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ing.Pierluigi Carnesecchi
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NUOVA CRONICA di Giovanni Villani
tomo primo
LIBRO PRIMO
<I>Questo libro si chiama la Nuova cronica, nel quale si tratta di più cose passate, e spezialmente dell'origine e cominciamento della città di Firenze, poi di tutte le mutazioni ch'ha avute e avrà per gli tempi: cominciato a compilare nelli anni della incarnazione di Iesù Cristo MCCC.</I>
<B>I</B>
<I>Comincia il prolago, e il primo libro.</I>
Con ciò sia cosa che per gli nostri antichi Fiorentini poche e nonn-ordinate memorie si truovino di fatti passati della nostra città di Firenze, o per difetto della loro negligenzia, o per cagione che al tempo che Totile <I>Flagellum Dei</I> la distrusse si perdessono scritture, io Giovanni cittadino di Firenze, considerando la nobiltà e grandezza della nostra città a' nostri presenti tempi, mi pare che si convegna di raccontare e fare memoria dell'origine e cominciamento di così famosa città, e delle mutazioni averse e filici, e fatti passati di quella; non perch'io mi senta sofficiente a tanta opera fare, ma per dare materia a' nostri successori di nonn-essere negligenti di fare memorie delle notevoli cose che averranno per gli tempi apresso noi, e per dare esemplo a quegli che saranno delle mutazioni e delle cose passate, e le cagioni, e perché; acciò ch'eglino si esercitino adoperando le virtudi e schifino i vizii, e l'aversitadi sostegnano con forte animo a bene e stato della nostra repubblica. E però io fedelmente narrerò per questo libro in piano volgare, a ciò che li laici siccome gli aletterati ne possano ritrarre frutto e diletto; e se in nulla parte ci avesse difetto, lascio alla correzzione de' più savi. E prima diremo onde fu il cominciamento della detta nostra città, conseguendo per gli tempi infino che Dio ne concederà di grazia; e non sanza grande fatica mi travaglierò di ritrarre e ritrovare di più antichi e diversi libri, e croniche e autori, le geste e' fatti de' Fiorentini compilando in questo; e prima l'orrigine dell'antica città di Fiesole, per la cui distruzione fu la cagione e 'l cominciamento della nostra città di Firenze. E perché l'esordio nostro si cominci molto di lungi, in raccontando in brieve altre antiche storie, al nostro trattato ne pare di nicessità; e fia dilettevole e utile e conforto a' nostri cittadini che sono e che saranno, in essere virtudiosi e di grande operazione, considerando come sono discesi di nobile progenie e di virtudiose genti, come furono gli antichi buoni Troiani, e' valenti e nobili Romani. E acciò che·ll'opera nostra sia più laudebile e buona richeggio l'aiuto del nostro Signore Iesù Cristo, per lo nome del quale ogni opera ha buono cominciamento, mezzo, e fine.
<B>II </B>
<I>Come per la confusione della torre di Babello si cominciò ad abitare il mondo.</I>
Noi troviamo per le storie della Bibbia e per quelle degli Asseriani che Nembrotto il gigante fu il primo re, overo rettore e ragunatore di congregazione di genti; ch'egli per la sua forza e séguito signoreggiò tutte le schiatte de' figliuoli di Noè, le quali furono LXXII; ciò furono XXVII quelle che uscirono di Sem il primo figliuolo di Noè, e XXX quelle di Cam il secondo figliuolo di Noè, e XV quelle di Giaffet il terzo figliuolo di Noè. Questo Nembrot fu figliuolo di Cus che fu figliuolo di Can il secondo figliuolo di Noè. E per lo suo orgoglio e forza si credette contrastare a·dDio, dicendo che Idio era signore del cielo, e egli della terra. E acciò che Dio non gli potesse più nuocere per diluvio d'acqua, come avea fatto alla prima etade, sì ordinò di fare la maravigliosa opera della torre di Babel. Onde Iddio, per confondere il detto orgoglio, subitamente mandò confusione in tutti viventi, e che operavano la detta torre fare; e dove tutti parlavano una lingua, ciò era l'ebrea, si variaro in LXXII diversi linguaggi, che l'uno non intendea l'altro. E per cagione di ciò rimase per necessità il lavoro della detta torre, la quale era sì grande che girava LXXX miglia, e era già alta IIIIm passi, e grossa M passi, che ogni passo è braccia III delle nostre. E poi quella torre rimase per le mura della grande città di Babbillonia, la quale è in Caldea, e tanto è a·ddire Babbillonia quanto confusione. E in quella per lo detto Nembrot e per gli suoi furono prima adorati gl'idoli di falsi Idii. E fu cominciata la detta torre, overo mura di Babillonia, VIIc anni apresso che fu il Diluvio, e MMCCCLIIII anni dal cominciamento del secolo infino alla confusione della torre di Babello. E troviamo che si penò a·ffare anni CVII: e le genti viveano in que' tempi lungamente. E nota che in lunga vita, avendo più mogli, aveano molti figliuoli e discendenti, e multiplicaro in molto popolo, tutto fosse disordinato e sanza legge. Della detta città di Babillonia fu prima re che cominciasse battaglie Nino figliuolo Beli, disceso d'Ansur figliuolo di Sem, il quale Nino fece la grande città di Ninive. E poi dopo lui regnò Semiramis sua moglie in Babillonia, che fu la più crudele e dissoluta femmina del mondo, e questa fu al tempo da Abraam.
<B>III</B>
<I>Come si dipartì il mondo in tre parti, e della prima detta Asia.</I>
Per cagione della detta confusione convenne di nicessità che' tribi e le schiatte de' viventi ch'allora erano si dipartissero e abitassono diversi paesi. E la prima generale partigione fu che in tre patti si divise il mondo, per le schiatte de' primi tre figliuoli di Noè. La prima e maggiore parte si chiamò Asia, la quale contiene quasi la metade e più di tutta la terra abitata, cioè tutta la parte da levante, cominciando dal mare Occiano e Paradiso terrestro, partendosi dalla parte di settentrione dal fiume di Tanai in Soldania che mette foce in sul mare Maggiore, detto per la Scrittura Pontico; e da la parte di mezzodì si parte e confina al diserto che parte Soria da Egitto, e per lo fiume del Nilo che fa foce a Dammiata in Egitto, e mette capo nel nostro mare. Questa parte d'Asia contiene più province in sé, Camia, e India, e Caldea, e Persia, e Asiria, Mesopotania, Media, Erminia, Giorgia, e Turchia, e Soria, e molte altre province. E questa parte abitaro i discendenti di Sem, il primo figliuolo di Noè.
<B>IV</B>
<I>De la seconda parte del mondo detta Africa, e de' suoi confini.</I>
La seconda parte si chiamò Africa, la quale da levante comincia i suoi confini dal sopradetto fiume del Nilo, dal mezzogiorno infino nel ponente a lo stretto di Sibilia e di Setta, cinta e circondata dal mare Uziano, che si chiama il mare di Libia; e dal settantrione confina col nostro mare detto Mittaterreno. Questa parte ha in sé Egitto, Numidia, Moriena, e Barberia, e 'l Garbo, e 'l reame di Setta, e più altre salvatiche province e diserti. Questa parte fu popolata per gli discendenti di Cam il secondo figliuolo di Noè.
<B>V</B>
<I>Della terza parte del mondo detta Europia, e de' suoi confini.</I>
La terza parte del mondo si chiama Europia, la quale comincia i suoi confini da levante dal fiume detto Tanai, il qual è in Soldania, overo in Cumania, e mette nel mare de la Tana nominato dal detto fiume, e quel mare si chiama Maggiore; in sul qual mare e parte d'Europia si è parte di Cumania, Rossia, e Bracchia, e Bolgaria, e Alania, stendendosi sopra quel mare infino in Costantinopoli; e poi verso il mezzogiorno Saloniche, e l'isole d'Arcipelago nel nostro mare di Grecia, e tutta Grecia comprende infino in Accaia ov'è la Morea; e poi si torce verso settantrione il mare detto seno Adriatico, chiamato oggi golfo di Vinegia, sopra il quale è parte di Romania verso Durazzo, e la Schiavonia, e alcuno capo d'Ungaria, e stendesi infino ad Istria, e Frioli, e poi torna alla Marca di Trevigi, e a la città di Vinegia; e poi verso il mezzogiorno, agirando il paese d'Italia, Romagna, Ravenna, e la Marca d'Ancona, e Abruzzi, e Puglia, e vanne infino in Calavra a lo 'ncontro a Messina, e l'isola di Cicilia; e poi tornando verso ponente per la riva del nostro mare a Napoli e Gaeta infino a Roma; e poi la Maremma e 'l paese nostro di Toscana infino a Pisa e Genova, lasciandosi allo 'ncontro l'isola di Corsica e di Sardigna, conseguendo la Proenza, apresso la Catalogna, e Araona, e l'isola di Maiolica, e Granata, e parte di Spagna infino allo stretto di Sibilia ove s'afronta con Africa in piccolo spazio di mare; e poi volge a mano diritta in su la riva di fuori del grande mare Uziano, circundando la Spagna, Castello, Portogallo e Galizia verso tramontana, e Navarra, e Brettagna, e Normandia, lasciandosi allo 'ncontro l'isole d'Irlanda; e poi conseguendo, Piccardia, e Fiandra, ed e·reame di Francia, lasciandosi allo 'ncontro verso tramontana, in piccolo spazio di partimento di mare, l'isola d'Inghilterra, che la grande Brettagna fu anticamente chiamata, e l'isola di Scozia con essa. E poi di Fiandra conseguendo verso levante e tramontana, Isilanda, e Olanda, e Frisinlanda, Danesmarche, Norvea, e Pollana, conchiudendo in sé tutta Alamagna, e Boemia, e Ungaria, e Sassogna; e poi è Gozia e Svezia, tornando in Rossia e Cumania al sopradetto confine ove cominciammo del fiume di Tanai. Questa terza parte così confinata ha in sé molte altre province infra terra che non sono nominate in questo, e è del tanto la più popolata parte del mondo, però che tiene al freddo, e è più temperata. Questa Europia prima fu abitata da' discendenti di Giafet il terzo figliuolo di Noè, come faremo menzione apresso nel nostro trattato; e eziandio secondo che racconta Escodio maestro di storie, Noè in persona con Iano suo figliuolo, il quale ebbe poi che fu il Diluvio, ne vennero in questa parte d'Europia nelle parti d'Italia, e là finì sua vita. E Iano vi rimase, e di lui uscirono grandi signori e popoli, e fece molte cose in Italia.
<B>VI</B>
<I>Come il re Attalante, nato di quinto grado di Giaffet figliuolo di Noè, prima venne in Europia.</I>
Intra gli altri principali, e che prima arrivasse in questo nostro paese d'Italia, partendosi dalla confusione della torre Babel, fu Attalante, overo Attalo, il quale fu figliuolo di Tagran, o Targoman, che fu figliuolo di Tirras, il quale fu figliuolo di Gomer che fu figliuolo primo di Giaffet. Altri dottori iscrissono che questo Attalo fu de' discendenti di Can, il secondo figliuolo di Noè, in questo modo: che Can ingenerò Cus, e Cus ingenerò Nembrot il gigante, onde è fatta menzione; Nembrot ingenerò Cres, che fu il primo re e abitatore dell'isola di Creti, che per suo nome così fu nominata; Cres ingenerò Cielo, e Cielo ingenerò Saturno, e Saturno generò Iove e Attalo. Di questa nazione furono i re di Grecia, e di Latini, ma non però il detto Attalante, overo Attalo; anzi troviamo che di Saturno nacque Iove, come dice dinanzi, e Tantalo: e quello Iove re di Creti cacciò Saturno suo padre del regno, e venne bene Saturno in Italia, e fece la città di Sutri, detta Saturna, e di lui discesono poi i re di Latini, come innanzi farà menzione. Ma il detto Tantalo fu re in Grecia, e troviamo ch'ebbe grande guerra con Troio re di Troia, e uccise Ganimedes figliuolo di Troio. Ma l'errore dello scrittore fu di Tantalo ad Attalo; ma la vera progenie fu da Attalo, detto Attalante, come dicemmo dinanzi.
<B>VII</B>
<I>Come il re Attalante prima edificò la città di Fiesole.</I>
Questo Attalante ebbe una moglie ch'ebbe nome Eletra. Questa Eletra moglie d'Attalo fu figliuola d'uno altro Attalante re, il quale fu de' discendenti di Can, secondo figliuolo di Noè. Quello Attalante abitò in Africa giù nel ponente, quasi di contro a la Spagna; e per lui nominiamo prima il grande monte ch'è là Monte Attalante, che si dice ch'è sì alto che quasi pare tocchi il cielo, onde i poeti in loro versi feciono favole che quello Attalante sostenea il cielo; e ciò fu che fu grande astrolago. E sue VII figliuole si convertiro nelle VII stelle del Tauro, che volgarmente chiamiamo Galulle. L'una di quelle VII sue figliuole fu la sopradetta Eletra moglie d'Attalante re di Fiesole, il quale Attalante con Eletra sua moglie, con molti che 'l seguiro, per agurio e consiglio d'Appollino suo astrolago e maestro, arivò in Italia nel paese di Toscana, il quale era tutto disabitato di gente umana. E cercando per astronomia tutti i confini d'Europia, per lo più sano e meglio asituato luogo che eleggere si potesse per lui, sì si puose in sul monte di Fiesole, il quale gli parve forte per sito e bene posto. E in su quello poggio cominciò e edeficò la città di Fiesole, per consiglio del detto Appollino, il quale trovò per arte di stronomia che Fiesole era nel migliore luogo e più sano che fosse nella detta terza parte del mondo detta Europia; imperò ch'egli è quasi nel mezzo intra' due mari che acerchiano Italia, cioè il mare di Roma e di Pisa che·lla Scrittura chiama Mittaterrena, il mare overo seno Adriatico, che oggi s'appella il golfo di Vinegia. E per cagione de' detti mari e per le montagne che vi sono intorno vi regnano i migliori venti e più sani e purificati che in altra parte, e ancora per le stelle che signoreggiano sopra quello luogo. E la detta città fu fondata sotto ascendente di tale segno e pianeta che dà allegrezza e fortezza a tutti gli abitanti più che in altra parte d'Europia; e come più si sale alla sommità del monte, tanto è più sano e migliore. E nella detta cittade ebbe uno bagno, il quale era chiamato bagno reale, che sanava molte infermitadi; e nella detta cittade venia per maraviglioso condotto delle montagne di sopra a Fiesole acque di fontane finissime e sane, onde la città avea grande abondanza. E fece Attalante murare la detta città di fortissime mura, e di maravigliose pietre e grossezza, e con grandi e forti torri, e una rocca in sulla sommità del monte di grandissima bellezza e fortezza, ove abitava il detto re, sì come ancora si mostra e può vedere per le fondamenta delle dette mura, e per lo sito forte e sano. La detta città di Fiesole multiplicò e crebbe d'abitanti in poco tempo, sicché tutto il paese e molto di lungi a sé signoreggiava. E nota ch'ella fu la prima città edificata nella detta terza parte del mondo chiamata Europia, e però fu nominata <I>Fia sola</I>, cioè prima, sanza altra città abitata nella detta parte.
<B>VIII</B>
<I>Come Attalante ebbe tre figliuoli, Italo, e Dardano, e Siccano.</I>
Attalante re di Fiesole, poi ch'ebbe fatta la detta città, ebbe di Eletra sua moglie tre figliuoli; il primo ebbe nome Italo, e per lo suo nome fu i·regno d'Italia nominato, e ne fu signore e re; il secondo figliuolo ebbe nome Dardano, il quale fu il primo cavaliere che cavalcasse cavallo con sella e freno. Alcuni scrissono che Dardano fu figliuolo di Iove re di Creti e figliuolo di Saturno, come adietro è fatta menzione; ma non fu vero, però che Iove rimase in Grecia, e' suoi discendenti ne furo re e signori, e sempre nemici de' Troiani; ma Dardano venne d'Italia, e fu figliuolo d'Attalo, come la storia farà menzione. E Vergilio poeta il conferma nel suo libro dell'Eneidos, quando li Dei dissero ad Enea che cercasse il paese d'Italia, là ond'erano venuti i suoi anticessori ch'aveano edificata Troia, e così fu vero. Il terzo figliuolo d'Attalo ebbe nome Siccano, quasi in nostro volgare sezzaio, il quale ebbe una bellissima figliuola nomata Candanzia. Questo Siccano n'andò nell'isola di Cicilia, e funne il primo abitatore, e per lo suo nome fu prima l'isola chiamata Siccania, e per la varietà di volgari delli abitanti è oggi da·lloro chiamata Sicilia e da noi Italiani Cicilia. Questo Siccano edificò in Cicilia la città di Saragosa, e fecela capo del reame ond'elli fu re e' suoi discendenti apresso per grandissimo tempo, come fanno menzione le storie di Ciciliani, e Virgilio nell'Eneida.
<B>IX</B>
<I>Come Italo e Dardano vennero a concordia a cui dovesse rimanere la città di Fiesole e il regno d'Italia.</I>
Morto il re Attalante nella città di Fiesole, rimasero apresso di lui signori Italo e Dardano suoi figliuoli; e essendo ciascuno di loro signori di grande coraggio, e che ciascuno per sé era degno di signoreggiare il regno d'Italia, sì vennero tra·lloro in questa concordia, che dovessero andare con loro sacrificii a sacrificare il loro Idio alto Marti, il quale adoravano. E fatti i sacrificii, il domandarono quale di loro dovesse rimanere signore in Fiesole, e quale di loro dovesse andare a conquistare altri paesi e reami. Dal quale idolo ebbono risposto, o per commessione divina o per artificio diabolico, che Dardano dovesse andare a conquistare altre terre e paesi, e Italo dovesse rimanere in Fiesole e nel paese d'Italia. Al quale comandamento e risponso così aseguiro, che Italo rimase nella signoria; e di lui nacquero grandi signori che apresso di lui signoreggiaro non solamente la città di Fiesole e la provincia intorno, ma quasi tutta Italia, e molte città v'edificaro; e la detta città di Fiesole montò in grande potenzia e signoria, infino che·lla grande città di Roma nonn-ebbe stato e signoria. E con tutta la grande potenzia di Roma, sempre le fu la città di Fiesole nemica e ribella, infino che per gli Romani non fu disfatta, come innanzi farà menzione la vera storia. Lasceremo di più dire al presente di Fiesolani, ch'a luogo e tempo torneremo alla storia, e seguiremo come Dardano si partì di Fiesole, e fu il primo edificatore della grande città di Troia, e l'origine de' re di Troiani, ed eziandio di Romani.
<B>X</B>
<I>Come Dardano arrivò in Frisia, e edificò la città di Dardania, che poi fu la grande Troia.</I>
Dardano, com'ebbe comandamento dal risponso del loro Idio, si partì di Fiesole con Appollino maestro e astrolago del suo padre, e con Candanzia sua nipote, e con grande séguito di sua gente, e arrivò nelle parti d'Asia nella provincia che si chiamava Frigia, per lo nome di Friga di discendenti di Giaffet che prima ne fu abitatore; la quale provincia di Frigia si è di là da la Grecia, passate l'isole d'Arcipelago, in terra ferma, che oggi si signoreggia per li Turchi e si dice Turchia. In quello paese il detto Dardano per consiglio e arte del detto Apollino cominciò ad edificare, e fece una città in sulla riva del detto mare di Grecia, a la quale per lo suo nome puose nome Dardania, e ciò fu IIImCC anni dal cominciamento del secolo. E così fu Dardania chiamata mentre Dardano vivette, e eziandio i figliuoli.
<B>XI</B>
<I>Come Dardano ebbe uno figliuolo ch'ebbe nome Tritamo che fu padre di Troio, per lo quale la città di Troia fu così chiamata.</I>
Il quale Dardano ebbe uno figliuolo ch'ebbe nome Tritamo: di Tritamo nacque Troio e Toraio; ma Troio fu il più savio e valoroso, e per la sua bontà fu signore e re de la detta città e del paese d'intorno, e con Tantalo re di Grecia, figliuolo che fu di Saturno re di Creti, onde facemmo menzione, ebbe grande guerra. E poi dopo la morte del detto Troio, per la bontà e senno e valentia che in lui era regnata, sì piacque al figliuolo e agli uomeni della sua città che per lo suo nome sempre la detta città fosse chiamata Troia; e a la principale e maestra porta de la città, per la memoria di Dardano, rimanesse il nome che avea prima la città, cioè Dardania.
<B>XII</B>
<I>De li re che furono in Troia; e come Troia fu la prima volta distrutta al tempo del re Laumedon.</I>
Del sopradetto Troio, poi che fu morto, rimasono tre figliuoli; il primo ebbe nome Elion, il secondo Ansaraco, il terzo Ganimedes. Il detto Elion edificò in Troia la mastra fortezza e castello reale di magnifica opera, e per lo suo nome Elion fu chiamato. Del detto Elion nacque il re Laumedon, e Titonun che fu padre di Menone, overo Menelao, al cui tempo fu distrutta Troia la prima volta per lo possente Ercore, il quale fu figliuolo della reina Armene figliuola del re Laudan di Creti, e co·llui Iason figliuolo Anson e nepote del re Pelleus di Polopense, e lo re Talamone di Salamine. E ciò fu per cagione del detto re Laumedon, ch'aveva vietato il porto di Troia al detto Ercore e Iason, e fatta loro onta e villania, e volutoli prendere e uccidere, quando Iason andava a l'isola di Colco ov'era il montone col vello dell'oro, come raccontano i poeti; imperò che 'l detto Laumedon si tenea per nemico di Greci, per cagione che 'l re Tantalo avea morto Ganimedes suo zio e figliuolo di Troio, come innanzi faremo menzione. E per la detta antica guerra, allora rinnovellata, fu la prima distruzione di Troia. E per loro fu morto il detto re Laumedon e molta di sua gente, e distrussono e arsono la detta città di Troia. E 'l detto re Talamone, che al detto conquisto fu molto valoroso, rubò e prese Ansiona figliuola del detto re Laumedon, e menollasene in Grecia, e tennela per sua femmina, overo amica.
<B>XIII</B>
<I>Come il buono re Priamo reedificò la città di Troia.</I>
Apresso la detta prima distruzione di Troia Priamo figliuolo del re Laumedon, il quale essendo giovane non era allora in Troia, tornò poi con aiuto d'amici, e rifece fare e ristorare di nuovo la detta città di Troia di maggiore sito, e grandezza, e fortezza che nonn-era stata dinanzi, e tutta la gente del paese d'intorno vi ricolse e fece abitare, sì che in piccolo tempo multiplicò e crebbe, e divenne delle maggiori e più possenti città del mondo; ché, secondo raccontano le storie, ella girava LXX de le nostre miglia con popolo innumerabile. Questo re Priamo ebbe della sua moglie Eccuba più figliuoli e figliuole: il primo ebbe nome Ettor, il quale fu valentissimo duca, e signore di grande prodezza e senno; l'altro ebbe nome Paris, e l'altro Deifebo, e Elenus, e 'l buono Troiolus; e IIII figliuole, Creusa moglie che fu d'Enea, e Cassandra, e Polisena, e Elionas, e più altri figliuoli di più altre donne, onde la storia di Troia di loro fa menzione, i quali tutti furono maravigliosi in prodezza d'arme. E apresso buon tempo, essendo la detta città in grande e possente stato, e il re Priamo e' figliuoli in grande signoria, Paris e Troiolus suoi figliuoli, e Eneas suo nipote, e Pollidamas co·lloro compagnia, armarono XX navi, e con quelle navicando, arrivaro in Grecia per vendicare la morte e l'onta de·re Laumedon loro avolo, e la distruzione di Troia, e ruberia di Siona loro zia; e arrivaro ne·regno del re Menelao fratello del re Talamone ch'avea presa Siona, il quale Menelao avea per moglie Elena, la più bella donna che allora fosse al mondo, la quale era ita a una festa di sacrificii in su una loro isola; e veggendola Paris, incontanente innamorò di lei, e presela per forza, e uccisono e rubaro tutti quegli ch'erano a la detta festa e in su quella isola, e tornarsi a Troia. E per molti si dice che la detta reina Elena fu rubata in su l'isola che oggi è chiamata Ischia, e la terra del re Menelao era Baia e Pozzuolo, e 'l paese d'intorno ove è oggi Napoli e Terra detta di Lavoro, che in quegli tempi era abitata da' Greci e detta la Grande Grecia. Ma per quello che troviamo per le vere storie, quella isola ove fu presa Elena fu Citerea, che oggi si chiama il Citri, la quale è in Romania incontro a Malvagia nel paese d'Accaia detto oggi la Morea; e la detta Elena fu serocchia di Castor e di Polluce onde i poeti fanno versi.
<B>XIV</B>
<I>Come Troia fu distrutta per gli Greci.</I>
Per la detta ruberia di Elena il re Menelao co·re Talamone e col re Agamenone suo fratello, ch'allora era re di Cicilia, con più altri re e signori di Grecia e di più altri paesi, fecero lega e congiura di distruggere Troia, e raunarono M navi con grandissima moltitudine di genti d'arme a cavallo e a piè, e con esse arrivaro e puosono assedio a la grande città di Troia. Al quale assedio stettero per tempo di X anni, VI mesi, e XV dì; e dopo molte aspre e diverse battaglie, e uccisione e tagliamento di gente dall'una parte e dall'altra, e 'l buono Ettor con più de' figliuoli del re Priamo furono morti in battaglia. La detta città di Troia per tradimento fu presa da' Greci, e di notte v'entraro e rubarla, e misero a fuoco e fiamma, e il detto re Priamo uccisero, e quasi tutta sua famiglia, e di cittadini in grande quantità, sì che pochi ne scamparo. De la quale distruzione Omero poeta, e Virgilio, e Ovidio, e Dario, e più altri savi (chi gli vorrà cercare) ne fecero compiutamente menzione in versi e in prosa; e ciò fu anni CCCCXXX anzi che si cominciasse Roma, e IIIImCCLXV anni dal cominciamento del mondo, e nel tempo che Abdon era iudice del popolo Israel. Di questa distruzione di Troia seguì quasi a tutto il mondo grandi mutazioni, e molti principi di reami usciro delli scampati Troiani, siccome innanzi faremo menzione.
<B>XV</B>
<I>Come i Greci che·ssi partirono dall'asedio di Troia quasi tutti arrivarono male.</I>
Distrutta Troia, i Greci che si partiro dall'asedio, la maggiore parte, arrivaro male, chi per fortuna di mare, e chi per discordie e guerre tra·lloro. Lasceremo ora di ciò, e diremo di Troiani che scamparo di Troia come arrivaro, acciò che seguiamo nostra storia, mostrando l'origine di cominciamenti di Romani e poi di noi Fiorentini, come dinanzi promettemmo di narrare.
<B>XVI</B>
<I>Come Elenus figliuolo del re Priamo co' figliuoli d'Ettor si partì di Troia.</I>
Intra gli altri che scamparo e si partiro di Troia fu Elenus figliuolo del re Priamo, che non era uomo d'arme, e con Eccuba sua madre, e Cassandra sua serocchia, e con Andromaca moglie che fu di Ettor, e con due figliuoli d'Ettor piccoli garzoni, e con più genti che gli seguiro, arrivaro in Grecia nel paese di Macedonia, e quivi ricevuti da' Greci popolaro il paese e fecero città; che Pirro figliuolo d'Acchille signore del paese prese per moglie Andromaca, moglie che fu d'Ettor di Troia, e di loro usciro poi grandi re e signori.
<B>XVII</B>
<I>Come Antinoro e Priamo il giovane partiti di Troia, edificaro la città di Vinegia, e quella di Padova.</I>
Un'altra gente si partì de la detta distruzione: ciò fu Antinoro che fu uno de' maggiori signori di Troia e fu fratello di Priamo e figliuolo del re Laumedon, il quale fu incolpato molto del tradimento di Troia, e Eneas il sentì, secondo che scrive Dario; ma Virgilio al tutto di ciò lo scolpa. Questo Antinoro con Priamo il giovane, figliuolo del re Priamo, ch'era piccolo fanciullo, e scampò della distruzione di Troia con grande séguito di genti, in numero di XIIm, e grande navilio per mare navicando, arrivaro nelle contrade ov'è oggi Vinegia grande città, e in quelle isolette d'intorno si puosero, acciò che fossero franchi e fuori d'ogni altra iurisdizione e signoria d'altra gente, e di quegli scogli furo gli primi abitatori; onde, crescendo poi, si fece la grande città di Vinegia, che prima ebbe nome Antinora per lo detto Antinoro. E poi il detto Antinoro si partì di là e venne ad abitare in terra ferma ove è oggi Padova la grande città, e elli ne fu il primo abitatore e edificatore; e Padova le puose nome perch'era infra paduli, e per lo fiume del Po che vi corre assai presso, che si chiamava Pado. Il detto Antinoro morì e rimase in Padova, e infino al presente nostro tempo si ritrovò il corpo e la sepoltura sua con lettere intagliate, che faceano testimonianza com'era il corpo d'Antinoro; e da' Padovani fu rinnovata sua sepultura, e ancora oggi si vede in Padova.
<B>XVIII</B>
<I>Come Priamo il terzo fu re in Alamagna e' suoi discendenti re di Francia.</I>
Priamo il terzo, figliuolo di quello Priamo che con Antinoro avea edificata Vinegia, si partì con grande gente del detto luogo e andonne in Pannonia, cioè Ungheria, e nel paese detto Siccabar; e così la nominaro e popolaro di loro gente, e per la prodezza e virtù del detto Priamo ne fu re e signore. Questa gente erano chiamati Galli, overo Gallici, perch'erano biondi; e stettono nel detto luogo lungo tempo, infino a la signoria di Romani, quando signoreggiavano la Germania, cioè Alamagna, infino al tempo che regnava Valentiniano imperadore intorno gli anni di Cristo CCCLXVII. Allora il detto imperadore per cagione che' detti Galli li ataro conquistare una gente che aveano nome Alani, i quali s'erano rubellati dallo 'mperio di Roma, e per la loro forza li sottomisero a lo 'mperio, il detto imperadore li fece franchi X anni del tributo che doveano dare a' Romani, e d'allora innanzi furono chiamati Franchi, onde poi derivò il nome de' Franceschi. E a quello tempo era loro signore uno ch'avea nome Priamo, disceso per lignaggio del primo Priamo che venne in Siccambra. E morto Valentiniano imperadore, e compiuti i detti X anni, i detti chiamati Franchi rifiutaro di dare il tributo allo 'mperio, e per loro fierezza si rubellaro da' Romani, e feciono loro signore Marcomene figliuolo del detto Priamo, e uscirono del loro paese Siccambra, e entrarono in Alamagna, e in quella conquistaro città e castella assai tra 'l fiume Danubio e quello del Reno, le quali erano alla signoria di Romani; e d'allora innanzi gli Romani non v'ebbono libera signoria. E 'l detto Marcomene regnò nella Magna XXX anni, ma ancora erano pagani. Apresso lui fu re di Franchi Ferramonte suo figliuolo, il quale per forza d'arme entrò nel reame che oggi si chiama Francia, e tolselo a' Romani. E per lo loro nome in latino fu chiamata Gallia, e in comune volgare Francia, e gli uomini Franceschi, derivato dal sopradetto nome di Franchi; e ciò fu nelli anni di Cristo intorno CCCCXVIIII.
<B>XIX</B>
<I>Come Ferramonte fu il primo re di Francia, e' suoi discendenti apresso.</I>
Ferramonte primo re di Francia regnò XL anni. Apresso lui regnò Clodius, overo Clodoveo il Capelluto, suo figliuolo XVIII anni, e prese la città di Cambragio e 'l paese d'intorno che teneano li Romani, e cacciolli infino al fiume di Somma in Francia. Apresso lui regnò Meroveo suo figliuolo X anni, e molto avanzò il suo reame. Apresso lui regnò Elderigo suo figliuolo XXVI anni; ma per lo suo male reggimento, usando sua vita in lussuria, fu cacciato da' baroni, e toltali la signoria, e fuggissi nel Reno al re Bazin, e là dimorò in esilio VIII anni; poi fu rappellato da' Franceschi. E ebbe uno figliuolo chiamato Clovis, il quale presso lui regnò XXX anni, e fu uomo di grande valore, che conquistò Alamagna, e Cologna e poi in Francia Orliens e Sassona, e tutte le terre che teneano i Romani. E fu il maggiore e il più possente de' suoi anticessori, e fu il primo re di Francia che fosse cristiano per conforto della sua moglie chiamata Croceia, la quale era cristiana. E essendo il detto Clovis asembiato ad una battaglia contra a li Alamanni, si botò a Cristo, s'egli avesse vittoria per lo suo nome, si farebbe egli e sua gente Cristiano; e per virtù di Cristo così avenne, onde si battezzò per mano di santo Remigio arcivescovo di Rens; e nel battesimo dimenticando la clesima, venne visibilemente da cielo una colomba che in becco l'adusse al beato Remigio; e ciò fu gli anni di Cristo Vc. Apresso il detto Clovis detto Clodoves regnò Lottieri suo figliuolo V anni, e apresso Lottieri regnò Chelperiche suo figliuolo XXIII anni. Questi fu fatto uccidere da la moglie chiamata Fredegonda crudelissima; rimase di lui uno piccolo figliuolo di IIII mesi, il quale ebbe nome Lottieri, e regnò XLII anni. Apresso di lui regnò Godoberto suo figliuolo XIIII anni. Questi fece fare la chiesa di Santo Dionigi in Francia. Apresso lui regnò Clovis suo figliuolo XVII anni. Questi fu di mala vita, e molto abassò il reame; ebbe III figliuoli, Lottieri, Tederigo, e Elderigo. Apresso Clovis regnò Lottieri suo primo figliuolo III anni. Poi fu re Tederigo suo fratello I anno, e fu disposto del reame da' suoi baroni per sua misera vita, e rendési monaco a San Donnisi; e feciono re Elderigo terzo fratello, il quale regnò anni XII. E morto Elderigo, fu tratto della badia di San Donnigi Tederigo monaco, e rifatto re, e regnò poi XII anni, con tutto che poco si sapesse intramettere del reame; anzi il governava uno grande barone di Francia suo balio ch'avea nome Ertaire. Ma il primo Pipino, il quale era de' maggiori signori di Francia figliuolo d'Ancherse, e, per lo suo podere, veggendo male governare il reame, e per essere signore e balio del regno, sì combatté col detto Tederigo re e con Ertaire suo balio, e sconfissegli in battaglia, e uccise il detto Ertaire, e Tederigo re mise in pregione, e vivette III anni. E dopo la sua morte fu fatto re Crovis suo primo figliuolo, e regnò sotto il governo di Pipino, che di tutto era balio sovrano, IIII anni. E dopo lui regnò Ideberto fratello del detto Clovis XVIII anni. E poi regnò Dangoberto suo secondo figliuolo IIII anni. E poi regnò Lottieri il quarto suo figliuolo due anni. E tuttora a la signoria de' detti re era Pipino sovrano balio e governatore di tutta Francia, e fu mentre che fu in vita. E poi regnò Cilpericche figliuolo del detto Lottieri V anni, e suo generale balio fu Carlo Martello figliuolo del primo Pipino, il quale ebbe della sua amica, serocchia di Dodone duca d'Equitania. Questo Carlo Martello fu uomo di grande valore e potenzia, bene aventuroso in battaglia: e conquistò tutta Alamagna, Soavia, e Baviera, e Frigia, e Lotteringia, e recolli sotto il reame di Francia. Del sopradetto Cilpericche fu uno figliuolo chiamato Tederigo, il quale regnò XV anni al governo del detto Carlo Martello. Apresso lui regnò Elderigo suo figliuolo VIIII anni; ma nonn-avea se non il nome, e Carlo la signoria. E poi, morto Carlo Martello, il secondo Pipino figliuolo del detto Carlo fu sovrano balio del reame come era stato il padre. Ilderigo re essendo uomo di poco valore, con volontà del papa Stefano ch'allora regnava, per molti servigi fatti per lo detto Pipino a santa Chiesa, e per Carlo Mattello suo padre, come innanzi farà menzione, e con volontà di tutti gli baroni di Francia, il detto Ilderigo re, sì come uomo disutile al reame, fu disposto de la signoria, e rendési monaco, e morì sanza figliuoli, e in lui fallì il primo lignaggio de' re di Francia della schiatta di Priamo. E disposto il detto Ilderigo re, come detto è di sopra, fu consegrato re di Francia per lo detto papa, e con volontà de' baroni, il buono Pipino; e fu fatto dicreto per lo papa che mai non potesse essere re di Francia altri che di suo lignaggio; e ciò fu gli anni di Cristo VIIcLI.
<B>XX</B>
<I>Come il secondo Pipino padre di Carlo Magno fu re di Francia.</I>
Del sopradetto re Pipino discese il buono Carlo Magno suo figliuolo, il quale fu re di Francia e imperadore di Roma; e apresso lui furono VI suoi discendenti imperadori di Roma, e più re di Francia, come innanzi faremo menzione, ove tratteremo del detto Carlo Magno e di suoi discendenti; ma per la loro discordia fallì loro lo 'mperio, e eziandio il diritto stocco reale di Carlo Magno venne meno al tempo d'Ugo Ciappetta duca d'Orliensa, il quale fu poi re di Francia, e sono ancora i suoi discendenti. Onde noi in questo in brieve, quando fia tempo, ne tratteremo, imperò che la loro signoria si mischia molto ne' nostri fatti della città di Firenze, come innanzi faremo menzione. Lasceremo di Franceschi, e torneremo adietro a la vera storia d'Enea di Troia, onde discesono gli re e poi gl'imperadori romani, tornando a nostra materia poi della edificazione di Firenze fatta per gli Romani.
<B>XXI</B>
<I>Com'Eneas si partì di Troia e arrivò a Cartagine in Africa.</I>
Ancora si partì de la detta distruzione di Troia Eneas con Anchises suo padre e con Ascanio suo figliuolo nato di Creusa figliuola del grande re Priamo, con séguito di IIImCCC uomini de la migliore gente di Troia, e ricolsonsi in su XXII navi. Questo Enea fu della schiatta reale di Troiani in questo modo: che Ansaraco figliuolo di Troio e fratello d'Ilion, onde al cominciamento è fatta menzione, ingenerò Daphino, e Daphino ingenerò Anchises, e Anchises ingenerò Enea. Questo Enea fu signore di grande valore, savio, e di grande prodezza, e bellissimo del corpo. Quando si partì di Troia co' suoi, con grande pianto, avendo perduta Creusa sua moglie a lo stormo de' Greci, sì n'andò prima all'isola di..., e sacrificio fece ad Appollo Idio del sole, overo idolo, domandando consiglio e risponso in quale parte dovesse andare; dal quale ebbe risponso e comandamento che dovesse andare nel paese e terra d'Italia, là onde prima erano venuti a Troia Dardano e' suoi anticessori, e dovesse intrare in Italia per lo porto, overo foce, del fiume d'Alba; e dissegli per lo detto risponso che dopo molte fatiche di mare e battaglie nella detta terra d'Italia avrebbe moglie e grande signoria, e della sua schiatta sarebbono possenti re imperadori, i quali farebbono grandissime e notabili cose. Udito ciò, Enea fu molto riconfortato per la buona risposta e promessa: incontanente si mise in mare con sue genti e navile, il quale navicando per più tempo ebbe di molte fortune, e arrivò in molti paesi, e prima nella contrada di Macedonia ove erano già Elenus, e la moglie, e 'l figliuolo d'Ettor; e dopo la dolorosa accoglienza per la ricordanza della ruina di Troia, si partiro. E navicando per diversi mari, ora innanzi, e ora adietro, o a traverso, come gente ignoranti del paese d'Italia, né grandi maestri né pedoti di mare non aveano co·lloro che gli guidasse, anzi navicavano quasi come la fortuna e' venti del mare gli menava, sì arrivaro nell'isola di Cicilia, che' poeti chiamano Trinacia, e dove è oggi la città di Trapali iscesono in terra; nel quale luogo Anchises suo padre per molta fatica e vecchiezza passò di questa vita, e nel detto luogo fu soppellito a·lloro maniera con grande solennità. E dopo il grande corrotto fatto per Enea del caro padre, di là si partirono per arrivare in Italia: e per grande fortuna di mare si dipartiro la detta conserva delle navi, e l'una tenne una via, e l'altra un'altra. E l'una delle dette navi con tutta la gente profondò in mare, l'altre arrivaro a li liti d'Africa, non sappiendo l'una dell'altra, là dove si facea la nobile città di Cartagine per la possente e bella reina Dido venuta là di Sidonia, che oggi si chiama Suri; la quale il detto Enea, e Ascanio suo figliuolo, e tutta sua gente delle XXI navi che a quello porto si ritrovaro la detta reina acolse con grande onore, e maggiormente perché la detta reina di grande amore fu presa di Enea incontanente che 'l vide, per modo che per lei vi dimorò Enea più tempo in tanto diletto, che non si ricordava del comandamento degli Dei che dovesse andare in Italia; e per sogno, overo visione, per gli detti Iddei gli fu comandato che più non dovesse dimorare in Africa. Per la qual cosa subitamente con sua gente e navilio si partì di Cartagine; e però la detta reina Dido per lo smaniante amore colla spada del detto Enea ella medesima sé uccise. E chi questa storia più pienamente vorrà trovare legga il primo e secondo libro dell'Eneida che fece il grande poeta Virgilio.
<B>XXII</B>
<I>Come Enea arrivò in Italia.</I>
Partito Enea d'Africa, ancora capitò in Cicilia, là dove avea soppellito il padre Anchises, e in quello luogo fece l'anovale del padre con grandi giuochi e sacrificii, e ricevettono grande onore da Anceste allora re di Cicilia, per lo antico parentado di Troiani discendenti di Siccano di Fiesole. Poi si partì di Cicilia e arrivò in Italia nel golfo di Baia, che oggi si chiama Mare Morto, al capo di Miseno, assai presso dov'è oggi Napoli; ne la quale contrada avea boschi e selve grandissime, e per quelle andando Enea, per fatale guida della Sibilla Erittea menato fu a vedere l'inferno e le pene che vi sono, e poi il limbo; e secondo che racconta Virgilio nel VI libro dell'Eneida, vi trovò e conobbe l'ombre, overo imagini dell'anima del suo padre Anchises, e di Dido, e di più altre anime passate. E per lo detto suo padre gli fu mostrato, overo per visione notificato, tutti i suoi discendenti e loro signoria, e quelli che doveano fare la grande città di Roma. E dicesi per gli più che in quello luogo ove fu per la savia Sibilla menato fue per le diverse caverne di Monte Barbaro il quale è sopra Pozzuolo, che ancora al dì d'oggi sono maravigliose e paurose a riguardare; e altri avisano e stimano che per virtù divina o per arte magica ciò fosse mostrato ad Enea in visione di spirito, per significargli le grandi cose che doveano uscire e essere di suoi discendenti. Ma quale che si fosse, come uscì dello inferno, si partì; e intrato in nave, seguendo le piagge e la foce del fiume del Tevero detto Albola, entrò e arrivò, e disceso in terra, per agurio e per segni conobbe ch'era arrivato nel paese d'Italia, che dalli Iddii gli era promesso; e con grande festa e allegrezza fecero fine a le loro fatiche del navicare, e cominciaro a fare loro abitacoli e fortezze di fossi e di legname de le loro navi. E quello luogo fu poi la città d'Ostia; e quella fortezza feciono per tema de' paesani, i quali per paura di loro, sì come gente straniera e da·lloro costumi salvaggia, e per nimici gli trattavano, e più battaglie ebbono co' Troiani per cacciargli del paese, de le quali i Troiani di tutte furono vincitori.
<B>XXIII</B>
<I>Come il re Latino signoreggiava Italia, e come Enea ebbe la figliuola per moglie, e tutto il suo regno.</I>
Signoreggiava in quello paese il regno (ond'era principale la città di Laurenzia che era presso dove è ora la città di Terracina, e ancora appare disfatta) il re Latino, il quale fu de' discendenti de·re Saturno che venne di Creti, quando fu cacciato da Iove suo figliuolo, come dinanzi facemo menzione. E quello Saturno arrivò nel paese di Roma che allora signoreggiava Giano, uno de' discendenti di Noè; ma la gente era allora molto grossa, e viveano, quasi come bestie, di frutta e di ghiande, e abitando in caverne. Quello Saturno, savio di scrittura e di costumi, per suo senno e consiglio adirizzò que' popoli a vivere come gente umana, e fecegli lavorare terre e piantare vigne, e edificare case, e terre e città murare, e de la città di Sutri, detta Saturna, fu il primo edificatore, e per lui così ebbe nome; e fu in quella contrada per lo suo studio prima seminato grano, onde quegli del paese l'aveano per uno Idio; e Giano medesimo che n'era signore il fece compagno, e li diede parte nel regno. Questo Saturno regnò in Italia XXXIIII anni, e dopo lui regnò Picco suo figliuolo anni XXXI; e dopo Picco regnò Fauno suo figliuolo XXVIIII anni, e fu morto da' suoi: di Fauno rimase Lavino e Latino. Quello Lavino edificò la città di Lavina; e poco regnò Lavino; e morto lui rimase il regno a Latino, il quale a la città di Lavina mutò il nome in Laurenzia, perché in su la mastra torre nacque uno grande albore d'alloro. Il detto Latino regnò XXXII anni, e fu molto savio, e molto amendò la lingua latina. Questo re Latino avea solamente una figliuola bellissima chiamata Lavina, la quale per la madre era promessa a uno re di Toscana ch'avea nome Turno della città d'Ardea, oggi chiamata Cortona. Toscana ebbe nome il paese e provincia, però che vi furono i primi sacrificatori a l'Idii con fummo d'uncenso, detto tuscio. Venuto Enea nel paese, richiese pace al detto re Latino, e che potesse abitare in esso; dal quale Latino fu ricevuto graziosamente, e non solamente datogli licenzia d'abitarvi, ma gli promise Lavina sua figliuola per moglie, però che per fatale comandamento dell'Iddei avea che·lla dovesse maritare a straniero, e non a uomo del paese. Per la quale cagione, e per avere il retaggio del re Latino, grandi battaglie ebbe da Enea e Turno, e que' di Laurenzia per più tempo; il quale Turno uccise in battaglia il grande e forte gigante Pallas figliuolo di Menandro re di VII colli, ove è oggi Roma, il quale era venuto in aiuto a Enea; e morinne la vergine Cammilla per mano d'Enea, ch'era maravigliosa in arme. Alla fine il detto Enea vincitore dell'ultima battaglia, e morto di sua mano Turno, Lavina ebbe per moglie, la quale molto amava Enea, e Enea lei, e ebbe la metà del regno del re Latino. E dopo la morte del re Latino, che poco vivette poi, Enea ne fu al tutto signore, il quale dopo la morte del re Latino regnò III anni e morìo: il modo non si sa di certo. Queste istorie Virgilio poeta pienamente ne fa menzione nell'Eneidos; e nota che in ogni cittade ch'avesse rinomo o potenzia avea uno re, che a la comparazione de' presenti nostri tempi era ciascuno re di piccolo essere e potenzia.
