando per la mia patria andando intorno,pensando ' Amor che libertà mi tolse,nella qual mai non pote' far ritorno,

e giunto al loco là dove Amor volseper rimirar colei ne' suo sembianti,che tanti già legò né mai li sciolse,

i' posi fine a' dolorosi pianti,e quai sostenni sotto tal signore,e conversi i sospiri in dolci canti.

Mentre che tanto gaudio istava al core,i' volsi in alto gli occhi e risguardaichi può far bello il ciel col suo splendore.

Ed eran sì fulgenti i suo bei raich'ogni vista aquilea restere' vinta,né luce tal si vide unquanco mai.

Pareva l'alma d'esto corpo spintaper la biltà infinita di coleich'è di sì gran valore e virtù cinta.

"O sacri, o santi, o giusti, o alti iddei,— inverso il ciel diss'io con tal parole —voluntà parla, miserere mei!

Non moverai delle superne scole?O in giovenco o in bifolco o 'n bovecangia tua forma' acquistar tanto sole!

O figliuol di Saturno, o sommo Iove,pàrtiti della tua più somma spera,torna per questa alle tuo antiche pruove! "

Così guardando questa donna alteradi tante ninfe circundata intorno,ma la sua diva luce ogn'altra impera,

i' ho già visto Febo a mezzo 'l giorno,quando più l'orizzonte nostro scalda,non lucer quanto questa al nostro corno;

né nel regno di Pluto bolle faldaquant'io nel petto il sangue mi sentìa,né la mie mente vi potea star salda.

" O donna, a cui Fortuna è tanta pia,o gloria, o fama, o trïunfante onore del sangue Strozza, o ben che si disia! "

diss'io ripien d'un amoroso ardore,e mai non volsi gli occhi in altro lococh'a rimirar di questa il suo splendore.

E mentre ch'io posavo in tanto gioco,mi giunse per un tuon tanto spaventoch'ogn'altro gran parlar sarebbe poco;

perch'io fermai a quello udire intento,ond'io senti' gridare ad alta boce:"Amore, Amor!" da ciaschedun contento.

Poi viddi la gran turba in quella focein là voltarsi, gridando: "Che fia?"e tal facea delle braccia croce.

Ond'io verso il romor tolsi la viae, giunto per veder, fra tanti umanividi nuovo splendor che risplendia.

Molt'angeliche trombe in su que' pianisenti' sonar con molti altri strumenti,ch'arien forza a far gli altri tutti vani;

ond'io fermai a ciò gli orecchi intentia tanta melodia, ch'i' non sapreiporgerl'a pien co' mie versi seguenti.

Stelle pianeti cieli uomini e dèieron ripien d'una sì gran dolcezzache saperne dir parte i' nol potrei.

Po', colla vista chiara di franchezza,m'accosta' io per me' veder coloroche van per fama alla celeste altezza.

Quanto più presso m'accostavo a lorodi tanto maggior gaudio ero repletoed era più coperto il tenitoro;

e quel che m'era in tutto ancor segretomi fece l'occhio a punto manifestoe 'l trïunfo e la gloria, ond'io fu' lieto,

ch'i' vidi gente in su l'omor terrestocon doppier tanti, essendo ancor lontano,che 'l creder mi parrebbe men ch'onesto.

Tutta Firenze bella, il poggio e 'l piano,era di tanta festa e gaudio pienache nollo scriverebb'ingegn'umano.

Della gente fiorita e nazerenasentivi già sonagli e corridorie 'l gridar della gente che gli mena.

Rendevan que' doppier tanti splendoriche Troia ardendo non ne mostrò tantial fin degl'infiniti suoi dolori.

Di passo in passo si facea davanti,per far onor e cultivar coleiche ha già tolta libertad' a tanti.

Tanta gente vid'io ch'i' nol potreitrattarne a pieno in versi, in prosa o 'n rima,ché tedio agli audienti porgerei.

Vidi nove scudier di tanta stima sopra nove corsier di tal misura che ma' alcun altro giunse a quella cima;

e ciascuna leggiadra, alma figura have tanti sergenti sempre intorno che n'occupavan tutta la pianura.

E tanto questi amanti oltre passoronoche giunson là dove colei posava,ov'a sua servitù più si legorono;

e "Benci! Benci!" forte si gridava, perché Bartolomeo n'era il signore, che tutti gli otto amanti oltre guidava.

E un, che pare Marte acorridore,coll'aste in man faceva far la viacon furia, con tempesta e con romore.

E, così stando tanta compagnia,dall'un de' lati quegli amanti stanno infin ch'altro romor lì si sentia,

qual era Amor nel trïunfante scanno.

Finito il primo capitolo comincia il secondo

La notte era più bella assai che 'l giorno per gli occhi fiammeggianti di quel sole,ch'alluminavan tutto il nostro corno.

El tumulto e 'l gridar di tanta prolesentivi raddoppiar di punto in punto,che ne tremavan le mondane scole,

quando un bel carro trïunfal fu giunto,ornato di sì magno e gran tesoro,e 'n sulla cima Amor coll'arco asunto.

Questo non più veduto alto lavoroera portato via da gente tantache par che voli sopra il teritoro;

e sotto quel ciascuno amante cantacon tanta melodia, con tal dolcezzache col mio ingegno non sapre' dir quanta.

Così, passando via con tal destrezza,tal che l'amata donna il può vedere,essendo inanzi a lei pien d'adornezza,

quivi si ferma il carro e le sue schiere,e drieto a quel veniva il gran signoreritto in istaffe sopra al gran corsiere,

e ben parea che seguitassi Amore,gli omeri alati e le suo chiome bionde,qual chi è pien d'un amoroso ardore.

Di perle e gemme e pietre sì giocondeera carico sì ch'al Persïano colle sue tutte non sarien seconde;

e un dorato dardo porta in manocol suo corsier Leardo impomellato.Così Bartolomeo ne va in sul piano,

e da tanti sergenti è circundato,con censessanta o più doppieri intorno,che seguiano il signor per ogni lato.

Ed era ogni scudier di punto adornocol raso chermusì, coll'ermellino,e di sotto e di sopra si mostrorno.

El primo ch'io sguardai per quel camino fu Marco Strozzi e Rinuccin potente, Domenico chiamato in quel confino,

degli Alberti Altobianco e l'uom valente Francesco Popoleschi e 'l buon Simone,ch'è de' Vespucci, e va drieto al corrente

Giorgio de' Ricci che pare un campione,Nicolò Benci e Baldo de' Tedaldi e Baccio del Tovaglia e più persone

e Rinier Giugni fra costor sì caldi,Baccio Tedaldi e Nicolò Mannelli, ch'a guardia del signor sempre son saldi.

E gli altri amanti valorosi e bellial gran signor si facèn più vicini,né saziar mi potea nel mirar quelli;

così in un punto presono i confini.Dall'un de' lati della strada stannogli amanti valorosi e pellegrini,

e certi in sul caval sanz'altro affannodiscretamente facèn far la viaper tôr gli amanti da vergogna e danno.

Poi gridar "Guarda, guarda!" si sentia,però che 'l Cavallin sopr'al destriericol dardo in man veloce oltre venìa.

Po' radoppiò il romor sopra' sentieri,ch'un de' leggiadri amanti vuol provarsie vien di buone gambe e volentieri,

e fé da scudier molti circundarsi:da Giachinotto Boscol ch'è vicino,che sempre il fé fuggire i luoghi scarsi,

e Francesco Busin che par divino,Baron Cappelli e Bindaccio presente,Matteo Boni e Berardo in su' confini.

E tutti istanno intorno al gran corrente;e Andrea Bon con le sue chiome d'oroera ritto in istaffe gentilmente;

è adornato d'un gentil lavorosopra al suo dosso un bel drappo d'argento:e così passa sopra al tenitoro.

E ognun di veder parea contentole gambe pien di perle e bisantini,come conviensi a tanto adornamento.

E gli occhi suoi leggiadri e peregrinivolse alla donna e poi, gridando: "Guarda!",tocco il corsiere, è mosso da' confini;

co' la man destra sua pronta e gagliardaa mezzo il corso brandì il dardo e poipronto passò qual palla di bombarda,

dietro correndo ben gli scudier suoicol drappo pagonazzo e su' livrea,fin che dall'altra banda giunse a noi.

I' lo sguardai, ch'un Ansalon parea,leggiadro, vago, bello, innamorato,degno d'un'immortal e gran nomea.

Po' che da' suo scudier fu circundato,andò da banda, però che 'l gridaresi sentia: — Vespa! Vespa! — più infiammato.

E com'i' vidi Pier, l'uom singulare,ritto in istaffe e col suo dardo in mano,col popol che lo volse seguitare,

levossi a volo in tempo momentanoe va contento con virtù sovranacon gente del signor ch'è tanto umano.

Quando alla donna giunse tanto umana,a mezzo 'l corso il dardo intorno volsee va veloce su per la via piana;

giunse dall'altra banda e via si tolse,ond'io scolpi' l'argento e 'l drappo e l'oro,che 'ntorno al suo bel dosso si racolse.

E così a questi due facien dimoroda l'un de' lati e co' doppieri intorno,tal ch'esser mi parea nel sommo coro.

Così faccendo in tal loco soggiorno,el terzo amante è co' suoi be' sergenti,che 'ntorno al suo corsier lo circundorno.

E Antonio Gondi sta cogli occhi attenti,de' Nobili Guglielmo e Andrea Bonciani e Dïonigi Pucci è fra' contenti;

Nicolò Baldi e Marco Pucciapianie Lionardo di Giunta ancor con lui,Simon de' Nobili è fra tanti umani;

e Michel Zati ancora è con costuie Lodovico Pucci, il terzo amante,ispera far di sé segnare altrui.

Ritto in istaffe sopra l'afferrante,tocco il cavallo, e' passa com'un ventoe giunse a mezzo il corso in uno stante

e brandì il dardo e passò via contento,costui che pare un Marte nell'aspetto,di gemme adorno, d'oro e drappo argento,

quando al cor cominciommi altro diletto.Finito il secondo capitolo comincia il terzio

Già fiammeggiar la matutina stella,che co' suo santi raggi il ciel 'namora,vid'io, più ch'alcun tempo vaga e bella,

quand'un, ch'i' non v'ave' pi— visto ancora,de' nove amanti si levò a romore,perché della sua prova è giunta l'ora.

Molti scudier d'intorno al corridoreaveva il Marsupin, ch'a veder quelliun cor di smalto accendevan d'amore.

Fra questi tanti valorosi e belli Salvestro Benci e Salvador Del Cacciav'era e Giulian Ginori e Pier tra egli;

Giovan Gerin seguiva ancor la traccia,Francesco Giugni e 'l suo carnal fratello,che vola più che cervo messo in caccia;

Cristofan Marsupini è ancor con quello,e tutti indosso avèn d'alessandrino,bel sì ch'ancor si vide mai più bello.

E avea in mano il giovan pellegrinoun aürato dardo e quel portava,e dir si sente: "Viva il Marsupino!"