<B>XXIV</B>
<I>Come Iulio Ascanio figliuolo d'Enea fu re apresso lui, e li re e signori che discesono di sua progenia.</I>
Morto Enea, Iulio Ascanio suo figliuolo rimase signore de·regno de' Latini, e Lavina moglie d'Enea rimase grossa di lui d'uno figliuolo; la quale, per paura che Ascanio suo figliastro non uccidesse lei e la creatura, si fuggì in selve ad abitare con pastori, tanto ch'ella si diliberò, e fece uno figliuolo il quale fu chiamato Silvus Postumus: Silvus, perché nacque in selva; Postumus, perché la madre rimase incinta di lui morto il padre Enea. Quando Ascanio seppe ove Lavina sua matrigna era, e come avea uno figliuolo il quale era suo fratello, mandò per lei e per lo figliuolo che venisse sanza alcuna dottanza; e lei e 'l suo figliuolo venuti, gli trattò benignamente, e a la reina Lavina e al suo figliuolo lasciò la signoria de la città di Laurenzia, e elli edificò la città d'Alba, overo Albania, al tempo di Sansone d'Israel lo forte; la quale Albania è presso dov'è oggi Roma; e di quella fece capo del suo regno, e de' Latini uno co' Troiani. E la detta città fece per agurio, che quando Enea ed elli arrivaro nel paese, in quello luogo ove edificò la detta città, trovaro sotto uno leccio una troia bianca con XXX porcellini bianchi, e però, e per la memoria di Troia la edificò, e puose nome Troia Albania per la sopradetta troia bianca; ma poi gli abitanti la chiamaro pure Albania, onde più re furono apresso, come innanzi faremo menzione. E il detto Ascanio regnò apresso Enea XXXVIII anni, e ebbe due figliuoli; l'uno fu chiamato Iulio, onde nacque la progenia de' Iulii, onde poi furo i re di Roma, e Iulio Cesere, e Catellina, e più nobili Romani sanatori e consoli furo di quella schiatta; l'altro ebbe nome Silvus per lo zio figliuolo di Lavina. Quello Silvo s'inamorò d'una nipote di Lavina, e di lei ebbe uno figliuolo, nel qual partorendo ella morìo, e però gli fu posto nome Bruto; e crescendo poi, disavedutamente in una foresta cacciando uccise Silvus suo padre; il quale per temenza di Silvus Postumus re si fuggìo del paese, e con séguito di sua gente navicando per diversi mari, arrivò nell'isola di Brettagna, che per suo nome, sì come de' primi abitatori e signori, fu così nominata per lui, la quale oggi si chiama Inghilterra: e elli fu l'origine e cominciamento di Brettoni, onde discesero molti grandi e possenti re e signori; intra gli altri il valente Brenno e Bellino fratelli, i quali per loro potenzia sconfissero gli Romani e assediaro Roma, e presolla infino a Campidoglio, e molta persecuzione fecero a' Romani, come racconta Tito Livio maestro di storie. E di loro progenie discese il buono e cortese re Artù onde i ramanzi brettoni fanno menzione; e ancora Gostantino imperadore che dotò la Chiesa fu di loro discendenti; e chi ciò vorrà pienamente trovare cerchi la cronica della badia di Salisbiera in Inghilterra. Ma poi per le disensioni e guerre finìo il legnaggio e signoria di Brettoni, e fu signoreggiata la detta isola e reame da diverse nazioni e genti di Sansogna, e da Fresoni, e di Dannesmarce, e Noverchi, e Ispagnuoli per diversi tempi; ma il legnaggio de' presenti re che sono a' nostri tempi in Inghilterra sono stratti di Guiglielmo Bastardo figliuolo del duca di Normandia, disceso della schiatta di Normandi, il quale per sua prodezza e virtù conquistò Inghilterra, e diliberò da diverse e barbere nazioni che·lla signoreggiavano. Lasceremo di Brettoni e de' re d'Inghilterra, e torneremo a nostra materia.
<B>XXV</B>
<I>Come Silvius secondo figliuolo d'Enea fu re apresso Ascanio, e come di lui discesono gli re di Latini, d'Albania, e di Roma.</I>
Dopo la morte di Iulio Ascanio fu signore e re del regno de' Latini Silvius Postumus figliuolo d'Enea e della reina Lavina, come adietro è fatta menzione, e regnò XXVIIII anni con grande senno e prodezza, e dopo lui furo XII re di sua progenia, l'uno apresso l'altro, i quali regnaro CCCL anni, e tutti ebbono sopranome Silvius per lo sopradetto primo Silvius Postumus; ché dopo lui regnò Enea Silvius suo figliuolo XXXII anni, dopo Enea regnò Capis Silvius suo figliuolo XXVIII anni: questi edificò la città di Capova in Campagna; dopo Capis regnò Latino Silvius suo figliuolo L anni, al tempo di David re d'Israel; dopo Latino regnò Alba Silvius suo figliuolo XL anni, al tempo di Salamone; dopo costui regnò Egittus Silvius suo figliuolo XXIIII anni, al tempo di Roboam re di Giudea; dopo costui regnò Carpentus Silvius suo figliuolo XVII anni, al tempo di Giosafat re di Giudea; dopo costui regnò Tiberino Silvius suo figliuolo VIIII anni, al tempo del re Ocotia di Giudea, il quale Tiberino anegò nel fiume d'Albola passandolo, e per lo suo nome fue sempre poi chiamato Tibero; dopo Tiberino regnò Agrippa Silvius suo figliuolo XL anni, al tempo di Ieu re d'Israel; dopo Agrippa regnò Aremolus Silvius suo figliolo XVIIII anni: questi puose intra' monti ov'è ora Roma la signoria degli Albani. Dopo costui regnò Aventino Silvius suo figliuolo XXXVIII anni, e edeficò sopra il monte di Roma che per lui fu chiamato Monte Aventino, e in quello fu soppellito al tempo d'Amasia re di Giudea. Dopo costui regnò Procas Silvius suo figliuolo XXIII anni, al tempo di Ozia re di Giudea; dopo costui regnò Amulus Silvius suo figliuolo XLIIII anni, al tempo di Gioatam re di Giudea, il quale Amulus per sua malizia e forza cacciò de·regno Munitore suo maggiore fratello che dovea essere re, e la figliuola del detto Munitore, che Rea era chiamata, fece rinchiudere in munistero, acciò che di lei non nascesse reda. E essendo ella al servigio del tempio della vergine Vesta, concepette occultamente a uno portato due figliuoli, Romolus e Remolus, dello Iddio Marti di battaglia, come ella confessò e dicono i poeti, o forse più tosto del sacerdote di Marti: e quella trovata in sacrilegio, fu fatta dal detto Emulus soppellire viva viva per lo 'ncesto commesso là ov'è oggi la città di Rieti, che per lo suo nome poi fu Reata appellata; e i detti suoi figliuoli comandò fossero gittati in Tevero; ma da' ministri del re per la innocenzia non furono morti, ma gittati in pruni presso alla riva del Tevero; e quivi, si dice, furono lattati e nutriti da una lupa. Ma trovandogli uno pastore chiamato Faustulus, gli portò a Laurenzia sua moglie che gli nutricasse, e così fece. Questa Laurenzia era bella, e di suo corpo guadagnava come meretrice, e però da' vicini era chiamata Lupa; onde si dice furono nutricati da lupa.
<B>XXVI</B>
<I>Come Romulus e Remolus cominciaro la città di Roma.</I>
Dapoi che Romulus e Remolus furono cresciuti in loro etade, per la loro forza e virtude cominciaro a signoreggiare tutti gli altri pastori, e poi sappiendo la loro reale nazione, congregarono ladroni, e fuggitivi, e isbanditi, e gente d'ogni condizione disposta a mal fare, e co·lloro isforzo cominciaro a prendere e signoreggiare il paese, e 'l regno del loro zio Emulus presono per forza e la città d'Albana, e lui uccisero, e ristituirlo a Numitore loro avolo. I quali Romulus e Remolus, lasciata Albana a Numitore, edificaro prima e chiusero di mura la grande e nobile città di Roma, con tutto che prima era in diverse parti in monti e in valli abitata anticamente, e con borghi e villate sparte e fortezze; ma i detti la recaro in una a modo di città, CCCCLIIII anni apresso la struzione di Troia, e IIIImIIIIcLXXXIIII anni dal cominciamento del mondo, quando regnava in Giudea il re Agazim, avendo Romolo XXII anni. E la signoria d'Albana recaro poi in Roma e feciolla capo del reame di Latini, e per lo nome del detto Romulus fu da·llui nominata Roma. E poi il detto Romolus fece morire il suo avolo Numitore per essere al tutto signore, e eziandio Remulus suo fratello, perché passò le mura di Roma contro a suo comandamento. E 'l detto Romolus signoreggiando Roma; infra III anno che l'avea cominciata, non avendo mogli né femmine co·lloro, faccendo pensatamente una festa e giuochi, venutevi le femmine de' Sabini, le presero e ritennero per loro; e poi l'ordinò con leggi e statuti come cittade, e chiamò C, i migliori uomini della città e più antichi, per suoi consiglieri, i quali fece chiamare padri coscritti e sanatori, perché' loro nomi furono per lui fatti scrivere in tavole d'oro. E così regnò Romolo signore e re VIII anni, e in etade di XXX anni, essendo di costa a uno fiume, compreso da una nuvola, non si ritrovò mai, né si seppe di sua morte, se non che per gli savi s'avisa ch'anegasse in quello fiume. Ma i Romani dissono e aveano oppinione che·llo Iddio Marti che·ll'avea creato l'avesse portato intra li Dei in anima e corpo per la sua podestà e signoria. Potete vedere come il comune popolo erano ignoranti del vero Iddio.
<B>XXVII</B>
<I>Come Numa Pompilius fu re de' Romani apresso la morte di Romulus.</I>
Morto Romulus sanza nullo erede, fu retta la città di Roma per gli detti C sanatori uno anno; a la fine, per lo comune bene della republica, elessero a re e loro signore Numa Pompilius, che fu etc. Questi fu savio di scienzia e di costumi, ed amendò molto le leggi e lo stato di Roma, e fece tempi ove s'adorassero li loro Idei, e fu uomo d'onesta vita, e recando quasi tutte le città vicine sotto la signoria e legge di Roma per lo suo senno, e dichiarò l'ordine di dodici mesi dell'anno, e 'l bisesto, che prima erano X con grande confusione del corso solare e lunare. E regnò per lo suo senno e virtù sanza avere guerra con niuno vicino XLI anno in grande stato, e pace, e signoria, secondo il piccolo podere ch'allora aveva Roma; e ciò fu al tempo di Zecchia re di Giudea e de' figliuoli Manases.
<B>XXVIII</B>
<I>Come furo in Roma VII re, l'uno apresso l'altro infino a Tarquino, e come al suo tempo perderono la signoria.</I>
Apresso Numa Pompilius regnò Tulius Ostilius XXXII anni, al tempo di Manases re di Giudea. Questi fu crudele e guerriere, e fu il primo che portasse porpora e onori reali, e ruppe la pace a' Sabini, e dopo molte battaglie per forza li sottomise a sua signoria; e poi fu morto di folgore. Apresso Tulius regnò Marcus Marcius XXIII anni, al tempo di Iosia re di Giudea, che fu figliuolo de la figliuola del buono re Numa Pompilius, e ebbe grande guerra co' Latini di Laurenzia e d'Albania; a la fine per forza gli recò sotto sua signoria, e a Roma fece il tempio di Iano. Apresso lui regnò Priscus Tarquinus XXXVII anni. Questi agrandì molto Roma, e fece il Campidoglio, e sottomise i Sabini che s'erano rubellati, e fu quegli che prima volle trionfo di sua vittoria, e fece il tempio di Iove, capo di loro Iddei, e regnò al tempo che Nabuccodinosor distrusse Ierusalem e il tempio di Salamone: a la fine fu morto per gli figliuoli del sopradetto Marzio. Apresso costui regnò Servius Tulius XXXIIII anni, al tempo di Sedecchia re di Giudea, e ebbe al suo tempo aspre battaglie co' Sabini, e crebbe la città di Roma assai, e fu il primo che mettesse imposte o dazi, overo censo, nella città di Roma a pagare; alla fine l'uccise Tarquinus Superbus che era suo genero. E nota che poi che Roma fu fondata o richiusa per Romolo, fu caporale regno di sé medesima, e nemica del regno de' Latini e di tutte le città vicine, e sempre ebbe guerra con ciascuna, infino che al tutto l'ebbe sottoposte a sua signoria. Apresso regnò il settimo re di Romani Tarquino Superbo XXIII anni, al tempo di Ciro re di Persia. Questi in tutte sue opere fue pessimo e crudele, e avea uno suo figliuolo ch'avea nome similemente Tarquino e era crudele e dissoluto in lussuria, prendendo per forza quale donna o pulcella gli piacesse in Roma. A la fine, come racconta Valerio e Tito Livio, giacendo per forza co la bella e onesta Lucrezia figliuola di Bruto sanatore, nato per ischiatta di Giulio Ascanio, e consorto per ischiatta del detto re Tarquino, ella per conservagione di sua castità, e dare asempro all'altre, sé medesima uccise innanzi al padre, e al marito e suoi parenti. Onde Roma per lo dissoluto peccato corse e si commosse a romore, e cacciaro il re Tarquino e il figliuolo, e ordinaro e feciono dicreto che mai non avesse più re in Roma, ma che si reggesse a consoli, mutando d'anno in anno col consiglio de' sanatori; e il primo consolo fu il detto Bruto e Lucio Tarquinus grandi cittadini e nobili; e questo fu CCL anni dal cominciamento di Roma, al tempo di Dario figliuolo d'Itaspio re di Persia. E così falliro gli re in Roma, che aveano regnato circa CCXLIIII anni.
<B>XXIX</B>
<I>Come Roma si resse lungo tempo per la signoria de' consoli e sanatori infino che Giulio Cesare si fece imperadore.</I>
Rimasa la signoria di Roma a' consoli e sanatori, cacciati gli re, il detto Tarquino re e 'l figliuolo co la forza del re Procena di Toscana, che regnava nella città di Chiusi, feciono molta guerra a' Romani; ma a la fine gli Romani rimasero vincitori. E poi si resse e governò la republica di Roma CCCCL anni per consoli e sanatori, e talora dittatori, che durava V anni loro signoria, e erano quasi come imperadori, che ciò che diceano convenia fosse fatto; e altri ufici diversi, come furono tribuni del popolo, e pretori, e censori, e ciliarche. E in questo tempo ebbe in Roma più diverse mutazioni e guerre e battaglie, non solamente co vicini, ma con tutte le nazioni del mondo; i quali Romani, per forza d'arme e virtù e senno di buoni cittadini, quasi tutte le province e reami e signori del mondo domaro, e recaro sotto loro signoria, e feciono loro tributarie con grandissime battaglie e uccisioni di molti popoli del mondo, e di Romani medesimi, in diversi tempi, quasi innumerabile a contare. E ancora tra' cittadini medesimi per invidia della signoria e questioni da' grandi e popolani, e riposando le guerre di fuori, molte battaglie e tagliamenti per più volte tra' cittadini ebbe; e a giunta a·cciò di tempi in tempi pestilenzie incomportabili ebbono gli Romani; e questo reggimento durò infino a le grandi battaglie che furo tra Iulio Cesare e Pompeo, e poi co' figliuoli, il quale vinto da Cesare, il detto Cesare levò l'uficio de' consoli e dittatori, e egli primo si fece chiamare imperadore. E apresso lui Ottaviano Agusto, che signoreggiò in pace dopo molte battaglie tutto l'universo mondo, al tempo che nacque Iesù Cristo, anni VIIc dopo la dificazione di Roma; e così mostra che Roma si reggesse a signoria di re CCLIIII anni, e di consoli CCCCL anni, sì come di sopra avemo detto, e ancora più distesamente per Tito Livio e più altri autori. Ma nota che la grande potenzia di Romani nonn-era solamente in loro, se·nnon per tanto ch'erano capo e guidatori; ma tutti gli Toscani principalmente, e poi tutti gl'Italiani seguivano nelle guerre e nelle battaglie loro, e erano tutti chiamati Romani. Ma lasceremo omai l'ordine delle storie di Romani e degli imperadori, se non in tanto quanto aparterrà a nostra materia, tornando al nostro proposito della edificazione della città di Firenze, come promettemmo di dire. E avemo fatto sì lungo esordio perché ci era di necessità per mostrare come l'origine de' Romani edificatori de la città di Firenze, sì come appresso farà menzione, fue stratto di nobili Troiani; e l'origine e cominciamento di Troiani nacque e venne da Dardano figliuolo del re Attalante della città di Fiesole, siccome brievemente avemo fatta menzione; e de' discendenti poi nobili Romani e di Fiesolani, per la forza de' Romani, fatto è uno popolo chiamati Fiorentini.
<B>XXX</B>
<I>Come in Roma fu fatta la congiurazione per Catellina e suoi seguaci.</I>
Nel tempo ancora che Roma si reggeva a la signoria di consoli, anni da VIcLXXX poi che·lla detta città fu fatta, essendo consolo Marco Tulio Cecerone e Gaius Antonio, e Roma in grande e felice stato e signoria, Catellina nobilissimo cittadino, disceso di sua progenia della schiatta reale di Tarquino, essendo uomo di dissoluta vita, ma prode e ardito in arme, e bello parlatore, ma poco savio, avendo invidia di buoni uomini, ricchi e savi, che signoreggiavano la città, non piacendogli la loro signoria, congiurazione fece con più altri nobili e altri seguaci disposti a mal fare, e ordinò d'uccidere gli consoli e parte de' sanatori, e di disfare loro uficio, e correre, e rubare, e mettere da più parti fuoco nella città, e poi farsene signore. E sarebbegli venuto fatto, se non che fu riparato per lo senno e provedenza del savio consolo Marco Tulio. Così si difese la città di tanta pistilenzia, e trovata la detta congiurazione e tradimento, e per la grandezza e potenza del detto Catellina, e perché Tulio era nuovo cittadino in Roma, venuto il padre da Capova, overo d'un'altra villa di Campagna, non ardì di fare prendere Catellina né giustiziare, come al suo misfatto si convenia; ma per suo grande senno e bello parlare il fece partire della città; ma più di suoi congiurati e compagni, de' maggiori cittadini, e tale dell'ordine de' sanatori che partito Catellina rimasero in Roma, fece prendere, e nelle carcere faccendogli strangolare moriro, sì come racconta ordinatamente il grande dottore Salustio.
<B>XXXI</B>
<I>Come Catellina fece ribellare la città di Fiesole a la città di Roma.</I>
Catellina partito di Roma, con parte de' suoi seguaci se ne venne in Toscana, ove Manlius uno de' suoi principali congiurati e capitano era raunato con gente ne la città antica di Fiesole. E venuto là Catellina, la detta città da la signoria de' Romani fece rubellare, raunandovi tutti gli rubelli e sbanditi di Roma e di più altre province, e gente dissoluta e disposta a guerra e a mal fare, e cominciò aspra guerra a Romani. Li Romani, sentendo ciò, ordinaro che Gaius Antonio consolo e Publio Preteus con una milizia di cavalieri e popolo grandissimo venissono in Toscana ad oste contro a la città di Fiesole e contro a Catellina, e mandaro per loro lettere e messaggi a Quintus Metellus che tornava di Francia con grande oste di Romani, che simigliante fosse colla sua forza da l'altra parte all'asedio di Fiesole, e per seguire Catellina e suoi seguaci.
<B>XXXII</B>
<I>Come Catellina e' suoi seguaci furono sconfitti da' Romani nel piano di Piceno.</I>
Sentendo Catellina che' Romani venieno per asediarlo nella città di Fiesole, e già era Antonio e Preteius con loro oste nel piano di Fiesole in su la riva del fiume d'Arno, e aveano novelle come Metello era già in Lombardia coll'oste sua di tre legioni che venia di Francia, e veggendo che 'l soccorso che aspettava de' suoi ch'erano rimasi in Roma gli era fallito, diliberò per suo consiglio di non rinchiudersi nella città di Fiesole, ma d'andarne in Francia; e però di quella città si partì con sua gente e con uno signore di Fiesole ch'aveva nome Fiesolano, e fece ferrare i suoi cavagli a ritroso, acciò che pattendosi, le ferrate de' cavagli mostrassono che gente fosse entrata in Fiesole e non uscita, per fare badare i Romani a la città, e poterne andare più salvamente. E di notte partito per ischifare Metello, non tenne il diritto cammino dell'alpi, che noi chiamiamo l'alpe di Bologna, ma si mise per lo piano di costa a le montagne, e arrivò di là ov'è oggi la città di Pistoia nel luogo detto Campo a Piceno, ciò fu di sotto ov'è oggi il castello di Piteccio, per intendimento di valicare per quella via l'alpi Apennine, e riuscire in Lombardia; ma sentendo poi sua partita Antonius e Preteius, incontanente il seguiro co·lloro oste per lo piano, sicché il sopragiunsero nel detto luogo, e Metello d'altra parte fece mettere guardie a' passi delle montagne, acciò che non potesse per quelle passare. Catellina, veggendosi così distretto e che non poteva schifare la battaglia, si mise a la fortuna del combattere egli e' suoi con grande franchezza e ardire, ne la quale battaglia ebbe grande tagliamento di Romani dentro, e di rubelli, e di Fiesolani; a la fine dell'aspra battaglia Catellina fu in quello luogo di Picceno sconfitto e morto con tutta sua gente; e 'l campo rimase a' Romani con dolorosa vittoria, per modo che i detti due consoli, con XX a cavallo scampati sanza più, per vergogna non ardiro tornare in Roma. La qual cosa da' Romani non si potea credere, se prima i sanatori non vi mandaro per vedere il vero; e quello trovato, grandissimo dolore n'ebbe in Roma. E chi questa storia più a pieno vuole trovare legga il libro di Salustio detto Catellinario. I tagliati e' fediti della gente di Catellina scampati di morte della battaglia, tutto fossono pochi, si ridussero ov'è oggi la città di Pistoia, e quivi con vili abitacoli ne furono i primi abitatori per guerire di loro piaghe. E poi per lo buono sito e grasso luogo multiplicando i detti abitanti, i quali poi edificaro la città di Pistoia, e per la grande mortalità e pistolenza che fu presso a quello luogo, e di loro gente e di Romani, le puosero nome Pistoia; e però nonn-è da maravigliare se i Pistolesi sono stati e sono gente di guerra fieri e crudeli intra·lloro e con altrui, essendo stratti del sangue di Catellina e del rimaso di sua così fatta gente, sconfitta e tagliata in battaglia.
<B>XXXIII</B>
<I>Come Metello con sue milizie fece guerra a' Fiesolani.</I>
Da poi che Metello, il quale era in Lombardia presso a le montagne dell'alpi Appennine nelle contrade di Modona, udita la sconfitta e morte di Catellina, tostamente venne con sua oste al luogo dov'era stata la battaglia, e veduti i morti, per istupore de la diversa e grande mortalità temette, maravigliandosi come di cosa impossibile. Ma poi egli e la sua gente igualmente ispogliò il campo de' suoi Romani come quello de' nimici, rubando ciò che vi trovaro; e ciò fatto, venne verso Fiesole per assediare la città. I Fiesolani vigorosamente prendendo l'arme, usciro della città al piano, combattendo con Metello e con sua oste, e per forza il ripinsono e cacciaro di là dal fiume d'Arno con grande danno di sua gente, il quale co' suoi in su i colli, overo ripe del fiume, s'acampò; e' Fiesolani co·lloro oste si misero dall'altra parte del fiume d'Arno verso Fiesole.
<B>XXXIV</B>
<I>Come Metello e Fiorino sconfissono i Fiesolani in su la riva d'Arno.</I>
Metello la notte vegnente ordinò e comandò che parte della sua gente di lungi dall'oste de' Fiesolani passassono il fiume d'Arno, e si riponessono in aguato tra la città di Fiesole e l'oste de' Fiesolani, e di quella gente fece capitano Fiorino, nobile cittadino di Roma della schiatta..., il quale era suo pretore, ch'è tanto a dire come mariscalco di sua oste; e Fiorino, come per lo consolo fu comandato, così fece. La mattina, al fare del giorno, Metello armato con tutta sua gente, passando il fiume d'Arno, cominciò la battaglia a' Fiesolani, e' Fiesolani difendendo vigorosamente il passo del fiume, e nel fiume d'Arno sosteneano la battaglia. Fiorino, il quale era colla sua gente nell'aguato, come vide cominciata la battaglia, uscì francamente al di dietro al dosso de' Fiesolani che nel fiume combatteano con Metello. I Fiesolani, isproveduti dell'aguato, veggendosi subitamente assaliti per Fiorino di dietro e da Metello dinanzi, isbigottiti gittarono l'armi e fuggiro sconfitti verso la città di Fiesole, onde molti di loro furono morti e presi.
<B>XXXV</B>
<I>Come i Romani la prima volta assediaro Fiesole, e come morì Fiorino.</I>
Sconfitti e cacciati i Fiesolani della riva d'Arno, Fiorino pretore co l'oste di Romani puose campo di là dal fiume d'Arno verso la città di Fiesole, che v'aveva due villette, l'una si chiamava villa Arnina, e l'altra Camarte, overo campo o <I>domus</I> Marti, ove i Fiesolani alcuno giorno della semmana faceano mercato di tutte cose co·lloro ville e terre vicine. Il consolo fece con Fiorino dicreto che niuno dovesse vendere né comperare pane, o vino, o altre cose che ad uso di battaglia fossono, se nonne nel campo ov'era posto Fiorino. Dopo questo, Quinto Metello consolo mandò incontanente a Roma che mandassero gente d'arme all'asedio della città di Fiesole: per la quale cosa i sanatori feciono ordine che Iulio Cesare, e Cecerone, e Macrino con più legioni di genti armati dovessero venire all'asedio e distruzzione di Fiesole; i quali venuti, assediaro la detta città. Cesere puose suo campo nel colle che soprastava la cittade; Macrino ne l'altro colle, overo monte; e Cecerone dall'altra parte; e così stettono per VI anni all'asedio della detta città, avendola per lungo asedio e per fame quasi distrutta. E simigliante que' dell'oste, per lungo dimoro e per più difetti scemati ed afieboliti, si partiro dall'asedio, e si ritornaro a Roma, salvo che Fiorino vi rimase all'asedio con sua gente nel piano ov'era prima acampato, e chiusesi di fossi e di steccati a modo di battifolle, overo bastita, e tenea molto afflitti i Fiesolani; e così gli guerreggiò lungo tempo. Poi assicurandosi troppo, e avendogli per niente, e li Fiesolani ripresa alcuna lena, e ricordandosi del male che Fiorino avea loro fatto e faceva, subitamente, e come disperati, si misero di notte con iscale e con ingegni ad assalire il campo, overo battifolle, di Fiorino, e elli e la sua gente con poca guardia, e dormendo, non prendendo guardia de' Fiesolani, furono sorpresi; e Fiorino e la moglie e' figliuoli morti, e tutta sua oste in quello luogo furono quasi morti, che pochi ne scamparono; e il detto castello e battifolle disfatto, e arso, e tutto abattuto per gli Fiesolani.
<B>XXXVI</B>
<I>Come per la morte di Fiorino i Romani tornaro all'assedio di Fiesole.</I>
Come la novella fu saputa a Roma, gli consoli e' sanatori e tutto il Comune dolutosi della disaventura avenuta al buono duca Fiorino, incontanente ordinaro che di ciò fosse vendetta, e che oste grandissima un'altra volta tornassero a distruggere la città di Fiesole, intra' quali furono eletti questi duchi: Rainaldo conte, Cecerone, Teberino, Macrino, Albino, Igneo Pompeo, Cesere, Camertino, Sezzio conte tudertino, cioè di Todi, il quale era con Iulio Cesere e di sua milizia. Questi puose suo campo presso a Camarte, quasi ov'è oggi Firenze; Cesere si puose a campo in sul monte che soprastava la città, ch'è oggi chiamato Monte Cecero, ma prima ebbe nome Monte Cesaro per lo suo nome, overo per lo nome di Cecerone; ma innanzi tengono per Cesere, però ch'era maggiore signore nell'oste. Rainaldo puose suo campo in sul monte allo 'ncontro a la città di là dal Mugnone, e per suo nome infino a oggi è così chiamato; Macrino in sul monte ancora oggi nominato per lui; Camertino nella contrada che ancora per gli viventi per lo suo nome è chiamata Camerata. E tutti gli altri signori di sopra nominati, ciascuno puose per sé suo campo intorno a la città, chi in monte e chi in piano; ma di più non rimase propio nome che oggi sia memoria. Questi signori con loro milizie di gente a cavallo e a piede grandissima, assediando la città, con ordine s'apparecchiaro di fare maggiori battaglie a la città che la prima volta; ma per la fortezza della città i Romani invano lavorando, e molti di loro per lo soperchio d'assedio e soperchio di fatica sono morti, que' maggiori signori, consoli e sanatori, quasi tutti si tornaro a Roma: solo Cesere con sua milizia rimase all'asedio. E in quella stanza comandò a' suoi che dovessero andare nella villa di Camarti presso al fiume d'Arno, e ivi edificassero parlatorio per potere in quello fare suo parlamento, e una sua memoria lasciarlo: questo edificio in nostro volgare avemo chiamato Parlagio. E fu fatto tondo e in volte molto maraviglioso, con piazza in mezzo. E poi si cominciavano gradi da sedere tutto al torno. E poi di grado in grado sopra volte andavano allargandosi infino a la fine dell'altezza, ch'era alto più di LX braccia. E avea due porte, e in questo si raunava il popolo a fare parlamento. E di grado in grado sedeano le genti: al di sopra i più nobili, e poi digradando secondo la dignità delle genti; e era per modo che tutti quegli del parlamento si vedeva l'uno l'altro in viso. E udivasi chiaramente per tutti ciò che uno parlava; e capevavi ad agio infinita moltitudine di genti; e 'l diritto nome era parlatorio. Questo fu poi guasto al tempo di Totile, ma ancora a' nostri dì si ritruovano i fondamenti e parte delle volte presso a la chiesa di San Simone a Firenze, e infino al cominciamento de la piazza di Santa Croce; e parte de' palagi de' Peruzzi vi sono su fondati; e la via ch'è detta Anguillaia, che va a Santa Croce, va quasi per lo mezzo di quello Parlagio.
<B>XXXVII</B>
<I>Come la città di Fiesole s'arendé a' Romani, e fu distrutta e guasta.</I>
Stato l'assedio a Fiesole la detta seconda volta, e consumata e affritta molto la cittade sì per fame, e sì perché a·lloro furono tolti i condotti dell'acque e guasti, s'arrendéo la città a Cesere e a' Romani in capo di due anni e quattro mesi e VI dì che vi si puose l'asedio, a patti, chi ne volesse uscire fosse salvo. Presa la terra per li Romani, fu spogliata d'ogni ricchezza, e per Cesere fu distrutta, e tutta infino a' fondamenti abattuta; e ciò fu intorno anni LXXII anzi la Natività di Cristo.
<B>LIBRO SECONDO</B>
<B>I</B>
<I>Qui comincia il secondo libro della edificazione di Firenze la prima volta: come di primo fue edificata la città di Firenze.</I>
Distrutta la città di Fiesole, Cesere con sua oste discese al piano presso alla riva del fiume d'Arno, là dove Fiorino con sua gente era stato morto da' Fiesolani, e in quello luogo fece cominciare ad edificare una città, acciò che Fiesole mai non si rifacesse, e rimandò i cavalieri latini, i quali seco avea, arricchiti delle ricchezze de' Fiesolani; i quali Latini Tudertini erano appellati. Cesere adunque, compreso l'edificio della città, e messovi dentro due ville dette Camarti e villa Arnina, voleva quella appellare per suo nome Cesaria. Il sanato di Roma sentendolo, non sofferse che per suo nome Cesere la nominasse; ma feciono dicreto e ordinaro che quegli maggiori signori ch'erano stati a la guerra di Fiesole e all'asedio dovessono andare a fare edificare con Cesere insieme, e popolare la detta cittade, e qualunque di loro soprastesse a·lavorio, cioè facesse più tosto il suo edificio, appellasse la cittade di suo nome, o come a·llui piacesse. Allora Macrino, Albino, Igneo Pompeo, Marzio apparecchiati di fornimenti e di maestri, vennero da Roma alla cittade che Cesere edificava, e inviandosi con Cesere si divisono l'edificare in questo modo: che Albino prese a smaltare tutta la cittade, che fue uno nobile lavoro e bellezza e nettezza della cittade, e ancora oggi del detto ismalto si truova cavando, massimamente nel sesto di San Piero Scheraggio, e in porte San Piero, e in porte del Duomo, ove mostra fosse l'antica città. Macrino fece fare il condotto dell'acqua in docce e in arcora, faccendola venire di lungi a la città per VII miglia, acciò che·lla città avesse abondanza di buona acqua da bere, e per lavare la cittade; e questo condotto si mosse infino dal fiume detto la Marina a piè di monte Morello, ricogliendo in se tutte quelle fontane sopra Sesto, e Quinto, e Colonnata. E in Firenze faceano capo le dette fontane a uno grande palagio che si chiamava termine, <I>capud aque</I>, ma poi in nostro volgare si chiamò Capaccia, e ancora oggi in Terma si vede dell'anticaglia. E nota che gli antichi per santade usavano di bere acque di fontane menate per condotti, perché erano più sottili e più sane che quelle de' pozzi, però che pochi, o quasi pochissimi, beveano vino, ma i più acqua di condotto, ma non di pozzo; e pochissime vigne erano allora. Igneo Pompeo fece fare le mura della cittade di mattoni cotti, e sopra i muri della città edificò torri ritonde molto spesse, per ispazio dall'una torre a l'altra di XX cubiti, sicché le torri erano di grande bellezza e fortezza. Del compreso e giro della città non troviano cronica che ne faccia menzione; se non che quando Totile <I>Flagellum Dei</I> la distrusse, fanno le storie menzione ch'ell'era grandissima. Marzio l'altro signore romano fece fare il Campidoglio al modo di Roma, cioè palagio, overo la mastra fortezza della cittade, e quello fu di maravigliosa bellezza; nel quale l'acqua del fiume d'Arno per gora con cavate fogne venia e sotto volte, e in Arno sotterra si ritornava; e la cittade per ciascuna festa dello sgorgamento di quella gora era lavata. Questo Campidoglio fu ov'è oggi la piazza di Mercato Vecchio, di sopra a la chiesa di Santa Maria in Campidoglio: e questo pare più certo. Alcuni dicono che fu ove oggi si chiama il Guardingo, di costa a la piazza ch'è oggi del popolo dal palazzo de' priori, la quale era un'altra fortezza. Guardingo fu poi nomato l'anticaglia de' muri e volte che rimasono disfatte dopo la distruzione di Totile, e stavanvi poi le meretrici. I detti signori, per avanzare l'uno l'edificio dell'altro, con molta sollecitudine si studiavano, ma in uno medesimo tempo per ciascuno fu compiuto; sicché nullo di loro ebbe aquistata la grazia di nominare la città a sua volontà, sì che per molti fu al cominciamento chiamata la piccola Roma. Altri l'appellavano Floria, perché Fiorino fu ivi morto, che fu il primo edificatore di quello luogo, e fu in opera d'arme e in cavalleria fiore, e in quello luogo e campi intorno ove fu la città edificata sempre nasceano fiori e gigli. Poi la maggiore parte degli abitanti furono consenzienti di chiamarla Floria, sì come fosse in fiori edificata, cioè con molte delizie. E di certo così fu, però ch'ella fu popolata della migliore gente di Roma, e de' più sofficienti, mandati per gli sanatori di ciascuno rione di Roma per rata, come toccò per sorte che l'abitassono; e accolsono co·lloro quelli Fiesolani che vi vollono dimorare e abitare. Ma poi per lungo uso del volgare fu nominata Fiorenza: ciò s'interpetra spada fiorita. E troviamo ch'ella fu edificata anni VIcLXXXII dopo l'edificazione di Roma, e anni LXX anzi la Nativitade del nostro signore Iesù Cristo. E nota, perché i Fiorentini sono sempre in guerra e in disensione tra loro, che nonn-è da maravigliare, essendo stratti e nati di due popoli così contrari e nemici e diversi di costumi, come furono gli nobili Romani virtudiosi, e' Fiesolani ruddi e aspri di guerra.
<B>II</B>
<I>Come Cesere si partì di Firenze e andonne a Roma, e fu fatto consolo per andare contro a' Franceschi.</I>
Dapoi che·lla città di Firenze fu fatta e popolata, Iulio Cesare irato perché n'era stato il primo edificatore, e avea avuta la vittoria della città di Fiesole, e nonn-avea potuto nominare la cittade per suo nome, sì si partì di quella, e tornossi a Roma, e per suo studio e valore fue eletto consolo, e mandato contro a' Franceschi, ove dimorò per X anni al conquisto di Francia, e d'Inghilterra, e d'Alamagna: e lui tornando con vittoria a Roma, gli fu vietato il triunfo, perché aveva passato il dicreto fatto per Pompeo consolo e' sanatori per invidia, sotto colore d'onestà, che nullo dovesse stare in neuna balia più di V anni. In quale Cesare co le sue milizie tornando con oltremontani, Franceschi, e Tedeschi, e Italiani, Pisani, Pirati, Pistolesi, e ancora co' Fiorentini suoi cittadini, pedoni, e cavalieri, e rombolatori menò seco a fare cittadinesche battaglie, perché gli fu vietato il triunfo; ma più per essere signore di Roma, come lungo tempo avea disiderato, contro a Pompeo e il senato di Roma combattéo. E dopo la grande battaglia tra Cesere e Pompeo, quasi tutti morti furo in Ematia, cioè Tesaglia in Grecia, come pienamente si legge per Lucano poeta, chi le storie vorrà trovare. E Cesere, avuta la vittoria di Pompeo e di molti re e popoli ch'erano in aiuto de' Romani che gli erano nimici, si tornò a Roma, e sì si fece primo imperadore di Roma, che tanto è a dire come comandatore sopra tutti. E apresso lui fue Ottaviano Agustus suo nipote e figliuolo adottivo, il quale regnava quando Cristo nacque, e dopo molte vittorie signoreggiò tutto il mondo in pace; e d'allora innanzi fu Roma a signoria d'imperio, e tenne sotto la sua giuridizione e dello imperio tutto l'universo mondo.
<B>III</B>
<I>Come i Romani e gl'imperadori ebbono insegna, e come da·lloro l'ebbe la città di Firenze, e altre cittadi.</I>
Al tempo di Numa Pompilius per divino miracolo cadde in Roma da cielo uno scudo vermiglio, per la qual cosa e agurio i Romani presono quella insegna e arme, e poi v'agiunsono S.P.Q.R. in lettere d'oro, cioè Senato del popolo di Roma: e così dell'origine della loro insegna diedono a tutte le città edificate per loro, cioè vermiglia. Così a Perugia, a Firenze, e a Pisa; ma i Fiorentini per lo nome di Fiorino e della città v'agiunsono per intrasegna il giglio bianco, e' Perugini talora il grifone bianco, e Viterbo il campo rosso, e li Orbitani l'aquila bianca. Ben'è vero che' signori romani, consoli e dittatori, dapoi che l'aguglia per agurio aparve sopra Tarpea, cioè sopra la camera del tesoro di Campidoglio, come Tito Livio fa menzione, si presono l'arme in loro insegne ad aquila; e troviamo che 'l consolo Mario ne la battaglia de' Cimbri ebbe le sue insegne con l'aquila d'argento, e simile insegna portava Catellina quando fu sconfitto da Antonio nelle parti di Pistoia, come recita Salustio. E 'l grande Pompeo la portò in campo azzurro e l'aquila d'argento: e Iulio Cesare la portò il campo vermiglio e l'aquila ad oro, come fa menzione Lucano in versi, dicendo: "Signa parens aquilas, et pila minantia pilas". Ma poi Ottaviano Agusto, suo nipote e successore imperadore, la mutò, e portò il campo ad oro, e l'aquila naturale di colore nero a similitudine della signoria dello imperio, che come l'aquila è sovra ogni uccello, e vede chiaro più ch'altro animale, e vola infino al cielo dell'emisperio del fuoco, così lo 'mperio dé essere sopra ogni signoria temporale. E appresso Ottaviano tutti gli imperadori de' Romani l'hanno per simile modo portata; ma Gostantino, e poi gli altri imperadori de' Greci ritennono la 'nsegna di Iulio Cesare, cioè il campo vermiglio e l'aquila ad oro, ma con due capi. Lasceremo delle insegne del comune di Roma e degl'imperadori, e torneremo a nostra materia sopra i fatti della città di Firenze.
<B>IV</B>
<I>Come la città di Firenze fu camera de' Romani e dello imperio.</I>
La città di Firenze in quello tempo era camera d'imperio, e come figliuola e fattura di Roma in tutte cose, e da' Romani abitata; e però de' propii fatti di Firenze a quegli tempi non troviamo cronica né altre storie che ne facciano grande memoria. E di ciò nonn-è da maravigliare, però che' Fiorentini erano sudditi e una co' Romani, e per Romani si trattavano per l'universo mondo, e come i Romani andavano ne' loro eserciti e nelle loro battaglie. E troviamo nelle storia di Giulio Cesare, nel secondo libro di Lucano, quando Cesare assediò Pompeo nella città di Brandizio in Puglia, uno de' baroni e signori della città di Firenze ch'avea nome Lucere era in compagnia di Cesare e fue alla battaglia delle navi a la bocca del porto di Brandizio, valente uomo d'arme e virtudioso; e molti altri Fiorentini furono in quello esercito e battaglie con Cesare e di sua parte; però che quando fue la discordia da Giulio Cesare a Pompeo e del senato di Roma, quegli della città di Firenze e d'intorno al fiume d'Arno tennero la parte di Cesare. E di ciò fa menzione Lucano nel detto libro ove dice in versi:
Vulturnusque celer, notturneque conditor aure
Sarnus, et umbrosae Liris per regna marisque.
E così dimoraro i Fiorentini mentre che' Romani ebbono stato e signoria. Bene si truova per alcuno scritto che uno Uberto Cesare, sopranomato per Iulio Cesare, che fu figliuolo di Catellina, rimaso in Fiesole picciolo garzone dopo la sua morte, egli poi per Iulio Cesare fue fatto grande cittadino di Firenze, e avendo molti figliuoli, egli e poi la sua schiatta furono signori della terra gran tempo, e di loro discendenti furono grandi signori e grandi schiatte in Firenze; e che gli Uberti fossoro di quella progenie si dice. Questo non troviamo per autentica cronica che per noi si pruovi.
<B>V</B>
<I>Come in Firenze fu fatto il tempio di Marti, il quale oggi si chiama il Duomo di Santo Giovanni.</I>
Dapoi che Cesere, e Pompeo, e Macrino, e Albino, e Marzio prencipi de' Romani edificatori della nuova città di Firenze si tornarono a Roma, compiuti i loro lavori, la città cominciò a crescere e moltiplicare di Romani e di Fiesolani insieme, che rimasono a l'abitazione di quella; e in poco tempo si fece buona città secondo il tempo d'allora, che gl'imperadori e 'l senato di Roma l'avanzavano a·lloro podere, quasi come un'altra piccola Roma. I cittadini di quella, essendo in buono stato, ordinaro di fare nella detta cittade uno tempio maraviglioso all'onore dello Iddio Marte, per la vittoria che' Romani avieno avuta della città di Fiesole, e mandaro al senato di Roma che mandasse loro gli migliori e più sottili maestri che fossono in Roma, e così fu fatto. E feciono venire marmi bianchi e neri, e colonne di più parti di lungi per mare, e poi per Arno; feciono conducere e macigni e colonne da Fiesole, e fondaro e edificaro il detto tempio nel luogo che si chiamava Camarti anticamente, e dove i Fiesolani faceano loro mercato. Molto nobile e bello il feciono a otto facce, e quello fatto con grande diligenzia, il consecraro allo Iddio Marti, il quale era Idio di Romani, e feciollo figurare innintaglio di marmo in forma d'uno cavaliere armato a cavallo; il puosono sopra una colonna di marmo in mezzo di quello tempio, e quello tennero con grande reverenzia e adoraro per loro Idio mentre che fu il paganesimo in Firenze. E troviamo che il detto tempio fu cominciato al tempo che regnava Ottaviano Agusto, e che fu edificato sotto ascendente di sì fatta costellazione, che non verrà meno quasi in etterno: e così si truova scritto in certa parte, e intagliato nello spazzo del detto tempio.