Iacopo poi il suo caval toccava,sendo in istaffe e dell'arcion sospeso,e non corre con quello, anzi volava;

e come a mezzo il corso fu disceso,el dardo gira intorno e via passòe:così ne va costui col cuore acceso,

e ogni suo sergente il seguitòe,tanto che giunto fu dall'altra bandaa me vicino, e giunto si fermòe;

è 'n sulle trezze bionde una grillandad'oro e d'argento che rende splendore,che per bellezza a ogni altra comanda.

Così seguendo va lo stil d'Amore,adorno di sì magno e gran tesoroch'i' non are' a contarlo alcun valore.

Mentre guardavo quel giovan sonoro,senti' con maggior tuon forte gridarepro quinto amante adorno a gemme d'oro;

"Altoviti! Altoviti!" era il sonare,il perché i' volsi gli occhi in quella partee vidilo in istaffe e 'n piedi stare.

Volse natura ben mostrar su' arte quando concesse a noi sì pulcro obietto,che torre' l'arco ' Amore e l'arme a Marte.

D'argento e drappo adornò il suo cospettocon le suo chiome bionde e suo sergenti,che stanno intorno al corridor perfetto.

Fra gli scudier mirabili e valentiera Albizzo Mancini e Alfonso Pitti; Giovan di Cardinal par che si senti.

E per lo stil d'Amor tutti son dritticon Francesco Altoviti in poggio e 'n piano,per esser poi nel mondan cerchio invitti:

d'i Tolosin Tomaso alto e sovrano e Francesco Cappon, Pier Tornabuoni, che none istanno mai da que' lontano,

e Francesco Gherardi e più campioni, Ridolfo Lotti intorno al gran corrente,qual si sentì toccar d'ambo gli sproni.

Mossesi quel corsier velocemente,e l'Altovito va gridando: "Amore!"Brandì più volte il dardo fieramente.

Così passava via con gran furore,finché dall'altro illato giunto fue,quand'io senti' levar nuovo romore:

Bartolin, Bartolin! — con gran virtùe,che par ritto in istaffe Ettor di Troia;più fiero sguardo ancor non vidi piùe,

con drappo e argento addorno in tanta gioiache gli scudieri intorno pien d'ardire(che) lo volevan[o] tôr da ogni noia.

El primo appiè ch'i' vi pote' scolpireè Pier Francesco e 'l mie Pier Signorini, che 'n ogni parte lo volien seguire.

E Mariotto Bisdomini a' confinividdi col buon Girolamo Salvetti,de' Tornabuon Luigi e Sandro Spini.

Questi scudier mirabili e perfettigridavan: — Bartolini! — e: — Viva! viva! —e così tutti insieme son ristretti.

Bartolomeo con la sua luce divatoccò il caval con furia d'ogni spronee per brandire il dardo si partiva;

a mezzo il corso, essendo in su l'arcione, el dardo volse e pronto passò via con furia tal ch'i' n'ebbi ammirazione.

Onde novo romor poi si sentia,ché l'altr'amante vòle far suo pruova;— Girolami — gridar pronto s'udia.

E tal tesoro intorno a quel si truovad'argenti e drappi e gemme in quantitade,che ben parea sguardando cosa nova.

Costui ch'io vidi in tal felicitadeera sopr'un corsier di tal naturache già ma' par non ha suo qualitade.

Questa celeste e angelica figuraave' tanti sergenti sempre pressoch'aveano al pulcro obietto sempre cura;

perch' Anton Lapi vi cognobbi spresso, Anton Guidacci bello a maraviglia,e Filippo Girolami è con esso.

E altri assai di più gentil famigliagli vidi intorno e mai partir da quello,ma per sua guardia istan sempre alla briglia.

Col dardo in man dorato, vago e snello,ritto in istaffe, toccò il suo corsiere,che par che voli più ch'alato uccello.

Così Francesco mio prese il sentieree al mezzo il cammin quel dardo volsee via passava pronto e volentiere;

giunse dall'altra banda e via si tolse,— Girolami! — gridando tuttavia,e fra quegli altri amanti si raccolse.

E così stando tanta compagnia,senti' nuovo romor dell'altro amante,che novel Ganimede par che sia;

vago, leggiadro, bel, fermo e costante era Andrea Carnesecchi alto levato ritto in istaffe sopra 'l suo afferrante,

e da' suo be' sergenti è circundato:da Giulian Carnesecchi in sul sentiero, Giovan Ginor non l'ha dimenticato,

Pier Carnesecchi e Francesco di Piero che non era al seguirlo pigro o tardo, Filippo di Bernardo tanto altiero.

Era Andrea Carnesecchi più gagliardo col paggio innanzi e col caval coperto,adorno sì ch'a dir parrei bugiardo.

Era l'amante sì leggiadro e sperto tutto vestito al bel drappo d'argento e d'amor sempre aspetta degno merto.

E poi partì col dardo in un momento e volse a mezzo il corso intorno quello e brandì quel, passando com'un vento.

Come dall'altra banda il damigello tra gli altri amanti giunse, i' lo sguardai, che pare un bel falcon fuor di cappello.

Così giunto fra lor con gente assai,novellamente — Viva al gran signore! —senti' gridar più forte assai che mai,

co' be' sergenti intorno al corridorequal i' ti dissi, e pel suo gran tesororendeva a' circustanti gran splendore

con be' ricami e con gentil lavoro,ritto in istaffe sopra al gran cavallo,e come gli altri in mano il dardo d'oro.

E suo scudier gli fanno intorno un ballo,come conviensi a tanto amor perfetto,ma poco fu dal muover d'intervallo:

tocco il corsier, e' va passando istretto,e girò il dardo a mezzo il suo camino,gridando: — Amore, Amor! — sanza difetto;

sì che il signor famoso, alto e divino,fatta suo prova, fu dall'altra bandaco' l'alia aperte a ogni altro vicino

e l'aürea sua bella ghirlanda.

Finito il terzo capitolo comincia il quarto

Avea il pianeto già freddo e notturno fatto gran parte del suo gran cammino, quando gli amanti più infiammati furno.

Ave' il signor famoso, alto e divino alie di perle e palle per colei, per cui sì bel si mostra in tal confino.

Non potêr mirar fiso gli occhi miei tante mirabil cose e sì gran luce, che rendono i begli occhi di costei.

El signor che gli amanti là conducegli fé dall'altra banda tornar dove partiti s'eran pria sotto tal duce;

poi tal romor, che quando tona Gioveno ne fa tanto quanto questi appena, perché gli amanti volean far lor pruove.

E poi che 'l Cavallin colla man pienapassato è via coll'aste e rotta quella,mi volsi a risguardar con forte lena;

una figura assai leggiadra e bellavid'io e tutta dall'arcion sospesa,e dice sempre "Amore" in sua favella.

Costui che segue così alta impresaera Andrea Bon, che forte passa viacoll'aste in mano e con la faccia accesa.

Mentre che sì veloce e fier venìa,a mezzo il suo cammin quell'aste chinae ruppe quella e 'n pezzi in alto gìa;

e ogni suo sergente s'avicinatanto ch'al fin della sua strada giunsecolla sua luce diva e pellegrina.

Po' Pier Vespucci udi', che 'l caval punse,che far voleva la pruova seconda,dove per fama sé molto alto assunse.

Coll'aste in man dorata sua giocondapassa sì forte che mai fiera alcunanon corre in bosco sì ben rubiconda;

e come destin volse o suo fortuna,a mezzo il corso egli abassò la lanzae 'n pezzi la fé gir nell'air bruna.

L'amante terzo con la sua baldanzae pien d'ardir con l'aste d'oro in manotoccò il caval per mostrar suo possanza.

Mentre che sì feroce va pel piano,si sente — Pucci! Pucci! — gridar forte,e così passa in tempo momentano.

Chinò la lanza e sì di fiera sorte Lodovico de' Pucci en pezzi millevolar la fé ver la celeste corte;

così menando va fiamme e faville,tanto che giunto fu dall'altra parte,d'amor mostrando assai varie scintille.

Po' co' l'alta infruenzia di dio Martesi mosse il Marsupin pien di tempesta,ritto in istaffe seguitando l'arte;

la lancia in pugno, e' punto non s'arresta,ma va come saetta d'arco spinta,chinando l'aste alla parte terresta.

Quella abassò come persona cintad'ogni adornezza, e 'n pezzi verso il cielola fé volare, essendo l'aer tinta.

E un, ch'a ogni luce ha posto il velo,uman, benigno, affabile e cremente,vidi muover allor con pronto zelo.

Quant'io restai di sua biltà stupentenon domandar, ma la città del Fioreper questo oggetto par bella e florente.

Costui passava via con più furoreche non fa Giove irato quando tonacon alcun periglioso suo fulgore.

Così ne' fianchi il suo corsier isprona,co' be' sergenti sempre a lui vicini, e — Viva l'Altovito! — si ragiona;

coll'aste bassa va sopra' confini,a mezzo il suo camin in pezzi quellaal ciel mandolla e segue i suoi cammini.

Così passò quest'amorosa stella,ond'io senti' il romor dell'altro amanteBartolin!dir dal popol che favella.

Bartolomeo con le suo gente tantetoccò il cavallo e va ferocemente, essendo sempre ' Amor suto costante,

la lancia bassa e ritto in sul corrente,e chinò quella a mezzo il suo cammino ;fell'ire in pezzi al ciel velocemente.

E poi senti' con dolce e bel latino "Girolami!" gridar con voce scorta,amante bel, leggiadro e peregrino.

Né era sua speranza morta o spenta, ma passa via coll'aste d'oro in mano col suo corsier, che sì veloce il porta;

così Francesco mio ne va in sul pianoe a mezzo il cammin quell'aste china: mandolla in pezzi inverso il ciel sovrano.

Or qui incomincia la maggior rüina,perché Andrea Carnesecchi s'è rivolto,tal che per fama infino al ciel cammina.

È tutto dall'arcion sospeso e altocoll'aste in man dorata il damigello,né mai si vidde il più leggiadro volto.

Tocco il cavallo, è drieto il suo drappellode' be' sergenti, che volèn seguire,e 'n boschi e 'n poggi e 'n pian seguivan quello.

E com'a mezzo il corso e' può apparire,chinò la lanza, come gli altri in prima,e fella in tronchi mille al ciel salire.

Poi senti' tuon d'assai maggiore stima,però che 'l valoroso e gran signore volea salir per fama in sulla cima.

Sergenti assai dintorno al corridore Marabottin, Manetti ed altri assaidicien: "Viva de' Benci il gran valore!"

Com'io ti dissi, tal tesor che mais'era tal visto al mondo avea dintornoper più piacere a sì fulgenti rai.

Mentre che 'n questo loco fa soggiorno,ritto in istaffe sopra al suo Leardo,dice: "Amor, quando in libertà ritorno?"

E poi toccò il corsier fiero e gagliardo Bartolomeo e passa com'un vento,né creda alcun che sia pigro né tardo;

e, giunto a mezzo il corso, in un momentochinò la lanza e fella al ciel volareen pezzi mille e sanza impedimento

giunse dall'altra parte e fé chiamare tutt'i leggiadri amanti e' lor sergentie fegli a mezzo 'l corso ritornare.