<B>VI</B>
<I>Racconta del sito della provincia di Toscana.</I>
Quando per noi s'è detto della prima edificazione della città di Firenze e di quella di Pistoia, si è convenevole e di necessità che si dica dell'altre città vicine di Toscana quello che n'avemo trovato per le croniche di loro principii e cominciamenti brievemente, per tornare poi a nostra materia. Narreremo in prima del sito della provincia di Toscana. Toscana comincia da la parte di levante al fiume del Tevero, il quale si muove nell'alpi di Pennino de la montagna chiamata Falterona, e discende per la contrada di Massa Tribara, e dal Borgo San Sipolcro, e poi la Città di Castello, e poi sotto la città di Perugia, e poi appresso di Todi, istendendosi per terra di Sabina e di Roma, e ricogliendo in sé molti fiumi, entra per la città di Roma infino in mare ove fa foce di costa a la città di Ostia, presso a Roma a XX miglia; e la parte di qua dal fiume, che si chiama Trastibero, e il Portico di Santo Pietro di Roma è della provincia di Toscana. E da la parte del mezzogiorno si ha Toscana il mare detto Terreno, che colle sue rive batte la contrada di Maremma, e Piombino, e Pisa, e per lo contado di Lucca e di Luni infino a la foce del fiume della Magra, che mette in mare a la punta della montagna del Corbo di là da Luni e di Serrezzano, da la parte di ponente. E discende il detto fiume della Magra delle montagne di Pennino di sopra a Pontriemoli, tra la riviera di Genova e 'l contado di Piagenza in Lombardia, ne le terre de' marchesi Malaspina. Il quarto confine di Toscana di verso settentrione sono le dette alpi Apennine, le quali confinano e partono la provincia di Toscana da Lombardia e Bologna e parte di Romagna; e gira la detta provincia di Toscana VIIc miglia. Questa provincia di Toscana ha più fiumi: intra gli altri reale e maggiore si è il nostro fiume d'Arno, il quale nasce di quella medesima montagna di Falterona che nasce il fiume del Tevero che va a Roma. E questo fiume d'Arno corre quasi per lo mezzo di Toscana, scendendo per le montagne de la Vernia, ove il beato santo Francesco fece sua penitenzia e romitaggio, e poi passa per la contrada di Casentino presso a Bibbiena e a piè di Poppio, e poi si rivolge verso levante, vegnendo presso a la città d'Arezzo a tre miglia, e poi corre per lo nostro Valdarno di sopra, scendendo per lo nostro piano, e quasi passa per lo mezzo de la nostra città di Firenze. E poi uscito per corso del nostro piano, passa tra Montelupo e Capraia presso a Empoli per la contrada di Greti e di Valdarno di sotto a piè di Fucecchio, e poi per lo contado di Lucca e di Pisa, raccogliendo in sé molti fiumi, passando poi quasi per mezzo la città di Pisa ove assai è grosso, sicché porta galee e grossi legni; e presso di Pisa a V miglia mette in mare; e il suo corso è di spazio di miglia CXX. E del detto fiume d'Arno l'antiche storie fanno menzione: Vergilio nel VII libro dell'Eneidos parlando della gente che fu in aiuto al re Turno incontra Enea di Troia con questi versi: "Sarrastris populos, equa rigat equora Sarnus"; e Paulo Orosio raccontando in sue storie del fiume d'Arno disse che quando Anibal di Cartagine, tornando di Spagna in Italia, passò le montagne d'Apennino, vegnendo sopra i Romani, ove si combattéo in su·lago di Perugia col valente consolo Flamineo da cui fu sconfitto, in quel luogo dice che passando Anibal l'alpi Apennine, per la grande freddura che v'ebbe, discendendo poi in su i paduli del fiume d'Arno sì perdé tutti gli suoi leofanti, che non ne gli rimase se none uno solo, e la maggiore parte de' suoi cavagli e bestie vi moriro; e egli medesimo per la detta cagione vi perdé uno de' suoi occhi del capo. Questo Anibal mostra per nostro arbitrare ch'egli scendesse l'alpi tra Modona e Pistoia, e paduli fossono per lo fiume d'Arno da piè di Firenze insino di là da Signa: e questo si pruova, che anticamente tra Signa e Montelupo nel mezzo del corso del fiume d'Arno, ove si ristrigne in piccolo spazio tra rocce di montagne, aveva una grandissima pietra che si chiamava e chiama Golfolina, la quale per sua grandezza e altezza comprendeva tutto il corso del fiume d'Arno, per modo che 'l facea ringorgare infino assai presso ov'è oggi la città di Firenze, e per lo detto ringorgamento si spandea l'acqua del fiume d'Arno, e d'Ombrone, e di Bisenzo per lo piano sotto Signa, e di Settimo, e di Prato, e di Micciole, e di Campi, infino presso a piè de' monti, faccendo paduli. Ma e' si truova, e per evidente sperienzia si vede, che la detta pietra Golfolina per maestri con picconi e scarpelli per forza fu tagliata e dibassata, per modo che 'l corso del fiume d'Arno calò e dibassò, sicché i detti paduli scemaro e rimasero terra guadagnabile. Bene racconta Tito Livio quasi per simili parole, dicendo che 'l passo, e dove s'acampò Anibal, fu tra la città di Fiesole e quella d'Arezzo. Avisiamo che passasse l'alpi a Pennino per la contrada di Casentino, e paduli poteano simile essere tra l'Ancisa e 'l piano di Fegghine, e potea essere o nell'uno luogo o nell'altro, però che anticamente il fiume d'Arno avea in più luogora rattenute e paduli; ma dove che·ssi fosse, assai avemo detto sopra il nostro fiume d'Arno, per trarre d'ignoranza e fare avisati i presenti moderni viventi di nostra città, e gli strani che sono e saranno. Lasceremo di ciò, e diremo in brieve de la potenzia che anticamente avea la nostra provincia di Toscana, che si confà a la nostra materia.
<B>VII</B>
<I>Della potenzia e signoria ch'avea la provincia di Toscana innanzi che Roma avesse stato.</I>
Dapoi ch'avemo detto del sito e confini de la nostra provincia di Toscana, sì ne pare convenevole di dire in brieve dello stato e signoria che Toscana avea anzi che Roma avesse podere. La provincia di Toscana innanzi al detto tempo fu di grande potenzia e signoria. E non solamente lo re di Toscana chiamato Procena, che facea capo del suo reame nella città di Chiusi, il quale col re Tarquino assediò Roma, era signore della provincia di Toscana; ma le sue confine, dette colonne, erano infino a la città d'Adria in Romagna in su il golfo del mare di Vinegia, per lo cui nome anticamente quello mare è detto seno Adriatico; e nelle parti di Lombardia erano i suoi confini e colonne di Toscana infino di là dal fiume di Po e del Tesino, infino al tempo di Tarquino Prisco re de' Romani, che la gente de' Galli, detti oggi Franceschi, e quella de' Germani, detti oggi Tedeschi, di prima passaro in Italia per guida e condotto d'uno Italiano della città di Chiusi, il quale passò i monti per ambasciadore, per fare commuovere gli oltramontani contro a' Romani, e portò seco del vino, il quale dagli oltramontani non era in uso, né conosciuto per bere, però che di là nonn avea mai avuto vino né vigna; il quale vino per gli signori di là assaggiato, parve loro molto buono; e intra l'altre cagioni, con altre grandi impromesse, quella della ghiottornia del buono vino gl'indusse a passare i monti, udendo come Italia era piantadosa di vino, e larga d'ogni bene e vittuaglia. E indussegli ancora il passare di qua, che per lo loro buono stato erano sì cresciuti e multiplicati di gente, che a pena vi poteano capere. Per la qual cosa passando i monti in Italia i Galli e' Germani, de' primi furono Brenno e Bellino, i quali guastarono gran parte di Lombardia e del nostro paese di Toscana, e poi assediaro la città di Roma e presolla infino al Campidoglio, con tutto che innanzi si partissono furono sconfitti in Toscana dal buono Cammillo ribello di Roma, siccome Tito Livio in sue storie fa menzione. E poi più altri signori Gallici, e Germani, e Gotti, e d'altre nazioni barbere passaro in Italia di tempi in tempi, faccendo in Lombardia e in Toscana grandi battaglie co' Romani, come si truovano ordinatamente per le storie che scrisse il detto Tito Livio maestro di storie. Lasceremo de la detta materia, e diremo i nomi delle città e vescovadi della nostra provincia di Toscana.
<B>VIII</B>
<I>Questi sono i vescovadi de le città di Toscana.</I>
La chiesa e sedia di San Piero di Roma la qual è di qua dal fiume del Tibero in Toscana, il vescovado di Fiesole, la città di Firenze, la città di Pisa, la qual è arcivescovado per grazia, come in questo fia menzione, la città di Lucca, il vescovado dell'antica città di Luni, la città di Pistoia, la città di Siena, la città d'Arezzo, la città di Perugia, la città di Castello, la città di Volterra, la città di Massa, la città di Grosseto, il vescovado di Soana in Maremma, la città antica di Chiusi, la città d'Orbivieto, il vescovado di Bagnoregio, la città di Viterbo, la città di Toscanella, il vescovado di Castri, la città di Nepi, l'antichissima città di Sutri, la città d'Orti, il vescovado di Civitatensi. Avendo detti i nomi di XXV vescovadi e città di Toscana, diremo in ispezialità del cominciamento e orrigine d'alquante di quelle città famose a' nostri tempi onde sapremo il vero per antiche storie e croniche, tornando poi a nostra materia.
<B>IX</B>
<I>Della città di Perugia.</I>
La città di Perugia fu assai antica, e secondo che raccontano le loro croniche, ella fu da' Romani edificata in questo modo: che tornando uno oste de' Romani de la Magna, perch'avea il loro consolo chiamato Persus dimorato al conquisto più tempo che non diceva il dicreto de' Romani, si furono isbanditi e divietati che non tornassono a Roma, sicché rimasono in quello luogo ove è l'uno corno della città di Perugia, siccome esiliati e nemici del Comune. Poi gli Romani mandarono sopra loro una oste, i quali si puosono di contro a·lloro in su l'altro corno per guerreggiargli, siccome ribelli del Comune di Roma; ma ivi stati più tempo, e riconosciuti insieme, si pacificaro l'uno oste e l'altra, e per lo buono sito rimasono abitanti in quello luogo. Poi di due luoghi feciono la città di Perugia, e per lo nome del primo consolo che ivi si puose fu così nominata. Poi pacificatisi co' Romani, furono contenti della città di Perugia, e favoreggiarla assai e diedolle stato, quasi per tenere sotto loro giuridizione le città di quella contrada. Poi Totile <I>Flagellum Dei</I> la distrusse, come fece Firenze e più altre città d'Italia, e fece marterizzare santo Erculano vescovo della detta città.
<B>X</B>
<I>Della città di Arezzo.</I>
La città d'Arezzo prima ebbe nome Aurelia, e fu grande città e nobile, e in Aurelia furono anticamente fatti per sottilissimi maestri vasi rossi con diversi intagli di tutte forme di sottile intaglio, che veggendoli parevano impossibili a essere opera umana; e ancora se ne truovano. E di certo ancora si dice che 'l sito e l'aria d'Arezzo genera sottilissimi uomini. La detta città d'Aurelia fu anche distrutta per lo detto Totile, e fecela arare e seminare di sale, e d'allora innanzi fu chiamata Arezzo, cioè città arata.
<B>XI</B>
<I>Della città di Pisa.</I>
La città di Pisa fu prima chiamata Alfea. Troviamo mandò aiuto ad Enea contro a Turno, e ciò dice Vergllio nel VI libro dell'Eneidos; ma poi ella fu porto dello 'mperio de' Romani dove s'aduceano per mare tutti gli tributi e censi che li re e tutte le nazioni e paesi del mondo ch'erano sottoposti a' Romani rendeano allo 'mperio di Roma, e là si pesavano, e poi si portavano a Roma; e però che il primo luogo ove si pesava non era sofficiente a tanto strepito, vi si feciono due luoghi ove si pesava, e però si diclina il nome di Pisa in gramatica: <I>pluraliter, nominativo hee Pise</I>; e così per l'uso del porto e detti pesi, genti vi s'acolsono ad abitare, e crebbono e edificaro la città di Pisa poi ad assai tempo dopo l'avenimento di Cristo, con tutto che prima per lo modo detto era per molte genti abitata, ma non come città murata.
<B>XII</B>
<I>Della città di Lucca.</I>
La città di Lucca ebbe in prima nome Fridia, e chi dice Aringa; ma perché prima si convertì a la vera fede di Cristo che città di Toscana, e prima ricevette vescovo, ciò fu santo Fridiano, che per miracolo di Dio rivolse il Serchio, fiume presso a la detta città, e diegli termine, che prima era molto pericoloso e guastava la contrada, e per lo detto santo prima fu luce di fede, sì fu rimosso il primo nome e chiamata Luce, e oggi per lo corrotto volgare si chiama Lucca. E truovasi che il detto beato Fridiano vegnendo da Lucca a Firenze in pellegrinaggio per visitare la chiesa ov'è il corpo di santo Miniato a Monte, non potendo entrare in Firenze perché ancora erano pagani, e trovando il fiume d'Arno molto grosso per grandi piove, si mise a passare in su una piccola navicella contro al volere del barcaiuolo, e per miracolo di Dio passò liberamente e tosto, come l'Arno fosse piccolo, e colà dove arrivò fu poi per gli cattolici fiorentini fatta la chiesa di Santo Fridiano per sua devozione.
<B>XIII</B>
<I>Della città di Luni.</I>
La città di Luni, la quale è oggi disfatta, fu molto antica, e secondo che troviamo nelle storie di Troia, della città di Luni v'ebbe navilio e genti a l'aiuto de' Greci contra gli Troiani; poi fu disfatta per gente oltramontana per cagione d'una donna moglie d'uno signore, che andando a Roma, in quella città fu corrotta d'avoltero; onde tornando il detto signore con forza la distrusse, e oggi è diserta la contrada e malsana. E nota che·lle marine erano anticamente molto abitate, e quasi infra terra poche città avea e pochi abitanti, ma in Maremma e in Maretima verso Roma a la marina di Campagna avea molte città e molti popoli, che oggi sono consumati e venuti a niente per corruzzione d'aria: che vi fu la grande città di Popolonia, e Soana, e Talamone, e Grosseto, e Civitaveglia, e Mascona, e Lansedonia che furono co la loro forza a l'asedio di Troia; e in Campagna Baia, Pompeia, Cumina, e Laurenza, e Albana. E la cagione perché oggi sono quelle terre de la marina quasi disabitate e inferme, e eziandio Roma peggiorata, dicono gli grandi maestri di stronomia che ciò è per lo moto dell'ottava spera del cielo, che in ogni C anni si muta uno grado verso il polo di settentrione, cioè tramontana, e così farà infino a XV gradi in MD anni, e poi tornerà adietro per simile modo, se fia piacere di Dio che 'l mondo duri tanto; e per la detta mutazione del cielo è mutata la qualità della terra e dell'aria, e dov'era abitata e sana è oggi disabitata e inferma, <I>et e converso</I>. Ed oltre a·cciò naturalmente veggiamo che tutte le cose del mondo hanno mutazione, e vegnono e verranno meno, come Cristo di sua bocca disse, che neuna cosa ci ha stato fermo.
<B>XIV</B>
<I>Della città di Viterbo.</I>
La città di Viterbo fu fatta per gli Romani, e anticamente fu chiamata Vegezia, e' cittadini Vegentini. E gli Romani vi mandavano gl'infermi per cagione de' bagni ch'escono del bulicame, e però fu chiamata <I>Vita Erbo</I>, cioè vita agl'infermi, overo città di vita.
<B>XV</B>
<I>Della città d'Orbivieto.</I>
La città d'Orbivieto si fu simile fatta per gli Romani, e <I>Urbis Veterum</I> ebbe nome, cioè a dire città de' vecchi, perché gli uomini vecchi di Roma v'erano mandati a stare per migliore aria ch'a Roma per mantenere loro santade; e per lo lungo uso e buono sito ve ne ristettono assai ad abitarla, e popolarla di gente.
<B>XVI</B>
<I>Della città di Cortona.</I>
La città di Cortona fue antichissima, fatta al tempo di Giano e de' primi abitanti di Italia; e Turno che si combatté con Enea per Lavina fu re di quella, come detto è dinanzi, e per lo suo nome prima ebbe nome Turna.
<B>XVII</B>
<I>Della città di Chiusi</I>
La città di Chiusi simile fu antichissima e potentissima, fatta ne' detti tempi, e assai prima che Roma, e fune signore e re Procena, che col re Tarquino scacciato di Roma fu ad assediare Roma, come racconta Tito Livio.
<B>XVIII</B>
<I>Della città di Volterra.</I>
La città di Volterra prima fu chiamata Antonia, e fu molto antica, fatta per gli discendenti d'Italia; e, secondo che si leggono i ramanzi, indi fu il buono Buovo d'Antonia.
<B>XIX</B>
<I>Della città di Siena.</I>
La città di Siena è assai nuova città, ch'ella fu cominciata intorno agli anni di Cristo VIcLXX, quando Carlo Martello, padre del re Pipino di Francia, co' Franceschi andavano nel regno di Puglia in servigio di santa Chiesa a contastare una gente che si chiamavano i Longobardi, pagani, e eretici, e ariani, onde era loro re Grimaldo di Morona, e facea suo capo in Benivento, e perseguitava gli Romani e santa Chiesa. E trovandosi la detta oste de' Franceschi e altri oltramontani ov'è oggi Siena, si lasciaro in quello luogo tutti gli vecchi e quegli che non erano bene sani, e che non poteano portare arme, per non menarglisi dietro in Puglia; e quegli rimasi in riposo nel detto luogo, vi si cominciaro ad abitare, e fecionvi due residii a modo di castella, ove è oggi il più alto della città di Siena, per istare più al sicuro; e l'uno abitacolo e l'altro era chiamato <I>Sena</I>, dirivando di quegli che v'erano rimasi per vecchiezza. Poi crescendo gli abitanti, si raccomunò l'uno luogo e l'altro, e però secondo gramatica si diclina in plurali: <I>pluraliter nominativo hee Sene</I>. E dapoi a più tempo crescendo, in Siena ebbe una grande e ricca albergatrice chiamata madonna Veglia. Albergando in suo albergo uno grande legato cardinale che tornava delle parti di Francia a la corte a Roma, la detta donna gli fece grande onore, e non gli lasciò pagare nulla spensaria. Il legato, ricevuta cortesia, la domandò se in corte volesse alcuna grazia. Richieselo la donna divotamente che per lo suo amore procurasse che Siena avesse vescovado; promisele di farne suo podere, e consigliolla che facesse che 'l Comune di Siena facesse ambasciadori, e mandasse al papa a procurallo; e così fu fatto. Il legato sollecitando, il papa udì la petizione, e diede vescovo a' Sanesi, e 'l primo fu messer Gualteramo. E per dotare il vescovado, si tolse una pieve al vescovado d'Arezzo, e una a quello di Perugia, e una a quello di Chiusi, e una a quello di Volterra, e una a quello di Grosseto, e una a quello di Massa, e una a quello d'Orbivieto, e una a quello di Firenze, e una a quello di Fiesole; e così ebbe Siena vescovado, e fu chiamata città: e per lo nome e onore de la detta madonna Veglia, per cui fu prima promossa e domandata la grazia, sì fu sempre sopranomata Siena la Veglia.
<B>XX</B>
<I>Torna la storia a' fatti della città di Firenze, e come santo Miniato vi fu martorizzato per Decio imperadore.</I>
Dapoi che brievemente avemo fatta alcuna menzione de le nostre città vicine di Toscana, torneremo a nostra materia a raccontare de la nostra città di Firenze; e sì come innarrammo dinanzi, la detta città si resse grande tempo al governo e signoria degl'imperadori di Roma, e spesso venieno gl'imperadori a soggiornare in Firenze quando passavano in Lombardia, e ne la Magna, e in Francia al conquisto delle province. E troviamo che Decio imperadore l'anno suo primo, ciò fu gli anni di Cristo CCLII, essendo in Firenze sì come camera d'imperio, dimorandovi a suo diletto, e il detto Decio perseguitando duramente i Cristiani dovunque gli sentiva e trovava, udì dire come il beato santo Miniato eremita abitava presso a Firenze con suoi discepoli e compagni, in una selva che si chiamava Arisbotto fiorentina, di dietro là dove è oggi la sua chiesa sopra la città di Firenze. Questo beato Miniato fu figliuolo del re d'Erminia primogenito, e lasciato il suo reame per la fede di Cristo, per fare penitenzia e dilungarsi dal suo regno passò di qua da mare al perdono a Roma, e poi si ridusse nella detta selva, la quale allora era salvatica e solitaria, però che la città di Firenze non si stendea né era abitata di là da l'Arno, ma era tutta di qua, salvo che uno solo ponte v'avea sopra l'Arno, non però dove sono oggi, ma si dice per molti ch'era l'antico ponte de' Fiesolani, il quale era da Girone a Candegghi: e quella era l'antica e diritta strada e cammino da Roma a Fiesole, e per andare in Lombardia e di là da' monti. Il detto Decio imperadore fece prendere il detto beato Miniato, come racconta la sua storia: grandi doni e proferte gli fece fare, sì come a figliuolo di re, acciò che rinegasse Cristo; e elli costante e fermo nella fede non volle suoi doni, ma sofferse diversi martiri; a la fine il detto Decio gli fece tagliare la testa ove è oggi la chiesa di Santa Candida a la Croce al Gorgo; e più fedeli di Cristo ricevettono martirio in quello luogo. E tagliata la testa del beato Miniato, per miracolo di Cristo co le sue mani la ridusse al suo imbusto, e co' suoi piedi andò e valicò l'Arno, e salì in sul poggio dove è oggi la chiesa sua, che allora v'avea uno piccolo oratorio in nome del beato Piero Appostolo, dove molti corpi di santi martiri furono soppelliti; e in quello luogo santo Miniato venuto, rendé l'anima a Cristo, e il suo corpo per gli Cristiani nascosamente fu ivi soppellito; il quale luogo per gli meriti del beato santo Miniato da' Fiorentini, dapoi che furono divenuti Cristiani, fue divotamente venerato, e fattavi una picciola chiesa al suo onore. Ma la grande e nobile chiesa de' marmi che v'è oggi a' nostri tempi troviamo che fue poi fatta per lo procaccio del venerabile padre messere Alibrando vescovo e cittadino di Firenze negli anni di Cristo MXIII, cominciata a dì XXVI del mese d'aprile per comandamento e autorità del cattolico e santo imperadore Arrigo secondo di Baviera e della sua moglie imperatrice santa Cunegonda che in quegli tempi regnava, e diedono e dotarono la detta chiesa di molte ricche posessioni in Firenze e nel contado per l'anime loro, e feciono reparare e reedificare la detta chiesa, sì come è ora, di marmi; e feciono traslatare il corpo del beato Miniato nell'altare il qual è sotto le volte de la detta chiesa con molta reverenza e solennità fatta per lo detto vescovo e chericato di Firenze, con tutto il popolo uomini e donne de la città di Firenze; ma poi per lo Comune di Firenze si compié la detta chiesa, e si feciono le scalee de' macigni giù per la costa, e ordinaro sopra la detta opera di Santo Miniato i consoli dell'arte di Calimala, e che l'avessono in guardia.
<B>XXI</B>
<I>Come santo Crisco e' suoi compagni furono martirizzati nel contado di Firenze.</I>
Ancora in quegli tempi di Decio imperadore, dimorando il detto Decio in Firenze, fece perseguitare il beato Crisco con suoi compagni e discepoli, il quale fu delle parti di Germania gentile uomo, e faceva penitenzia con santo Miniato, prima nella selva d'Arisbotto detta di sopra, e poi in quelle selve di Mugello ov'è oggi la sua chiesa, cioè San Cresci a Valcava; e in quello luogo egli co' suoi seguaci da' ministri di Decio furono martirizzati. Avemo raccontate le storie di questi due santi, acciò che s'abbiano in reverenza e in memoria a' Fiorentini, sì come per la fede di Cristo in questa nostra contrada furono martirizzati, e sono i loro santi corpi. Bene troviamo noi per più antiche croniche che al tempo di Nerone imperadore nella nostra città di Firenze e nella contrada prima fu recata da Roma la verace fede di Cristo per Frontino e Paulino discepoli di santo Piero, ma ciò fu tacitamente e in pochi fedeli, per paura de' vicarii e proposti degl'imperadori, ch'erano idolatri, e perseguivano li Cristiani dovunque gli trovavano; e così dimoraro infino al tempo di Gostantino imperadore e di santo Silvestro papa.
<B>XXII</B>
<I>Di Gostantino imperadore e de' suoi discendenti, e le mutazioni che ne furono in Italia.</I>
Troviamo che la nostra città di Firenze si resse sotto la guardia dello imperio de' Romani intorno di CCCL anni, dapoi che prima fu fondata, tenendo legge pagana e cultivando l'idoli, con tutto che assai v'avesse de' Cristiani per lo modo ch'è detto, ma dimoravano nascosi in diversi romitaggi e caverne di fuori da la città, e quegli ch'erano dentro non si palesavano Cristiani per la tema delle persecuzioni che gl'imperadori di Roma, e de' loro vicari e ministri facevano a' Cristiani, infino al tempo del grande Gostantino figliuolo di Gostantino imperadore, e d'Elena sua moglie figliuola del re di Brettagna, il quale fu il primo imperadore cristiano, e adotò la Chiesa di tutto lo 'mperio di Roma, e diede libertà a' Cristiani al tempo del beato Silvestro papa, il quale il battezzò e fece Cristiano, mondandolo della lebbra per virtù di Cristo; e ciò fu negli anni di Cristo intorno CCCXX. Il detto Gostantino fece fare in Roma molte chiese all'onore di Cristo, e abattuti tutti li templi del paganesimo e dell'idoli, e riformata la santa Chiesa in sua libertà e signoria, e ripreso il temporale dello 'mperio della Chiesa sotto certo censo e ordine, se ne andò in Costantinopoli, e per suo nome così la fece nominare, che prima avea nome Bisanzia, e misela in grande stato e signoria: e di là fece sua sedia, lasciando di qua nello 'mperio di Roma suoi patrici, overo censori, cioè vicarii, che difendeano e combatteano per Roma e per lo 'mperio. Dopo il detto Gostantino, che regnò più di XXX anni tra nello 'mperio di Roma e in quello di Gostantinopoli, e' rimasono di lui tre figliuoli, Gostantino, e Gostanzio, e Costante, i quali tra·lloro ebbono guerra e dissensione, e l'uno di loro era Cristiano, ciò fue Gostantino, e l'altro eretico, ciò fue Gostanzio, e perseguitò i Cristiani d'una resia che si cominciò in Gostantinopoli per uno chiamato Arrio, la quale per lo suo nome si chiamò ariana, e molto errore sparse per tutto il mondo e nella Chiesa di Dio. Questi figliuoli di Gostantino per la loro dissensione guastarono molto lo 'mperio di Roma e quasi abandonaro, e d'allora innanzi sempre parve che andasse al dichino e scemando la sua signoria: e cominciaro ad essere due e tre imperadori a una volta, e chi signoreggiava in Gostantinopoli, chi lo 'mperio di Roma, e tale era Cristiano, e tale eretico ariano, perseguitando i Cristiani e la Chiesa; e durò molto tempo, e tutta Italia ne fu maculata. Degli altri imperadori passati, e di quegli che furono poi, non facciamo ordinata memoria, se non di coloro che pertengono a nostra materia; ma chi per ordine gli vorrà trovare, legga la cronica martiniana, e in quella gl'imperadori e li papa che furono per gli tempi troverrà ordinatamente.
<B>XXIII</B>
<I>Come la fede cristiana fu prima nella città di Firenze.</I>
Nel tempo che 'l detto grande Gostantino si fece Cristiano, e diede signoria e libertà a la Chiesa, e santo Silvestro papa regnò nel papato palese in Roma, si sparse per Toscana e per tutta Italia, e poi per tutto il mondo la vera fede e credenza di Gesù Cristo. E nella nostra città di Firenze si cominciò a coltivare la verace fede, e abbattere il paganesimo al tempo di... che ne fu vescovo di Firenze, fatto per Silvestro papa; e del bello e nobile tempio de' Fiorentini, ond'è fatta menzione adietro, i Fiorentini levaro il loro idolo, il quale appellavano lo Idio Marti, e puosollo in su un'alta torre presso al fiume d'Arno, e nol vollono rompere né spezzare, però che per loro antiche memorie trovavano che il detto idolo di Marti era consegrato sotto ascendente di tale pianeta, che come fosse rotto o commosso in vile luogo, la città avrebbe pericolo e danno, e grande mutazione. E con tutto che i Fiorentini di nuovo fossono divenuti Cristiani, ancora teneano molti costumi del paganesimo, e tennero gran tempo, e temeano forte il loro antico idolo di Marti; sì erano ancora poco perfetti nella santa fede. E ciò fatto, il detto loro tempio consecrato all'onore d'Iddio e del beato santo Giovanni Batista, e chiamarlo Duomo di Santo Giovanni; e ordinaro che si celebrasse la festa il dì della sua nativitade con solenni oblazioni e che si corresse uno palio di sciamito; e sempre per usanza s'è fatto in quello giorno per gli Fiorentini. E feciono fare le fonti del battesimo in mezzo del tempio ove si battezzavano le genti e' fanciulli, e fanno ancora; e 'l giorno di sabato santo, che si benedice ne le dette fonti l'acqua del battesimo e il fuoco, ordinato che·ssi spandesse il detto fuoco santo per la città a modo che si faceva in Gerusalem, che per ciascuna casa v'andasse uno con una faccellina ad accendere. E di quella solennità venne la dignità ch'hanno la casa de' Pazzi de la grande faccellina, intorno fa di CLXX anni dal MCCC anni addietro, per uno loro antico nomato Pazzo, forte e grande della persona, che portava la maggiore faccellina che niuno altro, e era il primo che prendea il fuoco santo, e poi gli altri da lui. Il detto Duomo si crebbe, poi che fue consecrato a Cristo, ove è oggi il coro e l'altare del beato Giovanni; ma al tempo che 'l detto Duomo fu tempio di Marti, non v'era la detta agiunta, né 'l capannuccio, né la mela di sopra; anzi era aperto di sopra al modo di Santa Maria Ritonda di Roma, acciò che il loro idolo Idio Marti ch'era in mezzo al tempio fosse scoperto al cielo. Ma poi dopo la seconda redificazione di Firenze nel MCL anni di Cristo, si fece fare il capannuccio di sopra levato in colonne, e la mela, e la croce dell'oro ch'è di sopra, per li consoli dell'arte di Calimala, i quali dal Comune di Firenze ebbono in guardia la fabbrica della detta opera di Santo Giovanni. E per più genti che hanno cerco del mondo dicono ch'elli è il più bello tempio, overo duomo, del tanto che si truovi: e a' nostri tempi si compié il lavorio delle storie a <I>moises</I> dipinte dentro. E troviamo per antiche ricordanze che la figura del sole intagliata nello ismalto, che dice: "En giro torte sol ciclos, et rotor igne", fu fatta per astronomia; e quando il sole entra nel segno del Cancro, in sul mezzogiorno, in quello luogo luce per lo aperto di sopra ov'è il capannuccio.
<B>XXIV</B>
<I>Della venuta di Gotti e di Vandali in Italia, e come distrussono il paese e assediaro la città di Firenze al tempo di santo Zenobio vescovo di Firenze.</I>
Dapoi che·llo 'mperio de' Romani si traslatò di Roma in Grecia per Gostantino, e quasi fu partito, e talora abandonato per gli suoi successori, venne molto scemando. Per la qual cosa negli anni di Cristo circa IIIIc, regnando nello 'mperio di Roma e di Gostantinopoli Arcadio e Onorio figliuoli di Teodosio, una gente barbera delle parti tra 'l settentrione e levante, delle province che si chiamano Gozia e Svezia, di là dal fiume del Danubio, scese uno signore ch'ebbe nome Alberigo re de' Gotti, con grande seguito della gente di quegli paesi, e per loro forza passaro in Africa, e distrussolla in grande parte, e tornando in Italia, per forza distrussono grande parte di Roma, e la provincia d'intorno ardendo, e uccidendo chiunque loro si parava innanzi, sì come gente pagana e sanza alcuna legge, volendo disfare e abbattere lo 'mperio de' Romani; e in grande parte il consumaro. E poi, negli anni di Cristo IIIIcXV intorno, Rodagio re de' Gotti, successore del detto Alberigo, ancora passò in Italia con innumerabile esercito di gente; venne per distruggere la città di Roma, e guastò molto della provincia di Lombardia e di Toscana. Per la detta cagione gli Romani veggendosi così aflitti, e forte temendo del detto Rodagio che già era in Toscana, e poi si puose all'asedio della loro città di Firenze, mandato per soccorso in Gostantinopoli a lo 'mperadore. Per la qual cosa Onorio imperadore venne in Italia per soccorrere lo 'mperio di Roma, e coll'oste de' Romani venne in Toscana a la città di Firenze per contastare il detto Rodagio, overo Rodagoso, il quale era all'asedio di Firenze con CCm di Gotti e più; il quale per la volontà di Dio spaventò, sentendo la venuta dello 'mperadore Onorio, si ritrassono ne' monti di Fiesole e d'intorno, e ne le valli; e ivi ridotti in arido luogo e non proveduti di vittuaglia, assediati d'intorno a le montagne da Onorio e dall'oste de' Romani, più per miracolo divino che per forza umana (imperciò che a comparazione de' Gotti l'oste dello imperadore Onorio era quasi niente); ma per la fame e sete sofferta per più giorni per li Gotti, s'arendero i Gotti presi, dopo molto grande quantità prima morti di fame, i quali come bestie furono tutti venduti per servi, e per uno danaio diedono l'uno, con tutto che per la fame e disagio che aveano avuto, la maggiore parte si moriro in brieve tempo a danno de' comperatori che gli aveano a soppellire; e Rodagaso, di nascosto fuggito de la sua oste, da' Romani fu preso e morto. E così mostra che niuna signoria né grandezza nonn-ha fermo stato, e che non venga meno; ché sì come anticamente gli Romani andavano per l'universe parti del mondo conquistando e sottomettendosi le province e' popoli sotto loro giuridizione, così per diversi popoli e nazioni furono aflitti e tribulati lungo tempo, come innanzi farà menzione; e quegli che lo 'mperio consumarono furono a la fine distrutti per le loro peccata.
Essendo la nostra provincia di Toscana stata in questa afflizzione, e la città di Firenze per la venuta e assedio de' Gotti in grande tribolazione, sì era in Firenze per vescovo uno santo padre ch'ebbe nome Zenobio. Questi fu cittadino di Firenze, e fue santissimo uomo, e molti miracoli fece Idio per lui, e risucitò morti, e si crede che per gli suoi meriti la città nostra fosse libera da' Gotti, e dopo la sua vita santa molti miracoli fece. E simile santificò co·llui santo Crescenzio e santo Eugenio suo diacano e soddiacano, i quali sono soppelliti i loro corpi santi nella chiesa di Santa Reparata, la quale prima fu nomata Santo Salvadore; ma per la vittoria che Onorio imperadore co' Romani e co' Fiorentini ebbono contra Rodagaso re de' Gotti il dì di santa Reparata, fu a sua reverenza rimosso il nome a la grande chiesa di Santo Salvadore in Santa Reparata, e rifatto Santo Salvadore in vescovado, com'è a' nostri dì. Il detto santo Zenobio morì a San Lorenzo fuori de la città, e recando il suo corpo a Santa Reparata, toccò uno olmo che era secco nella piazza dì Santo Giovanni, e incontanente tornò verde e fiorìo; e per memoria di ciò v'è oggi una croce in su una colonna in quello luogo.
<B>LIBRO TERZO</B>
<B>I</B>
<I>Qui comincia il terzo libro: come la città di Firenze fu distrutta per Totile </I>Flagellum Dei<I> re de' Gotti e de' Vandali.</I>
Negli anni di Cristo CCCCXL, al tempo di santo Leo papa, e di Teodosio e Valentiniano imperadori, nelle parti d'aquilone fu uno re de' Vandali e di Gotti che si chiamava Bela, sopranomato Totile. Questi fu barbaro, e sanza legge, e crudele di costumi e di tutte cose, nato della provincia di Gozia e di Svezia, e per la sua crudeltà uccise il fratello, e molte diverse nazioni di genti per sua forza e potenzia si sottopuose; e poi si dispuose di distruggere e consumare lo 'mperio de' Romani, e disfare Roma; e così per sua signoria raunò innumerabile gente del suo paese, di Svezia, e di Gozia, e poi di Pannonia, cioè Ungaria, e di Dannesmarche, per entrare in Italia. E volendo passare in Italia, da' Romani, e Borgognoni, e Franceschi fu contrastato, e grande battaglia contra lui fatta nelle contrade di Lunina, cioè Frioli e Aquilea, co la maggiore mortalità di gente che mai fosse in neuna battaglia dall'una parte e dall'altra; e fu morto il re di Borgogna, e Totile come sconfitto si tornò in suo paese co la gente che gli era rimasa. Ma poi volendo seguire suo proponimento di distruggere lo 'mperio di Roma, si raunò maggiore esercito di gente che prima, e venne in Italia. E prima si puose ad assedio a la città d'Aquilea e stettevi per tre anni, e poi la prese e arse e distrusse con tutte le genti; e intrato in Italia, per simile modo distrusse Vincenza, e Brescia, e Bergamo, e Milano, e Ticino, e quasi tutte le terre di Lombardia, salvo Modona per gli meriti di santo Giminiano che n'era vescovo, che per quella città trapassando con sua gente, per miracolo di Dio no·lla vide se non quando ne fu fuori, e per lo miracolo la lasciò che no·lla distrusse; e distrusse Bologna, e fece martorizzare santo Procolo vescovo di Bologna, e così quasi tutte le terre di Romagna distrusse. E poi trapassando in Toscana, trovò la città di Firenze poderosa e forte. Udendo la nominanza di quella, e come era edificata da nobilissimi Romani, e era camera dello imperio e di Roma, e come in quella contrada era stato morto Rodagasio re de' Gotti suo anticessore con così grande moltitudine di Gotti, come adietro è fatta menzione, comandò che fosse assediata, e più tempo vi stette invano. E veggendo che per assedio no·lla potea avere, imperciò ch'era fortissima di torri, e di mura, e di molta buona gente, per inganno, e lusinghe, e tradimento s'ingegnò d'averla; ché i Fiorentini aveano continuo guerra colla città di Pistoia. Totile si rimase di guastare intorno a la città, e mandò a' Fiorentini che volea essere loro amico, e in loro servigio distruggere la città di Pistoia, promettendo e mostrando a·lloro grande amore, e di dare loro franchigie con molti larghi patti. I Fiorentini male aveduti (e però furono poi sempre in proverbio chiamati ciechi) credettono a le sue false lusinghe e vane promessioni, apersogli le porte, e misollo nella città lui e sua gente; e albergò nel Campidoglio. Il crudele tiranno essendo nella città con tutta sua forza, e con falsi sembianti mostrava amore a' cittadini, uno giorno fece richiedere a suo consiglio li maggiori e più possenti caporali de la terra in grande quantità. E come giugnevano in Campidoglio, passando ad uno ad uno per uno valico di camera, gli facea uccidere e amazzare, non sentendo l'uno dell'altro, e poi gli facea gittare nelli acquidocci del Campidoglio, cioè la gora d'Arno ch'andava sotterra per lo Campidoglio, acciò che niuno se n'acorgesse. E così ne fece morire in grande quantità, che niente se ne sentiva nella città di Firenze, se non che all'uscita della città ove si scoprivano i detti acquidocci, overo gora, e rientravano inn-Arno, si vedea tutta l'acqua rossa e sanguinosa. Allora la gente s'acorse dello inganno e tradimento; ma fu indarno e tardi, però che Totile aveva fatto armare tutta sua gente, e come s'avide che·lla sua crudelità era scoperta, comandò che corressono la terra uccidendo piccoli e grandi, uomini e femmine; e così fue fatto sanza riparo, però che li cittadini erano sanza arme e isproveduti; e truovasi che in quello tempo avea nella città di Firenze XXIIm d'uomini d'arme, sanza gli vecchi e' fanciugli. La gente della città veggendosi a tale dolore e distruzione venuti, chi potéo scampare il fece, fuggendosi in contado, e nascondendosi in fortezze, e in boschi, e caverne; ma molti e più de' cittadini ne furono morti, e tagliati, e presi, e la città fue tutta spogliata d'ogni sustanzia e ricchezza per gli detti Gotti, Vandali, e Ungari. E poi che Totile l'ebbe così consumata di genti e dell'avere, comandò che fosse distrutta e arsa e guasta, e non vi rimanesse pietra sopra pietra; e così fu fatto, se non che da l'occidente rimase una delle torri che Igneo Pompeo avea edificata, e dal settentrione e dal mezzogiorno una delle porte, e infra la città presso a la porta <I>casa, sive domo</I>, interpetriamo il Duomo di Santo Giovanni, chiamato prima casa di Marti. E di vero mai non fue disfatto, né disfarà in etterno, se non al <I>die iudicio</I>; e così si truova scritto nello ismalto del detto Duomo. E ancora vi rimasono l'alte torri, overo templi, segnati per alfabeto, che così gli troviamo in antiche croniche, le quali non sappiamo interpetrare: ciò sono S <I>e casa</I> P <I>e casa</I> F. Porte IIII avea la città, e VI postierle; e torri di maravigliosa fortezza erano sopra le porte. E l'idolo dello Idio Marti che' Fiorentini levarono del tempio e puosono sopra una torre, allora cadde inn-Arno, e tanto vi stette quanto la città stette disfatta. E così fu distrutta la nobile città di Firenze dal pessimo Totile a dì XXVIII di giugno negli anni di Cristo CCCCL, e anni VcXX da la sua edificazione; e nella detta città fu morto il beato Maurizio vescovo di Firenze a gran tormento per la gente di Totile, e il suo corpo giace in Santa Reparata.
<B>II</B>
<I>Come Totile fece reedificare la città di Fiesole.</I>
Distrutta la città di Firenze, Totile se n'andò in sul monte ov'era stata l'antica città di Fiesole, e con sue bandiere, e tende, e trabacche, e quivi s'acampò, e comandò che la detta città si redificasse, e fece bandire che chiunque volesse tornare ad abitare in quella fosse sicuro e franco, giurando a·llui d'essere contra li Romani, e acciò che·lla città di Firenze non si rifacesse mai. Per la quale cosa molti che anticamente erano stati discesi di Fiesole vi tornarono ad abitare, e de' Fiorentini medesimi isfuggiti, che non sapeano ove si dovessono abitare né andare. E così in poco tempo fu rifatta e redificata la città di Fiesole, e fatta forte di mura e di gente, e poi, come prima era, e fu sempre ribella di Roma. E perché noi facciamo in questa nostra storia digressione, lasciando come Firenze rimase diserta e disfatta, e seguendo le storie e' fatti de' Vandali, e de' Gotti, e de' Longobardi, i quali signoreggiarono lungo tempo Roma, e Toscana, e tutta Italia, sì ne pare di nicessità; ché per la loro forza e signoria li Fiesolani non lasciarono rifare Firenze infino che d'Italia non furono cacciati, come innanzi farà menzione, tornando a nostra materia.
<B>III</B>
<I>Come Totile si partì di Fiesole per andare verso Roma, e distrusse molte cittadi, e morì di mala morte.</I>
Rifatta la città di Fiesole, Totile si partì di quella, e andonne per Toscana per guastare lo 'mperio, e per andare a Roma, e prese e distrusse la città d'Arezzo, e quella fece arare e seminare di sale; e Perugia assediò più tempo, e per fame l'ebbe e la distrusse, e 'l beato Arcolano vescovo di quella fece strangolare. Simile fece della città di Pisa, e di Lucca, e di Volterra, e di Luni, e Pontriemoli, Parma, Reggio, Bologna, Imola, Faenza, Forlì, Forlimpopolo, e Cesena: tutte queste cittadi, e l'altre di Lombardia nominate, e molte altre città di Campagna e di terra di Roma dal nequissimo Totile furono distrutte, e molti santi monaci e religiosi da·llui e da sua gente furono distrutti e martirizzati, e fece grande persecuzione a' Cristiani, rubando e disertando chiese e munisteri, e quelle disfaccendo; e poi andando per distruggere Roma, in Maremma morìo di repentina morte. Ma alcuno altro dottore scrisse che 'l detto Totile per gli prieghi a Dio di santo Leo papa che allora regnava si partì d'Italia, e cessò la sua pestilenza; imperciò che, per miracolo di Dio, al detto Totile apparve più volte in visione dormendo una ombra con uno viso terribile e spaventoso, minacciandolo che s'egli non facesse il volere del detto santo padre papa Leone, il distruggerebbe. Il quale Totile per paura di ciò reverenza fece al detto papa, e partissi d'Italia sanza apressarsi a la città di Roma, e tornossi in Pannonia; e là venuto, di repentina morte morìo; e alcuno disse che morì in Cingole nella Marca. Ma dove ch'egli morisse, la notte medesima ch'egli morì, apparve per visione di sogno a Marziano imperadore, il quale era in Grecia, che l'arco di Totile era rotto; per la qual cosa intese che Totile era morto, e così si trovò che in quella medesima notte morìo. Questo Totile fu il più crudele e potente tiranno che si truovi; e per la sua iniquissima crudeltà fu chiamato per sopranome <I>Flagellum Dei</I>. E per altri si scrisse che 'l detto sopranome puose santo Benedetto, ch'udendo Totile la sua santità, l'andò a vedere a Montecascino travisato, per vedere se 'l conoscesse. Il beato santo non mai vedutolo, per ispirazione divina il conobbe, e disse: "Tu se' fragello di Dio per pulire le peccata"; comandògli da sua parte che non ispanda più sangue umano, onde poco apresso morìo. E veramente fu flagello di Dio per consumare la superbia de' Romani e de' Taliani per li loro peccati, che in quello tempo erano molto corrotti nello errore della resia ariana, e contra a la vera fede di Cristo, ed idolatri, e di molti altri peccati spiacenti a Dio erano contaminati; e così la divina potenzia pulì i non giusti per lo crudele tiranno non giusto giustamente.