E costor d'ubbidir furon contenti.

Finito il quarto capitolo comincia il quinto

Po' che con tuon gli amanti tornar viddial carro intorno e con più alto sònoche con suo furia non fé mai Cariddi,

io vidi Amore assunto al degno tronoco' l'arco in mano e la faretra al fiancoe quelli stral che mai mi diêr perdono.

Non sazio di mirar, né punto stancoero in quel punto ch'io senti' romoreche mi fé quasi il senso venir manco;

e raddoppiar senti' il tuono e 'l calore,perché il carro ch'io dissi tanto addornovid'io volgere in fiamma a gran furore.

Tutti i leggiadri amanti il circundornoe, perch'i' più non vidi Amore in cima,penso ch'alla sua spera e' fé ritorno.

Cosa non vid'io mai tanto sublima,ond'io non so se Giove, quando e' tona,romor fé mai di così alta stima.

Gli occhi leggiadri in quel punto abandonael famoso signor, guardando quella,ch'a così alta impresa pur lo sprona;

mentre che guarda così diva stellaquasi dicendo: "Donna, miserere!"vidi gente levar con tal favella.

Non con ragion può il servo alia tenere,né esser degno quanto il suo signore,ch'è tal che guida le celeste spere.

Così tarpar lo vidi a gran furoree poi privarlo delle belle chiomeda tal che disse: "E' lo consente Amore".

Ond'io vidi suo membra vinte e domee, poi che 'l carro fu dal fuoco struttocon più tesor che non val mille Rome,

vidi partir dal loco il popol tutto;ond'io ogni dolce suon, con tal dolcezzasenti' sonar ch'ogni altro parre' brutto.

D'Orfeo la cetra non diè tal vaghezza,né l'orar d'Anfïone a Tebe ancora,ch'acquistâr fama tal ch'ancor si prezza,

quanto ogni altro stormento con quel ch'orasenti' sonar e via partir gli amanti,chiamando sempre Amor, che 'l mondo onora.

Partissi il gran signor con sospir tanti,ch'io per piatà a lagrimar fu' spinto,ma di poi il cuore e gli occhi fe' costanti.

Pur ne' lacci d'Amor involto e cinto,retro al signor tenn'io per più vederequel ch'altrove farà chi è d'Amor vinto.

El nostro Bartolin sopr'al corsierecon suoi doppieri intorno e be' sergentialla suo donna si vuol far valere;

così là gli guidò tutti contentie fé provar gli amanti e lui da poisuo pruova fé colle sue luci ardenti.

Lucea la donna co' begli occhi suoi,tal ch'amirar mi fece il suo splendore,novellamente giù discesa a noi.

E l'altro amante con ardente core,per girne alla sua donna non mortale(subitamente si levò il remore),

volea mostrar che più ch'ogni altro vale; e Francesco Girolami, alto in sella,leggiadro è sì ch'al ciel per fama sale.

Così va per mirar sua santa stellae, vista lei, ciascun fece suo pruovade' detti amanti e lui, perch'è mai bella.

Poi, per volerne gire in parte nova, s'era Andrea Carnesecchi alto levato: più che mai bello e vago allor si truova;

e da' suo be' sergenti è circundato,guidando e begli amanti dove volse col gran signor benigno a quel voltato.

Giunto con tanto gaudio, ivi s'acolse, e ciascun fé suo pruova a quella iddea,che co' begli occhi già tanti cuor tolse.

E di poi il Marsupin di gran nome aguidò gli amanti alla sua donna altera,che ne' suo lacci involto quel tenea;

e, giunto là con sì leggiadra schiera,fece provar gli amanti, e già mai questogli occhi movea dalla sua santa spera.

Poi l'aste ruppe e via passò rubesto e presto poi s'abandonò quel loco,sì come all'Altovito parve onesto.

Con questa festa e dilettoso gioco Francesco gli guidò, sì d'amor pieno,qual altro mai nell'amoroso foco.

Ogni leggiadro amante in un baleno seguì di Marte il bellicoso stile,volar faccendo l'aste al ciel sereno.

Fu la donna all'amante tanto umìleche per amor trascorse in un tal piantoche mostrò stare amore in cor gentile.

Così, seguendo così dolce canto,è Lodovico Pucci d'Amor preso,fé in un punto voltar popol cotanto.

E ogni amante d'una fiamma accesoseguì costui a far mirabil pruove,parendo lor leggieri ogni gran peso.

Com'io gli vidi giunti al loco dovel'amante volse, e' fé provar coloro,tal che fé spaventarne e Marte e Giove;

poi ruppe l'aste quel sanza dimoro.Equal mai gli stormenti risonaresenti', che d'esser parmi al sommo coro.

Quando Andrea Bon costor fece voltaree que' condusse dove Amor lo tira,che cogli amanti là si vuol provare,

giunto l'amante là dov'el disira,sempre guardò negli occhi di colei che sotto il suo dominio lo martira.

Provoronsi gli amanti per costeie di poi quello, e va gridando "Amore!"e "Miserere sempre, o sacri iddei!"

Mostrò ogni amante ogni suo gran valore alla sua donna amata; tutti intornotornorno al valoroso e gran signore.

Da tal ricchezza è 'l suo bel corpo adorno che l'alte e ricche gemme di Sicheo con queste perderieno e notte e giorno;

onde 'l popol gentil e anche 'l plebeo stava a veder costui con gaudio immenso,ché par dal ciel disceso un nuovo ideo.

E, per dare a colei più ricco censo, ritornò con tal gaudio al loco degno, dove Amor sempre mai lo tenne offenso.

Giunto alla sua colonna e 'l suo sostegno con ogni amante, è lor più dolci suoni, ch'esser parêmi nel filice regno.

Così con lor leggiadri accenti e toni durorno un tempo, ed io, che gli ascoltai, mi parve un punto, omè! tant'eran buoni.

Poi si partì il signor con tanti guaico' detti amanti sempre in compagnia, tornando al sito suo con gente assai.

Era la bianca amica già tra via,quando giunse il signore al proprio sito,che con tal festa avea lasciato in pria.

D'onore e gloria più che mai vestitoera il signor con ogni amante allora e 'l pianeta notturno era sparito;

e ogni amante, sanza far dimora, fece con l'aste in man mirabil pruova : così con fede el gran signor s'onora.

Sparse tal festa inusitata e nova, né gli amanti e 'l signor vidi più intorno; e poi che tanto gaudio or non si truova,

è fatto oscura notte d'un bel giorno.

 

Finita l'armeggeria fece Bartolomeo Benci e altri composta per Filippo Lapaccini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Paola Ventrone Cerimonialità e spettacolo nella festa cavalleresca fiorentina del quattrocento

Ma le giostre del 1469 e del 1475, rispettivamente giocate e vinte da Lorenzo il Magnifico e dal fratello Giuliano, inserirono in questo contesto una dimensione di finzione cortigiana e di idealizzazione

realizzata che provocò quello scollamento cui prima accennavo rispetto al piano della realtà effettuale. Pur bandite dal Comune nella tradizionale stagione carnevalesca, le due giostre

medicee mirarono infatti a porre in prima evidenza non più il prestigio dell’intera comunità di Firenze, ma quello personale e particolare di Lorenzo e di Giuliano, e a questo scopo

esse vennero accuratamente programmate dagli intellettuali gravitanti nell’orbita familiare.

L’aspetto più interessante che emerge dalla notevole quantità di testimonianze sui due avvenimenti è che essi vennero progettati per parlare con linguaggi diversi a differenti

livelli di ricezione e di comprensione. Se agli occhi del pubblico fiorentino che normalmente assisteva in folla ai giochi cavallereschi le giostre medicee avrebbero dovuto

soltanto, secondo la prassi usuale, accrescere e consolidare il prestigio dei loro protagonisti attraverso lo sfoggio di un numeroso seguito e di sfarzose livree, senza però risvegliare, con

un eccesso di magnificenza, i timori di una possibile svolta tirannica dell’egemonia familiare; al livello della complicità più selezionata e coinvolta degli intellettuali cittadini e

degli ambasciatori forestieri Lorenzo e Giuliano si presentavano nella veste trasfigurata di eroi di un’epopea cavalleresca. Attorno alle due giostre si costruì infatti una finzione di

amore cortese che vedeva i giovani Medici, come nella migliore tradizione epica, combattere e vincere per conquistare il cuore di una dama.

I simulati innamoramenti di Lorenzo e di Giuliano per due donne notoriamente maritate e impossibilitate a ricambiare nella realtà i sentimenti dei rispettivi pretendenti (si

trattava, come è noto, di Lucrezia Donati sposata Ardinghelli e di Simonetta Cattaneo sposata Vespucci; e Lorenzo stesso, pochi mesi dopo il combattimento della giostra,

avrebbe sposato la romana Clarice Orsini) consentirono appunto di trasferire le giostre dal piano reale del combattimento armato fine a sé stesso a quello idealizzato dell’amore

cortese, mentre i due poemetti commissionati dai Medici al Pulci e al Poliziano per commemorare tali avvenimenti trasfigurarono il gioco simulato nell’invenzione letteraria, cosicché Lorenzo e Giuliano, che non potevano nella realtà politica della società fiorentina assumere una posizione veramente principesca, divennero, nell’idealizzazione cavalleresca, gli eroi leggendari di un’impresa cortigiana.

Ma a chi era diretta tutta questa complessa elaborazione di significati e di messaggi? Al di là delle apparenze essa non fu certamente concepita per accrescere il prestigio familiare all’interno dei confini di Firenze – per un simile scopo sarebbe stato sufficiente vincere le due giostre senza caricarle di significati ‘altri’ –, ma per diffondere all’esterno un’immagine regale della famiglia che la ponesse su un piano di interlocuzione paritaria con i regnanti forestieri, emancipandola e distaccandola dall’identità collettiva del governo comunale.

I poemetti del Pulci e del Poliziano, ampiamente diffusi dalle stampe, agirono come veicolo di divulgazione esterna della magnificenza principesca di queste giostre………………………………………….

Addì XII di febbraio 1468 [s.f.] – ricorda Lionardo Morelli – si fe’ una magna giostra in sulla piazza di Santa + con molta pompa di giovani in compagnia de’ giostranti, con molti

ricami, e perle in quantità et con due ricchissimi doni, de’ quali ebbe el maggiore Lorenzo di Piero di Cosimo de’ Medici, e ’l secondo Carlo Borromei.

E ser Giusto D’Anghiari, registrando anche il bando della giostra (una segnalazione alquanto rara nella memorialistica coeva), ricorda: Martedì a dì 22 detto [novembre 1474], in Firenze, i Capitani della Parte Guelfa fecero bandire una giostra alla tela in su la piazza di Santa Croce per a dì 28 di gennaio prossimo che viene, a scudi e roccetti e cavalli di mezza taglia, e che si darebbano due belli honori a due

giostranti che si provassino meglio. Deliberarono detta giostra per allegrezza della lega che s’era fatta co’ viniziani e col duca.

Domenica a dì 29 di gennaio [1474 s.f.], in Firenze, fecesi il dì doppo desinare una magnifica giostra come s’era ordinata. Furono, tra forestieri e terrazzani, circa 20 giostranti e entrarono in campo molto magnificamente. E tra gli altri Giuliano de’ Medici entrò con gran trionfo, che si stimò che tra egli e i suoi compagni avessino d’adornamenti di perle e gioie il valsente di più di 60000 fiorini, e furonci degl’altri ancora con grande apparato. Ebbe il primo honore Giuliano de’ Medici, e meritamente. El secondo honore hebbe Jacopo Pitti. Durò sino a hore 23. Fucci grandissimo popolo.

 

 

 

LA GIOSTRA

 

IS'io meritai di te, mio sacro Apollo,quel dì ch'io venni al tuo famoso temploe piansi tanto del suo extremo crollo,acciò che a' tuoi suggetti anco sia exemplo,io son soletto a piè d'un erto collo,aiuta il suon che per piacerti temploa cantar versi del tuo amato Laurose ti ricorda più de' be' crin' d'auro.

IISe ti ricorda ancor del tempo antico,se 'l bel Giacintho o Clymen mai ti piacque,da poi che del tuo amor qui canto e dicoonde il principio della giostra nacque,fa' che sia a' versi più ch'all'opra amico,ché tu surgesti fuor delle salse acquecon tanta nebbia il giorno all'orizonte,ch'io dubitai tu piangessi Fetonte.

IIIIo dico con color che son discreti,che le cose del mondo son guidatedal corso delle stelle e de' pianeti,né pertanto però son distinate,quantunque questi effetti sien segreti,e ciò che fanno è di necessitate:ogni nostro concetto, ogni nostra opraispira e vien dalla virtù di sopra.

IVE' si faceva le noze in Fiorenzia,quando al ciel piacque, di Braccio Martello,giovane hornato di tanta excellenzia,ch'i' non saprei chi comparare a quello:fu nel convito ogni magnificenzia,tanto che Giove nol farìa più bellodove fusse Dïana e Palla e Vesta,e tutta la città ne facea festa.

VEra tornata, tutta allegra Progne,benché e' piangessi la sua Philomena;Amor suoi ceppi preparava e gogne,i gioghi e' lacci e ogni sua catena;e Pan sentia sonar mille zampogne;era di fiori ogni campagna piena;vedeansi Satir' dolcemente iddeeseguir pe' boschi, e Driàde e Napee.

VIO nupzie sante, o lieto sodalizio,dove altra volta fia Vener contenta!Era Himeneo già posto al suo exercizio,era Giunon tutta occupata e intentaper adornar sì degno sponsalizio;par che 'l gaudio celeste qui si senta,con pace, con amore e con concordia,ché nol turbò la dea della discordia.

VIIFuronvi tutte le ninphe più belle,anzi vi venne ogni amante, ogni dama;fra l'altre duo molto gentil' sorelle,che l'una ha sol di Costanzia ogni famae l'altra è il sol fra le più chiare istelle,quella che il Lauro suo giovinetto ama,Lucrezia, d'ogni grazia incoronata,del nobil sangue di Piccarda nata.

VIIIVenere fece fare una grillandaa questa gentil ninpha di vïole,e fece che 'l suo amante gliel domanda;ella rispuose con destre parole,e priegal, ma 'l suo priego gli comanda,che gli 'mprometta, se impetrar la vuole,ch'al campo verrà presto armato in sellae per amor di lei porterà quella.

IXE missegliela in testa con un riso,con parole modeste e sì soave,che si potea vedere il paradisoe sentir Gabrïel quando disse: "Ave".Costui, che mai da lei non fia divisoe del suo cor gli ha donata la chiave,acceptòe il don sì grazioso e degno,di prosper' fati e di vittoria segno.

XHor, perché il vero sforza ognun che dice,un'altra bella e gentil grillandettanon fu sì aventurata o sì felice,della sorella sua, ma tempo aspetta,ché in gentil core Amor sue cicatricenon salda così presto, ove e' saetta:forse che i fior' ancor faranno fruttoa luogo e tempo, e 'l fin giudica il tutto.

XIMa certo il Läur mio, sempre costante,non volle esser ingrato al suo signore;e, perché egli avea scritto in adamantequello atto degno di celeste honore,si ricordò, come gentile amante,d'un detto antico, che "vuol fede Amore";e preparava già l'armi leggiadre;ma nol consente il suo famoso padre.

XIINon consentì, che la ragion non volse:era di poco quietata la terra,quando Fortuna ogni sua ira sciolsee minacciava di futura guerra,dove poi l'arco a suo modo non colse,ché 'l fier Leone ogni animale atterra.Dunque costui questa grillanda serba,finché si sfoghi la Fortuna acerba.

XIIIE qual si fusse un tempo la sua vita,intenda ogni gentil cor per se stesso:era legata l'anima e smarrita,e si doleva con Amore ispesso,dicendo: "Lasso, hor da me s'è fuggitaogni speranza che tu m'hai promesso:questo non è quel che quaggiù si crede,se 'l terzo ciel tu reggi sanza fede.

XIVSe tu se' Citherea, se tu se' quellache fusti già magnanima reginain Cipri, giovinetta hornata e bella,dove ogni spirto leggiadro s'inclina,e hor se' degli amanti fatta istella,non si convien tua deità divinaaver tradito me che in te mi fido.Ma s'egli è ver del tuo figliuol Cupido,

XVcon quello stral che più tua virtù mostrae che più infiamma i generosi cori,chi m'ha negata la promessa giostrasaetta al cor, sì ch'ancor lui innamori,e fia tua gloria magna, anzi fia nostra,che certo io so che i miei infilici fioriProserpìna nel campo colse eliso,anzi Rachel più tosto in paradiso".

XVI(Forse potrebbe ricordarsi ancoradel suo falcon ch'a la rete fu giunto)."Né so s'i' maladico il giorno e l'orach'io fui felice e misero in un punto.Or pigli exempro qui chi s'innamora:vedrà ch'un gentil cor, quand'egli è punto,ricerca cose degne e l'altre sprezza,ch'Amor pur fonte è d'ogni gentilezza".

XVIIE' si dolea, ma con parole honeste;poi cominciò a tentar nuove arte e ingegni,e or cavagli, hor fantasie, hor veste,mutar nuovi pensier', divise e segni,e hor far balli, e or nocturne feste(e che cosa è questo Amor non insegni?),e molte volte al suo bel sole apparve,per compiacergli, con mentite larve:

XVIIIquando, con altri giovinetti amanti,guidava il bel trionpho Autumedonne;né vo' già mai che nessun più si vantid'aver condotto sì famose donne,quando Pennèo dolce armonia e cantisentì, che invidia n'arìa ancor Giansonne,sì gentil barca e sì nitide limpheportâr cantando e le Muse e le nimphe.

XIXCredo che ancor su pel bel fiume d'Arnorimbomba il suon tra le fresche onde e rivede' dolci versi che d'amor cantarnole nimphe spesso alle dolce ombre estive.O festi giorni e non passati indarno!O liete, o belle, o glorïose divech'ornâr Quaracchi; e chiamal con Silenzioel bel castel ch'è posto in sul Bisenzio!

XXCosì alcun tempo per costui fu lietoe muse e nimphe e piagge e valle e fiumi,e di gentil, magnanimo e discretofûr le sue opre e tutti i sua costumi,perché questo è quel santo läureto,dove tra' fior' non s'asconde angue o dumi,né qui Celen delle sue fronde pasce,ché santo frutto di santo àlbor nasce.

XXIMa poi che in tutto fu l'orgoglio spentodel furor bergamasco, al fèr Leonevenne la palma, e ciascun fu contentodi far la giostra nel suo antico agone.L'anno correva mille quatrocentoe sessantotto dalla Incarnazione,e ordinossi per mezo gennaio,ma il septimo dì fessi di febraio.

XXIIHor qual sarà sì alta e degna musa,o cetra armonizante qui d'Orpheo,o Marsia ch'ancor duolsi e piange e scusa,o Amphïon già in Aracinto Atteo,che non paressi roca e in tutto ottusa?Non val qui il zufoletto melibeoa raccontar sì magna e bella giostra,anzi ogni gloria della ciptà nostra.

XXIIIGran festa certo ne fe' la ciptate,tanto che mai non la vidi più allegra:non si ricordan le guerre passate,che fûr conforme alla pugna di Fegra,come altra volta in versi ho compilate;e perché e' fussi la festa più intègra,concorson molti giovan' d'alta fama,ch'ognuno il giovinetto honora e ama.

XXIVE poi che furon vantati i giostranti,manca cavalli: hor per molti paesisùbito volan messaggeri e fantia conti, re, signor', duchi e marchesi;ecco venuti i cava' tutti quanti;assettasi elmi e coraze e arnesi,e scudi e lance e selle s'apparecchia,e vassi rifrustando ogni arme vecchia.

XXVE burïassi ritoccan per modoche non se ne può aver collo scarpello,tanto e l'oppinïon già duro e sodo,e vassi bucherando hor questo, hor quello;tanto che ancora a pensarvi ne godo,del dolce tempo passato, sì bello.A ogni canto rinfresca la voce:"Che è? che è?", "Il giostrante a Santa Croce".

XXVIE tutto il popol correva a vedere;e fecion tutti inver mirabil' prove.Non fu in Fiorenza mai simil piacere,e ne godeva in ciel Marte con Giove;e non è maraviglia, a mio parere,ch'ognun si pasce delle cose nuove;e se ci fussi istata allor Clarice,non fu la mia ciptà mai sì felice.

XXVIINon vi mancò nulla altro d'ornamentoche, certo, al mio parer, donna sì degna.Quanto ti vidi, o mio popol, contento!Quando sarà ch'un secol mai tal vegna?Non certo più, né per rivolgimentoch'ogni cosa al suo termine rassegna,né per tornar Saturno e 'l mondo d'auro,ché non sarà mai più sì gentil Lauro.

XXVIIIE' si sentia mille vage novellee bugïon di libra a rigoletto:al corazzaio, a quel che fa le sellenon si sarebbe un ver per nulla detto;quivi eran gran dispùte di rotelle,di reste, di bracciale e di roccetto;e molto d'Anton Boscol si parlava,e così il tempo lieto oltre passava.

XXIXE' si diceva di Marin Giovannidelle sue opre già tanto famose;di Ciarpellone e de' suoi lunghi affanni,come in sul campo fe' mirabil' cose;e di molti altri già ne' passati annil'antiche pruove degne e bellicose;ma sopr'a tutte cose, al mio parere,i burïassi si facean valere.

XXXEra il quinto alimento i burïassi:non rispondevan più se non per lezio;benché alcun par che si ramaricassiche non havea a suo modo discrèzio,pur discrezion fratesca non errassi;e studiava Aristotile e Buezio:donde il giostrante era più biasimato,che s'egli avessi il sepulcro spogliato.

XXXIL'aquila rossa in sull'elmetto un Martesopra sua stella fe' d'argento e d'oro;la lancia in man dalla sinistra parte,da dextra avea la corona d'alloro,per denotare insieme il premio e l'arte;questo era il primo elmetto e 'l più decoro;l'altro, con l'ale a' piedi e in man la palma,havea la Fama glorïosa e alma.