<B>IV</B>
<I>Come i Gotti rimasono signori in Italia dopo la morte di Totile.</I>
Vivendo ancora Totile in Italia, Teodorigo, un altro re de' Gotti, si partì di Gozia e distrusse Danesmarce, e poi Lotterige, cioè Brabante e Analdo, e quasi tutta Francia; e passò in Ispagna e tutta la distrusse. E stando in Ispagna udì la morte di Totile, incontanente ne venne in Italia, e co' Vandali, e Gotti, e Ungari, e altre diverse nazioni ch'erano stati con Totile raunò sotto sua signoria, e lasciò in Ispagna Elarico, overo Elario, suo fratello re de' Gotti, il quale comprese e conquistò non solamente Spagna, ma il reame di Navarra, e Proenza, e Guascogna infino a' confini di Francia. Ma poi il detto Elarico fu isconfitto e morto con tutta sua gente da Crovis re di Francia, il quale fu il primo re di Francia che fosse Cristiano; e la detta battaglia fu presso a la città di Pettieri a X leghe, l'anno di Cristo VcX, e distrusse i Gotti per modo che mai non ebbono signoria di là da' monti. Il sopradetto Teodorigo che passò in Italia prese Roma, e tutta Toscana, e Italia, e allegossi con Leone imperadore di Gostantinopoli eretico ariano; il quale Leone passò in Italia, e venne a Roma, e trasse di Roma tutte le 'magini de' Cristiani e arsele in Gostantinopoli, a dispetto del papa e della Chiesa. E quello Leone imperadore e Teodorico re de' Gotti guastaro e consumaro tutta Italia, e le chiese de' fedeli fecero tutte abattere, e lo stato de' Romani e dello 'mperio molto infieboliro. E poi morto Leone imperadore, fu Zeno imperadore, e fu contrario de' costumi e di tutte cose di Leone, e la sua schiatta anullò e consumò, e ebbe guerra co' Gotti ch'erano in Italia. A la fine s'acconciò con pace co·lloro, ma volle per istadico Teodorico il giovane figliuolo di Teodorico re de' Gotti, ch'era garzone e piccolo, e tennelo seco in Gostantinopoli. E Teodorigo re tenne lo 'mperio di Roma per lo detto Zenone imperadore, faccendonegli omaggio, e dandonegli tributo. In questi tempi, circa gli anni di Cristo CCCCLXX, regnando in Gostantinopoli Leone imperadore di Roma, nella grande Brettagna, che ora Inghilterra è chiamata, nacque Merlino profeta (dissesi d'una vergine con concetto overo operazione di demonio), il quale fece in quello paese molte maraviglie per negromanzia, e ordinò la tavola ritonda di cavalieri erranti, al tempo che in Brettagna regnava Uter Pandragone, il quale fu de' discendenti di Bruto nipote d'Enea primo abitatore di quella, come adietro facemmo menzione; e poi rinnovata per lo buono re Artù suo figliuolo, il quale fu signore di grande potenzia e valore, e sopra tutti i signori cortese e grazioso, e regnò grande tempo in felice stato, come i ramanzi di Brettoni fanno menzione, e la cronica martiniana in alcuna parte in questo tempo.
<B>V</B>
<I>Come i Gotti furono cacciati la prima volta d'Italia, e come ricoveraro la signoria per lo giovane Teodorico loro re.</I>
Nel detto tempo, intorno gli anni di Cristo CCCCLXV, uno Agustolo (questi fu Teutonico) e prese e occupò lo 'mperio di Roma e d'Italia XV mesi. Ma Edevancer, Greco di Rutina, con Ruteni sua gente venne in Italia, e per forza prese Piagenza e Ticino, e discacciò della signoria il detto Agustolo, e fecesi monaco per paura. Evancer colli suoi Rutini venne a Roma, e ebbe tutta la signoria d'Italia per XIIII anni, e cacciò i Gotti. Sentendo ciò Zeno imperadore che dimorava in Gostantinopoli, mandò contra il detto Edevancer Teodosio giovane, che rimase del padre re de' Gotti, ch'avea XVII anni, e per terra venne per Bolgaria e Ungaria con assai fatica; e Evancer gli si fece allo 'ncontro in Aquilea con tutto lo sforzo d'Italia; quivi si combattero insieme, e Evancer fu sconfitto, e fuggisi con pochi a Roma; ma il popolo di Roma no·llo lasciarono entrare in Roma, ne la città. Teodosio co' Gotti, e Greci, e Ungari seguendolo a Roma, Evancer si fuggìo da Roma a Ravenna; ancora il perseguì Teodosio, e assediollo in Ravenna per tre anni, e presa la città, l'uccise, e distrusse sua gente, negli anni di Cristo CCCCLXXX; e Teodorico rimase re e signore in Italia, avendo lega e amistà con Zeno imperadore di Gostantinopoli, e da' Romani fu ricevuto a grande onore, e paceficamente tenne Roma e Italia grande tempo, e tolse per moglie la figliuola del re di Francia, che Lottieri figliuolo Crovis ebbe nome; ma poi si maculò della resia ariana, e divenne come tiranno, e nimico della Chiesa e di veri Cristiani. Questi fu quello Teodorico il quale mandò in pregione e fece poi morire a Pavia il buono santo Boezio Severino consolo di Roma, perch'egli per bene e stato della republica di Roma e della fede cristiana, il contrastava de' suoi difetti e tirannie, apponendogli false cagioni. Allora il santo Boezio compuose in pregione a Pavia il libro della filosofica consolazione. Poi questo Teodorico perseguitò molto i Cristiani, e molti ne fece morire a petizione degli ariani, e 'l papa Giovanni primo mandò in pregione a Ravenna, e fecelvi per martirio di fame morire con altri che co·llui erano andati in Gostantinopoli a Giustino imperadore cristianissimo, per procurare lo stato della Chiesa e della fede cattolica, e perché Giustino non facesse disfare le chiese degli eretici ariani; però che Teodorico avea minacciati di distruggere tutti gli Cristiani d'Italia, se Iustino offendesse alli ariani. E poi poco appresso il detto Teodorico morì di mala morte, e in visione vide uno santo eremita che il detto papa Giovanni gittava in inferno l'anima del detto Teodorico. Questi fu negli anni VcV. In questi tempi per gli errori della resia ariana e idolatra tutta Italia fu maculata, e Gostantinopoli, e tutta Grecia; e molte mutazioni di papa furono in Roma, e nella Chiesa grandi differenzie e errori, sicché Toscana e tutta Italia languiva sì degli errori de la fede, e sì delle diverse tiranniche signorie de' Gotti e degli altri che signoreggiavano; e crebbe tanto la forza de' Gotti, che occuparo non solamente Lombardia e Toscana e terra di Roma, ma Napoli e 'l regno di Puglia e Cicilia e ancora Africa, crescendo il loro errore, e vivendo sanza legge, e consumando le province e' popoli, tanto che gli Romani si ribellaro e cacciaro gli Gotti di Roma, i quali raunandosi col loro signore vennero all'asedio di Roma negli anni di Cristo VcXXXVIII.
<B>VI</B>
<I>Come i Gotti al tutto furono cacciati d'Italia per Belusiano patrice de' Romani.</I>
I Romani e Italiani veggendosi così consumare e distruggere a' Gotti, mandaro in Gostantinopoli a Iustiniano imperadore che gli dovesse liberare da' Gotti e recare lo 'mperio di Roma in suo stato e franchigia; il quale Iustiniano, udite le richieste de' Romani, e per adirizzare lo 'mperio di Roma, fece patrice de Romani, cioè padre e suo luogotenente e vicario, Belusiano suo nipote, e mandollo in Italia; e Iustiniano rimase in Gostantinopoli, e corresse con grande provedenza tutte le leggi, le quali erano molte confuse e in più volumi, e recolle sotto brevità e con ordine: il quale Belusiano sopradetto fu uomo di grande senno e prodezza, e bene aventuroso in guerra. Prima di Gostantinopoli per mare valicò in Africa, e con vittoria ne cacciò i Gotti e' Vandali che 'l paese occupavano, e poi simile fece in Cicilia; e appresso venne nel Regno e assediò la città di Napoli che si teneano co' Gotti, e per forza la prese, e non solamente uccise i Gotti che v'erano dentro, ma quasi tutti gli Napoletani piccoli e grandi, maschi e femmine, perché ritenevano i Gotti, e con loro aveano compagnia. E poi ne venne verso Roma, la quale era occupata da' Gotti, i quali sentendo la venuta di Belusiano patrice, si partiro da Roma e ridussonsi con tutta loro forza a Ravenna. Belusiano, radirizzato lo stato di Roma e dello imperio, perseguitò i Gotti a Ravenna, e ivi ebbe con loro grande battaglia, e vinseli, e sconfissegli, e cacciogli tutti quasi d'Italia; e poi n'andò inn-Alamagna e in Sassogna, e per forza tutti quegli paesi e province recò a l'obedienza e suggezzione dello 'mperio di Roma, e molto ricoverò lo 'mperio e ridusse in buono stato, e bene aventurosamente e con vittoria in tutte parti vinse e soggiogò i ribelli dello 'mperio, e tenne in buono stato mentre vivette, infino agli anni di Cristo VcLXV, che Iustiniano imperadore e Belusiano moriro bene aventurosamente. E dopo Belusiano fu fatto patrice di Roma Narses per Iustino secondo imperadore successore di Iustiniano; e questo Narses ancora ebbe battaglia in Italia col re de' Gotti, e sconfissegli, e vinsegli, e al tutto gli cacciò d'Italia. E così durò la signoria de' Gotti in Italia anni CXXV con grande stimolo e struggimento de' Romani, e di tutti gl'Italiani, e dello 'mperio di Roma; e così s'adempié la parola del santo Vangelo ove dice: "Io ucciderò il nemico mio col nemico mio". E in questi tempi fu grande sterilità e fame e pestilenzia in tutta Italia. E chi vorrà più stesamente sapere le battaglie e le geste de' Gotti cerchi i·libro che comincia: "<I>Gottorom</I> antichissimi etc.".
<B>VII</B>
<I>Della venuta de' Longobardi in Italia.</I>
Essendo Narses patrice di Roma, e signoreggiava lo 'mperio di ponente per Iustino imperadore, sì venne in disgrazia della imperadrice Sofia, moglie di Iustino, e minacciollo di morte, e di farlo privare della sua dignità; per la qual cosa il detto Narses si rubellò dallo imperadore Giustino, e mandò in Pannonia per gli Longobardi, ciò sono Ungari, e col loro re chiamato Rotario fece lega e compagnia contra lo 'mperadore di Gostantinopoli e de' Greci, per torgli lo 'mperio di Roma; e così fu fatto, il quale re di Longobardi venne in Italia negli anni di Cristo VcLXX. E l'abito de' Longobardi che prima vennono in Italia, si aveano raso il capo, e lunga la barba, e lunghi vestimenti e larghi, e di lino gli più, a modo di Frosoni, e le calze sanza peduli infino a' talloni, legate con coregge. Questi Longobardi prima furono di Sassogna; ma soperchio di genti parte di loro si partiro di loro paese, e presono Pannonia, e poi si stesono in Ungaria. E Longobardi ebbono nome per uno indivino chiamato Godan, il quale, venute le mogli de' Longobardi e la moglie del detto indivino per avere consiglio di loro fortuna, per suo consiglio disse che la mattina al levare del sole venissero, e co·lloro capelli avolti al mento. Godan così veggendole, disse: "Chi sono questi Longobardi?"; e però fue il loro primo nome. E poi al tempo e cagione di su detta passaro in Italia, e prima discacciarono di Melano i Melanesi, e simile gli abitanti di Ticino, e' Chermonesi, e' Bresciani, e' Bergamaschi; e in quelle città prima cominciaro ad abitare, e popolaro di loro gente, e poi tutte l'altre città d'intorno, e di quelle di Toscana infino nel regno di Puglia signoreggiaro. E dapoi fu chiamato quello paese Lombardia, e Lombardi per lo nome de' Longobardi; che prima avea nome la provincia Ombria, e di là dal Po Ensobra. E dalla loro venuta innanzi fu asciolto il regno d'Italia dal giogo di quegli di Gostantinopoli; e da quello tempo innanzi gli Romani si cominciaro a reggere per patrici, e durò grande tempo. E 'l detto re de' Longobardi fece suo capo del reame la città di Pavia, e fece molto grandi e notabili cose mentre ch'egli regnò. E stando in Pavia si andò a·llui il santo padre Allesandro, vescovo allora dell'antica città di Fiesole e cittadino di quella, per cagione che 'l signore di Fiesole che n'era sanatore guastava la Chiesa, e occupava le ragioni del vescovado e delle sue chiese soffreganti; il quale Rotario re, con tutto che fosse barbaro e pagano, al detto santo Allesandro fece grande amore e reverenzia, e esaudì la sua petizione, e fecegli brivilegi, e liberò la Chiesa, sì come seppe domandare. Ma il sanatore della città di Fiesole, uomo crudele e malvagio Cristiano, mandò dietro al detto santo Allesandro suoi ministri e famigliari, acciò che gli togliessono la vita; il quale partendosi da Pavia per tornare a Fiesole, da' detti masnadieri e ministri del sanatore di Fiesole fu martorizzato, e per forza gittato e annegato nel fiume del Po. Il cui corpo da' suoi discepoli e compagni fu ritrovato e recato nella città di Fiesole con grande reverenza; e poi per lo beato santo Romolo succedente vescovo di Fiesole, traslatandolo ove è oggi la sua chiesa suso a la rocca, grandissimi e visibili miracoli fece Iddio per lui, e massimamente contro al detto senatore e suoi ministri persecutori de' Cristiani, i quali non solamente perseguitavano i vivi, ma eziandio i corpi morti de' santi non lasciavano soppellire, sì come innanzi la sua storia pienamente fa menzione; il cui santo corpo, e quello del beato santo Romolo, e di più altri martiri e santi sono ancora in Fiesole, e sono molto da reverire; e chiunque in pelligrinaggio vae, per gli meriti de' detti santi corpi hae grandissimi perdoni e indulgenze. Lasceremo alquanto delle cominciate storie de' Longobardi, ch'assai tosto vi torneremo, e diremo d'una nuova e perversa setta che in questi tempi si cominciò oltremare, e ciò fu la legge e setta de' Saracini fatta per Maumetto falso profeta, la quale contaminò quasi tutto il mondo e molto affrisse la nostra fede cristiana.
<B>VIII</B>
<I>Del cominciamento della legge e setta de' Saracini fatta per Maometto.</I>
E' ne pare convenevole, dapoi che in brieve corso di scrittura avemo fatta menzione del venimento in Italia della gente de' Gotti e della loro fine, di mettere in questo nostro trattato il cominciamento della setta de' Saracini, la quale fu quasi in questi tempi che' Gotti vennono meno in Italia; e bene ch'ella sia fuori della nostra principale materia de' fatti del nostro paese d'Italia e molto di lungi, sì fu sì grande mutazione del mondo, e donde seguirono poi grandissime persecuzioni a santa Chiesa e a tutti i Cristiani, e eziandio ne sentì per certi tempi la nostra Italia, come si troverrà per innanzi leggendo. E brieve diremo le storie, e la vita, e la fine di Maometto cominciatore della detta malvagia setta de' Saracini, e in parte del cominciamento degli articoli della sua Alcaram, cioè legge, acciò che ciascuno Cristiano che questo leggerà, conosca e non sia ignorante della falsa legge e bestiale de' Saracini, e stia a commendazione della nostra santa cattolica e vangelica fede, ritornando poi a nostra materia.
Ne' detti tempi, quasi intorno di VIc anni di Cristo, nacque nel paese d'Arabia, nato nella città di Lamech, uno falso profeta ch'ebbe nome Maomet, figliuolo Aldimenech, il quale fu negromante. Questi fu disceso dalla schiatta d'Ismalieni, cioè de' discendenti d'Ismael figliuolo d'Abram e d'Agar sua ancella; e con tutto che' Saracini nati de' discendenti d'Ismael si dinominaro da Sara la moglie d'Abram, più degnamente e di ragione dovrebbono essere chiamati Agarini per Agar onde il loro cominciamento nacque. Questo Maomet fu di piccola nazione, e di povero padre o madre; e rimaso piccolo fanciullo sanza padre e madre, fu ricolto e nudrito in Salingia in Arabia con uno sacerdote d'idoli, e co·llui imprese alquanto di negromanzia; e quando il detto Maomet fu in età di sua giovanezza, venne a stare al servigio d'uno ricco mercatante arabo, per menare suoi asini a vittura. E andando giovane garzone con mercatanti in sua vottura, arivò per cammino in una badia di Cristiani, la qual era in sul cammino e confini d'Asiria e Arabia di là dal monte Sinai, ove i mercatanti facieno loro porto e ridotto. In quella avea uno santo eremita cristiano, e avea nome Bahairà, al quale per revelazione divina gli fu mostrato che tra gli mercatanti là venuti avea uno giovane di cui parlava la profezia sopra Ismael nel XVI capitolo del Genesis, che dice: "Egli nascerà uno fiero uomo, che·lla sua mano sarà contra tutti e la mano di tutti sarà contro a·llui, e che sarebbe averso della fede di Cristo e persecutore grandissimo". E quand'egli venne co' mercatanti alla detta badia, dicono i Saracini che 'l primo miracolo che Iddio mostrò per lui fu che crebbe una porta della chiesa, ond'egli entrò maravigliosamente; e se vero fu, sì fu segno manifesto che dovea isquarciare e aprire la porta della santa Chiesa di Roma. E conosciuto il giovane per lo santo padre per gli segni a·llui rivelati, il ritenne seco con pura fe' per ritrallo dell'idolatra, e insegnavagli la vera fe' di Cristo, la quale Maomet molto bene imparava. Ma per lo distino, overo per la forza del nimico dell'umana generazione, Maomet non poté continovare, ma si tornò al suo primo servigio e del suo maestro; col quale apresso crescendo Maomet in bontà, gli diede in guardia il suo maestro i suoi cammelli, e guidare sue mercatantie, le quali bene avrosamente avanzò. E morto il suo signore, e per lo suo buono servigio, a la donna piacque, e ebbe affare di lui; e poi morto il marito, il si fece secondo loro costuma suo marito, e fecelo signore d'ogni sua sustanzia e di molto grande avere. Maomet divenuto di povertà in ricchezza, si montò in grande orgoglio e superbia e in alti intendimenti, e pensossi di potere essere signore di tutti gli Arabi, però ch'erano grossi di senno e di costumi, e nonn-aveano nullo signore, né re, né legge: e egli era savio, malizioso, e ricco. E per fornire suo proponimento, prima si fece profeta, e predicava a quello grosso popolo, i quali vivieno sanza legge. E per avere séguito e podere s'acostò con uomini giovani, poveri e bisognosi, e ch'avieno debito, e con rubatori e disperati, seguendo co·lloro ogni peccato, e vivendo co·lloro a comune di ruberie e d'ogni male aquisto, spezialmente sopra i Giudei, cui molto disamava; e per questo divenne e montò in istato e signoria, e fu molto dottato e tenuto nel paese, e quasi come uno loro re fu temuto per lo podere e senno ch'avea tra quella gente barbera e grossa, e per sua superbia più battaglie ebbe co' signori vicini, e più volte vinse, e fu sconfitto, e in alcuna battaglia perdé de' denti dinanzi. E perché si facea profeta, e nelle dette battaglie in alcune fu sconfitto, onde per falso profeta fu rimprocciato, di che si scusava dicendo che Dio non volea che combattesse, e però il facea perdere, ma come suo messaggio voleva predicasse al popolo e amaestrasse. Il quale predicando, dicea ch'era sopra tutti i profeti, e che dieci angioli per comandamento d'Iddio il guardavano, ed era messo mandato da Dio per dichiarare la legge a' Giudei e a' Cristiani data da Dio a Moises; e quale contradicesse la sua legge fosse morto di spada, e i figliuoli o moglie di quello cotale fossono suoi servi, e tutta loro sustanza in sua signoria: questo fu il primo suo comandamento. Maomet fu di sua natura molto lussurioso, e in ogni villano atto di lussuria grazioso era colle femmine. Dicea che per grazia di Dio e' poteva più generare che XL altri uomini, e però tenea XV mogli e più altre concubine, overo bagasce; e per gelosia le tenea nascose e velate il viso, perché non fossono vedute e conosciute: e per suo essempro si reggono ancora i Saracini di loro mogli. D'altre femmine usava quanto potea o gli piacea, e più volentieri le maritate che l'altre; e di ciò essendo ripreso, e cominciando a dispregiare la sua dottrina e predica, sì fu cacciato co' suoi seguaci della città di Lamecche; per la qual cosa se n'andò ad abitare in un'altra città alquanto diserta ove abitavano Giudei e pagani e idolatri, e dura e salvatica gente, per meglio potere usare la sua falsa dottrina e predica, e commuovergli tutti alla sua legge. E fece fare in quella terra un tempio ov'egli predicava; e per iscusarsi della sua disordinata vita d'avolterio, si fece una legge seguendo la giudaica del vecchio Testamento, che qual femmina fosse trovata in avolterio fosse morta, salvo che co·llui, però ch'avea per comandamento da l'angiolo Gabriello ch'usasse le maritate per potere generare profeti. Ed essendo Maomet vago d'una moglie d'uno suo servo per sue bellezze, e toltala e giaciuto co·llei, il marito la cacciò, e Maomet la si riprese e tenne coll'altre sue femmine; e per conservare il suo avoltero, disse ch'ebbe lettera da·dDio per l'angelo, che facesse legge che quale uomo caccerà la moglie, o apponendole avoltero e no·llo provasse, ch'un altro la si possa prendere; e se 'l primo marito mai la rivolesse, no·lla possa riavere, se prima in sua presenza un altro uomo non giacesse co·llei carnalmente; e allora era purgato il peccato, e ancora il tengono i Saracini. Ancora fece legge ch'a ciascuno fosse lecito d'avere e usare tante mogli e concubine quante ne potesse fornire, per generare figliuoli e crescere il suo popolo; e fece legge che ciascuno potesse usare la sua propia cosa sanza peccato a·ssua volontà e disiderio, e questo trasse del bestiale paganesimo; e fece legge che quale ancella, cioè serva, ingrossasse di Saracino fosse franca; e così retasse il suo figliuolo come quello della moglie; e se fosse Cristiana, o Giudea, o pagana, si potesse partire libera a sua volontà, lasciando al padre di cui avesse aquistato il suo figliuolo. Queste furono le prime leggi che fece Maomet da·ssé medesimo. E avea Maomet la malatia di morbo caduco, che spesso cadea in terra e dibatteasi, e schiumava colla bocca sanza sentimento; e quando il male gli era passato, per coprire il suo difetto, e per fare meglio credere a quella grossa gente il suo errore e falsa dottrina, dicea che ciò gli avenia quando Iddio volea parlare co·llui e amaestrallo delle leggi che desse al popolo, però che nonn-era possibile di vederlo corporalmente; sì i·rapia l'agnolo Gabriello e portavalo in ispirito, e ne·rapire lo spirito avea il corpo suo quella passione. Istando Maomet nel cominciamento di questa sua falsa dottrina, avenne per sudozione del diavolo, volendo corompere la santa fede cattolica, che uno monaco cristiano ch'avea nome Grosius, overo volgare Sergio, il quale era grande cherico in corte di Roma e scienziato, ma per sue male opere e falso errore fu scomunicato e condannato per eretico, il quale per paura del papa si partì di corte, e udendo già la fama di Maomet, passò oltremare, e di là si rinegò la fede di Cristo, e co·male talento, per vendicarsi del papa e de' veri Cristiani, si n'andò in Arabia, e s'acozzò con Maomet, e trovollo al cominciamento ch'egli predicava la sua falsa dottrina, ma ancora non gli era data troppa fede; sì gli mostrò il detto Sergio come la sua legge volea esser meglio ordinata e fondata, acciò che 'l suo popolo gli credesse. E acostandosi con uno Giudeo, simile rinegato di sua legge, famigliare di Maomet, molto savio e segace, i quali rinegati profertisi per consiglieri di Maomet, il quale gli ricevette allegramente, e fecegli molto grandi maestri appo lui, e eglino per loro astuzia feciono grande lui appo il popolo, faccendolo signore e profeta sopra tutti quegli che mai furono, e messo di Dio. E ordinarono insieme la falsa dottrina e mala legge de l'Arcaram, traendo in parte quello ch'a·lloro piacque del vecchio Testamento e de' X comandamenti di Moises, e così del nuovo e vangelico di Cristo, della fede de' Cristiani, e parte della legge pagana idolatra; e raccomunandole insieme colle leggi fatte in prima e poi per Maomet, ne feciono una quarta legge, la quale fu ed è errore e confusione della fede cristiana, e eziandio della giudaica e pagana, mescolando il veleno col mele, cioè con certe parti del buono delle dette leggi che vi missono, mescolato molto del falso errore. La quale falsa legge per lo vizio lascivo e largo della carnalità, e per forza d'arme, corruppe non solamente i grossi Arabi di quello paese, ma il paese d'Asiria, Persia, e Media, Mesoppontania, Soria, e Turchia, e molte altre province d'oriente, e poi l'Egitto, e l'Africa tutta insino in Ispagna, e parte della Proenza; e alcuna volta si distesono in Italia e nel nostro paese di Roma e di Toscana, siccome per questa e altra cronica si potrà trovare. Lasceremo a dire de' falsi articoli della sua legge, ché a questo trattato non ne pare di nicessità, e sono disonesti e abominevoli a farne in questo memoria; ma chi·llo vorrà sapere legga l'Arcam di Maometo, ove tutte le sue costituzioni e dicreti vi sono per ordine. E quando Maometo fu nell'aggio di XL anni, fu per invidia da' suoi medesimi avelenato; e veggendosi venire a morte, comandò che la sua legge fosse oservata, e chi·lla contradicesse fosse morto colla spada; e lasciò che, lui morto, nol dovessono soppellire infino a tre dì, però che di certo avea da Dio che in capo de' tre dì, in anima e in corpo, ne sarebbe portato in cielo dagli angeli. I suoi parenti il tennono XII dì, tanto che forte putire facie il suo corpo, e non fu portato in cielo; ma lui poi imbalsimato, il portarono alla sua città da la Mecca onde fu nato, e in quella nel tempio in una arca messo; e per magistero di ferro con forza di calamita, la detta arca col suo corpo sta sospesa in aria sanza nullo altro tenimento. Al cui corpo di Saracini di diversi paesi vi vengono in pellegrinaggio con grandi oblazioni, e dicono che per la sua santità, per miracolo divino sta così sospeso in aria. Dopo la morte di Maomet molti savi uomini conobbono il falso errore e dottrina di Maomet, ed essere erronica, e da quella si partiro, e molto popolo fu scommosso e ritratto da quella legge. Ma i parenti di Maomet, i quali per la sua signoria erano grandi e potenti, per non perdere loro stato sì ordinaro uno successore di lui al modo del nostro papa, il quale tenesse e guardasse la legge di Maomet, e chiamarlo per sopranome calif. Bene ebbe tra·lloro al cominciamento, per la 'nvidia della signoria, grandissima scisma, e per gara feciono due calif, e l'uno calif dispuose l'altro, e feciono adizioni e correzzioni alla legge prima dell'Alcaram di Maomet; e per questa cagione nacque tra·lloro errore, onde si partirono. I Saracini del levante ritennono la propia legge di Maomet, e feciono loro calif dimorante alla nobile e grande città di Baldacca, e quegli d'Egitto e d'Africa ne feciono un altro i·lloro paese; e tra·lloro fu errore con diverse maniere di legge erroniche l'una dall'altra. Ma nel genero la legge dell'uno calif e dell'altro si concordavano insieme nella larghezza de' diletti carnali e d'altri vizii lascivi; per la qual cosa, come detto è dinanzi, la maggiore parte del mondo n'è contaminata. E nota che per certe profezie si truova, e per grandi astrolaghi s'aferma, che la detta setta de' Saracini dee durare circa ad anni VIIc e allora dé finire e venire meno. Non dichiarirò se cominciasse alla natività di Maomet o alla sua morte, o quando egli diè la legge agli Arabi. Lasceremo dello incominciamento della legge de' Saracini, e de' fatti di Maometto loro profeta, ch'assai in brieve n'avemo detto, e torneremo a nostra matera de' fatti d'Italia, e diremo d'un'altra perversa e barbera gente che nella detta Italia vennoro e signoreggiaro un tempo, che furono chiamati Lungobardi, e di loro principio, e di loro geste, e fine; però che furono grande cagione di non lasciare redificare la nostra città di Firenze per lungo tempo.
<B>IX</B>
<I>De' successori di Rotario re de' Lungobardi.</I>
Dopo il detto Rotario re de' Lungobardi, onde adietro facemmo menzione nel capitolo di Narses che gli fece di prima venire in Italia, regnò Gisulfo. Questo Gisulfo fu re di Puglia, e fece suo capo in Benivento, che si chiamava in prima Sannia, e tutta Puglia disabitò quasi de' paesani, e abitò di Longobardi, e feciono la legge che ancora si chiama longobarda, e tengono ancora i Pugliesi e gli altri Italiani, in quella parte dove danno mondualdo, overo in volgare manovaldo, alle donne, quando s'obbrigano in alcuno contratto, e fu buona e giusta legge. Questo Gisulfo assediò Roma e 'l papa, e ebbe due figliuoli: l'uno ebbe nome Alberico che fu re in Lombardia, e l'altro ebbe nome Grimaldo che rimase re in Benivento, e là morìo per torsi sangue, faticando suo braccio in aprire uno arco; e dopo Grimaldo ne fu re Romoldo suo figliuolo, e molta persecuzione feciono alla Chiesa. In Lombardia regnò Alberico e' suoi discendenti apresso, e ebbono grande guerra con quegli della città di Ravenna in Romagna, la quale era la maggiore e la più famosa città d'Italia appresso Roma. E così per grande tempo signoreggiarono Italia i Longobardi, tanto che si convertirono in paesani e abitanti di tutta Italia. E erano di diverse sette, con tutto che fossono battezzati: chi era Cristiano, e chi ariano e d'altri errori, e chi idolatri e pagani; e così stette grande tempo Italia maculata d'errori, e di signoria tirannica per gli Longobardi, e la Chiesa molto abbassata e afflitta. Dopo Alberigo regnò re de' Longobardi Eliprando, il quale fu grande come gigante, e per la grandezza del suo piede si prese la misura delle terre, e chiamasi ancora a' nostri tempi piè d'Eliprando, il quale è poco meno d'uno braccio a la nostra misura, e così è intagliato alla sua sepultura a Pavia. Questo Eliprando fu Cristiano, e mandò in Sardigna a fare ritrovare l'ossa e 'l corpo di santo Agustino, e fecelo recare in Italia, e per divozione infino a Genova con grande processione venne incontro, e poi in Pavia le ripuose a grande onore e solennità negli anni di Cristo VIIcXXV.
<B>X</B>
<I>Come Carlo Martello venne di Francia in Italia a richesta della Chiesa contro a' Lungobardi e l'origine della città di Siena.</I>
Nel tempo del detto Eliprando, tutto che fosse cristiano, ma per la sua avarizia, e per volere occupare le ragioni della Chiesa santa, e per consiglio dello 'mperadore di Gostantinopoli, cominciò guerra co' Romani e con papa Gregorio terzo, e con tutto suo isforzo venne ad assediare il detto papa a Roma, egli di verso Lombardia, e Grimaldo re de' Sanniti e Pugliesi con suo isforzo di Puglia, negli anni di Cristo VIIcXXXV. Per la qual cosa, fatto concilio in Roma, la Chiesa co' Romani mandarono in Francia per soccorso a Carlo Martello, il quale Carlo fu figliuolo di Pipino grande barone di Francia e de' XII peri, il quale governava tutto il reame e lo re medesimo; e simile fece il detto Carlo Martello, che il re che allora era, chiamato Ciperic, avea solamente il nome, ma Carlo la forza e la signoria: e fu figliuolo della serocchia di Dodone re d'Equitania, e poi fu padre del buono re Pipino padre che fu di Carlo Magno; e Martello avea sopranome però che 'l portava in sopransegna. E in fatti fu martello, però che per sua prodezza percosse tutta Alamagna, Sassogna, Soavia, Baviera, e Danismarce infino i·Norvea, Inghilterra, Equitania, e Navarra, e Spagna, e Borgogna, e Proenza, e tutte le mise sotto la sua signoria, e gli fece suoi tributarii. Poi a la richiesta del detto papa passò in Italia infino in Puglia, e liberò Roma e la Chiesa dall'ocupazioni de' Longobardi. E dicesi che in quel tempo, intorno gli anni di Cristo VIIcXL, fu il cominciamento dell'abitazione del luogo ove è oggi la città di Siena per la gente vecchia e non sana che passò con Carlo Martello, i quali rimasono in quello luogo, come adietro è fatta menzione della edificazione di Siena.
<B>XI</B>
<I>Come Eraco Lungobardo re di Puglia tornò all'ubidienza di santa Chiesa.</I>
Dopo la morte d'Aliprando succedette Eraco che regnò in Puglia. Questo Eraco somigliante al suo anticessore ricominciò guerra colla Chiesa e con papa Zaccheria; e vegnendo a Roma negli anni di Cristo VIIcL con tutto suo isforzo di Puglia e di Lombardia, per distruggere Roma e 'l paese d'intorno, per lo detto papa fu predicato per modo che Idio ispirò in lui la sua grazia, e convertissi a l'ubidienza di santa Chiesa egli e la moglie e' figliuoli, e passò oltremare contra a' Saracini e' pagani. Per la nostra fede cristiana fece di grandi e notabili cose con grande vittoria contra Cosdre re di Persia, e diliberò di pregione i Cristiani di Gerusalem e di Soria presi per lo detto Cosdre re; e raquistò la santa croce di Cristo che 'l detto re di Persia avea tolta di Gerusalem per dispetto de' Cristiani; e però s'ordinò per santa Chiesa la festa dell'asaltazione della santa croce. E oltre a·cciò, tornato d'oltremare, il detto Eraco per l'amore di Cristo lasciò ogni signoria mondana, e rendési monaco, e finì in santa vita. E la statua del metallo ch'è in Barletta in Puglia fece fare a sua similitudine al tempo che regnava in grolia mondana. E in questi tempi si trovò di prima lo strumento della campana per uno maestro della città di Nola in Campagna, e però fu chiamata <I>campana a campania</I>, e alcuni la chiamaro nola, e la prima fu recata a Roma e posta nel portico di San Giovanni Laterano di piccola e grossa forma. Ma poi cresciute e migliorate, fue ordinato per santa Chiesa si sonasse con quelle, a onore di Dio, l'ore del dì e della notte.
<B>XII</B>
<I>Come Telofre re de' Longobardi perseguitò santa Chiesa, e come il re Pipino a richiesta di papa Stefano venne di Francia, e sconfisselo e preselo.</I>
Apresso del re Eraco succedette nel reame di Lombardia e in quello di Puglia insieme Aristolfo, detto in latino Telofre, fratello del detto Eraco. Questi fu signore di grande potenzia, e crudele, e nimico di santa Chiesa e de' Romani; e per consiglio de' malvagi e ribelli Romani, prese Toscana e la valle di Spuleto, e distrussele, e toglieva censi per ogni capo d'uomo; e fece congiura con Leone e Gostantino suo figliuolo imperadori di Gostantinopoli, e a sua richesta passaro a Roma, e presolla con Telofre insieme, e rubarolla, e arsono le chiese e' santi luoghi, e portarne in Gostantinopoli le ricchezze di Roma, e tutte le imagini delle chiese di Roma, e per dispetto del papa e della Chiesa, e vergogna de' Cristiani, l'arse tutte in fuoco, e molti fedeli Cristiani distrussero e consumaro in Roma e in tutta Italia. Per la qual cosa Stefano papa secondo gli scomunicò, e tolse per amenda del misfatto a lo 'mperio il regno di Puglia e di Cicilia, e stabilì per dicreto che sempre fosse di santa Chiesa. E poi non potendo riparare a la forza de' detti tiranni ed a tanta aflizzione, in persona n'andò in Francia a Pipino prencipe e governatore de' Franceschi a richiederlo e pregare che venisse in Italia a difendere santa Chiesa contro Telofre re de' Lombardi, e fece al detto Pipino molti brivilegi e grazie, e fecelo e confermò re di Francia, e dispuose Ilderigo re ch'era della prima schiatta, però ch'era uomo di niuno valore, e rendési monaco. Il quale Pipino, fedele e amatore di santa Chiesa, il ricevette con grande onore, e poi con tutto suo isforzo col detto papa Stefano passò in Italia negli anni di Cristo VIIcLV, e col detto Telofre re de' Lombardi ebbe grandi battaglie. A la fine per forza d'arme e di sua gente il detto Telofre fu vinto e sconfitto dal buono re Pipino, e fece le comandamenta del papa e di santa Chiesa, e ogni amenda, com'egli e' suoi cardinali seppono divisare; e lasciò alla Chiesa per patti e brivilegi il reame di Puglia e di Cicilia, e 'l Patrimonio di Santo Piero. E venuto il detto Pipino in Roma col detto papa, furono ricevuti a grande onore da' Romani; e 'l detto Pipino fu fatto patrice di Roma, cioè luogotenente d'imperio, e padre della repubblica de' Romani. E rimessa Roma e santa Chiesa in sua libertà e in buono stato, si tornò in Francia, e finì sua vita a grande onore; e succedette a·llui re di Francia Carlo Magno suo figliuolo.
<B>XIII</B>
<I>Come Disidero figliuolo di Telofre ricominciò guerra a santa Chiesa; per la qual cosa Carlo Magno passò in Italia e sconfisselo, e prese e distrusse la signoria de' Lungobardi.</I>
Partito il re Pipino d'Italia e tornato in Francia, si riposò in alcuno tranquillo la Chiesa di Roma e 'l paese d'intorno uno tempo, per l'accordo che Pipino avea fatto con Telofre re di Lombardia, e per la vittoria avuta contra lui; ma morto Telofre, Desiderio suo figliuolo succedette a·llui, il quale maggiormente che 'l padre fu nemico e persecutore di santa Chiesa, e ruppe la pace, e allegossi con Gostantino che fu figliuolo di Leone imperadore di Gostantinopoli, e colle sue forze fece cominciare guerra in Puglia, e Disiderio dall'altra parte in Toscana, troppo maggiore che 'l suo padre nonn-avea di prima fatta. Per la qual cosa Adriano papa, che allora governava santa Chiesa, mandò in Francia per Carlo Magno figliuolo di Pipino che venisse in Italia a difendere la Chiesa dal detto Disiderio e da' suoi seguaci; il quale Carlo re di Francia passò in Lombardia negli anni di Cristo VIIcLXXV, e dopo molte battaglie e vittorie avute contra Disiderio, si·ll'asediò nella città di Pavia; e quella per assedio vinta, prese il detto Disiderio, e' figliuoli, e la moglie, salvo che 'l maggiore figliuolo ch'avea nome Algife si fuggì in Gostantinopoli a Gostantino imperadore, e sempre guerreggiò. Preso Disiderio, e la moglie, e' figliuoli, Carlo Magno gli fece fare la fedeltà a santa Chiesa, e simile a tutti gli baroni e città d'Italia; e poi ciò fatto, il detto Disiderio, e la moglie, e' figliuoli mandò in Francia pregioni, e là morirono tutti in pregione, e così fallì la signoria de' re de' Lombardi, detti prima Lungobardi, ch'era durata CCV anni in Italia, per la forza de' Franceschi e del buono Carlo Magno, che mai poi nonn-ebbe re in Lombardia. Bene rimasero le schiatte de' signori, e de' baroni, e borgesi stratti di Longobardi ed i·Lombardia e in Puglia; e ancora oggi ne sono in nostro volgare certi antichi gentili uomini che noi chiamiano cattani lombardi, derivato da' detti Longobardi che n'erano stati signori d'Italia. Carlo Magno, avuta la detta vittoria, venne a Roma, e dal detto Adriano e da' Romani fu ricevuto a grande triunfo e onore. E apressandosi Carlo Magno a Roma, vedendo la santa città di Roma di su Montemalo, discese da cavallo, e per reverenza venne a piè infino a Roma; e là giugnendo, le porte della città e di tutte le chiese basciò, e a ciascuna chiesa oferse riccamente. E giunto in Roma, fu fatto patrice di Roma, e egli adirizzò lo stato di santa Chiesa, e de' Romani, e di tutta Italia, e rimise in loro franchigia e libertade, abattute in tutte parti le forze dello 'mperadore di Gostantinopoli, e del re de' Lombardi, e di loro seguaci. E confermò a la Chiesa ciò che Pipino suo padre l'avea dotato; e oltre a·cciò dotò la Chiesa del ducato di Spuleto e di Benivento. E nel regno di Puglia ebbe più battaglie contro a' Longobardi e ribelli di santa Chiesa, e assediò e distrusse la città di Lacedonia ch'è in Abruzzi tra l'Aquila e Sermona, e assediò e vinse Tuliverno il forte castello a l'entrare di Terra di Lavoro, e più altre terre del Regno che teneano ribelli di santa Chiesa, e tutti gli sottomise a sua signoria. E ciò fatto, lasciando Roma e tutta Italia in pacifico stato e sotto sua signoria, bene aventurosamente intese a perseguitare i Saracini ch'aveano occupato Proenza, e Navarra, e Spagna, e colla forza de' suoi dodici baroni e peri di Francia, chiamati paladini, tutti gli conquise e distrusse, e passò oltremare a richiesta dello 'mperadore Michele di Gostantinopoli e del patriarca di Gerusalem, e conquistò la Terrasanta e Gerusalem, che·ll'occupavano i Saracini, e aquistò a lo 'mperadore di Gostantinopoli tutto lo 'mperio di levante, il quale aveano occupato i Saracini e' Turchi. E tornando in Gostantinopoli, lo imperadore Michele gli volle donare molti grandissimi tesori, nulla volle prendere, se non il legno de la santa croce e 'l chiovo di Cristo, lo quale in Francia ne recò, ed è oggi in Parigi. E tornato in Francia, signoreggiò per sua prodezza e virtude non solamente il reame di Francia, ma tutta Alamagna, Proenza, Navarra, e Spagna, e tutta Italia.
<B>XIV</B>
<I>Della progenia di Carlo Magno, e di suoi successori.</I>
E imperciò che questo Carlo Magno fu di grande affare, e fu per sua prodezza e bontà rifatta la nostra città di Firenze, come innanzi faremo menzione, volemo brievemente fare memoria de' suoi discendenti che furono imperadori e re di Francia, infino che fallì la sua schiatta al tempo d'Ugo Ciappetta duca d'Orliens. Apresso Carlo Magno regnò imperadore e re di Francia Luis suo figliuolo XXVI anni; poi fu Lottieri suo figliuolo imperadore, come innanzi faremo menzione, e Carlo il Calvo l'altro figliuolo di Luis fu re di Francia anni XXXIIII. A la fine, morto Lottieri suo fratello, fu il detto Carlo il Calvo imperadore due anni, e l'altro figliuolo del sopradetto Luis, che per lui Luis ebbe nome, fu re di Baviera e d'Alamagna, e di là rimasono re i suoi discendenti. Poi morto Carlo il Calvo, fu re di Francia Luis il Balbo suo figliuolo due anni. Questi nonn-ebbe lo 'mperio, ma fu imperadore Luis figliuolo di Lottieri imperadore, come innanzi faremo menzione. Poi di questo Luis il Balbo re di Francia rimase la moglie incinta d'uno figliuolo ch'ebbe nome Carlo il Semprice: di questo Luis il Balbo rimasono ancora due figliuoli grandi, l'uno ebbe nome Luis, e l'altro Carlo Magno; ma non furono di diritto maritaggio nati. Questi regnarono V anni, e furono morti; e dopo la loro morte gli baroni diedono il reame a Carlo il Grosso imperadore, che fu figliuolo di Carlo il Calvo, e regnò, essendo imperadore, V anni re di Francia. Questi fu quello Carlo che pacificò gli Normandi, e fece parentado co·lloro, e fecegli diventare Cristiani, e diede loro Normandia, come innanzi farà menzione. Ma poi questo Carlo divenne sì malato, ch'era perduto del corpo e della mente, onde per necessità fu disposto dello 'mperio e del reame, e per gli baroni dello 'mperio fu eletto uno Arnolfo imperadore, come innanzi nella storia degli 'mperadori farà menzione; ma non fu de·legnaggio di Carlo, né poi non ne fu niuno imperadore francesco. I baroni di Francia, disposto Carlo il Grosso, di concordia feciono re di Francia Ugo, overo Oddo, figliuolo Ruberto conte d'Angieri, e regnò VIIII anni, e fu buono uomo e dolce, e nudrì onorevolmente Carlo il Grosso ch'era malato e disposto. Ma essendo il detto Oddo in Guascogna, i baroni di Francia fecioro re Carlo il Semplice figliuolo adpostumo che fu di Luis il Balbo della diritta schiatta reale; onde sappiendo ciò Oddo, crucciato venne di Guascogna in Francia, e fece grande guerra per V anni, e poi si morì. Questo Carlo il Semplice regnò re XXVII anni; ma essendo lui re, parte de' baroni di Francia feciono re Ruberto fratello del sopradetto Oddo d'Angieri, e ebbono grande guerra ne·reame; a la fine il detto Ruberto fu sconfitto e morto da Carlo. Ma poi il detto Carlo il Semplice fu preso da Ruberto conte di Vermandos, ch'era de·legnaggio di Ruberto ch'era stato re, e in pregione il tenne a Perona tanto che morì. Ma lui preso, la moglie di Carlo, ch'era serocchia del re d'Inghilterra, se n'andò al fratello con uno suo figliuolo ch'ebbe nome Luis. Poi gli baroni di Francia feciono loro re Ridolfo figliuolo del duca di Borgogna, e regnò due anni; ma lui morto, i baroni mandarono inn-Inghilterra per lo giovane Luis figliuolo di Carlo il Semplice e feciollo re di Francia. Questo Luis regnò in Francia XXVII anni. Questi ebbe per moglie la serocchia del primo Otto della Magna imperadore, e ebbene due figliuoli, Lottieri e Carlo il Grande; poi negli anni VIIIIcXLVII fu il detto Luis preso nella città di Leone sopra Rodano da Ugo il Grande suo nimico. Ma ciò sappiendo Otto imperadore, venne in Francia con innumerabile oste, e prese la città di Leone, e trasse di pregione il re Luis suo cognato, e poi puose l'assedio alla città di Parigi, ove era il detto Ugo il Grande, e rendési egli e la città a la mercé del detto Otto, e paceficò insieme con Luis re, e rimase Luis in sua signoria. Ma lui morto, fu fatto re di Francia Lottieri suo figliuolo, il quale regnò XXXI anno, e ebbe guerra co' Fiaminghi, e vinsegli, e prese il ducato del Loreno ch'era dello 'mperio, onde Otto secondo imperadore suo cugino ebbe guerra co·llui, e corse il reame di Francia. A la fine fecioro pace, e lasciò a lo 'mperio il Loreno. Poi morto Lottieri, fu fatto re Luis suo figliuolo, ma non vivette che uno anno, e rimase sanza reda; e gli baroni di Francia feciono loro re Ugo Ciappetta duca d'Orliens gli anni di Cristo VIIIIcLXXXXVIII. Allora fallì la signoria della schiatta di Pipino e di Carlo Magno. Bene rimase in vita, regnando Ugo Ciappetta, Carlo il Grande fratello che fu di Lottieri e zio dell'ultimo Luis, il quale fece gran guerra a Ugo Ciappetta; ma alla fine fu il detto Carlo sconfitto e morto, e rimase il reame paceficamente a Ugo e a sue rede: e regnò i·legnaggio di Pipino re di Francia anni CCXXXVI. Avendo detto brievemente il corso e signoria de' successori e discendenti di Carlo Magno i quali apresso lui furono re di Francia, e tali imperadori di Roma, infino che fallì il loro lignaggio, sì·nn'è di nicessità di dire ancora di quello ch'adoperaro gl'imperadori franceschi, però che si mischia molto alla nostra materia per le novità della nostra provincia d'Italia e della Chiesa di Roma che furo a·lloro tempi; e però torneremo adietro, come Carlo Magno re di Francia fu fatto imperadore di Roma, e poi degli altri imperadori di suo legnaggio che furono appresso.