XXXIIVenne quel giorno tanto disïato.El signor degno di Sansoverino,Ruberto nostro, in alto è diputatocol milite famoso Soderinogiudicatore, e 'l Pandolfin da lato;appresso a lui de' Martegli Ugolino;Niccolò Giugni seguia drieto agli anni,e poi de' Gianfigliazzi era Bongianni.

XXXIIILibero il campo e lo steccato intorno;e perché spesso il ver reca vergogna,il popol che a veder vi fu quel giornoal secol che verrà parrà menzogna;e quanto ognuno in campo entrassi adornoè interpetrar quel che Nabucco sogna:dell'alte fantasie, divise e segnide' giovan' nostri, glorïosi e degni.

XXXIVDe' Medici vi venne ardito e francoBraccio, e mostrò quanto fussi gagliardo:una fanciulla che copre un vel bianco,famosa in vista, avea nel suo stendardo,e sotto un'alta quercia, umìle e stanco,legato stava un gentile alepardo,e per cimieri in man teneva quelladi fronde una grillanda fresca e bella.

XXXVDi bianco domaschin d'oro broccatoera il caval del bel cimier coperto;e lui sopra un caval feroce, armato,ch'avea Spazzacampagna il nome certo;e di velluto bianco è covertato,dove alcun lëopardo è ben conserto,legato pure all'arbor del gran Giovecon laccio d'oro, e da quel non si muove.

XXXVIHavea con seco molti damigellicon certi vestir' dextri e un ricamopur di candida seta, hornati e belli,dove ciascun nel petto avea un ramo;trombetti, burïassi, altri donzelliintorno, tutti a piè, per suo richiamo:e 'l popol ne mostrò grande allegrezza,rispetto avendo alla sua gentilezza.

XXXVIIDopo costui s'udia di nuovo un grido,e Pieranton giugneva e 'l suo Pier Pitti;e drento allo stendardo hanno Cupidocon atti e gesti lagrimosi e affritti,talché, se fu già lieto in grembo a Dido,eran puniti tutti i suoi delitti,perch'una damigella gli avea avintele braccia e l'ale spennacchiate e stinte.

XXXVIIIPieranton cavalcava Baiantino,e tutte sue coverte erono a verde,per dimostrare, il giovan pellegrino,come ogni sua speranza si rinverde;e certo col suo averso e reo distino,fra tutti gli altri il dì fama non perde,e porta per cimier di lauro questoun fresco ramo, per più chiosa al testo.

XXXIXEra il caval di Pier Pitti apellatoFalcone, e molto leggiadro a vedere;domaschin chermisì d'oro broccatola sua coverta, e porta per cimiere,come nello stendardo è figurato,quel falso e ingiusto e spennecchiato arciere;e d'alto a basso riccamente certo,broccato a oro, è il palafren coperto.

XLE poco stante in sul campo venivadue cavalier' di Bernardin' da Todi,e trombe e lance e barde innanzi giva.Questo è quel dì, Savina, che tu godi:l'un di costoro ha l'arbor coll'uliva;e perché il ver di lor non gabbi o frodi,era cosa a veder molto magnifica,e fece quello effetto che significa;

XLIquell'altro uno idoletto d'oro haveaper suo cimier; poi nel vexillo o segnoera una dama ch'un giogo rompea:questo è quello stendardo antico e degnod'Alberto, la cui morte fu sì rea,benché dolce è morir per giusto sdegno;e quel caval che 'l suo cimier soffersed'un bel velluto allexandrin coperse.

XLIIIl sesto Dionigi in campo è giuntosopra un caval chiamato l'Abruzzese,che sempre in aria e in terra era in un punto;e poi ch'al tutto al popol fu palese,di gentilezza e d'ogni cosa a puntoparve a chi bene ogni suo effetto intese,e lo stendardo suo cangiante volsech'a tutti gli altri il dì gran fama tolse,

XLIIIcome cangiato havea costumi e vitacolei che, presso all'ombra d'un bel faggio,guardava il ciel, ch'a lui si rimarita,come aquila del sol fissa nel raggio,d'onestà pura e candida vestita,e avea sciolto uno animal selvaggioche si pascea sotto l'amate piantedel frutto sol delle sue opre sante.

XLIVDi sopra a l'elmo avea questo una lanciache si potrebbe interpetrar d'Acchille,da ferir prima e poi saldar la guancia,donde e' si son già fatte assai postille;ma questa, se 'l giudicio mio non ciancia,excita sol l'angeliche faville,e desta e pugne e provoca ogni corea riscaldarsi dello etterno amore.

XLVIl caval fu del cimier covertatodi quel color ch'è l'alba innanzi al sole;con ricco drappo è l'arbor ricamatoe l'animal che pasce come e' suole;l'Abruzzese coperto è di broccatodel color delle mammole vïuole;e ogni cosa riferiva a quellach'è stata un tempo e fia sempre sua stella.

XLVIHaveva septe giovani vestitidi quel color che è l'oro quando affina,l'onesto col legiadro insieme uniti,ché tutto è volto alla biltà divina;e perché i suoi concepti sien forniti,non disse: "Il cielo o permette o distina",ma scripse che da' fati chiamato eraa seguitar la sua celeste spera.

XLVIIIo lascio di costui mille ornamenti,acciò che tocchi a ciascun la sua volta,ch'io sento già sonar nuovi stormenti:non vo' tediar qui sempre chi m'ascoltaa 'nterpetrar venti vestigi e venti,ché non parrebbe alfin materia sciolta;e perché fussi l'animale un danio,sallo colui che simulòe già Ascanio.

XLVIIIIl popolo era in dispùta e in bisticciodi Dionigi e di sua leggiadria,quando in sul campo compariva i Riccio;e s'io raccolsi ben sua fantasia,era sì cotto che sapea d'arsicciod'una sua dama, ch'un falcon fingia,nello standardo suo che innanzi venne,che rinnovava sue leggiadre penne.

XLIXDopo questo giostrante istando un poco,giunse in sul campo il gentil Pier Vespucci:nel suo stendardo una fanciulla a giocoAmor beffava con sua balestrucci,e in un bel rivo fiaccole di focoispegne, onde costui par che si crucci;e per cimiere una leggiadra chiomadi questa dama havea, ch'Amor non doma.

LDi seta verde e fiori d'or contestaavea una coverta molto bella:el caval del cimier copria con questae 'l suo destrier, che Buffato s'appella;velluto alexandrin per sopravestaportava, e tutta ricamata è quella;e lui pareva Hectorre sanza falloco molta gente a piede e a cavallo.

LIAveva nello scudo figuratouna ancudine in mar ch'andava a vela.Intanto un gran romor si fu levato,e tutto il popol gridava: "Ci vela":ecco apparir Salvestro Benci armato,e come gentil cor che 'l ver non cela,nello stendardo suo leggiadro e bellonon avea dama, anzi uno spiritello.

LIIMa il suo cimier è pur d'una fanciulla,ché interpetrar no·llo saprei altrimenti,se non che 'l mio Salvestro ci trastullaa questo modo, e fa impazzar le genti;la sua coverta non s'intende nulla,piena di can', di lupi e di serpenti,e di velluto chermisì è questasopra il caval che si chiama Tempesta.

LIIIQuesto cavallo il capo avea d'un drago,lo spirto in corpo di Bucifalasso,che ve 'l cacciò per arte qualche mago,anzi più tosto quel dì Sathanassocostretto là dalla Sibilla al lagoe sopra questo facea gran fracasso,e no·llo arebbe stordito el dì Busse,né re Bravier con Burrato o Brïusse.

LIVIacopo intanto giunse in sulla piazzadi messer Poggio con gran gentilezza.Nello stendardo in vesta paonazzasaette e archi una fanciulla spezza.I suoi scudier' parevon di corazzavestiti tutti con molta destrezza.Del caval del cimiere il guernimentofu di velluto ner broccato ârgento.

LVEra il cimier questa sua nimpha o dama;e di velluto coperse ancor neroil suo caval, che Santiglia si chiama,e porta in sul groppon l'orribil ferocapo ch'ancora ha per Medussa fama,con ricche perle e non sanza mistero,ché dinanzi erano idre figurate,forse del sangue del Gorgon create.

LVIMa questo non sarà la chiosa al testo,ché sempre il vero a punto non si dice:il popol commendò fra gli altri questo.E intanto Carlo Borromei felicegiunse in sul campo molto hornato e presto,e porta in ogni segno la fenice,ch'era nel foco ove ella more e nascefra mirra e nardo, le sue estreme fasce.

LVIIHavea quel giorno una berretta in testacon certa rete di perle di sopra,che non si vide mai simìle a questa;e de' pensar che lo scudo e sé copradi ricca, bella e gentil sopravesta.Fu legiadria per certo ogni sua opra,ma 'nterpetrar non sapre' Danïelloperché tal rete si portassi quello:

LVIIIforse Cupido l'avea preso al giacchio,forse questo era uno amante arretato.El palafren che porta il bel pennacchioè di purpurea seta e d'oro hornato,e 'l suo caval, chiamato Bufolacchio,di raso chermisì fu covertato,di perle ricamato a melarance,ch'eran premi d'amor, tributi e mance.

LIXHora ecco Benedetto Salutativenire in campo sopra un bel destriere;e porta ne' suo' segni al vento datiuna fanciulla e certe luce e sperecon bianchi veli onesti aviluppati;e nota che 'l caval c'ha il bel cimierecoperto è colle barde d'arïento,che cento libre fu stimato e cento.

LXIl suo caval si chiamava Scorzone,molto possente e tutto era morello;la suo coverta, dal capo al tallone,un giardin sembra nel tempo novello:quivi eran pomi di tante ragione,ch'a primavera non saria sì bello;era per modo di perle coperta,che bianca si può dir questa coverta.

LXIInsino alla testiera del cavalloera tutta di perle ricamata.La sopravesta sua, tu puoi pensallo,di ricche gemme si vedea ornata:però chi non si sente di quel giallonon facci troppo lunga sua pensata.Sicché questo era molto hornato tuttoe di prodezza ancor n'apparve il frutto.

LXIIEra un altro caval, con un ragazzo,di chermisì broccato d'or, col pelocoperto tutto insino in sullo spazzo;e tutti i suoi scudier' che vanno a telocon cioppette di raso paonazzo.El gran tumulto e 'l suon rimbomba al cielodi trombe, tamburino e zufolettoe "Pescia" e "Salutati" e "Benedetto".

LXIIIAvea insino a qui la fama e 'l gridoBenedetto quel dì d'ogni giostrante;ma certo il mio poeta, in ch'io mi fido,troppo mi piace in un suo decto, Dante:"Così ha tolto l'uno all'altro Guido";così fa d'ogni raggio il più micante,così tolse a costui quel Lauro il pregio,che hor da Febo e Marte ha privilegio.

LXIVE' mi parea sentir sonar Miseno,quando in sul campo Lorenzo giugneasopra un caval che tremar fa il terreno;e nel suo bel vexillo si vedeadi sopra un sole e poi l'arcobaleno,dove a lettere d'oro si leggea:"Le tems revient", che si può interpetrarsitornare il tempo e 'l secol rinnovarsi.