<B>XV</B>
<I>Come Carlo Magno re di Francia fu fatto imperadore di Roma.</I>
Carlo Magno tornato d'oltremare in Francia, come detto avemo, e avendosi sottoposto Alamagna, Italia, e Spagna, e Proenza, i malvagi Romani co' possenti Lombardi e Toscani si rubellaro dalla Chiesa, e in Roma presono papa Leone terzo che allora regnava, andando alla processione delle Letanie, e abacinarogli gli occhi, e tagliaro la lingua, e cacciarollo di Roma. E come piacque a·dDio per miracolo divino, e sì come innocente e santo, riebbe la vista degli occhi e la loquela del parlare, e andonne in Francia a Carlo Magno, pregandolo che venisse a Roma a rimettere la Chiesa in sua libertà; il quale Carlo, a richiesta del detto papa Leone, co·llui insieme venne a Roma, e rimise il papa e la Chiesa in suo stato e libertade, e fece grande vendetta di tutti i ribelli e nemici di santa Chiesa per tutta Italia. Per la qual cosa il detto Leone papa co' suoi cardinali e concilio generale, e con volontà de' Romani, per le virtudiose e sante operazioni fatte per lo detto Carlo Magno in istato di santa Chiesa e di tutta Cristianitade, per dicreto levaro lo 'mperio di Roma a' Greci, e elessero il detto Carlo Magno imperadore de' Romani, siccome dignissimo dello 'mperio; e per lo detto papa Leone fu consacrato e coronato in Roma gli anni di Cristo VIIIcI con grande solennità e onore il dì di Pasqua. Il quale Carlo bene aventurosamente imperiò anni XIIII e mesi uno e dì IIII, signoreggiando in tutto lo 'mperio del ponente, e le province dette di sopra, e eziandio lo 'mperadore di Gostantinopoli era a sua obbedienzia; e fece edificare tante badie quante lettere ha nell'abicì, cominciando il nome di ciascuna per la sua lettera. E coronato Luis suo figliuolo dello 'mperio e del reame di Francia, dando tutto suo tesoro a' poveri per Dio in questo modo, ch'egli lasciò il terzo di suo tesoro, il quale era infinito, a tutti i poveri di Cristianità mendicanti, e le due parti lasciò a dispensare a tutti i suoi arcivescovi di suo Imperio e di suo reame, acciò che·lli partissono intra gli loro vescovi, e a tutte chiese, monisteri, e spedali. E questi sono i nomi degli arcivescovadi e vescovi principali cui fece suoi esecutori: quello di Roma, ciò fu il papa, l'arcivescovo di Ravenna, e quello di Melano, e 'l patriarca d'Aquilea, e quello di Grado, e 'l vescovo di Firenze, in Italia; in Alamagna, a l'arcivescovo di Cologna, a quello di Maganza, a quello di Trievi; a quello di Legge, a quello di Senso, a quello di Bisenzona, a quello di Leone, a quello di Vienna in Borgogna; a quello di Ruem, a quello di Rens, a quello del Torso, a quello di Burgi, in Francia; a quello di Garent, a quello di Riens, in Navarra; a quello di Bordello, in Guascogna; e questo troviamo per le sue croniche. E ciò fatto, santamente rendé l'anima a Cristo nella terra d'Aquisgran in Alamagna, e là fu soppellito a grande reverenza, cioè ad Asia la Cappella. Ciò fu gli anni di Cristo VIIIcXIIII, e vivette LXXII anni; e molti segni appariro innanzi a sua morte, come raccontano le sue croniche de' fatti di Francia. Questo Carlo acrebbe molto la Chiesa santa e la Cristianità a lungi e apresso, e fu uomo di grande virtù.
<B>XVI</B>
<I>Come apresso Carlo Magno fu imperadore Lodovico suo figliuolo.</I>
Dopo la morte di Carlo Magno succedette allo 'mperio di Roma il re di Francia Lodovico suo figliuolo anni XXV. Questo Lodovico ebbe in prima grande guerra con due suoi fratelli, ciò furo Carlo e Pipino; e l'uno gli rubellò la Magna, e l'altro Spagna; e poi le rivinse loro per forza, e finirono male. Ebbe il detto Luis tre figliuoli: il primo Lottieri, e fecelo signore in Italia e luogotenente dello 'mperio; il secondo ch'ebbe nome Pipino fece re d'Equitania; il terzo, detto Luis, fece re di Baviera d'Alamagna; e dicesi che quegli della casa di Baviera sono stratti di quello lignaggio. Poi ebbe Luis d'un'altra moglie uno figliuolo ch'ebbe nome Carlo il Calvo, e fu poi re di Francia XXXIIII anni, e a la fine fu imperadore due anni, morto Lottieri imperadore suo fratello. Poi tutti gli detti figliuoli di Luis col loro padre distrussono Brettagna. Poi nacque disensione grande tra·llui e' figliuoli, i quali si rubellaro da Luis, e allegaronsi col papa, il quale papa Ghirigoro quarto colli suoi cardinali il dispuosono dello 'mperio per certe false accuse fatte contra lui, e rendési monaco in San Marco in Sansona; il quale papa quello anno medesimo trovando il vero, si ripenté e rimiselo in sua dignità, e' figliuoli medesimi si riconobbono, e tornaro a la sua obbidenzia.
<B>XVII</B>
<I>Come i Saracini di Barberia passarono in Italia e furono isconfitti e tutti morti.</I>
Al tempo di questo Luis, overo Lodovico, re di Francia e imperadore, e di Grigorio papa, per alquanti grandi uomini di Roma e scellerati e fuori d'ogni fede, per loro tirannia vollono guastare lo 'mperio, con giura e ordine di certi grandi Toscani: mandarono al soldano de' Saracini che venisse a Roma e possedesse Italia; i quali Saracini passarono con grande navilio in Italia, e fu sì grande moltitudine che copria la terra come i grilli, e corsoro e guastaro Cicilia e Puglia, e assediaro Roma e presono la parte della città Leonina ov'è la chiesa di San Piero, e di quella feciono stalla di cavagli, e disfeciono la chiesa di San Piero e di San Paolo, e più altre di fuori di Roma, e poi tutta Toscana guastaro. Il detto papa Gregorio mandò per soccorso in Francia a Lodovico imperadore, e in Lombardia al marchese di Monferrato; il quale Guido marchese co' Lombardi prima venne, e poi Lodovico co' Franceschi; e dopo molte battaglie e spargimento di sangue i Saracini cacciarono d'Italia, e andandone in Africa, in alto mare per la tempesta tutti annegaro; e ciò fu negli anni di Cristo VIIIcXXXV.
<B>XVIII</B>
<I>Ancora come i Saracini passarono in Calavra e' Normandi in Francia.</I>
Dopo il detto Lodovico imperiò Lottieri anni X. Questo Lottieri simigliante ebbe guerra co' fratelli per volere il reame di Francia che tenea Carlo il Calvo, e combatté co·lloro, e fu sconfitto in Alzurro; per la qual cosa lo 'mperio molto abassò, che i possenti Lombardi e Italiani no·llo ubbidieno, ma si recarono a tiranno, e signoreggiavano chi più potea. E per questa cagione i Saracini anche a richiesta de' tiranni passarono in Italia, in Puglia, e in Calavra; e' Normandi, ciò furono Noverchi di Norvea, per mare passaro in Gallia, e distrussono quasi tutta Francia; e ciò fu negli anni di Cristo VIIIcXLVII, onde lo 'mperio di Roma e 'l reame di Francia molto abassò. Per la qual cosa Lottieri per dolore lo 'mperio e parte de·reame che tenea dal fiume de lo Scalto a·Reno lasciò al figliuolo, e fecesi monaco e religioso di santa vita. A costui tempo Leone papa quarto rifece la chiesa di San Piero e di San Paolo, e tutte le chiese di Roma disfatte da' Saracini, e fece le mura della città detta Leonina intorno a San Piero, e per suo nome così fu chiamata.
<B>XIX</B>
<I>Come e in cui fallì lo 'mperio e reame di Francia alla progenia di Pipino.</I>
Dopo Lottieri imperiò Luis secondo suo figliuolo XXI anno. Questi ebbe molte battaglie co' Romani e co' Toscani, perché nonn-ubbidieno lo 'mperio; e al suo tempo il reame di Francia ebbe molte aversità da' Normandi. Dopo costui fu imperadore Carlo secondo figliuolo di Luis primo, detto Carlo Calvo. Questi venne a Roma, e per podere di sua moneta che spese a' possenti Romani e a papa Giovanni ottavo si fece coronare imperadore, e non regnò che XXI mese; e in questo tempo Luis di Baviera suo fratello gli fece guerra, e gli occupò parte dello 'mperio a' confini di Francia. Questo Carlo rifece tutte le chiese disfatte da' Saracini in Italia, e cacciogli di Cicilia; e tornando Carlo Calvo la seconda volta da Roma, fu da uno medico giudeo avelenato, e morì a Vercelli in Lombardia, e 'l suo corpo da' suoi fu portato in Francia a Santo Dionisio. E dopo il detto Carlo il Calvo succedette a·llui Carlo il terzo, il quale fu chiamato Carlo il Grosso, e imperiò anni XII, e degli ultimi XII anni gli V anni fu imperadore e re di Francia, però ch'era morto Luis il Semplice suo zio re di Francia a figliuoli sanza reda. Ma al fine il detto Carlo il Grosso amalòe, per modo che quasi era perduto, sì che per nicessità da' baroni fu disposto dello imperio e del reame. Al tempo di costui i Normandi e quegli di Danesmarce distrussero e guastaro gran parte di Francia e d'Alamagna, per la qual cosa il detto Carlo il Grosso, innanzi che fosse perduto de la malatia, andò contra le dette genti con tutto suo isforzo infino in Alamagna. I Normandi veggendo la potenzia dello 'mperadore, si pacificaro co·llui, e il loro re tolse per moglie la sua cugina figliuola che fu di Luis il Semplice re di Francia, e per mano del detto Carlo si fece battezzare Cristiano, e tutte sue genti per lui si feciono Cristiani; e non volendo tornare in loro paesi, sì diede loro il detto Carlo ad abitare la contrada e paese che allora si chiamava Laida Serna, la quale per loro nome e poi sempre fu chiamata Normandia, e ciò fu negli anni di Cristo VIIIcLXXXX; e il primo duca de' Normandi ebbe nome Ruberto, del cui lignaggio discesono valenti signori, come innanzi faremo menzione.
<B>XX</B>
<I>Di quello medesimo, e come regnaro appresso i·lignaggio d'Ugo Ciappetta.</I>
Appresso che fu disposto dello 'mperio, come detto avemo, Carlo il Grosso, i baroni elessero imperadore Arnolfo, overo Arnoldo, uno barone di Francia, ma non fu del lignaggio di Carlo il Magno. Questi regnò XII anni, ma poco si travagliò de' fatti d'Italia, se non in tanto che per sua forza fece fare papa Sergio il terzo, il quale fece nella Chiesa molte grandi mutazioni contra i suoi anticessori, come la cronica martiniana fa menzione. Questo Arnolfo combatté in Maganza con Danesmarce e Normandi, e vinsegli e cacciogli, che XL anni Alamagna e Francia aveano soggiogata. Questi a la fine per malizia divenne perduto, e lo 'mperio de' Romani ch'era appo' Franceschi al suo tempo fallì e venne meno, gli anni di Cristo VIIIIcI. E non solamente fallì lo 'mperio a' Franceschi, ma eziandio la signoria d'Alamagna al suo figliuolo e successore gli anni di Cristo VIIIIcX, che Currado primo tedesco ne fu fatto re, e fallì a' Franceschi la signoria di Spagna, e di Navarra, e Proenza, e non passò anni LXXX ch'al tutto fallì i·legnaggio di Carlo Magno, che non furono re di Francia dal tempo di Ugo Ciappetta duca d'Orliens, come adietro facemmo menzione, gli anni di Cristo VIIIIc e così mostra che VII fossero gl'imperadori franceschi, che vi furono de·legnaggio del buono Pipino. Durò lo 'mperio apo' Franceschi discendenti di Carlo Magno per C anni, e per loro discordie finìo in loro lo 'mperio, e ritornò agl'Italiani; però che nonn-atavano gli Romani dalle ingiurie de' Lombardi e de' Toscani, né 'l papa, né·lla Chiesa da' tiranni che·lla perseguieno; e dove i loro anticessori aveano fatto le chiese e dotate riccamente, per loro erano distrutte e rubate. Avemo detto sì lungamente dello imperio e de' re de' Franceschi, lasciando nostra materia de' fatti di Firenze, per continuare le novitadi e persecuzioni ch'a·lloro tempi ebbono gli Romani e quasi tutta Italia da' Saracini, e dalle discordie de' Lombardi ch'ebbono colla Chiesa; per la qual cosa la città di Firenze, di poco tempo rifatta, per le dette aversitadi poco acrebbe o venne in istato. Lasceremo le storie de' Franceschi e torneremo a nostra materia adietro, per contare come la città di Firenze fu rifatta e ristorata al tempo del buono Carlo Magno; ma prima diremo di suo averso stato innanzi ch'ella fosse rifatta.
<B>XXI</B>
<I>Come la città di Firenze istette guasta e disfatta CCCL anni.</I>
Dopo la distruzione della città di Firenze fatta per Totile <I>Flagellum Dei</I>, come adietro è fatta menzione, stette così disfatta e diserta intorno di CCCL anni per lo male stato di Roma e dello 'mperio, il quale prima da' Gotti e Vandoli, e poi da' Longobardi e Greci e Saracini e Ungari fue perseguitato e abassato, come adietro è fatta menzione. Ben v'avea ov'era stata Firenze alcuno borgo e abitanti intorno al Duomo di Santo Giovanni, per cagione che' Fiesolani vi faceano mercato un dì della settimana, e chiamavavi Campo Marti per l'antico nome, però che prima sempre da' Fiesolani era loro mercato, e così chiamato anzi che Firenze si facesse. Avenne per più volte, infra 'l detto tempo che la città era guasta e disfatta, che que' cotanti abitanti de' borghi e del mercato, coll'aiuto di certi nobili del contado che anticamente erano stati stratti de' Fiorentini primi cittadini, e di quegli di villaggi intorno, vollero più volte richiudere de' fossi e di steccati alcuna parte della città intorno al Duomo; ma per quegli della città di Fiesole, e col loro aiuto i conti da Mangone, e di Montecarelli, e da Certaldo, e di Capraia, ch'erano tutti d'uno lignaggio co' conti da Santa Fiore stratti di Lungobardi, si mettevano a riparo e contasto, e non lasciavano rifare; ma quello che·ssi facea, per forza, vegnendo armati e possenti, il faceano abattere e disfare, sicché per questa cagione, per l'aversitadi ch'aveano i Romani, siccome adietro è fatta menzione, e perché i Fiesolani sempre si tennono co' Gotti, e poi co' Longobardi, e con tutti i ribelli e nemici dello 'mperio di Roma e di santa Chiesa, e erano per la loro forza sì possenti e grandi che non n'aveano contasto da niuno loro vicino, non sofferieno che·lla città di Firenze si rifacesse; e per questo modo stette lungo tempo, infino che Dio puose fine all'aversità della città di Firenze, e recolla a salute della sua reparazione, come per noi si tratterà nel seguente capitolo, e quarto libro.
<B>LIBRO QUARTO</B>
<B>I</B>
<I>Qui comincia i·quarto libro: come la città di Firenze fu redificata colla potenzia di Carlo Magno e de' Romani tornando alquanto adietro.</I>
Avenne, come piacque a·dDio, che al tempo del buono Carlo Magno imperadore di Roma e re di Francia, di cui adietro avemo fatta lunga memoria, dapoi ch'ebbe abbattuta la tirannica superbia de' Longobardi, e de' Saracini, e degl'infedeli di santa Chiesa, e messa Roma e lo 'mperio in buono stato e in sua libertà, siccome adietro è fatta menzione, certi gentili e nobili del contado di Firenze, che si diceano che caporali furono i filii Giovanni, e' filii Guineldi, e' filii Ridolfi, stratti degli antichi nobili cittadini della prima Firenze, si congregarono insieme con quegli cotanti abitanti del luogo ove fu Firenze, ed altri loro seguaci abitanti nel contado di Firenze, e ordinaro di mandare a Roma ambasciadori de' migliori di loro a Carlo imperadore, e a papa Leone, e a' Romani, e così fu fatto; pregandogli che si dovessono ricordare della loro figliuola la città di Firenze, la quale fu guasta e distrutta da' Gotti e Vandali in dispetto de' Romani, a ciò ch'ella si rifacesse, e che a·lloro piacesse di dare forza di gente d'arme a riparare i Fiesolani e loro seguaci nemici de' Romani, che·lla città di Firenze non lasciavano redificare. I quali ambasciadori da Carlo imperadore, e dal papa, e da' Romani onorevolemente furono ricevuti, e la loro petizione accettata benignamente e volentieri; e incontanente lo 'mperadore Carlo Magno vi mandòe le sue forze di gente d'arme a cavallo e a piede in grande quantità; e' Romani feciono dicreto e ordine che come i loro anticessori aveano fatta e popolata prima la città di Firenze, così v'andassero a redificare e abitare delle migliori schiatte di Roma, e di nobili e di popolo, e così fue fatto. Con quell'oste dello 'mperadore Carlo Magno e de' Romani vi vennono quanti maestri avea in Roma, per più tosto murarla e afforzarla; e dietro a·lloro gli seguì molta gente; e tutti i contadini di Firenze, e de' fuggiti cittadini di quella d'ogni parte, sentendo la novella, si raunaro coll'oste de' Romani e dello imperadore per redificare la città; e giunti ov'è oggi la nostra città, in su l'anticaglia e calcinacci disfatti s'acamparono con trabacche e padiglioni. I Fiesolani e' loro seguaci veggendo l'oste dello 'mperadore e de' Romani sì grande e possente, non s'ardiro a combattere co·lloro, ma tegnendosi a la fortezza della loro città di Fiesole e a·lloro castella d'intorno, davano quanto sturbo poteano alla detta redificazione. Ma il loro podere fu niente apo la forza de' Romani, e dell'oste dello imperadore, e de' raunati discendenti de' Fiorentini; e così cominciaro a rifare la città di Firenze, non però della grandezza ch'era stata in prima, ma di minore sito, come apresso farà menzione, acciò che più tosto fosse murata e afforzata, e fosse riparo come battifolle della città di Fiesole; e ciò fu negli anni di Cristo VIIIcI a l'entrata del mese d'aprile. E dicesi che gli antichi aveano oppinione che di rifarla non s'ebbe podere, se prima non fu ritrovata e tratta d'Arno la imagine di marmo consecrata per gli primi edificatori pagani per nigromanzia a Marte, la quale era stata nel fiume d'Arno dalla distruzione di Firenze enfino a quello tempo; e ritrovata, la puosero in su uno piliere in su la riva del detto fiume, ov'è oggi il capo del ponte Vecchio. Questo nonn-affermiamo, né crediamo, però che·cci pare oppinione di pagani e d'aguri, e non di ragione, ma grande simplicità, ch'una sì fatta pietra potesse ciò adoperare; ma volgarmente si dicea per gli antichi che mutandola convenia che·lla città avesse grande mutazione. E dissesi ancora per gli antichi che' Romani per consiglio de' savi astrolagi, al cominciamento che rifondaron Firenze, presono l'ascendente di tre gradi del segno dell'Ariete, termine di Giovi e faccia di [...], essendo il sole nel grado della sua esaltazione, e la pianeta di Mercurio congiunta a grado col sole, e la pianeta di Marti in buono aspetto dell'ascendente, acciò che·lla città multiplicasse per potenzia d'arme, e di cavalleria, e di popolo sollecito e procaccianti in arti, e in mercatantie e in ricchezze, e germinasse d'assai figliuoli e grande popolo. E in quegli tempi, secondo che·ssi dice, gli antichi Romani, e tutti i Toscani, e gl'Italici, tutto fossero Cristiani battezzati, ancora teneano certe orlique a costume di pagani, e seguieno i loro cominciamenti secondo la costellazione; con tutto che questo non s'afermi per noi, però che costellazione nonn-è di nicessità, né può costrignere il libero albitrio degli uomini né 'l giudicio d'Iddio, ma secondo i meriti e peccati de' popoli. In alcuna operazione pare che·ssi dimostra la 'nfruenza della costellazione detta, che·lla città di Firenze è sempre in grandi mutazioni e dissimulazioni e in guerra, e talora in vittoria, e talora il contrario, e sono i cittadini di quella frequentati in mercatantie e in arti. Ma la nostra oppinione è che·lle discordie e mutazioni de' Fiorentini sieno come dicemmo al cominciamento di questo trattato: la nostra città fue popolata da due diversi popoli in ogni costume, siccome furono i nobili, e crudi, e aspri Romani e Fiesolani; per la qual cosa nonn-è maraviglia se la nostra città è sempre in guerra, e mutazioni, e disensioni, e disimulazioni.
<B>II</B>
<I>Della forma e grandezza che fu redificata la città di Firenze.</I>
La città nuova di Firenze si cominciò a deficare per gli Romani, come detto è di sopra, di piccolo sito e giro, figurandola al modo di Roma, secondo la picciola impresa; e cominciossi dalla parte di levante a la porta di San Piero, la quale fu ove furono le case di messere Bellincione Berti di Ravignani, nobile e possente cittadino, tutto ch'oggi sieno venuti meno, onde per retaggio della contessa Gualdrada sua figliuola, e moglie del primo conte Guido, rimasono a conti Guidi suoi discendenti, quando si feciono cittadini di Firenze, e poi le venderono a' Cerchi neri, uno casato di Firenze; e da la detta porta fu uno borgo infino a San Piero Maggiore, al modo di Roma, e da quella porta seguirono le mura in verso il Duomo, come tiene oggi la grande ruga che va a San Giovanni infino al vescovado; e ivi avea un'altra porta che·ssi chiamava porta del Duomo, e chi·lla chiamò porta del vescovo; e di fuori di quella porta fue edificata la chiesa di Santo Lorenzo, al modo ch'è in Roma San Lorenzo fuor le mura; e dentro a quella porta è San Giovanni, siccome in Roma San Giovanni Laterano. E poi conseguendo come a Roma, da quella parte [fecero] Santa Maria Maggiore; e poi da Sa·Michele Berteldi infino alla terza porta di San Brancazio, ove sono oggi le case de' Tornaquinci; e Santo Brancazio era fuori della città, e apresso San Paolo, a modo di Roma, da l'altro lato della città incontro a San Piero, come in Roma. E poi dalla detta porta di San Brancazio conseguendo ov'è oggi la chiesa di Santa Trinita ch'era fuori delle mura, e ivi presso ebbe una postierla chiamata Porta Rossa, che ancora a' nostri tempi la ruga ha ritenuto il nome. E poi si volgieno le mura ove sono oggi le case degli Scali per la via di Terma infino in porte Sante Marie, passato alquanto Mercato Nuovo, e quella era la quarta mastra porta, la quale era allo incontro delle case che sono oggi degl'Infangati dall'una parte, e di sopra alla detta porta era la chiesa di Santa Maria chiamata Sopra porta, che poi quando si disfece la detta porta, cresciuta la città, si trasmutò la detta chiesa dov'è oggi. E 'l borgo di Santo Apostolo era di fuori della città, e così Santo Stefano, al modo di Roma; e di là da Santo Stefano, in sulla fine della ruga mastra di porta Santa Maria, fecero e edeficarono uno ponte con pile di macigni fondato in Arno, che poi fu chiamato il ponte Vecchio, e è ancora; e fu assai più stretto che nonn-è ora, e fu il primo ponte che si facesse in Firenze. E dalla porta di Santa Maria seguieno le mura infino al castello Altrafonte, ch'era in sul corno della città sopra il fiume d'Arno, seguendo poi dietro a la chiesa di San Piero Scheraggio, che così si chiamava per uno fossato, overo fogna, che ricoglieva quasi tutta l'acqua piovana della città ch'andava in Arno, che·ssi chiamava lo Scheraggio.
E dietro alla chiesa di San Piero Scheraggio avea una postierla che·ssi chiamava porta Peruzza, e di là seguivano le mura per la grande ruga infino alla via del Garbo, e ivi avea un'altra postierla; e poi dietro alla Badia di Firenze ritornavano le mura a la porta San Piero. E di così piccolo sito si rifece la nuova Firenze con buone mura e spesse torri, con quattro porte mastre; ciò sono dette porta San Piero, porta del Duomo, porta San Brancazio, e porta Santa Maria, le quali erano quasi inn-una croce; e in mezzo della città era Santo Andrea, al modo com'è in Roma, e Santa Maria in Campidoglio; e quello ch'è oggi Mercato Vecchio era il mercato di Campidoglio, al modo di Roma. E la città era partita in quartieri, ciò sono le dette quattro porte; ma poi quando si crebbe la città, si recòe a sei sesti, siccome numero perfetto, che s'agiunse il sesto d'Oltrarno dapoi che s'abitò; e disfatta la porta di Santa Maria, si levò il nome, e si divise come vae la mastra strada; e dall'una parte si fece il sesto di San Piero Scheraggio, e dall'altra parte quello di Borgo; ed alle tre prime parti rimase il nome di sesti, siccome hanno infino a' nostri tempi. E feciono capo il sesto d'Oltrarno, acciò che andasse in oste colla 'nsegna del ponte, e poi San Piero Scheraggio colla 'nsegna del carroccio, il quale carroccio di marmi fu recato da Fiesole, ed è nella fronte della detta chiesa di San Piero; e poi Borgo colla insegna del becco, imperciò che in quello sesto stavano tutti i beccari e di loro mestiere, e erano a que' tempi molto innanzi nella città; San Brancazio appresso colla insegna della branca di leone, per lo nome; e porta del Duomo apresso colla insegna del Duomo; e porta San Piero da sezzo colla insegna delle chiavi. E dove fu de' primi sesti abitati in Firenze, fu messo a l'andare dell'oste a la dietroguardia imperciò che in quello sesto sempre aveva la migliore cavalleria e gente d'arme della città anticamente.
<B>III</B>
Come Carlo Magno venne in Firenze e brivileggiolla, e fece fare Santo Appostolo.
Rifatta la nuova città di Firenze nel piccolo spazio e forma, e nel tempo che detto è adietro, i capitani che v'erano per lo 'mperadore e per lo Comune di Roma l'ordinaro di popolare di gente, e come anticamente alla prima edificazione di Firenze, l'ordine fu fatto a Roma, che delle migliori schiatte de' Romani nobili e popolari vi dovessero rimanere per cittadini in Firenze, così fu fatto alla seconda reparazione, e fu dato a ciascuno ricca posessione. E troviamo per le croniche di Francia che poi che·lla città di Firenze fu rifatta per lo modo che detto è, Carlo Magno imperadore e re di Francia, partitosi di Roma e tornandosi oltramonti, soggiornò in Firenze, e fece e tenne gran festa e solennità il dì della Pasqua della Resurressione, gli anni di Cristo VIIIcV, e fece in Firenze assai cavalieri, e fece fondare la chiesa di Santo Appostolo in Borgo, e quella dotò riccamente a onore di Dio e di santi appostoli; e alla sua partita di Firenze brivileggiò la città, e fece franco e libero il Comune e' cittadini di Firenze, e tre miglia d'intorno, sanza pagare niuna taglia o spesa, salvo danari XXVI per focolare ciascuno anno. E per simile modo fece franchi tutti i cittadini d'intorno che dentro volessero tornare ad abitare, e' forestieri; per la qual cosa molti vi tornaro ad abitare; e in piccolo tempo per lo buono sito e agiato luogo, per lo fiume, e per lo piano, la detta piccola Firenze fu bene popolata e forte di mura e di fossi pieni d'acqua. E ordinaro che·lla detta città si reggesse e governasse al modo di Roma, cioè per due consoli e per lo consiglio di cento sanatori; e così si resse gran tempo, come apresso farà menzione. Bene ebbono lungo tempo i detti cittadini di Firenze molto affanno e guerra, sì per gli Fiesolani, ch'erano loro così di presso nemici, e sempre s'adastiavano, e erano in continua guerra insieme, e apresso per la venuta che' Saracini feciono in Italia al tempo degl'imperadori franceschi, come adietro è fatta menzione, che molto aflissono il paese, e poi per le diverse mutazioni ch'ebbe Roma e tutta Italia, sì per le discordie de' papi, e sì degl'imperadori italiani, i quali furono in continua guerra colla Chiesa. Per la qual cosa il nome della città di Firenze e la sua forza stette per ispazio di CC anni sanza potersi dilatare o crescere, stando ne' suoi piccoli termini. Ma con tutta la guerra e fatica, sempre multiplicava in popolo e in forza, e poco curavano la guerra de' Fiesolani, od altra aversitade di Toscana; che con tutto che·lla sua forza e signoria si stendesse poco di fuori della città, però che 'l contado era tutto incastellato e occupato da nobili e possenti che non obbedieno la città, e tali erano colla città di Fiesole, pure la città dentro era unita de' cittadini, e era forte di sito e di mura e di fossi pieni d'acqua, e dentro a la detta piccola città ebbe in poco tempo appresso più di CL torri di cittadini, d'altezza di CXX braccia l'una, sanza quelle della città; e per l'altezza delle molte torri ch'erano allora in Firenze si dice ch'ella si mostrava da lungi e di fuori la più bella e rigogliosa città del suo piccolo sito che si trovasse; e in questo spazio di tempo fu molto bene abitata, e piena di palagi e di casamenti e grande popolo, secondo il tempo d'allora. Lasceremo ora alquanto de' fatti di Firenze, e brievemente racconteremo gl'imperadori italiani che regnarono in que' tempi, apresso la vacazione de' Franceschi, che·cc'è di nicessità, imperciò che per la loro signoria molte mutazioni ebbe in Italia, tornando poi a nostra materia.
<B>IV</B>
Come e perché lo 'mperio di Roma tornò agl'Italiani.
Come noi avemo detto dinanzi, lo 'mperio di Roma durò alla signoria de' Franceschi intorno di C anni, nel quale tempo ebbe VII imperadori franceschi da Carlo Magno infino ad Arnolfo, che fu la fine de' Franceschi; e per cagione delle loro discordie venne meno la loro potenzia, e di Francia e d'Alamagna, com'è fatta menzione. E perché non poteano aiutare la Chiesa e' Romani dalle ingiurie e forze de' possenti Lombardi, sì ordinaro per dicreto che·lla degnità dello 'mperio non fosse più de' Franceschi, ma tornasse agl'Italiani. E 'l primo imperadore italiano fu Luigi figliuolo del re di Puglia, nato per madre della figliuola di Luigi secondo imperadore che fu de' Romani e re di Francia, onde adietro è fatta menzione. Questi fu coronato negli anni di Cristo VIIIIcI, e regnò VI anni. Questo Luis ebbe battaglie con Berlinghieri che signoreggiava allora in Italia, e cacciollo di signoria; ma poi il detto Luis fu preso a Verona e fue accecato, e 'l detto Berlinghieri fu rimesso in signoria, e fatto imperadore in Italia, e regnò IIII anni, e molte battaglie ebbe co' Romani, e fu prode in arme. E al suo tempo fu il primo re de' Romani in Alamagna, apresso la signoria de' Franceschi, ch'ebbe nome Currado di Sasogna, sicché l'uno regnava in Italia, e l'altro in Alamagna. E in questo tempo i Saracini passaro in Italia, e guastaron Puglia e Calavra, e sparsonsi guastando per molte parti d'Italia infino a Roma; ma ivi da' Romani furono contastati e sconfitti, e tornarsi in Puglia. Dopo il detto Currado regnò in Alamagna Arrigo suo figliuolo duca di Sassogna, il quale fu padre del primo Otto, il primo imperadore d'Alamagna che signoreggiasse in Italia, e fosse per lo papa consagrato, siccome innanzi farà menzione. Dopo il primo Berlinghieri detto di sopra che fu imperadore italiano imperiò il secondo Berlinghieri suo figliuolo VIIII anni. In questo tempo papa Giovanni decimo di Tosigliano con Alberigo marchese suo fratello andaro in Puglia contro a' Saracini, e co·lloro ebbono battaglia al fiume del Gariliano, e bene aventurosamente gli sconfissono, e cacciaro di Puglia. Poi tornati a Roma, discordia nacque tra 'l papa e 'l detto marchese, onde il marchese fu cacciato di Roma, il quale per cruccio mandò suoi ambasciadori agli Ungari, e fecegli passare in Italia; i quali con grande multitudine venuti, quasi tutta Toscana e terra di Roma distrussono e guastarono, uccidendo maschi e femmine, e ogni tesoro portarono via; ma poi da' Romani furono cacciati, e ogni anno per vendetta per gli Romani s'andava in Ungheria a guerreggiargli. E appresso regnò Lottieri in Italia VII anni, e al suo tempo fu grande discordia e guerra in Italia, e la città di Genova fu presa e distrutta da' Saracini d'Africa negli anni di Cristo VIIIIcXXXII, e uccisono e presono gli uomini, e tutto il loro tesoro e cose ne portaro in Africa. E l'anno dinanzi che' Saracini passassero apparve in Genova una fontana che largamente gittò sangue, il quale fu segno de la loro futura distruzione. Apresso Lottieri regnò imperadore in Italia il terzo Berlmghieri con Alberto suo figliuolo XI anni. Questi furono Romani, e signoreggiaro aspramente Italia; e prese Alunda imperadrice, moglie che fu di Lottieri imperadore suo anticessore, e misela in pregione, acciò che non si maritasse a signore che gli togliesse lo 'mperio e la signoria per lo suo eretaggio.
<B>V</B>
<I>Come Otto primo di Sassogna passò in Italia a richesta della Chiesa, e abatté la signoria degl'imperadori italici.</I>
Ma Otto re d'Alamagna a richiesta del papa e della Chiesa, per le discordie del detto Berlinghieri, e de' Romani, e de' tiranni d'Italia, si mosse d'Alamagna passando in Italia con grande potenza, e cacciò dello 'mperio Berlinghieri, e trasse di pregione la detta imperadrice, e isposolla a moglie nella città di Pavia, la quale donna fue di grande bellezze; ma poi il detto Berlinghieri tornò nella grazia d'Otto e rendégli la signoria di Lombardia, salvo la Marca Trivigiana, e Verona, e Aquilea che ritenne a sé, e tornossi in Alamagna. E di là ebbe il detto Otto molte battaglie cogli Ungari e sconfissegli, e vinsegli e recò a sua signoria. Ma dimorando lui in Alamagna, poi il detto Alberto figliuolo di Berlinghieri per sua signoria e forza, col séguito de' nobili e possenti Romani, fece fare papa Ottaviano suo figliuolo, che fu nomato papa Giovanni duodecimo, il quale fu uomo di mala vita, tegnendo piuvicamente le femmine, e cacciava e uccellava come uomo laico, e più cose ree e furiose fece; per la qual cosa i cardinali e 'l chericato di Roma, e' prencipi d'Italia, per la vergogna che 'l detto papa Giovanni facea a santa Chiesa, e Berlinghieri dall'altra parte facea le ree opere in Lombardia, mandarono ambasciadori sagretamente per lo detto Otto re in Alamagna, che passasse ancora in Italia a correggere la Chiesa, e adirizzare lo 'mperio, che Berlinghieri e Alberto guastavano; il quale Otto con grande potenzia venne in Lombardia, e prese il detto Berlinghieri, e mandollo in pregione in Baviera, e quivi vilmente finì sua vita. E Alberto si fuggì d'Italia per paura d'Otto, e il suo figliuolo papa Giovanni fu disposto; e nel detto Berlinghieri e Alberto suo figliuolo finì lo 'mperio agl'Italici, il quale per VI imperadori era durato LIIII anni, poi che vacarono i Franceschi, e mai poi non fu nullo imperadore d'Italia; e tornò lo 'mperio agli Alamanni, come innanzi faremo menzione; e ciò fu negli anni di Cristo intorno di VIIIIcLV. In quello tempo che regnarono nello 'mperio i Franceschi, e poi gl'Italiani, apresso la morte del buono Carlo Magno, molte diverse mutazioni ebbe nella Chiesa, che talora furono due papi a un'ora, e talora tre; e cacciando l'uno l'altro, e faccendo morire, e talora accecare, per la forza ch'aveano l'uno più che·ll'altro, chi dallo 'mperadore che regnava, e chi da' possenti Romani e dagli altri tiranni d'Italia, onde grande tempo fu in tribolazione e in iscisma la Chiesa; e con questo molte guerre, disensioni e battaglie ebbe per tutta Italia in diversi tempi. Per la qual cosa lo stato e la signoria de' Romani venne ogni dì calando e diminuendo, onde la nostra città di Firenze, ch'era camera de' Romani e dello 'mperio, per le sopradette guerre e aflizzioni non potea spirare né mostrare sue forze in tutto il detto tempo, però che i Fiesolani nemici di loro così vicini sempre teneano cogl'imperadori e cogli altri signori e tiranni ch'erano ribegli e nimici della Chiesa e de' Romani; e' Fiesolani la città di Firenze continuo faceano guerreggiare e guerreggiavano, acciò che Firenze non potesse né crescere né sopramontare a·lloro. Ma come piacque a·dDio, con tutta la guerra de' Fiesolani, e degli altri imperadori, e ribelli de' Romani, la città di Firenze sempre cresceva a poco a poco e multiplicava, e Fiesole venia calando e diminuendo, e molta buona gente di Fiesole lasciaro l'abitare della città del poggio, e tornaro a l'agio del piano e del fiume ad abitare in Firenze, imparentandosi co' Fiorentini; e maggiormente quando cessò la signoria degli imperadori italiani e tornò agl'imperadori d'Alamagna, i quali erano fedeli e divoti di santa Chiesa, e abattero i tiranni di Toscana e di Lombardia; e in quegli tempi la città di Firenze crebbe e allargossi assai, e vinse per ingegno di guerra la città di Fiesole, e disfecela, come innanzi farà menzione. Lasceremo al presente a parlar di ciò, infino che tempo sarà, e cominceremo il quinto libro, come lo 'mperio di Roma tornò agli Alamanni, e quegli che regnaro per gli tempi, e quello che fecero, mischiandovi tuttora le storie e' fatti de' Fiorentini, come incorsono nella loro signoria, che ne fia di nicessità a volerle dirittamente ritrarre e raccontare.
<B>LIBRO QUINTO</B>
<B>I</B>
<I>Qui comincia il quinto libro: come la lezione dello 'mperio di Roma venne agli Alamanni, e come Otto primo di Sassogna fu consegrato imperadore.</I>
Regnando nel papato Giovanni duodecimo figliuolo d'Alberto imperadore, come adietro è fatta menzione, e guastando la Chiesa per le sue ree opere, fue per parte de' cardinali rimandato per Otto re d'Alamagna per levare il detto papa di signoria, e fare lui imperadore; per la qual cosa il detto papa, sappiendo ciò, a Giovanni suo diacano cardinale ch'avea ordinato ciò e trattato fece mozzare il naso, e a un altro Giovanni soddiacano ch'ave' scritto le lettere fece tagliare la mano. Per la qual cosa, e per le pessime opere di Berlinghieri e d'Alberto, faceano in Lombardia e in Toscana, Otto con tutta sua forza passò ancora in Italia, e abatté al tutto la signoria de' detti imperadori in Lombardia, come in parte fu detto dinanzi. E poi venne in Toscana, e da' Lucchesi e da' Fiorentini fu ricevuto onorevolemente, e soggiornò assai in Lucca, e alquanto in Firenze; poi se n'andò a Roma, e da' Romani fu ricevuto a grande gloria e triunfo; il quale giunto a Roma, fece disporre e cacciare del papato il detto Giovanni papa, il quale poi morì vilmente e in avolterio, e fece eleggere papa Leone ottavo, il quale per la malvagità de' Romani fece decreto che niuno papa fosse fatto sanza l'asentimento dello 'mperadore. E veggendo il papa e tutto il chericato che·lla Chiesa non si potea difendere, né avere sua libertà per la retà de' malvagi Romani e de' tiranni d'Italia che·ll'occupavano, sanza l'aiuto e forza degli Alamanni, e conoscendo la bontà e valore e potenzia del detto Otto re, per dignissimo fue per lo popolo di Roma e per la Chiesa eletto imperadore, e consegrato e coronato in Roma dal detto papa Leone a grande gloria, negli anni di Cristo VIIIIcLV, il quale fece molti doni a santa Chiesa. Questo Otto fu di Sassogna, e regnò imperadore XII anni, faccendo grandi e buone opere in esaltamento della Chiesa e dello 'mperio, e pacificò tutta Italia; e ciò fatto, si tornò in Alamagna colla sua moglie Alunda, della quale avea avuto uno figliuolo, ch'ebbe nome simigliante al padre Otto secondo. Ma tornato lui in Alamagna, per gli malvagi Romani fu disposto papa Leone, e feciono papa Benedetto V, della qual cosa, sappiendolo Otto, molto isdegnato e crucciato tornòe a Roma con sua forza, e assediolla; per la qual cosa i Romani per avere sua pace gli rendero preso il detto Benedetto papa, e rimise in sedia Leone, che prima era stato papa, e tornossi in Alamagna, e menonne il detto Benedetto, il quale morì vilmente. E dopo molte pietose e buone opere, e fatti ricchi monasterii, il detto Otto si morì in Alamagna. Questo Otto amendò molto tutta Italia, e mise in pace e buono stato, e abatté le forze de' tiranni; e al suo tempo assai de' suoi baroni rimasono signori in Toscana e in Lombardia. Intra gli altri fu il cominciamento de' conti Guidi, il quale il primo ebbe nome Guido, che 'l fece conte Palatino, e diedegli il contado di Modigliana in Romagna; e poi i suoi discendenti furono quasi signori di tutta Romagna, infino che furono cacciati di Ravenna, e tutti morti dal popolo di Ravenna per loro oltraggi, salvo uno picciolo fanciullo ch'ebbe nome Guido, sopranomato Sangue, per gli suoi che furono tutti in sangue morti; il quale poi per lo 'mperadore Otto quarto fu fatto signore in Casentino, e questi fu quegli che tolse per moglie in Firenze la contessa Gualdrada, figliuola che fu del buono messere Bellincione Berti de' Ravignani onorevole cittadino di Firenze. Ancora troviamo che 'l detto Otto primo soggiornava in Firenze quando andava e tornava a Roma, e mise amore e piacquegli la città, e perch'era stata sempre figliuola della città di Roma e fedele allo 'mperio, sì·lla favorò e brivileggiò, e dielle infino in sei miglia di contado. E quando tornò in Alamagna, de' suoi baroni vi rimasero e furono cittadini; e intra gli altri fu quegli ch'ebbe nome Uberto, onde si dice che nacque la casa e progenia degli Uberti, e per suo nome così fu nomata; e un altro barone ch'ebbe nome Lamberto, che si dice che discesono i Lamberti: questo però non affermiamo; e più altri di sua gente de' migliori baroni, e di quegli d'Otto secondo, rimasono in Toscana in signoria, onde poi sono stratti molti lignaggi in Firenze di gentili uomini, e molte terre d'Italia. Questo Otto primo brivileggiò i Lucchesi che potessero battere moneta d'oro e d'ariento, e però la loro moneta è improntata del suo nome. Dapoi che morì Otto primo fu fatto imperadore Otto secondo suo figliuolo, il quale regnò XV anni. Al tempo di questo Otto uno papa Giovanni tredecimo, che·ll'avea coronato, fue preso da Piero prefetto di Roma e messo in Castello Santo Angelo, e poi si fu cacciato in Campagna; ma il detto Otto il rimise in sedia, e molti Romani che di ciò ebbono colpa fece morire di mala morte, e molti ne mandò presi in Sassogna. Al tempo di costui i Saracini e' Greci presono Calavra, il quale andò loro incontro con grande oste di Romani, e Tedeschi, e Lombardi, e Pugliesi; ma per mala condotta, e perché i Romani e' Beneventani si fuggiro, fue sconfitto con grande danno de' Cristiani, e egli preso da' corsali greci; ma per ingegno e promesse si fece menare in Cicilia; essendovi arrivato co·lloro, essendo conosciuto, tutti gli fece morire di mala morte. E poi il detto Otto assediò Benivento, e prese la terra e guastolla per lo loro tradimento, e trassene il corpo di santo Bartolomeo appostolo, e recollo a Roma per portarlo in Sassogna; ma tornato a Roma morìo poco appresso, e nell'isola di Roma lasciò il detto corpo di santo Bartolomeo.
<B>II</B>
<I>Del terzo Otto imperadore, e del marchese Ugo che fece la Badia di Firenze.</I>
Dopo la morte del secondo Otto fue eletto imperadore Otto terzo suo figliuolo, e coronato per papa Gregorio quinto negli anni di Cristo VIIIIcLXXVIIII, e regnò questo Otto XXIIII anni. Poi che fue incoronato andòe in Puglia in pellegrinaggio al Monte Santo Angelo, e poi si tornò per la via di Francia in Alamagna, lasciando Italia in buono stato e pacefico. Ma lui tornato in Alamagna, Crescenzo consolo e signore di Roma cacciò il detto Gregorio del papato, e misevi uno Greco, ch'era vescovo di Piagenza, molto savio; ma sentendo ciò Otto imperadore, molto crucciato con sua forza tornò in Italia, e assediò in Roma il detto Crescenzo e 'l suo papa in Castello Santo Angelo, che là entro s'erano fuggiti; il quale per assedio ebbe il detto castello, e Crescenzo fece dicollare, e papa Giovanni XVI trarre gli occhi e tagliare le mani, e rimise in sedia il suo papa Gregorio che di nazione era suo parente; e lasciando Roma e Italia in buono stato, si tornò in suo paese in Alamagna, e di là morì bene aventurosamente. Col detto Otto terzo venne in Italia il marchese Ugo: credo che fosse marchese di Brandimborgo, però che in Alamagna nonn-ha altro marchesato. A costui piacque sì la stanza di Toscana, spezialmente de la nostra città di Firenze, ch'egli ci fece venire la moglie, e in Firenze fece suo dimoro, sì come vicario d'Otto imperadore. Avenne, come piacque a·dDio, ch'andando lui a una caccia nella contrada di Bonsollazzo, per lo bosco si smarrì da sua gente, e capitò, a la sua avisione, a una fabbrica dove s'usa di fare il ferro. Quivi trovando uomeni neri e sformati che in luogo di ferro parea che tormentassono con fuoco e con martella uomeni, domandò che ciò era. Fugli detto ch'erano anime dannate, e che a simile pena era condannata l'anima del marchese Ugo per la sua vita mondana, se non tornasse a penitenzia; il quale con grande paura si raccomandòe a la vergine Maria, e cessata la visione, rimase sì compunto di spirito, che tornato in Firenze, tutto suo patrimonio d'Alamagna fece vendere, e ordinò e fece fare sette badie: la prima fu la Badia di Firenze a onore di santa Maria; la seconda quella di Bonsollazzo, ove vide la visione; la terza fece fare ad Arezzo; la quarta a Poggibonizzi; la quinta alla Verruca di Pisa; la sesta a la Città di Castello; l'ultima fu quella di Settimo: e tutte queste badie dotò riccamente, e vivette poi colla moglie in santa vita, e nonn-ebbe nullo figliuolo, e morì nella città di Firenze il dì di santo Tommaso gli anni di Cristo MVI, e a grande onore fu soppellito alla Badia di Firenze. E vivendo il detto marchese Ugo, fece in Firenze molti cavalieri della schiatta de' Giandonati, de' Pulci, de' Nerli, de' conti da Gangalandi, e di quegli della Bella, i quali tutti per suo amore ritennero e portarono l'arme sua adogata rossa e bianca con diverse intransegne.
<B>III</B>
<I>De' VII prencipi d'Alamagna ch'hanno a eleggere lo 'mperadore.</I>
Morto Otto il terzo, per cagione che·llo 'mperio era andato per lignaggio in tre Otti, l'uno figliuolo dell'altro, si parve a Sergio papa quarto, e a' cardinali, e a' prencipi di Roma che·llo 'mperio fosse alla lezione degli Alamanni, imperciò ch'erano possenti genti, e grande braccio del Cristianesimo; ma che d'allora innanzi lo 'mperio andasse per elezione del più degno, confermandosi poi per la Chiesa, essendo aprovato degno: e furono per dicreto ordinati sette lettori dello 'mperio in Alamagna, e ch'altri non potesse degnamente essere eletto imperadore, se non per gli detti prencipi. Ciò furono l'arcivescovo di Maganza cancelliere d'Alamagna, l'arcivescovo di Trievi cancelliere in Gallia, l'arcivescovo di Cologna cancelliere in Italia, il marchese di Brandimborgo camerlingo, il duca di Sassogna che gli porta la spada, e 'l conte Palatino del Reno che oggi succede per retaggio al duca di Baviera, e servelo a tavola del primo messo, e 'l re di Boemme che 'l serve della coppa: e sanza lui consentire non vale la lezione. E fecesi dicreto che per cagione che gli Alamanni aveano tutta la lezione dello 'mperio d'Alamagna, non potesse essere papa o cardinale, per levare le disensioni del papato; ma non s'attenne. E imperò che, dapoi che·llo 'mperio venne al tutto agli Alamanni, sì seguiremo omai d'imperadore in imperadore, e simile de' papa, quanto regnò ciascuno, e brievemente le sue operazioni, imperciò che in questi tempi la nostra città di Firenze cominciò ad avere stato e potenzia per le revoluzioni de' detti imperadori; e per le disensioni che talora ebbono col papa e colla Chiesa, molte mutazioni e parti ebbe nella nostra città di Firenze, come innanzi per gli tempi faremo menzione ordinatamente. E ancora n'è di nicessità di fare memoria degli re di Francia e di Puglia, imperciò che molto si mischia la loro signoria alla nostra materia per le novità che seguiranno appresso; e però in brieve per lo primo capitolo ne faremo menzione.
<B>IV</B>
<I>Della progenia delli re di Francia che discesono d'Ugo Ciappetta.</I>
Ugo Ciappetta, come addietro facemmo menzione, fallito i·lignaggio di Carlo Magno, fu re di Francia nelli anni di Cristo VIIIIcLXXXVII. Questo Ugo fu duca d'Orliens (e per alcuno si scrive che fur sempre i suoi antichi e duchi e di grande lignaggio), figliuolo d'Ugo il Grande, e nato per madre della serocchia d'Otto primo della Magna; ma per gli più si dice che 'l padre fu uno grande e ricco borgese di Parigi stratto di nazione di bucceri, overo mercatante di bestie; ma per la sua grande ricchezza e potenzia, vacato il ducato d'Orliens, e rimasene una donna, sì l'ebbe per moglie, onde nacque il detto Ugo Ciappetta, il quale fu molto savio e possente, e reame di Francia tutto si governava per lui; e fallito i·legnaggio di Carlo Magno, come fatta è menzione, si fece fare re, e regnò XX anni. Questo Ugo Ciappetta e suo legnaggio sempre portarono il campo azzurro e fioredaliso d'oro, e truovasi che Carlo Magno portò mezza l'arme dello 'mperio, cioè il campo ad oro e l'aguglia nera, e l'altra metà fioridaliso; ma in San Donigi di Francia si trovarono insegne vecchie reali, il campo azzurro con ispronelle ad oro; non si sa se furono del legnaggio di Carlo, o de' primi re venuti di Siccambria. Apresso Ugo Ciappetta regnò Uberto suo figliuolo XII anni, e fu uno grande cherico inniscrittura, e molto cattolico e santo. Poi regnò Arrigo suo figliuolo XXX anni; e poi regnò Filippo suo figliuolo XLVIIII anni; poi regnò Luis il Grosso suo figliuolo XXXI anno; poi regnò Luis il Pietoso suo figliuolo XLIII anni, e fu col nome il fatto, pietoso e buono, e con tutte le virtù. Questi ebbe per moglie la contessa di Ciarte, la qual fu discesa de·legnaggio di Carlo Magno, imperò che fu nata della casa di Normandia, della qual donna ebbe uno figliuolo ch'ebbe nome Filippo il Bornio, il quale regnò XLIIII anni. Questo Filippo fu uomo di grande valore, e molto acrebbe il reame. Prima il conte di Fiandra, che·ll'avea levato a' fonti, co li più de' baroni di Francia si rubellò; il quale per suo senno e prodezza tutti gli ridusse a sua signoria, e per lo detto fallo tolse al conte di Fiandra Vermandosi e Piccardia. Questo Filippo andò al conquisto d'oltremare col re Riccardo d'Inghilterra, e vinse Acri in Soria; poi ebbe discordia col re Riccardo per moneta che gli avea prestata al passaggio, onde avea pegno la duchea di Normandia per CCm di libbre di parigini; e quando la venne a ricogliere, non volle il re di Francia altro che parigini piccioli, come dicea la carta; e non potendosi trovare al termine, si trasattò Normandia, e recolla a sua sugezzione, onde grande guerra fu poi tra·lloro, che 'l detto re Riccardo s'allegò contra il re Filippo con Ferrante conte di Fiandra, e con Otto quarto re de' Romani; il quale, in uno medesimo giorno, Filippo re combatté col detto Otto e Ferrante al ponte al Bovino in Fiandra, e sconfissegli, e prese Ferrante, e Otto si fuggì; e Luis figliuolo del detto re Filippo ebbe battaglie in Paito contro al re d'Inghilterra e altri baroni, e sconfissegli, e recò sotto la sua signoria Paito, Guascogna, Torena, e Angieri, e Chiermonte; alla fine lasciò grande tesoro per limosina alla terra d'oltremare, e morì negli anni di Cristo MCCXVI. Apresso Filippo il Bornio regnò il detto Luis suo figliuolo tre anni. Questo Luis ebbe quattro figliuoli della reina Biancia figliuola del re di Spagna: il primo fu il buono re santo Luis che succedette a·llui re di Francia; il secondo Ruberto il primo conte d'Artese; il terzo fu Alfarante che fu conte di Pittieri e di Lanzone; il quarto fu il buono Carlo conte d'Angiò e poi di Proenza, e poi per suo valore e prodezza fu re di Cicilia e di Puglia, come innanzi farà menzione la storia al trattato di Federigo imperadore e di Manfredi re suo figliuolo. Il detto santo re Luis regnò XLVIII anni, e sconfisse il re d'Inghilterra e 'l conte della Marcia, e andò oltremare a Damiata, e là preso alla Mensura con Carlo suo fratello, e morìvi il conte d'Artese, e ricomperarsi dal soldano grande tesoro; e poi fu al passaggio di Tunisi, e là morì santamente gli anni di Cristo MCCLXX. Dopo il re santo Luis regnò Filippo suo figliuolo XIIII anni, e questi fu quegli che fece il passaggio in Araona, e là morì. Questo re Filippo ebbe della figliuola del re d'Araona due figliuoli: il primo fu Filippo il Bello, il quale fu il più bello Cristiano che·ssi trovasse al suo tempo (questi regnò re in Francia XXVIII anni a' nostri tempi); l'altro fu Carlo di Valois, detto Carlo Sanzaterra, che assai mutazioni fece a la nostra città di Firenze, come innanzi al suo tempo farà menzione. Questo re Filippo il Bello ebbe tre figliuoli: il primo fu Luis re di Navarra per retaggio della madre; il secondo Filippo conte di Pittieri; il terzo Carlo conte della Marcia; e morto il padre negli anni di Cristo MCCCXV, furono tutti e tre re di Francia l'uno apresso l'altro in picciolo tempo. Avemo raccontato sì per ordine gli re di Francia e di Puglia discesi de·legnaggio d'Ugo Ciappetta, perché contando le nostre storie di Firenze, e dell'altre province e terre d'Italia, si possono meglio intendere. Lasceremo de' Franceschi, e torneremo a nostra materia degl'imperadori di Roma e de' fatti di Firenze.
<B>V</B>
<I>Come Arrigo primo fu fatto imperadore.</I>
Dapoi che fu morto il terzo Otto imperadore gli elettori della Magna si elessono nello 'mperio Arrigo primo duca di Baviera; e questi fu stratto del legnaggio di Carlo Magno, sì come adietro facemmo menzione, e ciò fu negli anni di Cristo MIII, e regnò XII anni e VI mesi bene aventurosamente in ogni battaglia contro a' suoi nemici in Alamagna, e in Buemmia, e in Italia, e fece tornare alla fede di Cristo Stefano re d'Ungheria e tutto suo reame, e dégli per moglie la serocchia. Questi fu il primo Arrigo imperadore, ma il secondo fu re della Magna; e però si scorda la cronica nel nomare gli Arrighi; ove dice IIII vuole dire III, così lo terzo secondo, quanto allo 'mperio. Questo Arrigo e la sua moglie, ch'ebbe nome santa Cunegonda, stettero e conservaro insieme virginitade, overo castitade, e molti miracoli feciono dopo la loro morte. Questo imperadore e la detta sua moglie stettero in Firenze, e feciono reedificare la chiesa di Santo Miniato, siccome adietro facemmo menzione. Lasceremo alquanto a raccontare gli 'mperadori, e torneremo a nostra materia de' fatti di Firenze, come ne' detti tempi, e con volontà del detto imperadore Arrigo, i Fiorentini presono e abbatterono la città di Fiesole, e crebbesi la città di Firenze.
<B>VI</B>
<I>Come al tempo del detto Arrigo i Fiorentini presono la città di Fiesole, e feciolla disfare.</I>
Ne' detti tempi, regnando imperadore Arrigo primo, quegli della città di Firenze erano molto cresciuti di gente e di podere secondo il loro piccolo sito, e massimamente per lo favore e aiuto d'Otto primo imperadore, e del secondo e terzo Otto suo figliuolo e nipote, che sempre favoreggiarono la città di Firenze; e come la città di Firenze cresceva, la città di Fiesole sempre calava, avendo al continuo guerra e nimistà insieme; ma per lo forte sito e fortezza di mura e di torri che avea la città di Fiesole, invano si travagliavano i Fiorentini di conquistarla, con tutto che fossero più genti, e di maggiore amistà e aiuto, anzi erano continuo guerreggiati da' Fiesolani. Ma veggendo ciò i Fiorentini, che per forza no·lla poteano aquistare, sì·ssi intreguarono co' Fiesolani, e lasciarono il guerreggiare tra·lloro; e di triegua in triegua si cominciarono a dimesticare insieme, e usare l'uno cittadino nella città dell'altro, e imparentarsi insieme, e picciola guardia facea l'uno dell'altro. I Fiorentini veggendo che·lla loro città di Firenze nonn-avea podere di fare grande montata, avendo sopra capo sì fatta fortezza com'era la città di Fiesole, provedutamente e segretamente una notte misono aguato di loro gente armati da più parti di Fiesole. I Fiesolani essendo assicurati da' Fiorentini e non prendendosi guardia, la mattina della loro festa principale di santo Romolo, aperte le porte, essendo disarmati i Fiesolani, i Fiorentini entrando nella città sotto titolo di venire alla festa, quando ve n'ebbe dentro buona quantità, gli altri armati ch'erano nell'aguato presono le porte della città; e fatto cenno a Firenze, come era ordinato, tutta l'oste e potenzia de' Fiorentini vennero a cavallo e a piè al monte, e entrarono nella città di Fiesole, e corsolla tutta sanza uccidere quasi gente, o fare altro danno, se non a chi si contendesse. I Fiesolani veggendosi subitamente e improviso sopresi da' Fiorentini, parte di coloro che poterono si fuggirono in su la rocca, la quale era fortissima, e tennersi lungo tempo apresso. La città di sotto alla rocca essendo presa e corsa per gli Fiorentini, e prese le fortezze e le genti che·ssi contendeano, l'altro minuto popolo s'arenderono a patti che non fossono morti né rubati di loro cose, faccendo i Fiorentini loro volontà di disfarla, rimanendo il vescovado in sua giuridizione. Allora i Fiorentini patteggiarono che chi volesse uscire della città di Fiesole e venire ad abitare in Firenze potesse venire sano e salvo con tutti i suoi beni e cose, e andare in altra parte che gli piacesse; per la qual cosa in grande quantità ne scesoro ad abitare in Firenze, onde poi furono e sono grandi schiatte in Firenze; altri n'andarono ad abitare intorno per lo contado ove aveano loro villate e possessioni. E ciò fatto, e la città vota di genti e di cose, i Fiorentini la feciono abattere tutta e disfare, salvo il vescovado e certe altre chiese, e la rocca, che·ssi tenea ancora e non s'arendeva a' detti patti; e ciò fu negli anni di Cristo MX, e recarne i Fiorentini e' Fiesolani che·ssi feciono cittadini di Firenze tutte le dignità e colonne, e tutti gl'intagli de' marmi che lassù erano, e il carroccio del marmo ch'è in San Piero Scheraggio in Firenze.
<B>VII</B>
<I>Come molti Fiesolani tornarono ad abitare in Firenze e fecionsi uno popolo co' Fiorentini.</I>
Essendo disfatta la città di Fiesole, salvo il castello della rocca, come detto è di sopra, molti Fiesolani ne vennoro ad abitare in Firenze e feciono uno popolo co' Fiorentini, e per la loro venuta convenne che·ssi crescesse di mura e di giro la città di Firenze, come innanzi farà menzione. E acciò che' Fiesolani venuti ad abitare in Firenze fossono con più fede e amore co' Fiorentini, sì raccomunarono l'arme de' detti Comuni, e feciono allora l'arme dimezzata vermiglia e bianca, come ancora a' nostri tempi si porta in su il carroccio e nello oste de' Fiorentini. Il vermiglio fu l'antica arme che i Fiorentini ebbono da' Romani, come adietro è fatta menzione, che soleano usare iv'entro il giglio bianco; e 'l bianco fu l'antica arme de' Fiesolani, ma avevavi dentro una luna cilestra: ma nella detta arme comune levarono il giglio bianco e la luna, e fu pur dimezzata; e feciono leggi e statuti comuni, vivendo ad una signoria di due consoli cittadini e consiglio del senato, ciò era di C uomini i migliori della città, com'era l'usanza data da' Romani a' Fiorentini. E così crebbe molto in quegli tempi la città di Firenze e di popolo e di potenzia per lo disfacimento della città di Fiesole, e per li Fiesolani che vennono ad abitare in Firenze, ma però nonn-era di grande popolo a comparazione ch'ella è a' nostri tempi; che·lla città di Firenze era di piccolo sito, come fatto è menzione, e ancora si vede al primo giro, e non v'avea abitanti il quarto ch'è oggi. I Fiesolani erano molto scemati, e alla disfazione di Fiesole molto si sparsono, e chi andò in una parte e chi in una altra; ma i più ne vennoro a Firenze, e pur fu grossa città al tempo d'allora; ma per quello troviamo, con tutti i Fiesolani non furono la metà ch'è oggi a' nostri dì. E nota perché i Fiorentini sono sempre in scisma, e in parti, e in divisioni tra·lloro, che nonn-è da maravigliare: l'una ragione si è perché la città fu reedificata, come fu detto al capitolo della sua reedificazione, sotto la signoria e influenzia della pianeta di Marti che sempre conforta guerre e divisioni; l'altra ragione più certa e naturale si è che' Fiorentini sono oggi stratti di due popoli così diversi di modi, e sempre per antico erano stati nemici, siccome del popolo de' Romani e di quello de' Fiesolani; e ciò potemo vedere per isperienza vera, e per le diverse mutazioni e partigioni e sette che dapoi che' detti due popoli furono congregati in uno avennero in Firenze di tempi in tempi, come in questo libro omai più stesamente farà menzione.
<B>VIII</B>
<I>Come la città di Firenze crebbe lo cerchio, prima di fossi e steccati, poi di mura.</I>
Dapoi che' Fiesolani tornarono in grande parte ad abitare in Firenze, come detto è dinanzi, la città s'empié più di gente e di popolo, e crescendo in borghi e abituri di fuori della vecchia e piccola città, poco tempo appresso convenne di nicessità che·lla città si crescesse di cerchio, prima di fossi e di steccati; e poi al tempo d'Arrigo terzo imperadore si feciono le mura, acciò che·lle borgora e acrescimenti di fuori per le guerre che apparieno in Toscana per cagione del detto Arrigo non potessono essere presi né guasti, e la città più tosto assediata da' nemici. E però a quel tempo, negli anni di Cristo MLXXVIII, come innanzi incidendo le storie d'Arrigo terzo farà menzione, cominciarono i Fiorentini le nuove mura, cominciando dalla parte del levante alla porta di San Piero Maggiore, la quale fu alquanto dietro alla detta chiesa, mettendo il borgo di San Piero Maggiore e la chiesa detta dentro alle nuove mura. E poi ristrignendosi dalla parte di tramontana, poco di lungi al detto borgo fece gomito ad una postierla che·ssi chiamò la porta Albertinelli per una schiatta ch'era in quel luogo, che così fu chiamata; poi seguendo insino alla porta di borgo San Lorenzo, mettendo la detta chiesa dentro alle mura; e poi appresso ebbe due postierle, l'una alla forca di campo Corbolini, e l'altra si chiamò poi la porta del Baschiera; conseguendo poi insino alla porta di San Paolo, e appresso seguendo insino alla porta alla Carraia, a la quale fece fine il muro in su l'Arno, ove poi si cominciò e fece uno ponte che·ssi chiama il ponte alla Carraia per lo nome di quella porta; e poi seguendo le mura non però troppe alte in su la riva d'Arno, mettendo dentro ciò ch'era di fuori alle mura vecchie, ciò era il borgo di San Brancazio, e quello di Parione, e quello di Santo Appostolo, e quello di porte Sante Marie insino al ponte Vecchio; e poi appresso in su la riva d'Arno insino al castello Altrafonte. Di là si partirono alquanto le mura dalla riva d'Arno, sicché vi rimase via in mezzo, e due postierle onde s'andava al fiume. Poi faceano tanto e volgeano ove è oggi la coscia del ponte Rubaconte, e ivi alla rivolta avea una porta che·ssi chiamava la porta de' Buoi, perché ivi di fuori si facea il mercato de' buoi, che poi fu nomata la porta di messere Ruggieri da Quona, però che i detti da Quona quando vennero ad abitare alla città si puosono in su la detta porta. Poi seguirono le mura dietro a Sa·Iacopo tra·lle fosse, perché era in su' fossi, insino ov'è oggi il capo della piazza dinanzi alla chiesa de' frati minori detta Santa Croce; e quivi avea una postierla ch'andava all'isola d'Arno, poi seguendo le dette mura per linea diritta sanza niuna porta o postierla, ritornando insino a San Piero Maggiore ove cominciano. E così ebbe la città nuova di Firenze di qua dall'Arno V porte per gli V sesti, una porta per sesto, e più postierle, com'è fatta menzione. Oltrarno si avea tre borghi, i quali tutti e tre cominciavano al ponte Vecchio di là da Arno: l'uno si chiamava e chiama ancora borgo Pidiglioso, perch'era abitato di vile gente, e era in capo del detto borgo una porta che·ssi chiamava la porta a Roma, ove sono oggi le case de' Bardi presso a Santa Lucia de' Magnoli e passato il ponte Vecchio, e per quella via s'andava a Roma per lo cammino da Fegghine e d'Arezzo; altre mura non avea al detto borgo se non il dosso delle case di costa al poggio. L'altro borgo era quello di Santa Felicita, detto il borgo di Piazza, che avea una porta ove è oggi la piazza di San Filice, onde va il cammino a Siena; e un altro borgo che·ssi chiamava di Sa·Iacopo, che avea una porta ove sono oggi le case de' Frescobaldi, che andava il cammino a Pisa. A' detti tre borghi del sesto d'Oltrarno non avea altre mura se non le porte dette e' dossi delle case di dietro che chiudeano le borgora con giardini e ortora di dietro. Ma da poi che·llo 'mperadore Arrigo terzo venne ad oste a·fFirenze, i Fiorentini feciono murare Oltrarno, cominciando a la detta porta a Roma montando adietro al borgo a la costa di sotto a San Giorgio, e poi riuscieno dietro a Santa Felicita, rinchiudendo il borgo di Piazza e quello di Sa·Iacopo, e quasi come andavano i detti borghi; ma poi si feciono le mura d'Oltrarno al poggio più alte, come sono ora, al tempo che di prima i Ghibellini signoreggiarono la città di Firenze, come faremo menzione a luogo e a tempo. Lasceremo alquanto de' fatti di Firenze, e tratteremo degl'imperadori che furono appresso il primo Arrigo, che·cci sono di nicessità a raccontare per conseguire la nostra storia.
<B>IX</B>
<I>Come Currado primo fu fatto imperadore.</I>
Dopo la morte d'Arrigo primo imperadore fu eletto e consegrato Currado primo per Benedetto papa ottavo negli anni di Cristo MXV. Questi fu di Soavia, e regnò nello 'mperio XX anni, e quando egli passò in Italia, non possendo avere la signoria di Melano, sì·ll'assediò infino ne' borghi; ma prendendo la corona del ferro di fuori di Melano in una chiesa, cantando la messa, sì venne uno grande tuono e saetta in quella chiesa, e alquanti ne morirono; e levato l'arcivescovo che cantava la messa dall'altare, disse a Currado imperadore che visibilemente vide santo Ambruogio che fortemente il minacciava se non si partisse dall'assedio di Melano; e egli per quella amonizione si levò da oste, e fece pace co' Melanesi. Questi fu giusto uomo, e fece molte leggi, e tenne lo 'mperio in pace lungo tempo. Bene andò in Calavra contro a' Saracini ch'erano venuti a guastare il paese, e co·lloro combattéo, e con grande spargimento di sangue de' Cristiani gli cacciò e conquise. Questo Currado si dilettò assai della stanza della città di Firenze quando era in Toscana, e molto l'avanzò, e più cittadini di Firenze si feciono cavalieri di sua mano e furono al suo servigio. E acciò che si sappia chi erano i nobili e possenti cittadini in quegli tempi nella città di Firenze, brievemente ne faremo menzione.
<B>X</B>
<I>De' nobili ch'erano nella città di Firenze al tempo del detto imperadore Currado: prima di quegli d'intorno al Duomo.</I>
Come adietro è fatta menzione, la prima reedificazione della picciola Firenze era divisa per quartieri, cioè per quattro porte; e acciò che noi possiamo meglio dichiarire i nobili legnaggi e case che a' detti tempi, disfatta Fiesole, erano in Firenze grandi di podere, sì gli conteremo per gli quartieri ove abitavano. E prima quegli della porta del Duomo, che fu il primo ovile e stazzo della rifatta Firenze, e dove tutti i nobili cittadini di Firenze la domenica facieno riparo e usanza di cittadinanza intorno al Duomo, e ivi si faceano tutti i matrimoni e paci, e ogni grandezza e solennità di Comune: e appresso porta San Piero, e poi porta San Brancazio, e porta Sante Marie. E porte del Duomo erano abitanti il legnaggio de' filii Giovanni, e quegli de' filii Guineldi, che furono i primi che reedificarono la città di Firenze, onde poi sono discesi molti lignaggi di nobili in Mugello e in Valdarno e in città assai, che oggi sono popolari e quasi venuti a fine: furono i Barucci che stavano da Santa Maria Maggiore, che oggi sono venuti meno; bene furono di loro legnaggio gli Scali e' Palermini. Erano ancora nel detto quartiere Arrigucci, e' Sizii, e' figliuoli della Tosa. Questi della Tosa furono uno legnaggio co' Bisdomini, e padroni e difenditori del vescovado; ma partissi uno di loro da' suoi di porta San Piero, e tolse per moglie una donna chiamata la Tosa, che n'ebbe lo retaggio, onde dirivò quello nome. Eravi quelli della Pressa che stavano tra' Chiavaiuoli, gentili uomini.
<B>XI</B>
<I>Delle case de' nobili del quartiere di porta San Piero.</I>
Nel quartiere di porta San Piero erano i Bisdomini che, come di sopra è detto, e' sono padroni del vescovado, e gli Alberighi, che fu loro la chiesa di Santa Maria Alberighi da casa i Donati, e oggi non n'è nullo; i Ravignani furono molto grandi, e abitavano in sulla porta San Piero, che furono poi le case de' conti Guidi, e poi de' Cerchi, e di loro per donna nacquero tutti i conti Guidi, come adietro è fatta menzione, della figliuola del buono messere Bellincione Berti: a' nostri dì è venuto tutto meno quello legnaggio. I Galligari, e Chiarmontesi, e Ardinghi che abitano in Orto San Michele, erano molto antichi; e simile i Giuochi che oggi sono popolani, che abitavano da Santa Margherita; Elisei che simile sono oggi popolani, che stanno presso a Mercato Vecchio; e in quello luogo abitavano i Caponsacchi, che furono grandi Fiesolani; i Donati, overo Calfucci, che tutti furono uno legnaggio, ma i Calfucci vennoro meno; e quegli della Bella di San Martino anche divenuti popolani; e il legnaggio degli Adimari i quali furono stratti di casa i Cosi, che oggi abitano in Porta Rossa, e Santa Maria Nipotecosa feciono eglino; e bene che sieno oggi il maggiore legnaggio di quello sesto e di Firenze, non furono però in quelli tempi de' più antichi.
<B>XII</B>
<I>Di quegli del quartiere di porta San Brancazio.</I>
Nel quartiere della porta di San Brancazio erano grandissimi e potenti la casa de' Lamberti, nati per loro antichi della Magna; gli Ughi furono antichissimi, i quali edificarono Santa Maria Ughi, e tutto il poggio di Montughi fu loro, e oggi sono spenti; i Catellini furono antichissimi, e oggi non n'è ricordo: dicesi che' figliuoli Tieri per bastardo nati fossono di loro lignaggio; i Pigli gentili uomini e grandi in quegli tempi, Soldanieri, e Vecchietti; molto antichi furono quegli dell'Arca, e oggi sono spenti; e' Migliorelli, che oggi sono niente; e' Trinciavelli da Mosciano furono assai antichi.
<B>XIII</B>
<I>Di quegli del grande quartiere di porta Santa Maria e di San Piero Scheraggio.</I>
Nel quartiere della porta Sante Marie, ch'è oggi nel sesto di San Piero Scheraggio, e quello di Borgo, avea molto possenti e antichi legnaggi. I maggiori erano gli Uberti, nati e venuto il loro antico della Magna, che abitavano ov'è oggi la piazza de' priori e 'l palagio del popolo; i Fifanti, detti Bogolesi, abitavano in sul canto di porte Sante Marie, e' Galli, Cappiardi, Guidi, e Filippi che oggi sono niente allora erano grandi e possenti, abitavano in Mercato Nuovo; e simile i Greci, che fu loro tutto il borgo de' Greci, oggi sono finiti e spenti, salvo che n'ha in Bologna di loro legnaggio; Ormanni che abitavano ov'è oggi il detto palagio del popolo, e chiamansi oggi Foraboschi. E dietro a San Piero Scheraggio, ove sono oggi le case de' figliuoli Petri, furono quegli della Pera, overo Peruzza, e per loro nome la postierla che ivi era si chiamava porta Peruzza: alcuno dice che' Peruzzi che sono oggi furono stratti di quello legnaggio, ma non l'affermo. I Sacchetti che abitano nel Garbo furono molto antichi; intorno a Mercato Nuovo erano grandi i Bostichi, e quegli della Sannella, e Giandonati, e Infangati; in borgo Santo Appostolo erano grandi Gualterotti e Importuni, che oggi sono popolani; i Bondelmonti erano nobili e antichi cittadini in contado, e Montebuoni fu loro castello, e più altri in Valdigrieve; prima si puosono Oltrarno, e poi tornarono in Borgo. I Pulci, e' conti da Gangalandi, Ciuffagni, e Nerli d'Oltrarno furono ad un tempo grandi e possenti con Giandonati e con quegli della Bella insieme nomati di sopra; e dal marchese Ugo che fece la Badia di Firenze ebbono l'arme e la cavalleria, imperciò che intorno a·llui furono molto grandi.
<B>XIV</B>
<I>Come in quegli tempi era poco abitato Oltrarno.</I>
Avemo nomati i nobili e possenti cittadini che a' tempi dello imperadore Currado primo erano di rinnomea e di stato in Firenze; altri più legnaggi v'avea di più piccolo affare che non se ne facea rinnomea, e oggi sono fatti grandi e possenti; e degli antichi nomati di sopra sono calati, e tali venuti meno, che a' nostri dì apena n'è ricorso se non per questa nostra cronica. Oltrarno nonn-avea in quegli tempi gente di lignaggio né di rinnomo, però che, come avemo detto addietro, e' nonn-era della città antica, ma borghi abitati di vili e minute genti. Lasceremo ora di raccontare de' fatti di Firenze infino che fia tempo e luogo, quando i Fiorentini cominciarono a mostrare loro potenzia, e diremo brievemente degl'imperadori che furono dopo Currado primo, e della contessa Mattelda, e di Ruberto Guiscardo che conquistò in quegli tempi Puglia e Cicilia, che di raccontare di tutti ci è di nicessità per le mutazioni che n'avennero in Italia e poi alla nostra città di Firenze.
<B>XV</B>
<I>Come fu fatto imperadore Arrigo secondo detto terzo, e le novità che furono al suo tempo.</I>
Dopo la morte del detto Currado fu eletto imperadore Arrigo secondo: e chi disse figliuolo, ma e' fu pure genero del detto Currado imperadore, e figliuolo del conte Leopoldo Palatino di Baviera nipote del primo Arrigo. Questo Arrigo fu profetato la notte ch'egli nacque in questo modo: che 'l detto Currado essendo egli cacciando, arrivato di notte solo in una foresta in povera casa, ove abitava il padre e la madre isfuggiti e in bando dello 'mperio per micidio, ove il detto Arrigo nacque, vegnendogli in visione che 'l detto nato fanciullo sarebbe suo genero e succederebbe allo 'mperio, Currado, credendo che fosse figliuolo di villano, non conoscendo il conte suo padre, per disdegno il comandò a uccidere nella foresta; e i suoi famigliari per volontà di Dio lo lasciarono vivo, rapportando che·ll'aveano morto. E poi crebbe in bontà e inn-istato, sicché nella corte del detto Currado fu al servigio il detto Arrigo; e ricordandosi lo 'mperadore di lui, e riconoscendolo per certi indizii e segnali di lui, il mandò alla moglie con lettere che 'l facesse uccidere incontanente; e per uno prete con cui albergò in cammino, come piacque a·dDio, sì levò delle lettere quelle parole contamente, e mise che gli desse la figliuola per moglie, e così fu fatto; e il distino premesso da Dio pure seguì. Con tutti i contasti di Currado, questo Arrigo fu coronato negli anni di Cristo MXL, e regnò XVII anni. Questo Arrigo imperadore passò in Italia, e lui coronato a Roma da papa Clemente secondo, il quale papa il detto imperadore fece fare, e dispuose tre papi ch'erano in questione; l'uno si chiamò papa Benedetto nono, l'altro papa Silvestro terzo, l'altro papa Gregorio sesto; e aveano l'uno l'altro disposto e cacciato di Roma. Poi ciò fatto, il detto Arrigo si andò nel Regno per guerreggiare in Puglia e in Campagna tra' signori insieme; sì prese Pandolfo prencipe di Capova e menolne in Alamagna, e mise in signoria un altro Pandolfo conte di Tarentino, e poi si tornò nella Magna dimorando poco in Italia. Per la qual cosa il paese d'Italia si commosse molto in guerra l'uno signore contra l'altro, e' Romani tra·lloro, e rubarono la Chiesa, e le sue possessioni, e cose, e pellegrini. Ma essendo in quegli tempi tornato in istato papa Gregorio sesto, di Roma cacciò papa Clemente ch'era uomo di poco valore; come signore laico con armata mano difese e racquistò le giuridizioni, possessioni, e cose della Chiesa; e ebbe guerra e battaglia col detto Arrigo che·ll'avea disposto, e soprastogli; e tutto fosse per questa cagione uomo di sangue, sì fece buona fine e con santo repentimento, mostrando a' suoi frati cardinali che ciò che avea fatto era per ricoverare lo stato di santa Chiesa, e non per niuna singulare propietà di sua avarizia, assegnando per autorità di santa Scrittura come i cherici al bisogno si debbono mettere come muro dinanzi alle battaglie a difensione della fede e di santa Chiesa. E Idio mostrò miracoli per lui; ché lui morto, i cardinali e l'altro chericato di Roma no·llo voleano soppellire in San Piero in luogo sagro, ma missollo di fuori dalle reggi, siccome alla sua fine ordinò, perch'era stato uomo di sangue, che se Idio mostrasse miracolo in lui, che 'l seppellissono dentro alla chiesa. E ciò fatto, e chiuse e serrate le porte di San Piero, subitamente venne uno turbo con uno vento sì impetuoso che per forza levò le porte della chiesa, e portolle in coro. Allora conosciuto il miracolo del santo uomo, sì 'l soppellirono nella chiesa con grande solennità e reverenzia.
<B>XVI</B>
<I>Come Arrigo terzo fu fatto imperadore, e le novità d'Italia che furono al suo tempo, e come la corte di Roma fu in Firenze.</I>
Apresso la morte d'Arrigo secondo fu eletto imperadore Arrigo terzo, detto quarto quanto in nome di re, ma terzo ch'ebbe corona d'imperio, negli anni di Cristo MLV, e regnò nello imperio XLVIIII anni. Questi fu figliuolo dell'altro Arrigo di Baviera. Al tempo di costui ebbe molte novità in Italia e in Firenze, come faremo menzione. Al suo tempo fu fame e mortalità per tutto il mondo, e nel cerchio della luna apparve la pianeta di Venus chiara e aperta, e mai non si vide in tale aspetto. Questo Arrigo fece fare per sua fortezza papa Vittorio nato d'Alamagna, il quale papa nella città di Firenze fece concilio negli anni di Cristo MLVIIII, e molti vescovi dispuose per loro peccati di fornicazioni e di simonia. E partendosi la corte di Firenze, e 'l detto papa andando in Alamagna allo 'mperadore Arrigo, ricevuto a grande onore, poco appresso sì morìo. E dopo lui fu fatto papa nella città di Firenze per gli cardinali papa Stefano nato di Lotteringa in Brabante: vivette da X mesi, e morì nella detta città di Firenze, e nella chiesa maggiore di Santa Reparata fu sepulto. E dopo lui fu fatto per forza papa Benedetto vescovo di Velletro, e poi fu in capo de' VIIII mesi cacciato del papato e morì. E dopo lui fu fatto papa il vescovo di Firenze ch'era di Borgogna, essendo la corte nella città di Siena, e fu chiamato papa Niccolaio secondo, e regnò tre anni e mezzo, e morì in Roma. E dopo a·llui regnò papa Allessandro nato di Melano XI anni e mezzo, ma al suo tempo i Lombardi feciono un altro papa, chiamato Calduco vescovo di Parma, e contra Allessandro venne due volte colla forza de' Lombardi a Roma per avere il papato, ma niente gli valse. Alla fine papa Allessandro a richiesta d'Arrigo imperadore andò a Mantova, e là fece concilio, e chetarsi le riotte e scisme ch'erano nella Chiesa; e questo Allessandro rimase papa, e tornossi a Roma, e là morì; e poi fu papa Gregorio settimo. In questi tempi infino gli anni di Cristo MLXXVIII, essendo la città di Firenze assai agrandita e montata in istato per l'essere della corte di Roma che più tempo vi stette, e per la guerra che·ssi cominciò al tempo del detto papa Gregorio tra lo 'mperadore Arrigo e la Chiesa e la contessa Mattelda, come innanzi farà menzione, i Fiorentini feciono il secondo cerchio di mura alla città, ov'erano i fossi e steccati, come addietro è fatta menzione nel capitolo della detta edificazione.
<B>XVII</B>
<I>Come santificò santo Giovanni Gualberti cittadino di Firenze e padre dell'ordine di Valembrosa.</I>
Al tempo del detto Arrigo imperadore fu uno gentile uomo del contado di Firenze nato di messere Gualberto cavaliere de' signori da Petroio di Valdipesa, il quale avea nome Giovanni. Questi essendo laico e in guerra co' suoi vicini, i quali aveano morto uno suo fratello, vegnendo a Firenze con sua compagnia armati a cavallo, trovò il nimico suo che aveva morto il fratello, assai presso della chiesa di San Miniato a Monte; il quale suo nimico veggendosi sorpreso, si gittò in terra a' piedi di Giovanni Gualberti, faccendogli croce delle braccia, cheggendogli mercé per Iesù Cristo che fu posto in croce. Il quale Giovanni compunto da Dio, ebbe pietà e misericordia del nemico, e perdonogli, e menollo a offerere nella chiesa di Santo Miniato dinanzi al Crocifisso. Della quale misericordia Iddio mostrò aperto miracolo, che veggente tutti il Crocifisso si chinò al detto Giovanni Gualberti, e a·llui fece grazia di lasciare il secolo e convertirsi a religione, e fecesi monaco nella detta chiesa di Santo Miniato. Ma poi trovando l'abate simoniaco e peccatore, se n'andò come eremita nell'alpe di Valembrosa, e quivi gli crebbe la grazia d'Iddio e la sua santità, che, come piacque a·dDio, fu il primo cominciatore di quella badia e santo ordine, onde poi molte badie sono scese in Toscana e in Lombardia, e molti santi monaci. E egli vivendo, e poi, fece molti miracoli, come racconta la sua leggenda, e fu molto tenuto chiaro di fede e di vita da papa Stefano ottavo, e poi da papa Gregorio settimo; e passò di questa vita alla badia di Pasignano gli anni di Cristo MLXXIII, e dal detto papa Gregorio fu poi con grande divozione calonizzato.
<B>XVIII</B>
<I>Innarrazione di più cose che furono a questi tempi. </I>
In questi tempi, gli anni di Cristo MLXX, passò in Italia Ruberto Guiscardo duca de' Normandi, il quale per sua prodezza e senno fece grandi cose, e operò in servigio di santa Chiesa contro ad Arrigo terzo imperadore che·lla perseguitava, e contro Allessio imperadore, e contro a' Viniziani, come appresso faremo menzione; per la qual cosa egli fu fatto signore di Cicilia e di Puglia colla confermagione di santa Chiesa, e gli suoi discendenti appresso infino al tempo d'Arrigo di Soavia, padre di Federigo secondo, ne furono re e signori. E simigliante in questi medesimi tempi si fu la valente e savia contessa Mattelda, la quale regnava in Toscana e in Lombardia e quasi di tutto fu donna, e molte grandi cose fece al suo tempo per santa Chiesa, sicché mi pare ragione e che·ssi convegna dire di loro cominciamento e stato in questo nostro trattato, imperciò che molto si mischia a' fatti della nostra città di Firenze per le successioni che de' loro fatti seguirono in Toscana. E prima diremo di Ruberto Guiscardo e poi della contessa Mattelda, e' loro prencipii e le loro operazioni brievemente, tornando poi a nostra materia e fatti della nostra città di Firenze, i quali per acrescimento e operazioni de' Fiorentini cominciò a moltiplicare e a istendere la fama di Firenze per l'universo mondo, più che non era stato per lo addietro; e imperciò quasi per necessità ne conviene nel nostro trattato [raccontare] più universalmente da quinci innanzi de' papi, e degl'imperadori, e de' re, e di più province del mondo le novità e cose state per gli tempi, imperciò che molto riferiscono alla nostra materia, e perché il sopradetto terzo Arrigo imperadore fu cominciatore dello scandalo dalla Chiesa allo 'mperio, e poi Guelfi e Ghibellini, onde si cominciarono le parti d'imperio e della Chiesa in Italia, le quali crebbono tanto che tutta Italia n'è maculata e quasi tutta Europia, e molto mali, e pericoli, e distruggimenti, e mutazioni ne sono seguitate alla nostra città e a tutto l'universo mondo, sì come innanzi conseguendo nel nostro trattato per li tempi faremo menzione. E cominceremo omai al di sopra d'ogni carta a segnare gli anni <I>Domini</I> seguendo di tempo in tempo ordinatamente, acciò che più apertamente si possano ritrovare le cose passate.