LXVIl campo è paonazzo d'una banda,dall'altra è bianco, e presso a uno allorocolei che per exempro il ciel ci mandadelle bellezze dello etterno coro,ch'avea tessuta mezza una grillanda,vestita tutta âzurro e be' fior' d'oro;e era questo alloro parte verde,e parte, secco, già suo valor perde.

LXVIPoi, dopo a questo, Giovanni Ubaldinoe 'l buon Carlo da Forme erono armati,che dal signor Ruberto e quel d'Urbino,per ubidir Lorenzo, eron mandati;e porta i lor pennacchi un ragazzino,e di seta hanno i corsier' covertati,di bianco e paonazzo e rose e rami,de' qua' l'un par che 'l Prencipe si chiami.

LXVIIIl re Ferrando magno e serenissimoal suo Lorenzo donato l'avia,tanto che sempre gli sarà carissimo,e dimostrò quel dì gran gagliardia;leardo tutto pomato, era altissimo,e volentier gli era data la via,e tristo a quel che gli si para avante,però che gli urti suoi son di leonfante.

LXVIIIDodici veramente hornati e degnigiovani venien poi molto galanti,tanto che par che la ragion m'insegnich'io debba questi nomar tutti quanti:de' Soderini il primo par che vegniPaolanton, poi Giovan Cavalcanti,Bernardo Rucellai poi dopo a questi,giovani singular', famosi, honesti;

LXIXe de' Ridolfi poi Giovan Batista,poi Pier Cappon, s'intende quel di Gino;poi seguitava sì legiadra listaAllexandro gentil di Boccaccino,perché qui fama volentier s'acquista;poi Francesco Gerardi e Pier Corsino,Pier degli Alberti e 'l Marsupin seguiva,e poi Giulian Panciatichi veniva;

LXXundici insino a qui contati habbiamo:l'ultimo apresso era Andrea Carnesecchi.Ognuno, un gonnellin con un ricamo,che tutto il popol par che vi si specchi,e parte rose fresche in su 'n un ramo,e parte son rimasi sol gli stecchie son le foglie giù cascate al rezzo,tra 'l bianco e 'l paonazzo e 'l verde in mezzo.

LXXIEra, quel verde, d'alloro un bronconeche in tutte sue divise il dì si truova,e lettere di perle vi s'appone,che dicon pur che 'l tempo si rinuova;e poi d'intorno a questi è un frappone,che di vederlo a ogni cieco giova;e lucciole sì fise d'oro e belle,che pare il cielo impiro con suo stelle.

LXXIIDi seta cappelletti paonazzicon un cordon di perle, anzi gallozze,con certe penne d'oro e certi sprazzidi ricche gemme e altre cose sozze;e perché tu non creda io mi diguazzi,arnesi e falde e non calze da nozzee tutti e fornimenti de' cavallis'accordon col vestir, ch'un sol non falli.

LXXIIIVeniva un palafren poi dopo al fianco,e di broccato paonazzo questod'argento coperto era; e nondimanconon creder che questo anco sia per resto,ch'un altro covertato era di bianco,broccato come quello, e sarà il sestoper denotar tutti i concepti suoi;e pifferi e trombon' seguivan poi.

LXXIVPoi, per cimier, la sua fatale iddeanel campo azzurro, pur d'oro vestita,la lancia in man di Marte e 'l premio avea,che la bella grillanda era fornita,che Cesare o poeta hornar solea,e fu quel dì d'ogni grazia exaldita.Dunque ogni cosa al gentil Lauro mostrafelice annunzio alla futura giostra.

LXXVEl caval covertato è insino in terradi drappo allexandrin d'oro diviso;apresso un tamburin fa "tutta terra",che si potea sentir di paradiso;poi seguitava un bel corsier da guerrach'avea le barde azurre e 'l fiordalisodel gran re Cristianissimo alto e degno,che gli donò questo honorato segno.

LXXVIDopo tanti splendor' veniva il sole,dopo la leggiadria la gentilezza,la rosa dopo il giglio e le vïuole:Lorenzo, armato con molta fierezza,sopra un caval che salta quanto e' vuole,e tanto l'aria quanto il terren prezza;e come e' giunse in sulla piazza quello,chi dice e' pare Anibàl, chi Marcello.

LXXVIIQuesto caval Falsamico si chiama,dall'alta maestà del re mandato,che succedette al regno e alla famad'Alfonso, che ancor pianga il mondo ingrato,ché certo mai di lui fia sanza brama,ch'era per gloria e per trïomphi nato.Sicché ogni cosa s'acordava il giornoper honorar questo campione adorno.

LXXVIIIEra coperto di perle e di setaquesto caval, ver amico e possente;ma non è fantasia tanta discretache dir potessi quanto hornatamenteluceva, più che non fa la cometa,con fresche rose e palide e languente,questa ricca coverta, la quale erahornata, allegra più che primavera.

LXXIXAveva nello scudo a mezzo il pettoun balascio ch'al mondo è forse raro,chiamato libriccino o vuoi libretto,ch'al suo signor famoso fu sì caro,però che, benché e' ceda allo specchietto,non è piropo di nocte sì chiaro,e altri tanti balasci e rubini,che v'era i cherubini e' serafini.

LXXXIo lascio insino a qui già mille cose,che pure a tutto il popol fûr palese:era atraverso il broncon fra le rosecon ricche perle el suo brieve franzese,e tante gioie degne e prezïose,che certo Febo il giorno vi s'accese;abbiti, Palla, sanza invidia omailo scudo, ch'ancor piange chi tu sai.

LXXXIE perché e' paia ch'io non sogni e canti,non ho dimenticato una berrettach'avea tre penne piene di diamanti,che par che surghin fuor d'una brocchetta,tanti zaffìr' ch'io non saprei dir quanti,e rigata è dal mazzocchio alla vettadi perle, che minor vidi già pèsca,fra certi spicchi fatti alla turchesca.

LXXXIIMesser Francesco v'è da Sassatella;Iacopo Guicciardin dopo venia;Pier Francesco de' Medici v'è in sella;Filippo Tornabuon presso seguia.Mai non si vide compagnia sì bella,né tante gemme mai vide Soriaquant'ha costui, che lo facean sì adorno,che 'l sol parea coll'altre stelle intorno.

LXXXIIIPoi seguitava il suo fratel Giuliano,sopra un destrier tutto d'acciaio coperto,che mai più fe' né rifarà Milanosì ricche barde, e chi il vedea per certogiurato harebbe vedere Africanoquando più trïomphante ebbe più mertoche riportassi al Capitolio a Romad'Anibàl Baracchin la ricca soma.

LXXXIVE poi, di dietro a questo, era un drappellodi burïassi: il fedele Ulivierie Strozzo degli Strozzi e 'l suo fratelloe Antonio Boscol sopra un bel corsieri,Bernardo Bon, Malatesta e 'l Ciampello,Giovenco suo che 'l servia volentieri;e di velluto paonazzo questihavevon gonnellin' pel mestier lesti.

LXXXVPoi veniva la turba di canaria,ch'erono a piè co lui cento valletticon tante grida che intronavan l'aria,e di velluto avean cento giubbettiazurri, allucciolati ch'un non varia,cento celate e cento mazzocchiettiin testa con tre penne a una guisa,e cento paia di calze a sua divisa.

LXXXVIE pifferi e trombetti e 'l tamburino,ch'eran quindici in numer: son vestitidi seta, chi giornea, chi gonnellino,colle divise sue tutti puliti;non vi rimase solo un ragazzinoche non sièno a proposito guerniti;e chi dinanzi e chi drieto alle spalle,giunti in sul campo, gridan: "Palle, palle!".

LXXXVIINé prima furno allo steccato drento,che Guglielmo e Francesco erano a fronte;de' Pazzi è lo standardo dato al vento;el caval di Guglielmo è detto Almonte,quel di Francesco, Roman, s'io non mento,benché suo nome è più tosto Chiarmonte;è drento allo stendardo una donzellain veste paonazza, hornata e bella.

LXXXVIIIE sotto un pino, in atto molto humìle,have fatti cader giù pomi e rami;quivi era un catellin bianco e gentile,che par che d'ubidir costei sol brami,e di que' rami ha fatto un suo covile,e stassi, e forse aspetta ch'ella il chiami;e per cimier questa fanciulla ancoraportava, e così fa chi s'innamora.

LXXXIXUna ricca coverta sanza falloazurra ha il suo caval che 'l cimier porta,broccato domaschin non bico, a giallo;e molti giovan' degni ha per sua scorta,con lance tutti in man, destri a cavallo,de' quali il nome dir qui non importa,e di broccato allexandrino adornoera ciascun, con ricche gioie intorno.

XCIl suo caval, che Roman s'appellava,che per saltare in aria è sempre in zurro,di raso tutto allexandrino hornava,e di que' rami poi nel campo azurrocon tante perle e gemme ricamava,che più Fetonte non n'avea nel curroquel dì che, incauto, troppo in basso corree Giove il fulminò dall'alta torre.

XCIIl cimier di Guglielmo era un paone,il quale il destro piè tenea sospesoe l'altro in mezzo a certa fiamma pone;e non è maraviglia a chi l'ha intesoche piaccia tanto a lui quanto a Giunone;e par che non si curi essere incesoun bel dalfin che s'apressava al foco,ma, come salamandra, il prenda in gioco.

XCIIQuesto paon gli era molto nel coree sarà sempre, ch'un giorno, uccellando,vide che molto piacea al suo signore,ch'alla sua casa arrivò cavalcando:avea in pugno Guglielmo uno astore,e nel passare e costei salutando,lo domandò se piglierebbe quello,donde poi sempre amato ha questo uccello.

XCIIIL'amante nell'amato si trasforma:questa sentenzia è tante volte detta,perché convien ch'un gentil cor non dormadove Cupido oro e fiamma saetta,e va cercando, investigando ogni orma,quel che l'amata donna più diletta,ch'amor non vèn dalle cose belle,ma per conformità che è dalle stelle.

XCIVLe sue coverte fûr tutte broccated'azurro e chermisì, d'argento e d'oro,e tutte d'ermellin' son foderate,perché questo animal gentile e sorola sua natura è, benché voi il sappiate,prima morir, patir ogni martoroche macular la sua pura bellezza,che fa per honor chi vita isprezza.

XCVE, soprattutto, un Marte era a vederlo,destro nell'armi, allato al suo Francesco,che, se l'un peregrin, par l'altro smerloche del cappello uscito sia di fresco.Ma la Fortuna che intendea d'averlohavea già teso e preparato il vesco,ch'a luogo e tempo mosterrà palesecome oppor si diletta all'alte imprese.

XCVIIl popol per costor fu tutto lieto,e non sapea di lor future sorte.Venne in sul campo un coll'elmo segreto,che si facea appellar Boniforte:non so se sia più forte che l'aceto.Questo fu il sezzo e chiusonsi le porte,ch'eron diciotto e dodici stendardi.Oltre, vedrem se saranno gagliardi,

XCVIIché mancheria d'Omer lo stile e l'arte,e mancheria degli altri antichi ingegni,e non ci basteria cento altre cartea contar le divise e' contrassegnie tante cose magne a parte a parte.Dunque convien ch'alla giostra si vegni,ch'io credo ognun che legge i colpi aspetti,come il dì si facìe su pe' palchetti.