<B>XIX</B>
<I>Di Ruberto Guiscardo e di suoi discendenti i quali furono re di Cicilia e di Puglia.</I>
Adunque, come addietro è fatto menzione, nel tempo di Carlo imperadore che detto è Carlo il Grosso, che imperiò negli anni <I>Domini</I> VIIIcLXXX insino in VIIIcLXXXII, i Normanni pagani venuti di Norvea, in Alamagna e in Francia passarono, con guerra strignendo e tormentando i Galli e' Germani. Carlo con potente mano contro a' Normanni venne, e fatta la pace e confermata per matrimonio, i·re de' Normanni battezzato, e del sacro fonte dal detto Carlo ricevuto fu; e alla perfine non potendo Carlo i Normanni di Francia cacciare, concedette loro regioni ch'è di là dalla Seccana, chiamata Lada Serna, la qual parte insino a oggi è detta Normandia per gli detti Normandi, nella qual terra infino d'allora il duca per lo re vi sono mutati. Fu dunque il primo duca Ruberto, a cui succedette il figliuolo suo Guiglielmo, il quale generò Ricciardo, e Ricciardo ingenerò il secondo Ricciardo. Questo Ricciardo ingenerò Ricciardo e Ruberto Guiscardo, il quale Ruberto Guiscardo non fu duca di Normandia, ma fratello del duca Ricciardo. Questi secondo l'usanza loro, però che minore figliuolo era, non ebbe la signoria del ducato, e imperò volendo spermentare la sua bontà, povero e bisognoso in Puglia venne, e era in quel tempo duca in Puglia Ruberto nato del paese, al quale Ruberto Guiscardo vegnendo, prima suo scudiere, e poi da·llui fatto cavaliere. Adunque venuto Ruberto Guiscardo a questo duca Ruberto, molte vittorie con prodezze contro a' nemici mostrò, il quale aveva guerra col prenze di Salerno, e guidardonato magnificamente tornò in Normandia: le dilizie e le ricchiezze di Puglia recò in fama, ornati i cavagli con freni d'oro e con ferri d'argento ferrati, in testimonio di ciò sì com'era; per la qual cosa provocati a sé più cavalieri, seguendo questa cosa per cuvidigia di ricchezze e di gloria, tornando in Puglia tostamente, seco gli menò, e stette apo il duca di Puglia fedelmente contro a Gottifredi duca de' Normanni; e non lungo tempo poi, Ruberto duca di Puglia vegnendo a la morte, di volontà di suoi baroni nel ducato il fece successore, e come promesso gli avea, la figliuola prese a moglie, gli anni di Cristo MLXXVIII. E poco tempo passato, Alesso imperadore di Gostantinopoli, che Cicilia e parte di Calavra aveva occupata, e' Viniziani vinse, e tutto il regno di Puglia e di Cicilia prese; e avegna che contro alla Chiesa romana questo facesse a cui il regno di Puglia era propia possessione, e la contessa Mattelda era contro a Ruberto Guiscardo, guerra facesse in servigio di santa Chiesa; ma Ruberto riconciliato alla perfine colla Chiesa di sua volontà, fatto ne fu signore. E non molto poscia Gregorio settimo, assediato co' cardinali da Arrigo quarto imperadore nel Castello di Santo Angelo, vegnendo a Roma, e cacciato per forza il detto Arrigo co l'antipapa suo il quale avea fatto per sua forza, dall'asedio il papa e' cardinali diliberò, e il papa nel palagio di Laterano rimise, puniti gravemente i Romani che contro a papa Gregorio favore allo 'mperadore Arrigo e al papa per lui fatto aveano dato. Questo Ruberto Guiscardo duca di Puglia faccendo una volta caccia, seguitando una bestia al profondo d'una selva, e ignorando quello che avenisse di lui e compagni, e dov'egli fosse e che facesse non potendolo sapere, veggendo adunque Ruberto appressata la notte, abbandonata la bestia che seguitava, a casa procacciava reddire; e tornando, trovò nella selva uno lebbroso che stantemente aiuto gli domandava; e quando alcuna cosa gli dicesse, rispuose al lebbroso che non faccea a·ssé utile penitenzia, ma egli vorrebbe innanzi portare ogni incarico e ogni gravamento; e domandando al lebbroso che volesse, disse: "Voglio che dopo voi mi pognate a cavallo"; acciò che forse abbandonato nella selva, le bestie no·llo divorassono. Allora Ruberto dopo sé nel cavallo lietamente il ricevette; e come cavalcando procedessero, a cotal conte così il lebbroso disse: "Tanto freddo aghiaccia le mie mani, che se nelle tue carni no·lle riscaldo a cavallo non mi potrò tenere". Allora quegli al lebbroso concedette che sicuramente sotto i suoi panni le mani ponesse, e le carni sue e le membra contentasse sanza nulla paura. E terza volta il lebbroso ancora per misericordia richeggendolo, in sella il puose, e egli venendo in groppa, il lebbroso abracciava, e insino alla sua propia camera il menava, e nel suo propio letto il puose; e acciò che si riposasse, diligentemente il collogò, non sentendolo alcuno della sua famiglia. E come la festa della cena fatta fosse, detto alla moglie che nel letto suo avea allogato il lebbroso, la moglie incontanente alla camera andò, a sapere se quello povero infermo volesse cenare; la camera sanza libamina trovò tanto odorifera, come se di tutte le cose odorifere fosse piena, sì fattamente che mai Ruberto né la moglie tanto odore mai non sentirono, e·lebbroso cerco che venuto v'era, non conobbero, maravigliandosi oltre misura il marito e la moglie di tanta maraviglia; ma con reverenzia e con tremore Iddio l'uno e l'altro addimandano che debbia loro rivelare che ciò sia. E il seguente dì per visione apparve Cristo a Ruberto dicendo che sé in forma di lebbroso gli s'era mostrato, acciò che provasse la sua pietà; e anunziogli che della sua moglie avrebbe figliuoli, de' quali l'uno imperadore, l'altro re, il terzo duca sarebbe. Di questa promessione confortato Ruberto, abattuti i rubelli di Puglia e di Cicilia, di tutto aquistò la signoria, e ebbe V figliuoli: Guiglielmo, che prese per moglie la figliuola d'Alesso imperadore de' Greci, e fu dello 'mperio di colui duca e possessore, ma morì sanza figliuoli (questi si dice che fu Guiglielmo il quale fu detto Lungaspada; ma questo Lungaspada molti dicono che non fu del legnaggio di Ruberto Guiscardo, ma della schiatta de' marchesi di Monteferrato); e 'l secondo figliuolo di Ruberto Guiscardo, Boagdinos, che fu in prima duca di Taranto; il terzo fu Ruggieri duca di Puglia, che dopo la morte del padre fu coronato re di Cicilia da papa Onorio secondo; il quarto figliuolo di Ruberto Guiscardo fu Arrigo duca de' Normandi; il quinto figliuolo Ricciardo conte Cicerat, credo della Terra. Questo Ruberto Guiscardo dopo molte e nobili cose in Puglia fatte, per cagione di divozione dispuose di volere andare in Gerusalem in peregrinaggio; e detto gli fu in visione che morrebbe in Gerusalem. Dunque acomandato il regno a Ruggieri suo figliuolo, prese per mare il viaggio verso Gerusalem, e pervenendo in Grecia al porto che si chiamò poi Porto Guiscardo per lui, cominciò ad agravare di malatia; e confidandosi nella rivelazione che fatta gli fu, in niuno modo temea di morire. E era incontro al detto porto una isola, alla quale per cagione di ripigliare forza e riposo si fece portare, e portatolo, là non migliorava, ma quasi forte agravava. Allora domandò come si chiamava quella isola; e risposto gli fu per gli marinai che per l'antica Gerusalem si chiama. La qual cosa udita, incontanente certificato della sua morte, divotamente tutte le cose che alla salute dell'anima s'appartengono acconciò, e morì grazioso a·dDio, negli anni di Cristo MCX; il quale regnò in Puglia XXXIII anni. Queste cose di Ruberto Guiscardo in alcuna cronica parte se ne leggono, e parte a coloro n'udì narrare i quali le storie del regno di Puglia pienamente seppono.
<B>XX</B>
<I>De' successori di Ruberto Guiscardo che furono re di Cicilia e di Puglia.</I>
Apresso, Ruggieri figliuolo del duca Ruberto Guiscardo generò l'altro Ruggieri; e questo Ruggieri dopo la morte del padre fatto re di Cicilia, generò Guiglielmo e Costanzia sua serocchia. Questo Guiglielmo onoratamente e magnamente il regno di Cicilia possedette, e ebbe per moglie la figliuola del re di Inghilterra, e di lei nonn-avendone né figliuolo né figliuola, e con ciò sia cosa che morto Ruggieri il padre, adempiuta già la signoria del regno di Guiglielmo, alcuna profezia divolgata fu che Costanzia sua serocchia in distruzione e ruina reggerebbe il reame di Cicilia; onde il re Guiglielmo chiamati gli amici e' savi suoi, adomandò consiglio di quello che avesse a·ffare della serocchia sua Costanzia; e fu consigliato dalla maggiore parte di coloro che se volesse che·lla signoria reale fosse sicura, che·lla facesse morire. Ma intra gli altri uno ch'avea nome Tancredi duca di Taranto, il quale era stato nipote di Ruberto Guiscardo della serocchia che·ssi crede che fosse moglie di Bagnamonte principe d'Antioccia, questi contradicendo il detto degli altri, umiliò il re Guiglielmo che innocentemente non facesse morire la donna; e così fu fatto che·lla detta Costanzia fosse riservata da morte; la quale non voluntariamente, ma per temenza di morte, quasi come monaca si nutricava in alcuno munistero di monache. Morto Guiglielmo, Tancredi sopradetto succedette a Guiglielmo nel regno, e recatolo a·ssé sanza volontà della Chiesa di Roma, alla quale la ragione di quello regno e la propietà pertenea. Questo Tancredi, di natural senno amaestrato, fu molto pieno di scienzia, e ebbe una moglie più bella che·lla Sibilla, donna sanza urba secondo l'oppinione di molti, della quale generò due figliuoli e tre figliuole: il primo fu chiamato Ruggieri, il quale vivendo il padre fu fatto re, e morissi; il secondo fu Guiglielmo il giovane, il quale vivendo il padre fu fatto re, e morto il padre alquanto tenne il regno. Intra queste cose vivendo Tancredi e regnando, Costanzia serocchia del re Guiglielmo era, già forse d'età di L anni, del corpo non della mente monaca nella città di Palermo. Nata adunque discordia intra re Tancredi e l'arcivescovo di Palermo, forse per questa cagione che Tancredi le ragioni della Chiesa occupava, pensò adunque l'arcivescovo come il regno di Cicilia potesse trasmutare ad altro signore, e trattò segretamente col papa che Gostanzia si maritasse ad Arrigo duca di Soavia figliuolo di Federigo maggiore; e Arrigo presa per moglie, a cui il regno parea ch'apartenesse di ragione, imperadore fu coronato da papa Cilestrino. Questo Arrigo, morto Tancredi, entrò nel regno di Puglia e molti punì di quegli che con Tancredi s'erano tenuti, e che favore gli aveano dato, e che alla reina Costanzia aveano portata ingiuria, e vergogna aveano fatta contro a la nobilità del suo onore. Questa Costanzia fu madre di Federigo secondo, il quale del romano imperio non nudritore, ma più tosto Federigo che a distruzione il recò, siccome pienamente ne' suoi fatti aparirà. Morto adunque Tancredi, il regno rimase al suo figliuolo Guiglielmo, giovane d'età e di senno; ma Arrigo entrato nel regno col suo esercito gli anni di Cristo MCLXXXXVII, pace non vera col giovane re Guiglielmo prese d'avere, e lui frodolentemente pigliando e occultamente, pochi sentendolo, in Soavia colla serocchia inn-iscacciamento mandò, e privatolo degli occhi, ivi infino alla morte il fece sotto guardia guardare. Con questo Guiglielmo figliuolo di Tancredi furono tre serocchie, cioè Alberia, Costanzia, e Madama. Morto Arrigo imperadore, e Guiglielmo il giovane castrato e tratti gli occhi morto, Filippo duca di Soavia queste tre figliuole di Tancredi re, a preghiere della moglie che fu figliuola dello 'mperadore Manovello di Costantinopoli, e liberatele dello esilio e della carcere, le lasciò andare. E Alberia, overo Aceria, tre mariti ebbe. Il primo fu conte Gualtieri di Brenna fratello del re Giovanni, del quale nacque Gualterano conte d'Ioperi, a cui il re di Cipri diede la figliuola per moglie; morto il conte Gualtieri dal conte Tribaldo Tedesco, Albira si fece a moglie il conte Iacopo di Tricario, del quale ebbe il conte Simone e madonna Adalitta; e costui morto, papa Onorio Albira per moglie diede al conte Tigrimo Palatino conte in Toscana, e per dote gli diede il contado di Letia e di Montescaglioso nel regno di Puglia. Ma Costanzia fu moglie di Marchesono duca de' Viniziani. La terza serocchia che Madama ebbe nome marito non ebbe. Queste furono cose de' successori di Ruberto Guiscardo nel regno di Cicilia e di Puglia infino a Gostanzia madre di Federigo imperadore figliuolo del re Arrigo; e così mostra che signoreggiassono il regno di Cicilia e di Puglia Ruberto Guiscardo e' suoi successori CXX anni. Lasceremo de' re di Cicilia e di Puglia, e diremo chi fu la valente contessa Mattelda.
<B>XXI</B>
<I>Della contessa Mattelda.</I>
La madre della contessa Mattelda è detto che fu figliuola d'uno che regnò in Costantinopoli imperadore, nella cui corte fu uno Italiano di nobili costumi e di grande lignaggio e liberale, e amaestrato nell'armi, destro e dotato di tutti doni, sì come quegli in cui i·legnaggio chiaramente suole militare. Per tutte queste cose era a tutti amabile, e grazioso in costumi. Cominciando a guardare la figliuola dello 'mperadore, occultamente di matrimonio si congiunse, e prese i gioelli e la pecunia che poterono avere, e co·llui in Italia si fuggì, e prima pervennono nel vescovado di Reggio in Lombardia, e di questa donna e del marito nacque la valente contessa Mattelda; ma il padre della detta donna, cioè lo 'mperadore di Costantinopoli, che non avea altra figliuola, assai fece cercare come la potesse trovare, e trovata fu da coloro che·lla cercavano nel detto luogo; e richiesta da·lloro che tornasse al padre che·lla rimariterebbe a qualunque principe volesse, rispuose costui sopra tutti avere eletto, e che impossibile sarebbe che abandonato costui, mai con altro uomo sì congiugnesse. E nunziate queste cose allo 'mperadore, mandò incontanente lettere e confermamento del matrimonio, e pecunia sanza novero, e comandò che·ssi comperasse castella e ville per cheunque pregio si potessono trovare, e nuove edificazioni fare. E comperarono nel detto luogo tre castella, cioè, insieme, molto presso, per la quale pressezza Reggio quelle Tre Castella volgarmente chiama. E non molto di lungi da' detti tre castelli la donna edificare fece una rocca nel monte da non potere essere combattuta, la qual si chiamava Canossa, ove poi la contessa fondò uno nobile munistero di monache e dotollo. Questo ne' monti; ma nel piano fece Guastalla e Suzzariani, e lungo il fiume del Po comperò, e più munisteri edificò, e più nobili ponti fece sopra i fiumi di Lombardia. E anche Carfagnana e la maggiore parte del Frignano, e nel vescovado modonese si dice che furono le sue possessioni, e nel bolognese Orzellata e Medicina, grandi ville e spaziose, di suo patrimonio furono, e molte altre n'ebbe in Lombardia; e in Toscana castella fece e la torre a Polugiano pertinenti alla sua signoria; e molti nobili uomini largamente datò; loro sotto fio vassalli si fece; in diversi luoghi molti munisteri e edificò; molte chiese cattedrali e non cattedrali dotò. E alla perfine morto il padre e la madre della contessa Mattelda, e ella rimasa ereda, si diliberò di maritare; e inteso la fama e la persona e l'altre cose d'uno nato di Soavia che avea nome Gulfo, solenni messi mandò a·llui e legittimi procuratori, che intra·llui e lei, avegna che non fossono presenti, i patti del matrimonio confermassono, e ratificassono il luogo ove si doveano fare le nozze; l'anello si diede al castello nobile de' conti Cinensi, avegna che oggi sia distrutto. E vegnendo Gulfo al detto castello, la contessa Mattelda con molta cavalleria gli andò incontro, e con molta letizia ivi sono le feste delle nozze fatte. Ma tosto la trestizia succedette a quella allegrezza, quando il contratto matrimonio non annodato si manifestò per lo mancamento dello ingenerare, il quale spezialmente è detto d'essere la volontà del matrimonio, però che Gulfo la moglie carnalmente non potea conoscere né altra femmina per friggidità naturale, o per altro impedimento perpetuo impedito; ma impertanto volendo ricoprire la sua vergogna, diceva a la moglie che questo gli aveniva per malie che fatte gli erano per alcuno che invidiava gli suoi felici avenimenti. Ma la contessa Mattelda piena di fede dinanzi di Dio e dinanzi dagli uomini magnanimi, di questi malificii nulla intendendo, schernita sé per lo marito tenendo, la camera sua e tutti gli ornamenti e letti e vestimenti e tutte cose comandò che·ssi votassero, e la mensa nuda fece apparecchiare, e chiamato Gulfo suo marito tutto spogliata di vestimenti, e' crini del capo diligentemente scrinati, questa disse: "Niune malie essere possono, meni e usa il nostro congiuramento". E quegli non potendo, allora gli disse la contessa: "Alle nostre grandezze tu presummisti di fare inganno; per lo nostro onore a te perdonanza concediamo, ma comandianti sanza dimoranza che·tti debbi partire, e alle tue propie case ritornare; la qual cosa se di fare ti starai, sanza pericolo di morte non puoi scampare"; e egli spaventato di paura, confessata la verità, avacciò il suo ritorno in Soavia. La contessa adunque tacendo, temendo lo 'nganno, e gli altri incarichi del matrimonio avendo in odio, la sua vita infino a la morte in castità trasportò; e attendendo ad opere di pietà, molte chiese e monisteri e spedali edificò e dotò; e due volte con grande oste in servigio della Chiesa e in suo soccorso potentemente venne, l'una volta contro a Normandi che 'l ducato di Puglia violentemente alla Chiesa aveano tolto, e i confini di Campagna guastavano, i quali la contessa Mattelda divota figliuola di san Piero con Gottifredi duca di Spuleto cacciò infino ad Aquino al tempo d'Allessandro papa secondo di Roma; l'altra volta contra ad Arrigo terzo di Baviera imperadore combattéo e vinselo; e poi altra volta contra ad Arrigo quarto suo figliuolo combattéo per la Chiesa in Lombardia e vinselo al tempo di papa Calisto secondo. E questa fece testamento, e tutto il suo patrimonio sopra l'altare di San Piero offerse, e la Chiesa di Roma ne fece erede; e non molto appresso morì in Dio, e sepulta è nella chiesa di Pisa, la quale magnamente avea dotata. Morta la contessa nell'anno della Natività di Cristo MCXV. Lascereno della contessa Mattelda, e torneremo adietro a seguire la storia d'Arrigo terzo di Baviera imperadore.
<B>XXII</B>
<I>Ancora come Arrigo terzo di Baviera ricominciò guerra contra la Chiesa.</I>
Il detto imperadore Arrigo fu molto savio e malizioso. Per meglio signoreggiare Roma, in tutta Italia sì mise parte e disensione nella Chiesa, tegnendo setta contro al papa con certi cardinali e altri cherici; e a sua petizione uno grande Romano chiamato..., figliuolo di Celso, prese il papa la notte di Natale, quando cantava la prima messa in Santa Maria Maggiore, e miselo in pregione in una sua torre; ma il popolo di Roma quella medesima notte il liberarono, e disfeciono la detta torre, e cacciarono di Roma il detto figliuolo di Celso, però che 'l detto Gregorio papa era uomo di santa vita. Per la quale cosa il detto papa Gregorio settimo in concilio di CX vescovi scomunicò il detto Arrigo imperadore che volea rompere l'unione di santa Chiesa; ma poi vegnendo il detto imperadore in Lombardia alla misericordia del detto papa per molti dì a piedi scalzo in su la neve e in su il ghiaccio, appena gli fu perdonato, ma però non fu mai amico della Chiesa, ma sempre la ditraeva e occupava, e dava le 'nvestiture delle chiese contro al volere del papa. Per la qual cosa, stando egli in Italia, gli elettori della Magna elessono re de' Romani Ridolfo duca di Sassogna, e per aventura il papa ne fu consenziente; onde Arrigo imperadore richiese il detto papa Gregorio che scomunicasse i detti elettori per la detta elezione. Il detto papa nol volle fare, se prima non intendesse a ragione; per la qual cosa Arrigo isdegnato se n'andò in Alamagna, e battaglia fece col detto Ridolfo e vinselo, e poi tornò in Lombardia. E nella città di Brescia raunata la sua corte con XXIIII vescovi e altri prelati che 'l seguivano e erano ribelli del papa, si fece processo contro al detto papa Gregorio come a·llui piacque, più che con ragione. E per quello processo dispuosono il detto papa, e anullò e cassò tutte le sue operazioni, e fece eleggere un altro papa che avea nome Silibero arcivescovo di Ravenna, e fecelo chiamare papa Chimento, e col detto papa venne a Roma, e là il fece consegrare al vescovo di Bologna e a quello di Modona e a quello di Cervia, faccendolo adorare e fare grande reverenzia, e da·llui si fece ricoronare dello imperio; e perciò il primo e il diritto papa Gregorio co' suoi cardinali scomunicato da capo il detto Arrigo e privatolo dello imperio, siccome persecutore della Chiesa, asolvette tutti i suoi baroni di fio e di saramento; per la qual cosa il detto Arrigo assediò il detto papa co' suoi cardinali col favore de' Romani in Castello Santo Angelo, il quale mandato per soccorso in Puglia al buono Ruberto Guiscardo, il quale incontanente venne a Roma con grande oste, e il detto Arrigo col suo papa per tema di Ruberto si partirono dallo assedio, e guastarono per battaglie e arsono la città Leonina, cioè dal lato di San Piero di qua dal Tevero, e infino in Campidoglio; e non potendo resistere alla forza del detto Ruberto Guiscardo e di sua gente, fuggissi col detto suo papa alla città di Siena; e poi il detto Ruberto liberato papa Gregorio e i cardinali, gli mise in sedia e in signoria nel palazzo di Laterano, e molti Romani che furono colpevoli delle dette cose punì gravemente in avere e in persona. E poi il detto papa Gregorio se n'andò nel Regno col detto Ruberto Guiscardo, e morì nella città di Salerno santamente, faccendo Idio assai miracoli per lui. E appresso lui fu fatto papa Vittorio, il quale non vivette più che XVI mesi, e fu avelenato; e poi fu eletto papa Urbano secondo negli anni di Cristo MLXXXXVIIII.
<B>XXIII</B>
<I>Come il detto Arrigo imperadore assediò la città di Firenze.</I>
Negli anni di Cristo MLXXX, tornando il sopradetto Arrigo imperadore da Siena per andarsene in Lombardia, trovando che' Fiorentini teneano la parte della Chiesa e del detto papa Gregorio, e non voleano obbedire né aprire le porte al detto imperadore per le sue ree opere, sì si puose ad oste alla città di Firenze dalla parte ove oggi si chiama Cafaggio, e dov'è oggi la chiesa de' Servi Sante Marie infino a l'Arno, e fece gran guasto a la detta città; e statovi più tempo, e date molte battaglie alla terra, e tutto adoperato invano, imperciò che·lla città era fortissima, e' cittadini bene in concordia e in comune, assalito il suo campo da·lloro, se ne levò a modo di sconfitta, e lasciò tutto il suo campo e arnesi; e ciò fu nel detto anno a dì XXI di luglio. E per lo detto imperadore Arrigo si cominciò a dividere tutta Italia in parte di Chiesa e d'imperio; e partito il detto Arrigo di Toscana, si tornò in Lombardia, e di là ebbe grande guerra colla contessa Mattelda, la quale era divota figliuola di santa Chiesa, e ebbe battaglie co·llui e sconfisselo in campo, e poi lui mal capitato in Lombardia, se n'andò in Alamagna, e poi morì in pregione scomunicato, ove il mise il figliuolo suo medesimo chiamato Arrigo quarto.
XXIV
Come in questi tempi fu il gran passaggio oltremare.
Negli anni di Cristo MLXXXVIIII, essendo papa Urbano secondo, i Saracini di Soria presono la città di Gerusalem, e uccisono molti Cristiani, e molti ne menarono per ischiavi; per la qual cosa il detto papa Urbano fatto concilio generale prima a Chieramonte in Avernia, e poi al Torso in Torena alla sommossa di Piero romito, santa persona, tornato lui di Gerusalem colle dette novelle. E in questo tempo apparve in cielo la stella comata, la quale, secondo che dicono i savi astrolagi, significa gran cose e mutazioni di regni. E certo così seguì poco apresso, che per la presura di Gerusalem quasi tutto il ponente si sommosse a prendere la croce per andare al passaggio d'oltremare, e andovvi innumerabile popolo a cavallo e a piede, più di CCm d'uomini del reame di Francia, e della Magna, e di Proenza, e di Spagna, e di Lombardia, e di Toscana, e della nostra città di Firenze, e di Puglia, intra' quali furono questi signori principi: Gottifredi di Buglione duca del Loreno (questi fu capitano generale, e fu valente uomo e di gran senno e valore); Ugo fratello del re Filippo primo di Francia; Baldovino e Guistasso frategli del detto Gottifredi di Buglione; Anselmo conte de·Ribuamonte, Ruberto conte di Fiandra; Stefano conte di Brois; Rinieri conte di San Gilio; Buiamonte duca di Puglia, e più altri signori e baroni; e passarono per mare, ma i più per terra per la via di Gostantinopoli con molto affanno. E prima presono la città d'Antioccia, e poi più altre in Soria, e Ierusalem, e tutte le città e castella della Terrasanta, e più battaglie ebbono co' Saracini, delle quali bene aventurosamente ebbono vittoria i Cristiani. E 'l detto Gottifredi fu re di Ierusalem, ma per sua umiltà, perché Cristo v'ebbe corona di spine, non volle in suo capo corona d'oro. Ma chi a pieno queste storie vorrà sapere legga i·libro del detto passaggio, ove sono distinte ordinatamente. E in questo tempo fatto il conquisto intorno gli anni di Cristo MCXX, si cominciarono le magioni del tempio e dello spedale di Ierusalem.
XXV
Come i Fiorentini cominciarono a crescere il loro contado.
Negli anni di Cristo MCVII, essendo la nostra città di Firenze molto montata e cresciuta di popolo, di genti, e di podere, ordinarono i Fiorentini di distendere il loro contado di fuori, e allargare la loro signoria, e qualunque castello o fortezza non gli ubbidisse, di fargli guerra. E nel detto anno prima presero per forza Monte Orlandi ch'era di sopra da Gangalandi e certi cattani il teneano, i quali non volendo ubbidire alla città di Firenze furono distrutti, e il castello disfatto e abattuto.
XXVI
<I>Come i Fiorentini vinsono e disfeciono il castello di Prato.</I>
E nel detto tempo e anno medesimo i Pratesi si rubellarono contra a' Fiorentini, onde i Fiorentini v'andarono ad oste per comune, e per assedio il vinsono e disfeciollo. Ma in quegli tempi Prato era di picciolo sito e podere, che di pochi tempi dinanzi s'erano levati d'uno poggio, ch'è tra Prato e Pistoia presso a Montemurlo, che·ssi chiamava Chiavello, ove in prima abitavano com'uno casale e villate, e erano fedeli de' conti Guidi, e per loro danari si ricomperarono, e puosonsi in quello luogo ov'è oggi la terra di Prato, per essere in luogo franco da signori; e Prato gli puosono nome, però che dove è oggi la terra avea allora uno bello prato il quale comperarono, e ivi si puosono ad abitare.
XXVII
Come fu eletto imperadore Arrigo quarto di Baviera, e come perseguitò la Chiesa.
Nel detto anno MCVII fu eletto per gli prencipi elettori della Magna il re de' Romani Arrigo IIII di Baviera figliuolo del sopradetto Arrigo terzo, e regnò anni XV; e se 'l padre fu nimico di santa Chiesa, come detto avemo, sì fu questo Arrigo maggiormente, che negli anni di Cristo MCX passando in Italia per venire a Roma per la corona, sì mandò suoi ambasciadori a lettere a papa Pasquale che allora regnava nel papato, e a' suoi cardinali, ch'egli volea essere amico e fedele di santa Chiesa, e volea rifiutare e restituire al papa tutte le 'nvestiture de' vescovi e abati e altri cherici, le quali il padre od altri suoi anticessori aveano tolti alla Chiesa. Ciò era che in Alamagna e in Italia in più parti si metteano e confermavano i vescovadi e gli altri prelati cui e come loro piacea; onde erano nate le discordie tra gl'imperadori e la Chiesa. E queste cose fare, promettea di confermare per suo saramento e de' suoi baroni; per la qual cosa il detto papa Pasquale il confermò a essere imperadore. E lui vegnendo a Roma per la via che viene di verso Montemalo, tutto il chericato col popolo di Roma gli si fece incontro, con grande processione e triunfo; e 'l detto papa e' suoi cardinali parati l'attendeano in su i gradi dinanzi a la chiesa di San Piero; e giunto il detto Arrigo, per reverenzia basciò il piè al papa, e poi il papa il basciò in bocca in segno di pace e d'amore in su la porta detta Argentea, e insieme a mano a mano entrando in San Piero, e giunti in su la porta chiamata Profica, il detto papa domandò al detto Arrigo il saramento il quale gli avea promesso, di rendere le 'nvestiture de' vescovi e prelati. Onde fatta il papa la detta richesta, il detto Arrigo consigliatosi alquanto in disparte co' suoi baroni, subitamente a la sua gente d'arme fece pigliare il detto papa e' cardinali, e col favore de' malvagi Romani, sì come il tradimento era ordinato, gli fece mettere in pregione; e simigliantemente avea in Alamagna guerreggiato molto col padre Arrigo terzo, e vintolo in battaglia, e messolo in pregione nella città di Legge, e ivi fattolo morire. Poi stato il detto papa Pasquale e' suoi cardinali alquanto in pregione, sì fu accordo da·llui al detto Arrigo; e trattolo di pregione, e non potendo fare altro, lasciò ad Arrigo le 'nvestiture, e giurò egli e' suoi cardinali di non iscomunicarlo per offese ch'avesse loro fatte, e comunicossi il papa co·llui del corpo di Cristo per più fermezza di pace, e sì 'l coronò imperadore di fuori dalla città di Roma. E dapoi che 'l detto papa fu preso, si levarono tre papi contra lui, non degnamente, in diversi tempi: l'uno ebbe nome Alberto, l'altro Agnulfo, e l'altro Teodorico; ma ciascuno regnò poco, e ebbono piccolo podere contra il detto papa Pasquale. Ma morto Pasquale, fu per gli cardinali eletto papa Gelasio; ma per cagione che 'l detto Arrigo non sentì la detta lezione, né vi fu presente, sì si fece uno suo papa uno Spagnuolo chiamato Bordino; per la qual cosa il detto papa Gelasio co' suoi cardinali per paura d'Arrigo si fuggirono a Gaeta ond'egli era nato, e poi si misono per mare infino in Proenza, e andarne in Francia per aiuto al re di Francia; ma in quello viaggio morìo il detto papa a la città d'Amiaco, e lui morto, per gli cardinali fue fatto di concordia papa Calisto secondo di Borgogna, il quale papa Calisto iscomunicò il detto Arrigo imperadore e suoi seguaci, sì come persecutore di santa Chiesa, e tornando verso Roma per Proenza e per Lombardia e per Toscana, da tutti fu ricevuto sì come degno papa, e fattogli grande reverenza. Sentendo la sua venuta Bordino, il papa ch'avea fatto Arrigo imperadore, per paura si fuggì di Roma a Sutri; ma per gli Romani fu in Sutri assediato e preso, e menato a Roma in diligione in su uno cammello col viso volto addietro a la groppa, e legatagli in mano la coda del cammello, e misollo in pregione nella rocca di Fummone in Campagna, e ivi morìo.
XXVIII
Come a la fine il detto Arrigo quarto imperadore tornò all'obedienza di santa Chiesa.
Il sopradetto imperadore Arrigo fatta molta guerra a la Chiesa, e stato ancora vinto in battaglia in Lombardia da l'antidetta contessa Mattelda come fu il padre, si tornò a coscienza, e al detto papa Calisto rassegnò tutte le 'nvestiture de' vescovi e arcivescovi e abati per anella e pasturali, e rifiutonne ogni ragione e usanza ch'egli o suoi antichi n'avessero presa dalla Chiesa, e ristituìo il Patrimonio di San Piero e ogni possessione ch'egli o sua gente aveano prese o vendute della Chiesa o delle chiese, per cagione della guerra avuta colla detta Chiesa, e con papa Pasquale, e co gli altri; onde il detto papa Calisto fece pace co·llui e ricomunicollo; ma poco vivettono appresso lo 'mperadore e 'l detto papa, e dicesi per le genti che per cagione che 'l detto Arrigo s'era male portato del padre, che per giusto giudicio morìo sanza niuna reda né figliuolo, né maschio né femmina, gli anni di Cristo MCXXV; e succedette a·llui Lottieri di Sassogna; e in lui finiro gl'imperadori della casa di Baviera, che IIII Arrighi aveano tenuto lo 'mperio l'uno appresso l'altro, e suti li tre molto contrarii a santa Chiesa. Lasceremo ora alquanto degl'imperadori e papa, e torneremo a nostra materia de' fatti di Firenze, ch'assai cominciaro a·ffare i Fiorentini delle novità e guerre a' loro vicini per accrescere loro stato.
XXIX
Come i Fiorentini isconfissero il vicario d'Arrigo quarto imperadore.
Negli anni di Cristo MCXIII i Fiorentini feciono oste a Montecasciolo, il quale facea guerra alla città, e avealo rubellato messere Ruberto Tedesco, vicario dello 'mperadore Arrigo in Toscana, e stava con sue masnade in Samminiato del Tedesco; e però era Samminiato sopranomato del Tedesco, però che' vicari degl'imperadori ch'erano co le loro masnade de' Tedeschi stavano nella detta terra a guerreggiare le città e castella di Toscana che non ubbidissero gl'imperadori; il quale messere Ruberto fu da' Fiorentini sconfitto e morto, e 'l castello preso e disfatto.
<B>XXX</B>
<I>Come nella città di Firenze per due volte s'apprese il fuoco, onde arse quasi gran parte della città.</I>
Negli anni di Cristo MCXV, del mese di maggio, s'apprese il fuoco in borgo Santo Appostolo, e fu sì grande e impetuoso che buona parte della città arse con grande danno de' Fiorentini. E in quello anno medesimo morì la buona contessa Mattelda. E l'anno appresso del MCXVII anche si prese il fuoco in Firenze, e buonamente ciò che non fu arso al primo fuoco arse al secondo, onde i Fiorentini ebbono grande pestilenzia, e non sanza cagione e giudicio di Dio; imperciò che·lla città era malamente corrotta di resia, intra l'altre della setta degli epicuri per vizio di lussuria e di gola, e era sì grande parte che intra' cittadini si combatteva per la fede con armata mano in più parti di Firenze, e durò questa maladizione in Firenze molto tempo infino alla venuta delle sante religioni di santo Francesco e di santo Domenico, le quali religioni per gli loro santi frati, commesso loro l'oficio della eretica pravità per lo papa, molto la stirparo in Firenze, e in Milano, e in più altre città di Toscana e di Lombardia al tempo del beato Pietro martiro, che da' paterini in Milano fu martirizzato, e poi per gli altri inquisitori. E per l'arsione de' detti fuochi in Firenze arsono molti libri e croniche che più pienamente facieno memoria delle cose passate della nostra città di Firenze, sicché poche ne rimasono; per la qual cosa a noi è convenuto ritrovarle in altre croniche autentiche di diverse città e paesi, quelle di che in questo trattato è fatto menzione in gran parte.
<B>XXXI</B>
<I>Come i Pisani presono Maiolica, e' Fiorentini guardarono la città di Pisa.</I>
Negli anni di Cristo MCXVII i Pisani feciono una grande armata di galee e di navi, e andarono sopra l'isola di Maiolica che·lla teneano i Saracini; e come fu partita la detta armata di Pisa e già raunata insieme sopra Vada per fare loro viaggio, i Lucchesi per comune vennero a oste sopra Pisa per prendere la terra. I Pisani avendo la novella, per paura che' Lucchesi non occupassono la terra, non ardivano d'andare innanzi col loro stuolo, e ritrarresi della 'mpresa non pareva loro onore al grande spendio e apparecchiamento ch'aveano fatto; presono per consiglio di mandare loro ambasciadori a' Fiorentini, i quali erano in quegli tempi molto amici i detti Comuni, e pregaro che piacesse loro di guardare loro la cittade, confidandosi di loro come di loro intimi amici e cari fratelli. Per la qual cosa i Fiorentini accettarono di servirgli, e di fare loro guardare la città da' Lucchesi e da tutta gente; per la qual cosa il Comune di Firenze vi mandò gente d'arme assai a cavallo e a·ppiede, e puosonsi ad oste di fuori da la città a due miglia, e per onestà delle loro donne non vollono entrare in Pisa, e mandaro bando che nullo non entrasse nella città sotto pena della persona: uno v'entrò, sì fu condannato a impiccare. I Pisani vecchi ch'erano rimasi in Pisa, pregando i Fiorentini che per loro amore gli dovessero perdonare; no·llo vollono fare. E i Pisani contradissero, e pregaro che almeno in su il loro terreno nol facessono morire, onde segretamente i Fiorentini dell'oste feciono a nome del Comune di Firenze comperare uno campo di terra da uno villano, e in su quello rizzarono le forche, feciono la giustizia per mantenere il loro decreto. E tornata l'oste de' Pisani dal conquisto di Maiolica, rendero molte grazie a' Fiorentini, e domandaro quale segnale del conquisto volessono, o le porte del metallo, o due colonne del profferito ch'aveano recate e tratte di Maiolica. I Fiorentini chiesono le colonne, e' Pisani le mandaro in Firenze coperte di scarlatto; e per alcuno si disse che innanzi che le mandassero per invidia le feciono affocare; e le dette colonne sono quelle che sono diritte dinanzi a San Giovanni.
<B>XXXII</B>
<I>Come i Fiorentini presero e disfecero la rocca di Fiesole.</I>
Negli anni di Cristo MCXXV i Fiorentini puosono oste a la rocca di Fiesole, che ancora era in piede e molto forte, e tenealla certi gentili uomini cattani stati della città di Fiesole, e dentro vi si riduceano masnadieri e sbanditi e mala gente che alcuna volta faceano danno alle strade e al contado di Firenze, e tanto vi stettero all'assedio che per difalta di vittuaglia s'arendéo, che per forza mai non s'arebbe avuta, e feciolla tutta abbattere e disfare infino alle fondamenta, e feciono decreto che mai in su Fiesole non s'osasse rifare niuna fortezza.
<B>XXXIII</B>
<I>Ove si pigliano le misure delle miglia del contado di Firenze.</I>
La misura delle miglia del contado di Firenze si prendono ed è loro termine de le V sestora che sono di qua da l'Arno a la chiesa, overo Duomo, di Santo Giovanni; e del contado di là dal fiume d'Arno si prendono alla coscia del ponte Vecchio di qua da l'Arno dal piliere dov'è la figura di Mars. E questa fue l'antica consuetudine de' Fiorentini; e il migliaio si fu mille passini, che ogni passino si è tre braccia a la nostra misura.
<B>XXXIV</B>
<I>Come Ruggieri duca di Puglia ebbe guerra co la Chiesa e poi si riconciliò col papa, e come poi furono in Roma due papi a uno tempo.</I>
In questi tempi, gli anni di Cristo MCXXV, regnando papa Onorio secondo, nato di Bologna, i baroni di Puglia quasi si rubellarono da Ruggieri duca di Puglia e figliuolo di Ruberto Guiscardo, e con lusinghe il detto papa condussono infino a Aquino per fare torre il regno a Ruggieri; ma Ruggieri co le sue forze sconfisse l'oste del papa con grande dannaggio di sua gente; e ciò fatto, il detto Ruggieri non ne montò in superbia, ma con grande umilità venne al papa e gittoglisi a' piedi chiedendogli misericordia, e il papa gli puose il calcio in sul collo e disse il verso del Saltero che dice: "Super aspidem et basaliscum ambulabis, et conculcabis leonem et draconem". E ciò detto, gli perdonò, e fecelo levare, e basciollo in segno di pace. Il quale Ruggieri mostrò al detto papa come i suoi baroni falsamente gli aponeano, e com'egli era fedele di santa Chiesa com'era stato il padre; onde il papa lui confermò il regno, e coronollo del reame di Cicilia, e grande vendetta fece de' suoi ribelli. Poi morto il detto papa Onorio, fu eletto papa Innocenzio secondo gli anni di Cristo MCXXX. Questi fue Romano, e regnò papa XIII anni; ma alla sua lezione nacque in Roma grande scisma nella Chiesa, imperciò che uno messere Piero ch'era cardinale figliuolo di Pietro Leone possente Romano, per forza si fece fare papa e chiamossi Innacreto, e con sua forza combatté papa Innocenzio e suoi cardinali nelle case degl'Infragnipani di Roma. Quello messere Pietro Leone ispogliò tutte le chiese di Roma d'ogni tesoro sacro per farne moneta, il quale tesoro fue infinito, e con quello corruppe molti Romani contra Innocenzio papa, il quale non possendo stare in Roma per la forza di quello figliuolo di Pietro Leoni, iscomunicatolo, cassò ogni suo ordine; se n'andòe in Francia in su due galee co' suoi cardinali, e da Luis il Grosso re di Francia furono ricevuti onorevolemente. E consecrò re il detto Luis, e egli promise d'atare la Chiesa con tutta sua forza. Ma essendo papa Innocenzio in Francia, fu eletto imperadore Lottieri di Sassogna, il quale con grande potenzia di gente di suo paese passò in Italia e menonne seco il detto papa Innocenzio e' cardinali, e con molti vescovi e arcivescovi ch'erano stati al concilio, prima a Chieramonte in Alvernia e poi al Loreno, e rimise in Roma in sedia e signoria il detto papa, e per forza cacciò di Roma Pietro Leoni e tutti i suoi seguaci, e poi prese la corona dello 'mperio per mano del detto papa Innocenzio negli anni di Cristo MCXXX. Questo Lottieri regnò re de' Romani e imperadore XI anni, e fue cristianissimo e fedele di santa Chiesa, e per cagione che Ruggieri figliuolo del primo Ruggieri ch'era stato figliuolo di Ruberto Guiscardo, essendo re di Cicilia e di Puglia, avendo tenuta la setta di figliuolo Petro Leoni contra il detto papa Innocenzio, questo Lottieri imperadore con papa Innocenzio insieme, e coll'armata de' Pisani e de' Genovesi, passaro nel regno di Puglia per mare e per terra sopra il detto Ruggieri che s'era rubellato dal papa e dalla Chiesa, e lui colla detta forza cacciarono di Puglia; e fuggissi in Cicilia; e toltogli il regno, feciono duca di Puglia il conte Cammone, ma poco regnò, che poi tornò la signoria al figliuolo di Ruggieri, ciò fu il buono re Guiglielmo, come innanzi faremo menzione. E per cagione dell'aiuto che' Genovesi e' Pisani feciono a la Chiesa sopra il duca di Puglia, in generale concilio in Roma fu fatto grazia d'arcivescovado a la città di Genova, dandosi più vescovadi in sua signoria della riviera di Genova e di Lombardia. E simile fece a' Pisani, dandogli sotto lui certi vescovadi di Sardigna, e quello di Massa in Maremma, e quello di Grosseto. E ciò fatto, il detto Lottieri imperadore bene aventurosamente si tornò in Alamagna, e poco appresso morì, e fu eletto re de' Romani Currado secondo di Sassogna negli anni di Cristo MCXXXVIII, e regnò XV anni, ma non fu coronato a Roma dello imperio.
<B>XXXV</B>
<I>Conta del secondo passaggio d'oltremare.</I>
Nel tempo del sopradetto Currado re de' Romani furono tre papi a Roma l'uno appresso l'altro: papa Celestino secondo regnò VII mesi; e poi fu Luzio primo, ancora vivette poco; poi fu papa Eugenio di Pisa che regnò anni VIII e mesi. Al tempo di questo papa, gli anni di Cristo MCXLVII, Luis il Pietoso re di Francia per amenda d'una guerra ch'egli a torto avea presa col re di Navarra per torreli Campagna, sì promise d'andare al soccorso della Terrasanta, e per la sua andata si commosse tutto il suo reame per andare oltremare, e richiese il detto Currado re de' Romani che gli piacesse d'imprendere co·llui il detto passaggio, e egli l'accettò allegramente, e mandarono pregando il detto papa Eugenio che passasse in Francia a·lloro dare la croce, e così fece; e coronò il detto re Luis. E poi crociati i detti re Currado e re Luis tra' confini d'Alamagna e di Francia per comandamento del detto papa per mano di santo Bernardo abate di Chiaravalle, i Franceschi e' Tedeschi, innumerabile gente, passarono per mare con CC navi, e i più per terra per Ungaria e Pannonia in Grecia, ma con molto affanno per la retà de' Greci, che per fargli morire o amalare mischiavano la calcina colla farina, onde molti ne moriro. E poi co' Turchi in Turchia ebbono grande contasto, e fecero più battaglie. Bene aventurosamente vinsono contra' Saracini, ma poco vi dimoraro, che Luis prima si tornò in Francia, e poi Currado in Alamagna, e sanza venire a Roma, e di là si morìo sanza benedizione imperiale. E 'l papa Eugenio dopo molte buone opere fatte morìo a Roma gli anni di Cristo MCLIIII. E dopo lui succedette papa Anastasio IIII, ma vivette poco più d'uno anno. E poi fu papa Adriano IIII, che coronò il primo Federigo imperadore. Torneremo alle novità che furono in Firenze in questo tempo che noi avemo intralasciato per seguire nostro trattato.
<B>XXXVI</B>
<I>Come i Fiorentini disfecero il castello di Montebuoni.</I>
Negli anni di Cristo MCXXXV, essendo in piè il castello di Montebuono, il quale era molto forte e era di que' della casa de' Bondelmonti, i quali erano cattani e antichi gentili uomini di contado, e per lo nome del detto loro castello avea nome la casa Bondelmonti; e per la fortezza di quello, e che la strada vi correa a piè, coglievano pedaggio; per la qual cosa a' Fiorentini non piacea né voleano sì fatta fortezza presso a la città, si v'andarono ad oste del mese di giugno e ebbollo, a patti che 'l castello si disfacesse, e l'altre possessioni rimanessero a' detti cattani, e tornassero ad abitare in Firenze. E così cominciò il Comune di Firenze a distendersi, e colla forza più che con ragione, crescendo il contado e sottomettendosi a la giuridizione ogni nobile di contado, e disfaccendo le fortezze.
<B>XXXVII</B>
<I>Come i Fiorentini furono sconfitti a Montedicroce da' conti Guidi.</I>
Negli anni di Cristo MCXLVI, avendo i Fiorentini guerra co' conti Guidi, imperciò che colle loro castella erano troppo presso a la città, e Montedicroce si tenea per loro e facea guerra; per la qual cosa, per arte, de' Fiorentini v'andarono ad oste co·lloro soldati, e per troppa sicurtade non faccendo buona guardia furono sconfitti dal conte Guido vecchio e da·lloro amistà Aretini e altri, del mese di giugno. Ma poi gli anni di Cristo MCLIIII i Fiorentini tornaro a oste a Montedicroce, e per tradimento l'ebbono, e disfeciollo infino alle fondamenta; e poi le ragioni che v'aveano i conti Guidi venderono al vescovado di Firenze, non possendole gioire né averne frutto. E d'allora innanzi non furono i conti Guidi amici del Comune di Firenze, e simile gli Aretini che gli aveano favorati.