XCVIIIPer gentilezza, come far si suole,ognun corre una lancia a suo piacere,e va pel campo a spasso quanto e' vuole,perché la dama lo possi vedere.Ma, poi ch'a mezogiorno era già il sole,parve a color che si stanno a sedereche si dovessin metter l'elmo in testa.Hor qui comincia una dolente festa!

XCIXHor oltre, su, giostranti, al badalone!Quel di Lorenzo guarda il gagliardetto,ed èvi Cin col suo Monte Fiascone.Eron tutte le dame al dirimpetto:però, prima ch'egli entrino in prigione,credo ch'ogni giostrante, poveretto,hare' voluto un bacio alla franciosa,che in ogni guancia lasciassi la rosa.

CLorenzo l'elmo, ridendo, si mise,ch'era della grillanda coronatode' fior', ch'un tratto anche una nimpha risequando a' suoi piè si gli fu inginocchiato;poi si cavò le sue prime divise,e volle a fiordalisi esser hornato,che gli mandò il gran re degli altri regidi Francia già con ricchi privilegi.

CIPerò di Falsamico suo discese,e, dismontato, montò in su Baiardo,che 'l gentil Borsi, famoso marchese,gli avea mandato, e molto era gagliardo;ma, come Busse ricordare intese,dopo alcun colpo, divenne codardo,e cominciò a fuggir coll'altre rozze[qual chi] fugge Buontempo dalle nozze.

CIIHavea tre volte Boniforte corsola lancia invan col gentil Pier Vespucci,e ogni volta il caval via trascorso,tanto ch'ognun di lor par che si crucci;pure, alla quarta, s'appiccava il morso,sicché e' convien che dell'uova si succi,ché l'uno e l'altro allo scudo fe' còlta,e passa col caval via a briglia sciolta.

CIIIBen se' contento, o bellicoso Marte,e io t'aiuterò di quel ch'io posso,per quanto qui potrà mostrar nostra arte.Ecco che Dïonigi tuo s'è mosso,e Giovanni Ubaldin dall'altra parte;sicché ciascun ha lo scudo percosso,e rotto l'aste, e' corsier' via trascorsi,poi rivoltati per virtù de' morsi.

CIVIntanto i fiordalisi sono in campo:e non è ver che 'l sol più acceso in leocome questi, quel giorno, renda lampo.Venne a Lorenzo incontra il Borromeo,e l'uno e l'altro caval mena vampo,perché qui aspira ogni fato, ogni iddeo.Le lance si spezzâr subitamente,e "Palle!" e "Borromei!" gridar si sente.

CVMa in questo tempo il fier napoletano,che si chiamava il buon Carlo da Forme,la lancia abassa ch'egli aveva in mano;ma Guglielmo de' Pazzi ancor non dorme:a lanci, a salti, atraversava il pianocome il leon che assaltar vuol le torme,tanto ch'ognun ch'era intorno a vederepensò che Giove e 'l ciel voglia cadere.

CVIE ruppe la sua lancia a mezo il petto,che forse saria me' fussi ancor salda,però che la corazza non ha retto,che si schiantò come fusse di cialda,e mal potrà giostrar, quest'è l'effetto,benché la voglia pur sia prompta e calda.Dunque Thesifo e le sorelle a garaal primo colpo innanzi se gli para.

CVIIHavea già Benedetto Salutatila lancia bassa e spronava Scorzone;un de' baron' da Bernardin mandatidall'altra parte la sua in resta pone;i colpi furon gravi e smisurati,ma però non si mosson dell'arcione,anzi parean confitti e con gran chiodi,e "Pescia!" e "Bernardin!" si grida e "Todi!".

CVIIIIl caval Belledonne si chiamavach'aveva Braccio, e tutto era leardo;un tratto a' fianchi per modo il serravache salta più che quel suo leopardo,e per ventura Lorenzo scontrava,che 'l sopragiunse col suo buon Baiardo;e se gli avessi apiccato il roccetto,non arebbe a quel colpo Orlando retto.

CIXNon hebbe però il dì maggior percossaLorenzo, benché sua vendetta fece:giunse allo scudo una aste dura e grossa,che s'apiccò come fussi di pece,e fu sì grande del colpo la scossa,che 'n cento pezzi la lancia disfece;e ogni cosa vedea sempre quellanimpha legiadra, anzi fatal sua stella.

CXHavea più volte già corso Francesco,e riscontrossi in Pier Anton de' Pitti,e colle lance si scossono il pesco,tanto ch'a pena si salvoron ritti,ché l'uno e l'altro cavallo era frescoe' lor cor' generosi e magni e invitti;e, oltr'a questo, ciò che vuole Amoreè molto facil cosa all'amadore.

CXINé anco il Bracciolin si stava il giorno,e, rivoltato un tratto il suo Santiglia,la lancia chiese a chi gli era d'intorno.Allor Pier Pitti girava la briglia,e l'uno e l'altro i roccetti apiccorno:dèttonsi colpi che fu maraviglia,sicché le lance se ne feron rocchi,tanto che gambi parvon di finocchi.

CXIIL'altro di que' di Bernardin da Todisi riscontrava in sul campo col Riccio:le lance resson, gli scudi eron sodi,tanto ch'ognuno scardassa il ciliccio,né so ben qual più di costor mi lodi;i destrier' di cadere hebbon capriccio,e mancò poco, pur quel poco basta,e in mille pezzi si troncava ogni asta.

CXIIIDove lasc'io il mio gentil Salvestro,che cogli spron' tempestava Tempesta,il suo caval molto feroce e destro,e vanne all'Ubaldin testa per testa?Dèttegli un colpo che fu di maestro,perché e' gli pose ove e' propose a sesta,benché quello anco sua virtù non cela,sicché di nuovo si grida: "Ci vela!".

CXIVTra queste grida Lorenzo rispronae riscontrava da Forme il suo Carlo,e una grossa lancia e verde e buonagli ruppe all'elmo e faceva piegarlo,che la percossa per molto lo 'ntruona,che si credette di sella spiccarlo,e passan d'ogni parte con gran frettai veloci destrier' come saetta.

CXVNé creder tu che Benedetto intantoe Francesco de' Pazzi stia a vedere;né anco Braccio ne ridea da canto;facea Pier Pitti quel che fu dovere;e chi parea già disarmato e infranto,e chi per terra si vedea cadere;e l'aria e 'l cielo e la terra rimbomba,non si sentia più tamburin né tromba.

CXVIEl mio Salvestro mille volte buono,el Riccio e gli altri, ognun pare uno Hettorre;così s'han trangugiato il primo suono,e molte volte due contra a un corre.E burïassi rincarati sono,ma molto più chi sapea ben ricòrre,ché molta gente in questo giorno toma,e bisognava, a rizar, la ciloma.

CXVIIE dirò pur che troppo gentilmenteAndrea del Fede servì Benedetto;e Ulivier Sapìti veramentesegni mostrò di giusto amor perfetto,perché e' servia molto discretamenteLorenzo, sanza aver di sé rispetto,e stette sempre agli urti, a' calci, a' cozzi;e così fece inver Giovanni Strozzi.

CXVIIIRipreso avea Pier Vespucci la lancia;intanto Carlo da Forme farfalla;corsegli adosso per dargli la mancia,e così fe', ché 'l suo pensier non falla,che si pensò di strisciargli la guancia:il colpo scese e pigliava la spalla,e come vetro trattò lo spallaccio,e mancò poco a portarne via il braccio.

CXIXNon si potea valer più il giovinetto,ch'a tutto il popol ne 'ncrescea di quello.Il Riccio intanto si mette in assetto,ma 'l Bracciolin, ch'ebbe l'occhio al pennello,del suo Santiglia faceva un cervietto:non si cognosce più bestia ch'uccello,e dètte, ch'era già vespro, l'asciolverea·rriccio tal, che gli scosse la polvere.

CXXAllor si mosse Pierantonio ad volo;dall'altra parte venne Dïonigi,e fu falcon, se quello era terzuolo,anzi parea de' baron' di Parigi,talché tremava della terra il suolo;dèttonsi colpi più scuri che bigi,anzi più scuri che cupo di perso,perché e' si poson le lance a traverso.

CXXIMa Carlo Borromei già non soggiorna,come colui che disïava honore,e col suo Bufolacchio innanzi torna.Videl Guglielmo, e con molto furore,benché Fortuna a suo modo lo scorna,parve ch'uscissi alla starna l'astore,e fece quel che potea finalmente,ma la sua lancia più che l'altra sente.

CXXIIEra già tutto fracassato e stancoper le percosse e l'arme che l'accora,e la corazza ha confitta nel fianco,e non s'arrende alla Fortuna ancora,ma come generoso core e francovolea provarsi insino all'ultima hora,per racquistar, se potessi, sua fama,e morte sol per salute richiama.

CXXIIIE oltr' a questo, il suo caval fellonegià cominciava a far la chirintana,ch'ebbe al principio ogni reputazione,oggi in sul campo diventò di zana;e tanto fe' che ne portò il mellone,perché e' parea di Burrato l'alfana,e sbuffa e morde e traheva alla staffa,e hor faceva il drago, hor la giraffa.

CXXIVE non manco di questo disperatoera il dì Braccio, e pien di sdegno tutto:e' si dolea che già dua volte urtatol'avea Carlo da Forme come un putto;e non credea che fussi a caso istato,anzi diceva un atto vile e brutto,tanto che corse nel fianco a ferillo,dove e' pensò delle gotte guarillo.

CXXVEgli era al suo cavallo uscito un zoccolo;però volava l'ira, s'e' gualoppa:are' voluto in mano acceso un moccoloe ogni cosa fussi istato istoppa,ché non ve ne sare' campato un bioccolo,perch'ogni sua speranza vedea zoppa,tanto che 'l buon napoletan ne pianse,ché la corazza gli sfondava e infranse.

CXXVIE bisognò che del campo partisse,perché la lancia di rosso si tinse.Iacopo in resta la sua intanto misse,fecesi innanzi e 'l suo cavallo istrinse;ma, come e' par che le grida s'udisse,Guglielmo tanto il furore il sospinse,che, come e' vide dipartito quello,non bisognò toccar molto el zimbello.

CXXVIIE' si misse per ira il capo in grembo,e si scontorse e si faceva u·nicchio,e, se non fusse che pigliava a schembo,e' ne portava del capo uno spicchio,o forse non saria bastato un lembo.L'elmo sì forte risonò pel picchio,che gl'intronò le cervella e l'orecchio:dunque fu colpo di maestro vecchio.

CXXVIIII Berardin' chi qua chi là correa,e Bernardino a un facea la scorta,perché il caval la befanìa parea.Lorenzo, sempre sua lancia ben porta,e Benedetto il dì gran fama havea,che si condusse al soglio della porta;e Dïonigi e l'Ubaldino e Carlo,ognun poteasi un paladin chiamarlo.

CXXIXNon si sare' sentito in questa zuffaapena le bombarde da Tredozio.Come un leone irato ognuno sbuffa;ch'al perso tempo il suo contrario è l'ozio,tanto ch'a molti cascherà la muffa,e saracci bisogno d'ossocrozio;e le terribil' tube risonavanoe 'nsino al ciel lo strepito mandavano.

CXXXQuesto secondo suon fu pien d'omèi:già Pieranton duo volte in terra è ito;era caduto Carlo Borromeie sopra un altro caval risalito;e chi Fortuna incolpa e gli altri iddei,e chi per morto è fuor del campo uscito.Eran per terra miseri e meschiniCarlo da Forme e Giovanni Ubaldini.

CXXXIDunque la giostra pareva confusa,ché dove è moltitudin sempre aviène:così tutte le cose al mondo s'usa,e sempre chi fa tosto non fa bene;e forse ancor la festa fa qui scusa,né so s'ognuno aperto o a sportel tiene;ma dirò quel che si potre' pur dire,che molto santa cosa è l'ubidire.

CXXXIIIl bando andò che si chiudessi il giorno,ma e' s'intendea per le botteghe certo:credo che molti giostranti osservorno,e per paura non tennono aperto,che tanti l'un sopra l'altro cascorno,che spesso il campo ne parea coperto,tanto che Marte depone giù l'irae per piatà sovente ne sospira.

CXXXIIIEra Lorenzo dismontato in terrae sopra Falsamico rimontava,ché 'l suo Baiardo non volea più guerra,e molta fama sopr'esso acquistava,e ogni volta ch'a' fianchi lo serraognuno a furia il campo scomberava,ché non valea qui disciprina o morso,ma insino allo steccato sempre ha corso.

CXXXIVHor, chi avessi Guglielmo veduto,e' si dolea sopr'al suo fiero Almonte,e certo, se non fusse l'elmo suto,s'are' col guanto spezata la fronte,tanto ch'a tutto il popol n'è incresciuto:troppo Fortuna vendicò su' onte,e pose nella vista sempre all'elmoil giorno a torto al famoso Guglielmo:

CXXXVch'are' voluto più tosto esser morto,come già Cesar ne' campi di Gneo,che superato, vegendo a che portol'avea condotto il suo fato aspro e reo;benché il futuro gli mostrassi scortoper molti segni ogni augurio, ogni iddeo,e' maladiva ciò che fa Natura:così il portava il dì la sua isciagura.

CXXXVIE disperato scorreva la piazza,come fa l'orso talvolta accanito,che ciò che truova abbatte, atterra e spazza,o come spesso il girfalco ho sentito,che quanti uccelli scontra, tanti amazza;e questo e quello e quell'altro ha ferito,e fece a molti oltre a sua voglia ingiuria,come voleva e la rabbia e la furia.

CXXXVIIE anco il suo Francesco si dolea,ché la Fortuna gli fa mille torti,e la cagione occulta non sapea;ma s' tu sapessi l'arbor che tu porticome egli è consecrato e a quale iddea,non l'aresti fuor tratto de' sua orti:tu violasti a Ciballe il suo legno,tal ch'ogni iddeo n'ha conceputo isdegno.

CXXXVIIIRiprese Benedetto Salutatola lancia, intanto il suo caval rivolta,ma, come questo Lorenzo ha mirato,ne vien con Falsamico a briglia isciolta,che Belzebù vi par drento incantato,e cogli ispron' martellava a raccolta:tremò la terra, quando e' si fu mosso,con tanta furia gli correva adosso.

CXXXIXVedes'tu mai falcon calare a piombo,e poi spianarsi, e batter forte l'ale,c'ha tratto fuor della schiera il colombo?Così Lorenzo Benedetto assale,tanto che l'aria fa fischiar pe rombo;non va sì presto folgor, nonché strale:dèttonsi colpi che parén d'Achille,e balza un Mongibel fuor di faville.

CXLMa de' destrier', con qual furor non dico,inverso Santa Croce va Scorzone,così dall'altra parte Falsamico,ch'al suo signor dà gran riputazionee anche al sangue di Chiarmonte antico;e mentre che venìa con quel ronzione,gittò Giovenco scosto dieci braccia:come un ser margotto in terra il caccia.

CXLIIo vidi questo dì tre buon' cavagli,Falsamico, Scorzone e l'Abruzese,e non ispero ma' più ritrovalli,cercando il mondo per ogni paesee perché questa regola non fallie Dïonigi una gran lancia presee misse al suo caval nuove alie e penne,con tanta furia al Borromeo ne venne.

CXLIINon fu mai in selva leopardo al varcoâsaltar cervio così presto o damma,né così tosto saetta esce d'arco;e quanto più correa, sempre rinfiammasanza temer del suo signor lo 'ncarcoo di sua forza mai minuir dramma;e puose Dïonigi ov'egli aposta,e così Carlo gli fe' la risposta.

CXLIIILe lance in pezi n'andorono a 'n bronchi;ma non pensar che Braccio anco si stiae 'l Bracciolino e gli altri pain monchi,che tante lance quel dì si rompia,che spesso a Marte volavano i tronchi,tanto ch'un tratto Francesco corria,e perché e' corre e Lorenzo era surto,gittò el caval sozopra in terra d'urto.

CXLIVNé prima in terra il giovinetto fue,che tutto il campo correa âiutarlo;ma quel caval per la sua gran virtùevolea far quel che non poté alfin farlo,e hor si riza e hor cadeva giùe,sicché fa sospirar chi può mirarlo,e credo ancor che sospirassi quellac'ha fatta il ciel sopra ogni donna bella.

CXLVEra a vedere il suo famoso padre,e comandò che l'elmo gli sia tratto;così pregava la piatosa madre,e volentier sarebbe suto fatto,ma e' rispondea con parole legiadre:"Questo non era la promessa e 'l patto"al suo signore, e poi sogiugne e diceche in ogni modo il dì moria filice.

CXLVIHor ritorniamo al badalone, a Cino,che, vegendo Lorenzo non si riza,si pose a bocca un gran fiasco di vinoe bevel tutto quanto per la istiza;ma po' che vide che 'l suo paladinoera già ritto e come un barbio guiza,ricominciò a sonar per festa il cornopur da Gambassi, molto chiaro, il giorno.

CXLVIIA ogni giuoco Cino volea bere.Lorenzo intanto è montato in su Branca,e sopra questo famoso corsiereil perso tempo alla fine rinfranca,però ch'egli era e possente e leggiere,leardo tutto che nulla gli manca:non rifarebbe Natura sì bello,non ch'arte o 'ngegno o scultura o pennello.

CXLVIIIQuesto cavallo a costui fu mandatodal buon signor di Pesero Sforzesco,che lungo tempo l'avea molto amato,e in tutte le sue pruove era pugliesco:nelle battaglie avea sempre honoratoil suo signore e parea ancor fresco,ch'avea ben consumati dodici annie stato i mille guerre e i mille afanni.

CXLIXEra la giostra all'ultimo ristretta:qui si cognobbe, nella istremitade,più di Lorenzo la virtù perfetta.I' chiamo in testimonio una cittade:non parve a matutin la lucernetta,che si rinnalza ispesso e spesso cade,ma stette come lauro sempre verde,ché generoso cor mai valor perde.

CLE insino al fin, come verile amante,tenne la lancia e 'l forte iscudo al petto;tenne la fede del suo amor costante:alle percosse, a ogni cosa ha retto,con animo che certo al suo adamantesi potria comparar del giovinetto,ch'era al principio del ventesimo anno,quando e' fu pazïente a tanto afanno.

CLIMa che dich'io? Chi ti fe', Tisbe, arditauscir la notte fuor di Bambillona,e disprezar già, Leandro la vita?e Pulifemo la zampogna suonae' monti sveglie; e chi infiammò te, Arcita?Colui ch'a nullo amato amar perdonae tante cose far fe' al grande Achille,così a te, Lauro: io ne dire' qui mille.

CLIIE Dïonigi il dì fermo al berzaglioanco Amor tiene e Carlo e 'l Salutato(el campo si vedea tutto in travaglio)e Bernardin più volte avea lasciatoe preso qualche tratto nel guinzaglio,con quel caval che parea spiritato,e lo menava a man, perch'era saggio,benché ogni volta no lasciò al vantaggio.

CLIIIIntanto il sol bagnava i sua crin' d'auronell'Oceàno e scaldava le spalledel freddo corpo dell'antico Mauro,sicché e' faceva le salse onde gialle,forse a pietà commosso del suo Lauro,ch'ancor faceva gridar "Palle! Palle!"e forse a nuova gente rende il giornoch'aspettan come noi là il suo ritorno.

CLIVPer color ch'a giudicare avènola terza volta vollon si sonasse,talché Pluton si pensò che 'l terreno,credo, ch'a questa volta rovinasse,e Marte fu d'ogni dolcezza pieno,Vener non credo già mai si mostrassequanto quel giorno bella e lieta in faccia,quando il suo Adon la fe' già 'ndare in caccia.

CLVTrassonsi l'elmo i giostranti di testae, posto fine a sì longo martoro,fu dato al giovinetto con gran festail primo honor di Marte coll'alloro,e l'altro a Carlo Borromei si resta.Adunque retto giudicâr costoro:laüro al Lauro, la Fama alla fama,e da' balcon' giù discese ogni dama.

CLVIHora ha' tu la grillanda meritata,Läuro mio, de' fioretti novelli,hora ha luogo la fede accetta e datain casa già del tuo Braccio Martelli,hora tanta Cirra per te fia chiamatache versi mai non si udîrno sì belli:e pregherremo il ciel sopra ogni cosache la tua bella iddea ti sia piatosa.

CLVIIE qualche stral sarà nella faretra,che scalderà nel cuor questa fenice;segneren l'età tua con bianca petra,che lungo tempo possa esser felice;noi soneren sì dolce nostra cetra,che fia ritolto a Pluto uridice;noi ti faren qui divo, e sacro in cielo,e 'l simulacro ancor, come già a Belo.

CLVIIIHabbiti, Emilio, e tu Marcello e Scipio,e tuo trïonfi sanza invidia in Roma,o quel che librò il popolo mancipioe tolse al Campito' sì grieve soma,perché tu fusti, o mio Läur, principiodi riportar te stesso in sulla chioma,di riportar honor, vittoria e 'nsegnaalla casa de' Medici alta e degna.

CLIXI cittadin' vi vennon tutti quantiil dì seguente teco a rallegrarsi;vennonvi tutti i più legiadri amanti,vennon tutte le ninfe a sollazarsicon suon', con festa e con sì dolci canti.Or sia qui fin, poiché convien posarsi,perché il compar, mentre ch'io iscrivo, aspettae ha già in punto la sua vïoletta.

CLXHor fa', compar, che tu la scarabilli,e se tu fussi domandato atornoper che cagione hor tal foco sfavilli,ch'è stato un tempo da farne un susorno,digli che son per Giulian certi isquilliche destan, come carnasciale il corno,il suo cor magno all'aspettata giostra,ultima gloria di Fiorenza nostra.

 

 

 

 

 

 

 

 

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