<B>XXXVIII</B>
<I>Come i Pratesi furono sconfitti da' Pistolesi a Carmignano.</I>
Negli anni di Cristo MCLIIII, avendo guerra i Pratesi co' Pistolesi per lo castello di Carmignano, e essendovi cavalcati i Pratesi colle masnade e aiuto de' Fiorentini, sì vi furo sconfitti da' Pistolesi. Lasceremo alquanto de' nostri fatti di Firenze, imperciò che infra XVI anni appresso poche notevoli cose v'ebbe, e cominceremo il sesto libro, e diremo del primo Federigo imperadore, il quale egli e le sue rede feciono di grandi e diverse mutazioni in Italia, e a la Chiesa di Roma, e a la nostra città di Firenze; onde molto ne cresce matera, siccome innanzi faremo per gli tempi menzione.
<B>LIBRO SESTO</B>
<B>I</B>
<I>Qui comincia il VI libro: come il primo Federigo detto di Stuffo di Soave fu imperadore di Roma, e de' suoi discendenti; conseguendo i fatti di Firenze che furono a loro tempi e di tutta Italia.</I>
Dopo la morte di Currado di Sassogna re de' Romani fue eletto imperadore Federigo Barbarossa detto Federigo Grande, overo primo, della casa di Soave, e chi il sopranomò di Stuffo. Questi, rimesse le boci degli elettori in lui, si chiamò sé medesimo, e poi passò in Italia, e fu coronato a Roma per papa Adriano quarto gli anni di Cristo MCLIIII, e regnò anni XXXVII che re de' Romani e che imperadore. Questo Federigo fu largo e bontadoso, facondioso e gentile, e in tutti suoi fatti glorioso. A la prima fue amico di santa Chiesa al tempo del detto papa Adriano, e fece rifare Tiboli che era disfatto, ma il dì medesimo che fu coronato da' Romani a la sua gente ebbe grande zuffa e battaglia nel prato di Nerone, ove il detto imperadore era attendato, a grande danno de' Romani, e dentro nel Portico di San Piero; e quello tutto arse e disfece, cioè la parte di Roma ch'è intorno a San Piero. Questi poi tornando in Lombardia il primo anno del suo imperiato, perché la città di Spuleto no·ll'ubbidìo, imperciò ch'era della Chiesa, vi si puose ad oste, e vinsela, e tutta la fece disfare; e per volere occupare le ragioni della Chiesa, tosto si fece nimico; ché dopo la morte d'Adriano papa gli anni di Cristo MCLVIIII fu fatto papa Allessandro terzo di Siena, che regnò XXII anni: questi, per mantenere la giuridizione di santa Chiesa, ebbe grande guerra col detto Federigo imperadore, e per più tempo; il quale imperadore gli fece fare incontro IIII antipapi scismatici in diversi tempi, l'uno appresso l'altro, che i tre furono cardinali. Il primo fu Attaviano che·ssi fece chiamare Vittorio; il secondo Guido di Chermona che si fece chiamare Pasquale; il terzo fu Giovanni Strumense che si fece chiamare Calisto; il quarto ebbe nome Landone il quale si fece chiamare Innocenzo; onde nella Chiesa di Dio ebbe grande scisma e afflizzione, imperciò che questi papi colla forza di Federigo imperadore teneano tutto il Patrimonio San Piero e 'l ducato, che 'l detto papa Allessandro non avea nulla signoria. Ma il detto papa Allessandro contro a tutti valentemente pugnò, e gli scomunicò: i quali tutti l'uno appresso l'altro, lui regnando, moriro di mala morte. Ma regnando eglino colla forza di Federigo, il detto diritto papa Allessandro, non potendo stare in Roma, se n'andò colla corte in Francia al re Luis il Pietoso, il quale il ricevette graziosamente. E dicesi in Francia che vegnendo il detto papa Allessandro a Parigi celatamente con poca compagnia a guisa d'uno picciolo prelato, incontanente che fu a San Moro presso di Parigi, non avendo del papa novella niuna, per divino miracolo si levò una boce: "Ecco il papa, ecco il papa!"; e cominciaro a sonare le campane, e lo re col chericato e popolo di Parigi gli si fece incontro, onde il papa si maravigliò forte, però che nullo sapea di sua venuta; e ringraziò Idio, e palesossi al re e al popolo, e cominciò a segnare. E poi in Francia fece il detto papa concilio generale a la città del Torso in Torena, nel quale scomunicò il detto Federigo e dispuose dello 'mperio, e assolvette tutti i suoi baroni di suo saramento, e dispuose quegli della casa della Colonna di Roma, che mai né eglino né loro successori potessono avere dignità in santa Chiesa, però ch'al tutto si tennero all'aiuto e favore del detto Federigo contra la Chiesa. E in quello concilio tutti gli re e signori di ponente si promisero e allegarono con Luis re di Francia a l'aiuto del detto papa Allessandro e di Santa Chiesa contro a Federigo detto, e simile molte città di Lombardia si rubellaro al detto Federigo: ciò fu Milano, e Chermona, e Piagenza, e tennero col papa e colla Chiesa. Per la qual cosa il detto Federigo passando per la Lombardia per andare in Francia contra Luis re che riteneva papa Allessandro, trovando la città di Melano che gli s'era ribellata, sì·ll'asediò e per lungo assedio l'ebbe l'anno di Cristo MCLXII del mese di marzo, e fecele disfare le mura, e ardere tutta la città, e arare e seminare di sale; e' corpi di tre re, overo magi, che vennoro ad adorare Cristo per lo segno della stella, i quali erano nella città di Milano in tre tombe cavate di profferito, gli fece trarre di Milano e mandargline a Cologna, onde tutti i Lombardi furono molto crucciosi. E poi passando i monti per distruggere il reame di Francia collo aiuto del re di Buem e con quello di Dazia, cioè Dannesmarce, entrò in Borgogna; ma lo re Luis di Francia coll'aiuto d'Arrigo re d'Inghilterra suo genero, e con più signori e baroni furono a contradiallo, sicché per la grazia d'Iddio non ebbe nullo podere, né v'aquistò terra, ma per difetto di vittuaglia si tornaro adietro quegli re in loro paesi, e Federigo in Italia. E faccendo guerreggiare i Romani perché s'erano tornati dalla parte della Chiesa e di papa Allessandro, essendo i detti Romani a oste a Toscolano, per lo cancelliere del detto Federigo colle sue masnade de' Tedeschi furono sconfitti ne·luogo detto Monte del Porco, e molti Romani presi, e morti sì grande quantità che nelle carra tornarono morti a Roma per soppellirli; e questa sconfitta si dice che fue per tradimento de' Colonnesi, i quali furono sempre collo imperadore e contro alla Chiesa, onde furono per lo papa privati d'ogni benificio temporale e spirituale; e per la detta sconfitta i Romani cacciarono di Roma i Colonnesi, e disfeciono loro una antica e bellissima fortezza che si chiamava l'Agosta, la quale si dice che fece fare Cesare Agusto; e ciò fu gli anni di Cristo MCLXVII. E ciò fatto, lo 'mperadore venne all'assedio di Roma per distruggerla, e aveala molto stretta. I Romani feciono al chericato di Roma prendere la testa di santo Piero e quella di santo Paolo, e portarle a processione per tutta Roma; per la qual cosa i Romani si crocciaro tutti contra lo 'mperadore, e 'l primo che·lla prese fue messere Matteo Rosso il vecchio degli Orsini, avolo che fu di papa Niccola terzo, e per vecchiezza avea lasciate l'armi e preso abito di penitenzia; e per questa cagione lasciò l'abito e riprese l'armi, onde molto fue commendato; e per questa cagione egli e' suoi vennero in grazia della Chiesa, e agrandiro molto. Apresso il detto messere Matteo prese la croce Gianni Buovo, grande cittadino di Roma, e poi tutti gli altri con grande animo e volontà; per la qual cosa, sentendolo lo 'mperadore, o per paura, ma più per miracolo de' beati appostoli, subito si partì dall'assedio di Roma con sua gente, e tornossi a Viterbo, e la città di Roma fu liberata.
<B>II</B>
<I>Come papa Allessandro tornò di Francia a Vinegia, e lo 'mperadore venne a le sue comandamenta.</I>
Poi appresso stato il detto papa Allessandro lungamente in Francia, colla forza del re di Francia e di quello d'Inghilterra tornò colla corte sua in Italia per mare, e capitando in Cicilla, dal re Guiglielmo che allora n'era re, divotamente fu ricevuto e favorato, riconoscendosi fedele di santa Chiesa, e che·ll'isola tenea da·llui; per la qual cosa il detto papa il ne confermò re di Cicilia, e rendégli Puglia, onde il detto re Guiglielmo col suo navilio per mare l'acompagnò infino a la città di Vinegia, nella quale volle andare il detto papa per più sicurtà di lui, acciò che Federigo imperadore nol potesse offendere; e per favorare i fedeli di santa Chiesa di Lombardia fece sua stanza nella detta città di Vinegia, e da' Viniziani reverentemente fu ricevuto e onorato; per lo cui favore i Milanesi rifeciono la città di Milano gli anni di Cristo MCLXVIII. Poi poco tempo apresso i Milanesi coll'aiuto de' Piagentini e di Chermonesi e d'altre città di Lombardia che obbedieno santa Chiesa feciono una terra in Lombardia, quasi per una bastita e battifolle, incontro alla città di Pavia, che sempre fu contra Milano, e si tenea collo imperio; e quella città fatta, per onore del detto papa Allessandro, e perché fosse più famosa, la chiamarono Allessandra; e poi fu sopranomata de la Paglia, a dispregio, per quegli di Pavia; e a priego de' Lombardi le diede il papa vescovo, e dispuose quello di Pavia e tolsegli la dignità del palio e della croce, imperciò che sempre avea tenuto con Federigo imperadore contro a la Chiesa.
<B>III</B>
<I>Come lo 'mperadore Federigo Barbarossa si riconciliò co la Chiesa, e passò oltremare, e là morìo.</I>
Veggendosi lo 'mperadore Federigo molto abbassato di suo stato e signoria, e molte città di Lombardia e di Toscana ribellarsi da·llui, e teneansi colla Chiesa e col papa Allessandro, il quale era molto montato in istato col favore del re di Francia e di quello d'Inghilterra e di Guiglielmo re di Cicilia, si procacciò di riconciliarsi colla Chiesa e col papa, acciò che al tutto non perdesse l'onore dello 'mperio, e con solenni ambasciadori mandò a Vinegia a papa Allessandro a dimandare pace, promettendo di fare ogni amenda a santa Chiesa; il quale dal detto papa fue esaudito benignamente. Per la qual cosa il detto Federigo andòe a Vinegia, e gittossi a' piè del detto papa a misericordia. Allora il detto papa gli puose il piede ritto in sul collo, e disse il verso del Saltero che dice: "Super aspidem et basaliscum ambulabis, et conculcabis leonem et draconem", e lo 'mperadore rispuose: "Non tibi set Petro", e 'l papa rispuose: "Ego sum vicarius Petri"; e poi gli perdonò ogni offesa ch'avesse fatta a santa Chiesa, faccendo ristituire ciò che tenesse di santa Chiesa; e così promise e fece con patti, che ciò che·ssi trovasse che·lla Chiesa in quello dì tenesse nel Regno a perpetuo fosse di santa Chiesa; e trovossi che Benivento; e questo fu l'origine perché la Chiesa tiene per sua la città di Benivento. E ciò fatto, il pacificò co' Romani e con Manuello imperadore di Gostantinopoli, e con Guiglielmo re di Cicilia, e co' Lombardi, e per amenda e penitenzia gl'impuose, ed elli promise, d'andare oltremare al soccorso della Terrasanta, imperciò che 'l Saladino soldano di Babillonia avea ripresa Ierusalem, e più altre terre che teneano i Cristiani; e così fece. Poi il detto Federigo, lui crocciato, gli anni di Cristo MCLXXXVIII con grandissima oste d'Alamagna si partìo, e andò per terra per Ungaria e Gostantinopoli infino in Erminia; ma giunto il detto Federigo in Erminia, essendo di state e grande caldo, bagnandosi a diletto in uno piccolo fiume chiamato il fiume del Ferro, disaventuratamente affogò; e ciò si crede che fosse per giudicio di Dio per le molte persecuzioni che fece a santa Chiesa: e di lui rimase uno figliuolo il quale ebbe nome Arrigo che 'l fece eleggere re de' Romani innanzi che passasse oltremare negli anni di Cristo MCLXXXVI; e morto il detto Federigo, la moglie col figliuolo e colla loro gente, tutto che molta ne morisse in quello viaggio, si tornaro di Soria in ponente sanza niuno acquisto fatto. Torneremo omai alla nostra matera de' fatti di Firenze e d'altre cose che furono al tempo che regnò il detto Federigo; ma prima diremo del re Filippo di Francia e del re Ricciardo d'Inghilterra ch'andarono oltremare al soccorso della Terrasanta in questo medesimo tempo.
<B>IV</B>
<I>Come il re di Francia e quello d'Inghilterra andarono oltremare al passaggio.</I>
E nel detto passaggio lo re Filippo il Bornio di Francia e lo re Ricciardo d'Inghilterra con molti conti e baroni di Francia, e d'Inghilterra, e di Proenza, e d'Italia, crociati, passaro per mare in Soria, e assediaro e presero la città di Tolomaida, detta Acri, che la teneano i Saracini, e quella ebbono per assedio; ma molta di loro buona gente vi moriro di pestilenzia d'infermitade; e in questo viaggio s'incominciò grande discordia tra 'l detto re Filippo il Bornio e 'l re Ricciardo d'Inghilterra. L'una cagione fu perché il re Ricciardo volea la signoria d'Acri, siccome il re Filippo, e assai avea operato al conquisto; appresso, perché il re Filippo gli tolse, tornato lui in Francia, la ducea di Normandia per forza per CCm di livre di parigini che gli avea prestati quando andò oltremare sopra la detta Normandia, e no·lla lasciò ricogliere, come toccammo adietro nel capitolo ove raccontammo il lignaggio e' discendenti de' presenti re di Francia. Ma imperciò che gli antichi del re Ricciardo d'Inghilterra e poi gli suoi successori feciono di grandi cose le quali si mischiano molto a la nostra matera, e ancora perché sono stati possenti re tra' Cristiani, si è convenevole che in questo si racconti di loro progenia, e come furono distratti de·lignaggio de' Normandi, siccome fue il buono Ruberto Guiscardo, come di lui avemo adietro fatta menzione, in questo modo: che il primo duca di Normandi che fu Cristiano, fatto per lo 'mperadore Carlo il Grosso e re di Francia, come adietro è fatta menzione; del detto Ruberto nacque Guiglielmo detto Spadalunga; di Guiglielmo nacque Ruberto e Ricciardo; di Ricciardo nacque Ricciardo che fu padre di Ruberto Guiscardo re di Puglia; e di Ruberto che rimase duca di Normandia nacque Ruberto il Bastardo che l'acquistò in questo modo: credendosi giacere con una figliuola d'uno suo ricco borgese la quale molto gli piacea, la madre per iscampare la vergogna de la figliuola trovòe una molto bella damigella povera che molto si somigliava colla figlia, e quella inniscambio di lei mise in camera col detto duca Ruberto, onde nacque il detto Guiglielmo il Bastardo; e la notte che la madre il generò le venne in visione che di corpo l'usciva una quercia e crescea tanto che i suoi rami si stendeano insino inn-Inghilterra; e veramente fu avisione di vera profezia, come diremo appresso. E perché bastardo fosse, nonn-è da tacere di lui, che come fue in etade, e seppe di sua nazione, incontanente si mise in fatti d'arme, e fu maraviglioso in prodezza e senno e in cortesia, e per sua valentia passò in Inghilterra, e combatté con Raul che allora n'era re istratto di Spagna, e lui vinse e uccise in battaglia, e fecesi re d'Inghilterra gli anni di Cristo MLXVI, e regnòe XXVI anni. E dopo lui regnòe Guiglielmo suo figliuolo, e dopo Guiglielmo regnòe Arrigo suo figliuolo, il quale ebbe per moglie la figliuola del re Luis il Pietoso re di Francia; e questo Arrigo fue col detto re Luis e con papa Allessandro incontro a Federigo primo imperadore quando venne in Borgogna, come è fatta menzione. Questo Arrigo fue quegli che fece uccidere il beato Tommaso arcivescovo di Conturbiera, perch'egli il riprendea de' suoi vizii, e togliea le decime della santa Chiesa; onde Idio fece grande giudicio, che poco appresso cavalcando per Parigi col re Luis, gli si traversò uno porco tra' piè del cavallo e fecelo cadere, e subitamente della caduta morìo. Di lui rimase uno figliuolo ch'ebbe nome Stefano; dopo Stefano regnòe un altro Arrigo, il quale ebbe due figliuoli, il re Giovane e lo re Ricciardo. Questo re Giovane fue il più cortese signore del mondo, e ebbe guerra col padre per indotta d'alcuno suo barone, ma poco vivette, e di lui non rimase reda. Dopo il re Giovane regnò il re Ricciardo, quegli onde al cominciamento facemmo menzione che andò oltremare al passaggio col re Filippo di Francia e fu pro' d'arme e valoroso, e egli assieme con XII altri baroni di Francia e d'Inghilterra tenne il passo al Saladino soldano di Babilonia con tutto suo esercito. Di Ricciardo nacque Arrigo suo figliuolo che regnò appresso lui, ma fue sempice uomo e di buona fe' e di poco valore. Del detto Arrigo nacque il buono re Adoardo che a' nostri presenti tempi regna, il quale fece di gran cose, come innanzi per gli tempi faremo menzione. Lasceremo le storie de' detti signori, e torneremo a' nostri fatti di Firenze.
<B>V</B>
<I>Come i Fiorentini sconfissono gli Aretini.</I>
Negli anni di Cristo MCLXX i Fiorentini fecero oste sopra gli Aretini perch'erano stati co' conti Guidi contro al Comune di Firenze; e uscendo gli Aretini loro incontro, da' Fiorentini furono sconfitti del mese di novembre, e poi feciono accordo co' Fiorentini con onorevoli patti per lo Comune di Firenze, e promisero di non essere loro incontro per neuna cagione, e riebbono i loro pregioni.
<B>VI</B>
<I>Come si cominciò la prima guerra da' Fiorentini a' Sanesi.</I>
Nel detto tempo si cominciò guerra tra' Fiorentini e' Sanesi per cagione delle castella che confinano co·lloro in Chianti, che ciascuno Comune si volea dilatare, e crescere il suo contado, e del castello di Staggia; e per questa cagione i Fiorentini presono ad aiutare quegli di Montepulciano da' Sanesi che gli guerreggiavano; e andarono i Fiorentini infino là per fornirlo; e tornando da fornirlo, i Sanesi si fecero loro incontro al castello d'Asciano, e qui si combatterono, e furono sconfitti da' Fiorentini, e molti de' Sanesi presi e morti vi furono; e ciò fu del mese di giugno gli anni di Cristo MCLXXIIII.
<B>VII</B>
<I>Come di prima fu edificato il nobile e forte castello di Poggibonizzi e quello di Colle di Valdelsa.</I>
Nel detto tempo essendo colà ov'è oggi la terra di Poggibonizzi al piano uno ricco borgo che si chiamava il borgo di Marti, per cagione che diceano ch'erano stati stratti di parte de' martirizzati di Catellina ribelli del popolo di Roma, che in quello luogo s'erano rimasi, scampati de la battaglia di Piceno, overo di Piteccio, e tornando l'oste di su detta de' Fiorentini da la vittoria d'Asciano, alcuno giovane fiorentino isforzò nel detto borgo una pulcella; onde tutta la terra si commosse a zuffa contra i Fiorentini, e alquanti ve ne rimasono morti, e assai fediti e vergognati; per la quale offesa quegli del borgo di Marti, impauriti de' Fiorentini, feciono lega e giura con VIII castella e Comuni vicini, e per essere più sicuri e forti al riparo della potenzia de' Fiorentini, sì ordinarono di concordia di disfare le loro terre, e di porresi in su il bello poggio ove fu poi il detto castello, in sul quale era una selva d'uno terrazzano ch'avea nome Bonizzo, e dal detto il suo nome fu derivato; e questo in brieve tempo ripuosono e afforzaro, però che il luogo da sua natura è forte e agiato e bello, e partirlo ad abituro in VIIII contrade, come si fece di VIIII terre, e in ciascuna contrada ripuosono la chiesa principale de la loro antica terra onde s'erano levati, e quello di ricche mura e porte e torri di pietre adornarono, e fu sì forte e bello, e fornito di molti e ricchi abitanti, ch'elli curavano poco i Fiorentini o altri loro vicini; e per contradio de' Fiorentini s'allegarono co Sanesi, e poi diede molta briga a' suoi vicini e a' Fiorentini, come innanzi per gli tempi fareno menzione. E nota che 'l detto poggio è de' meglio assituati che sia in Italia, e appunto il bilico è in mezzo la provincia di Toscana. Afforzato il detto castello, i Fiorentini ne furono molto crucciati, e con due castelletta di Valdelsa loro vicini e contradi de' Poggibonizzesi s'accostaro, e recarlo a·lloro lega, e colle forze de' Fiorentini ordinaro e feciono porre il castello di Colle di Valdelsa colà dov'è oggi, per fare battifolle a Poggibonizzi; e di quelle due castelletta e con altre ville d'intorno il popolaro, e la prima pietra che·ssi mise a fondarlo, la calcina fue intrisa del sangue che si segnaro delle braccia i sindachi a·cciò mandati per lo Comune di Firenze, a perpetua memoria e segno d'amicizia e fratellanza di quelli di Colle al Comune di Firenze, e certo per isperienzia poi sempre è istato quello Comune come figliuolo di quello di Firenze.
<B>VIII</B>
<I>De' grandi fuochi che furono nella città di Firenze.</I>
Negli anni di Cristo MCLXXVII s'apprese il fuoco nella città di Firenze a dì V d'agosto, e arse da piè del ponte Vecchio infino a Mercato Vecchio. E poi nel detto anno medesimo s'apprese il fuoco a Sammartino del Vescovo, e arse infino a Santa Maria Ughi e infino al Duomo di Santo Giovanni con grandissimo danno della città, e non sanza giudizio di Dio, imperciò che' Fiorentini erano venuti molto superbi per le vittorie avute sopra i loro vicini, e tra loro molto ingrati a·dDio, e con altri disonesti peccati. E in questo anno cadde per soperchia piena del fiume d'Arno il ponte Vecchio, che ancora fu segno di future aversitadi alla nostra città.
<B>IX</B>
<I>Come in Firenze si cominciò battaglia cittadina tra gli Uberti e la signoria de' consoli.</I>
Imperciò che nel detto medesimo anno si cominciò in Firenze disensione e guerra grande tra' cittadini, che mai non era più stata in Firenze, e ciò fu per troppa grassezza e riposo mischiato colla superbia ingratitudine, ché quelli della casa degli Uberti ch'erano i più possenti e maggiori cittadini di Firenze co·lloro seguaci nobili e popolari cominciaro guerra co' consoli ch'erano signori e guidatori del Comune a certo tempo e con certi ordini, per la 'nvidia della signoria che nonn-era a·lloro volere. E fu sì diversa e aspra guerra, che quasi ogni dì, o di due dì l'uno, si combatteano i cittadini insieme in più parti della città da vicinanza a vicinanza, com'erano le parti, e aveano armate le torri, che n'avea nella città in grande numero, alte C e CXX braccia. E in quelli tempi per la detta guerra assai torri di nuovo vi si muraro per le comunitadi delle contrade, de' danari comuni delle vicinanze, che si chiamavano le torri delle compagnie. E sopra quelle faceano mangani e manganelle per gittare l'uno a l'altro, ed era asserragliata la terra in più parti. E durò questa pestilenzia più di due anni, onde molta gente ne morì, e molto pericolo e danno ne seguì alla città; ma tanto venne poi in uso quello guerreggiare tra' cittadini, che l'uno dì si combatteano, e l'altro mangiavano e beveano insieme, novellando delle virtudi e prodezze l'uno dell'altro che si faceano a quelle battaglie. E quasi per istraccamento e rincrescimento si rimasono per loro medesimi del combattere, e si pacificarono, e rimasero i consoli in loro signoria; ma a la fine pur criarono, e poi partoriro le maladette parti che furono appresso in Firenze, siccome innanzi per li tempi faremo menzione.
<B>X</B>
<I>Come i Fiorentini presono il castello di Montegrossoli.</I>
Negli anni di Cristo MCLXXXII, rimase le battaglie cittadine in Firenze, i Fiorentini feciono oste al castello di Montegrossoli in Chianti e presollo per forza. E quell'anno valse lo staio del grano fiorini VIII, che fu a quello tempo grande caro, imperciò che allora correa in Firenze una moneta d'argento, che si chiamavano fiorini, di danari XII l'uno, che oggi varrebbono a la presente piccola moneta per lega e per peso l'uno danaio tre.
<B>XI</B>
<I>Come i Fiorentini presono il castello di Pogna.</I>
Negli anni di Cristo MCLXXXIIII, del mese di giugno, i Fiorentini assediarono il castello di Pogna perché non volea obedire al Comune di Firenze, e era molto forte, e guerreggiava la contrada di Valdelsa infino a la Pesa; ed era di gentili uomini cattani che si chiamavano i signori di Pogna.
<B>XII</B>
<I>Come Federigo primo imperadore tolse il contado a la città di Firenze e a più altre città di Toscana.</I>
Nel detto anno di Cristo MCLXXXIIII Federigo primo imperadore andando di Lombardia in Puglia, passò per la nostra città di Firenze a dì XXXI di luglio del detto anno, e in quella soggiornato alquanti dì, e fattagli querimonia per gli nobili del contado, come il Comune di Firenze avea prese per forza e occupate molte loro castella e fortezze contra l'onore dello 'mperio, sì tolse al Comune di Firenze tutto il contado e la signoria di quello infino alle mura, e per lo contado facea stare per le villate suoi vicarii che rendeano ragione e faceano giustizia; e simile fece a tutte l'altre città di Toscana ch'aveano tenuta la parte della Chiesa quando egli ebbe la guerra con papa Allessandro, salvo che non tolse il contado né alla città di Pisa né a quella di Pistoia che tennero co·llui. E in questo anno il detto Federigo assediò la città di Siena, ma no·ll'ebbe. E queste novitadi fece alle dette città di Toscana, imperciò che nonn-erano state di sua parte, sì che, con tutto che s'era pacificato colla Chiesa e venuto a la misericordia del detto papa, come adietro è fatta menzione, non lasciò di partorire il suo male volere contro alle città ch'aveano ubbidita a la Chiesa; e così stette la città di Firenze sanza contado IIII anni, infino che 'l detto Federigo andòe al passaggio d'oltremare ove annegò, come addietro facemmo menzione.
<B>XIII</B>
<I>Come i Fiorentini si crociaro e andarono oltremare al conquisto di Dammiata, e però ne liberò il contado loro.</I>
Negli anni di Cristo MCLXXXVIII, essendo commossa quasi tutta la Cristianità per andare al soccorso della Terrasanta, vegnendo in Firenze l'arcivescovo di Ravenna legato del papa a predicare la croce per lo detto passaggio, molta buona gente di Firenze presono la croce dal detto arcivescovo a San Donato tra le Torri, overo a San Donato a Torri di là da Rifredi, overo il munistero delle Donne, però che 'l detto arcivescovo era dell'ordine di Cestella; e ciò fu a dì II del mese di febbraio del detto anno. E furono sì grande quantità i Fiorentini, che feciono oste oltremare per loro, e furono al conquisto della città di Dammiata, e de' primi che presono la terra, e per insegna ne recarono uno stendale vermiglio che ancora è nella chiesa di San Giovanni, e per la detta devozione e susidio fatto per gli Fiorentini per santa Chiesa e per la Cristianità dal papa Gregorio e dallo imperadore Federigo detto fu renduta la giurisdizione del contado a la città di Firenze, di lungi a la città di Firenze X miglia.
<B>XIV</B>
<I>Come i Fiorentini ebbono il braccio del beato appostolo santo Filippo.</I>
Nel tempo che regnava in Gostantinopoli lo 'mperadore Manuello, cristianissimo e obbediente a santa Chiesa, si maritò una sua nipote figliuola del fratello, la quale avea nome Isabella, al re di Gerusalem e di Cipri, e dielle intra gli altri doni e gioelli in sua dote l'orlique del beato Filippo appostolo. Avenne che uno messere monaco di Firenze era cancelliere del patriarca di Ierusalem, e poi fu per sua bontà fatto arcivescovo d'Acri al tempo che il soldano Saladino prese la città di Ierusalem; ma poi ripresa la Terrasanta per gli Cristiani, il detto arcivescovo tornò oltremare, e fu fatto per lo papa patriarca di Ierusalem. E sappiendo come la detta Isabella reina di Ierusalem avea la detta santa reliquia, disiderando d'averla per onorare la sua città di Firenze, la domandò a la detta reina, assegnandole come nonn-era lecito a donna che fosse al secolo sì santa reliquia tenere infra le sue gioie mondane, ma si convenia che fosse in parte ove fosse venerata a Dio; per la qual cosa la detta reina la donò al detto patriarca. E ciò sappiendo il vescovo di Firenze, ch'avea nome messere Piero, ne scrisse più lettere al detto patriarca cittadino di Firenze, che gli piacesse di mandare la detta santa reliquia in Firenze. Avvenne che 'l detto patriarca amalòe a morte, e commise a uno messere Rinieri di Firenze priore del Sepolcro e suo cappellano che 'l detto braccio mandasse a Firenze; ma il capitolo de' calonaci di Ierusalem nol voleva lasciare portare. A la fine il sopradetto vescovo di Firenze mandòe oltremare per lo detto braccio uno messere Gualterotto calonaco di Firenze, il quale con molta istanzia e studio adoperò tanto col detto priore del Sepolcro, ch'egli ebbe il detto santo braccio, e recollo in Firenze l'anno di Cristo MCLXXXX, essendo rettore di Firenze il conte Ridolfo da Capraia; al quale per lo vescovo di Firenze con tutto il chericato, e col detto rettore con tutto il popolo, uomini e femmine, andarono incontro a processione incontro al detto braccio, e con grande solennità recato fu in Firenze, e messo nell'altare di Santo Giovanni Batista, il quale fece molti e aperti miracoli in più cittadini di Firenze, i quali a la sua venuta ebbono fede e devozione.
<B>XV</B>
<I>Come il papa pacificò i Pisani e' Genovesi per fornire il passaggio d'oltremare.</I>
Nel detto anno MCLXXXVIII, per cagione del detto passaggio, il detto papa Gregorio, essendone molto sollecito, venne in Pisa e per acconcio del detto passaggio pacificòe i Pisani co' Genovesi, ch'aveano avuto gran guerra insieme per l'isola di Sardigna; e in Pisa morì il detto papa in questo anno, e poco vivette papa. E da papa Allessandro detto adietro insino a questo Gregorio fue papa Lucio di Toscana, e sedette papa da IIII anni, ma poco fece al suo tempo; e poi fu papa Urbano di Lombardia che fue papa da due anni. E questo Urbano cominciò in Italia l'ordine di questo passaggio, e papa Gregorio il seguì mentre che vivette papa, che fu poco più d'uno anno; ma poi papa Clemente di Roma il mise a seguizione, e partissi il detto passaggio d'Italia del mese di febbraio MCLXXXVIIII. Lasceremo alquanto de' papa che furono, e de' nostri fatti di Firenze, e diremo d'Arrigo di Soavia figliuolo del sopradetto Federigo, e le novità che furono al suo tempo.
<B>XVI</B>
<I>Come Arrigo di Soavia fu fatto imperadore per la Chiesa, e datagli per moglie Gostanza reina di Cicilia.</I>
Arrigo di Soavia figliuolo che fu del grande Federigo, come dicemmo dinanzi, vivendo il padre il fece eleggere re de' Romani; ma, tornato Arrigo d'oltremare, e riformato in Alamagna la sua signoria, sì passò in Italia, e venne a Roma a richiesta del papa Clemente, e da' Romani fu ricevuto onorevolmente, imperciò ch'egli concedette loro la città di Toscolano e il suo contado, ch'erano stati ribelli de' Romani, la quale città da' Romani fu tutta disfatta e abbattuta, e mai poi non si rifece. E vegnendo a Roma il detto Arrigo, trovò morto il detto papa Clemente che per lui avea mandato, e eletto papa Cilestino, nato di Roma, per li cardinali, al quale il detto Arrigo si fue a la sua consecrazione, la quale fu il dì di Pasqua di Risoresso d'aprile, gli anni di Cristo MCLXXXXII; e vivette papa anni VI, e mesi VIII, e dì XI. E fatto papa Celestino, il secondo dìe della sua consecrazione coronò il detto Arrigo imperadore. E in prima che 'l detto Arrigo si partisse da la Magna, avendo la Chiesa discordia con Tancredi re di Cicilia e di Puglia, figliuolo che fu dell'altro Tancredi nipote per femmina di Ruberto Guiscardo, siccome nel capitolo ove trattammo del detto Ruberto facemmo menzione, per cagione ch'egli, siccome dovea, fedelmente non rispondea del censo a la Chiesa, e promutava vescovi e arcivescovi a sua volontà, in vergogna del papa e della Chiesa, il detto papa Clemente trattò coll'arcivescovo di Palermo di torre il regno di Cicilia e di Puglia al detto Tancredi, e fece ordinare al detto arcivescovo che Gostanza serocchia che fu del re Guiglielmo, e diritta ereda del reame di Cicilia, la quale era monaca in Palermo, siccome adietro facemmo menzione, e era già d'età di più di L anni, sì·lla fece uscire dal munistero, e dispensò in lei ch'ella potesse essere al secolo e usare matrimonio; e di nascoso il detto arcivescovo fattala partire di Cicilla e venire a Roma, la Chiesa la fece dare per moglie al detto Arrigo imperadore, onde poco appresso nacque Federigo secondo imperadore, che fece tante persecuzioni a la Chiesa, come innanzi nel suo trattato diremo. E non sanza cagione e giudicio di Dio dovea riuscire sì fatto ereda, essendo nato di monaca sacra, e in età di lei di più di LII anni, ch'è quasi impossibile a natura di femmina a portare figliuolo, sicché nacque di due contrarii, allo spirituale, e quasi contra ragione al temporale. E troviamo quando la 'mperadrice Gostanza era grossa di Federigo, s'avea sospetto in Cicilia e per tutto il reame di Puglia che per la sua grande etade potesse essere grossa; per la qual cosa quando venne a partorire fece tendere uno padiglione in su la piazza di Palermo, e mandare bando che qual donna volesse v'andasse a vederla, e molte ve n'andarono e vidono, e però cessò il sospetto.
<B>XVII</B>
<I>Come lo 'mperadore Arrigo conquistò il regno di Puglia.</I>
Come il detto Arrigo fu coronato imperadore, e isposata Gostanza imperadrice, onde ebbe in dota il reame di Cicilia e di Puglia con consentimento del papa e della Chiesa, e rendendone il censo usato, e già nato Federigo suo figliuolo, incontanente con sua oste e colla moglie n'andòe nel Regno, e vinse tutto il paese infino a la città di Napoli, ma que' di Napoli non si vollono arrendere, onde Arrigo vi puose l'assedio, e stettevi tre mesi. E nella detta oste fue tanta pestilenzia d'infermità e di mortalità, che 'l detto Arrigo e la moglie v'infermaro, e della sua gente vi morì la maggiore parte; onde per necessità si levò dal detto assedio con pochi quasi inn-isconfitta, e infermo tornò a Roma, e la 'mperadrice Gostanza per malatia presa ne l'oste poco appresso si morìo, e lasciò Federigo suo figliuolo piccolino in guardia e in tutela di santa Chiesa. Poi il detto Arrigo imperadore fatta venire nuova gente da la Magna e riformato suo stato, un'altra volta passò nel Regno con grande oste gli anni di Cristo MCLXXXXVI. Il quale regno di Puglia e reame di Cicilia signoreggiava Guiglielmo il giovane, figliuolo ch'era stato di Tancredi re, e era giovane di tempo e di senno, il quale ingannato dal detto Arrigo, sotto trattato di pace, il fece prendere con tre sue serocchie, e mandollo in pregione in Alamagna; e 'l detto Guiglielmo fece accecare degli occhi e castrare, acciò che mai non potesse generare figliuoli, e in pregione vilmente finì sua vita; ma le serocchie, morto Arrigo, da Filippo suo fratello furono dilibere di pregione per lo modo che addietro di loro facemmo menzione nella fine del legnaggio di Ruberto Guiscardo.
<B>XVIII</B>
<I>Come Arrigo imperadore si ribellò da la Chiesa e funne persecutore, e com'egli morìo.</I>
Dapoi che Arrigo fece prendere il detto re Guiglielmo, il reame ebbe sanza gran contasto, e tutti quegli che gli erano stati incontro uccise e disperse crudelmente; e quand'elli fu al tutto signore del reame, sì seguì l'orme del padre d'essere ingrato a santa Chiesa, e non solamente ingrato, ma persecutore, che più vescovi e arcivescovi e altri prelati fece nel suo regno morire, occupando le chiese e mettendovi cui a·llui piaceva, e non rispondendo del censo alla Chiesa. Per la qual cosa papa Innocenzo terzo, il quale fu di Campagna e succedette a Celestino, scomunicò il detto Arrigo e' suoi seguaci. E lui regnato nello imperio VIII anni, morì scomunicato nella città di Palermo gli anni di Cristo MCC, e di lui rimase Federigo piccolo fanciullo, come detto è dinanzi, il quale dalla Chiesa, siccome sua madre e buona tutrice, il detto pupillo fu guardo e conservo il suo regno, non guardando al misfatto del padre.
<B>XIX</B>
<I>Come Otto IIII di Sassogna fue eletto imperadore.</I>
Morto Arrigo imperadore, contasto grande fu intra gli elettori d'Alamagna d'eleggere re de' Romani; e partiti tra·lloro, feciono due lezioni. L'una parte elesse Filippo duca di Soavia fratello del detto Arrigo, e l'altra parte elessono Otto di Sassogna; ma Filippo vincea per aiuto e forza de' baroni d'Alamagna a essere re de' Romani. Ma il sopradetto papa Innocenzo favorava Otto, perché Filippo non fosse, perch'era stato fratello d'Arrigo ch'avea perseguitata la Chiesa. E in questo contasto, per frode dell'antigrado, il detto Filippo fu morto, e fue con favore della Chiesa confermato il detto Otto a re de' Romani l'anno MCCIII. E credendo la Chiesa avere migliorato stato per fare imperadore il detto Otto, troppo lo peggiorò; che se Arrigo fu contra la Chiesa reo, questo Otto fue pessimo, siccome innanzi nel tempo che regnò faremo menzione. Lasceremo a·ddire alquanto d'Otto imperadore infino che sarà tempo, e torneremo a·ddire de' fatti di Firenze, e dell'altre novità dell'universo mondo che furono al tempo d'Arrigo, toccando in brieve di cose notabili: e da qui innanzi ne tratteremo al generale, imperciò che·cci pare di nicessità in gran parte, che per le diverse parti che nacquono in Italia per le discordie dalla Chiesa agl'imperadori, quasi tutto il mondo ne fu poi commosso e contaminato, e l'una novità risurse del rimbalzo dell'altra. E perché la nostra città di Firenze venne crescendo di fama e d'essere e di potenza, quasi le più delle notabili novità de' Cristiani in alcuna parte si riferiscono a' nostri fatti di Firenze.
<B>XX</B>
<I>Come iscurò tutto il corpo del sole.</I>
Negli anni di Cristo MCLXXXXII, a dì XXII di giugno, iscurò tutto il corpo del sole, e durò d'alquanto dopo terza infino a la nona; la qual cosa secondo il detto de' savi astrolagi è segno di grandi novitadi future tra' Cristiani.
<B>XXI</B>
<I>Come i Samminiatesi disfecero la loro terra per discordia.</I>
Negli anni di Cristo MCLXXXXVII i terrazzani del castello di Samminiato del Tedesco per loro discordie si disfeciono la detta loro terra, e tornaro ad abitare al piano a piede di Samminiato nel borgo detto San Giniegio e in quello di Santa Gonda per essere più a l'agio del piano e dell'acqua, e presso del fiume d'Arno e di quello d'Elsa, credendosi ivi fare una grande cittade, ma il loro intendimento tosto venne vano.
<B>XXII</B>
<I>Come i Fiorentini comperarono Montegrossoli.</I>
Nel detto anno i Fiorentini comperaro il castello di Montegrossoli in Chianti da certi cattani cui era, che lungamente aveano fatta guerra a' Fiorentini, e andatavi più volte l'oste de' Fiorentini, come addietro è fatta menzione. E in questo medesimo anno fue generale pace in tutta Italia; e allora era consolo in Firenze Compagno degli Arrigucci.
<B>XXIII</B>
<I>Come fu fatto papa Innocenzo terzo.</I>
Negli anni di Cristo MCLXXXXVIII fu fatto papa Innocenzo terzo nato di Campagna, e regnò papa più di XVII anni, e fu savio e valente uomo in iscienzia di scrittura, e savio naturale di costumi; e al suo tempo furono molte cose, come innanzi farà menzione. Questi fu quegli che iscomunicò lo 'mperadore Arrigo, e fece fare Otto di Sassogna imperadore.
<B>XXIV</B>
<I>Come si comincio l'ordine de' frati minori.</I>
Al tempo del detto papa Innocenzo si cominciò la santa ordine de' frati minori, onde fu cominciatore il beato Francesco nato della città d'Ascesi nel ducato, e per questo papa fu accettata e approvata la detta ordine con privilegio, imperciò che tutta fu fondata in umilità, e carità, e povertà, seguendo in tutto il santo Vangelio di Cristo, e schifando ogni delizia umana. E 'l detto papa in visione vide santo Francesco sostenere sopra i suoi omeri la chiesa di Laterano, sì come poi per simile modo vide di santo Domenico; la quale visione fue figura e profezia come per loro si dovea sostenere santa Chiesa e la fede di Cristo.
<B>XXV</B>
<I>Come si cominciò l'ordine de' frati predicatori.</I>
E al tempo ancora del detto papa, similemente si cominciò l'ordine de' frati predicatori, onde fu cominciatore il beato Domenico nato di Spagna, ma al suo tempo no·lla confermò, con tutto che in avisione avvenne al detto papa che la chiesa di Laterano gli cadea adosso, e 'l beato Domenico la sostenea in su le sue spalle. E per questa visione era disposto di confermarla, ma sopravennegli la morte, e il suo successore appresso papa Onorio la confermò, gli anni di Cristo MCCXVI. E vere furono le visioni del sopradetto Innocenzo di santo Francesco e di santo Domenico, che·lla Chiesa di Dio cadea per molti errori e per molti dissoluti peccati, non temendo Iddio; e 'l detto beato Domenico per la sua santa scienza e predicazione gli corresse, e fune il primo stirpatore degli eretichi; e 'l beato Francesco per la sua umilità e vita appostolica e di penitenzia corresse la vita lascibile, e ridusse i Cristiani a penitenzia e a vita di salute. E veramente la Sibilla Irtea, seguendo questi tempi, profetizzò di queste due sante ordini, dicendo che due stelle orierebbono in alluminando il mondo.
<B>XXVI</B>
<I>Come i Fiorentini disfecioro il castello di Frondigliano.</I>
Negli anni di Cristo MCLXXXXVIIII, essendo consoli della città di Firenze conte Arrighi della Tosa e' suoi compagni, i Fiorentini assediaro il castello di Frondigliano, che s'era rubellato e facea guerra al Comune di Firenze, e presollo e disfeciollo infino alle fondamenta, e mai non si rifece. E nel detto anno i Fiorentini puosono oste a Simifonti, il quale era molto forte, e non ubbidia alla città.
<B>XXVII</B>
<I>Come i Samminiatesi disfeciono San Giniegio, e tornarono ad abitare al poggio.</I>
Negli anni di Cristo MCC i Samminiatesi disfeciono il borgo a San Giniegio ch'era nel piano di Samminiato, ed era molto ricco e bene abitato; e per più fortezza si tornaro ad abitare al poggio; e rifare il castello di Samminiato il quale aveano disfatto poco tempo dinanzi, sicché in corto tempo feciono due follie.
<B>XXVIII</B>
<I>Come i Franceschi e' Viniziani presono Gostantinopoli.</I>
Nel detto anno MCC molti baroni franceschi ch'erano mossi per andare oltremare al soccorso della Terrasanta, con navilio de' Viniziani e 'l marchese di Monferrato e più altri baroni d'Italia, sì s'accordaro, trovandosi quasi in sul verno infra l'isole d'Arcipelago in Grecia, di guerreggiare i Greci infino alla primavera, imperciò che per loro frode e malizie aveano per più volte fatto grande danno e impedimento a' Latini, che per loro paese andavano al passaggio d'oltremare. E così assaliro la nobile città di Gostantinopoli per mare e per terra, e per forza la presono, e Baldovino conte di Fiandra per universale accordo di tutti i baroni e de' Viniziani, per la sua bontà, senno, e valore, ne fu coronato imperadore. Ma poco duròe il detto imperio, che fu sconfitto e morto da' Cumani. E chi queste storie vorrà più pienamente trovare legga il libro del conquisto d'oltremare, ove sono distesamente. E per questo conquisto ritengono i Viniziani il titolo di parte del detto imperio.
<B>XXIX</B>
<I>Come i Tartari scesono le montagne di Gog e Magog.</I>
Negli anni di Cristo MCCII la gente che si chiamano i Tartari usciro dalle montagne di Gog e Magog, chiamate in latino Monti di Belgen; i quali si dice che furono stratti di quegli tribi d'Isdrael che il grande Allessandro re di Grecia, che conquistò tutto il mondo, per loro brutta vita gli rinchiuse in quelle montagne, acciò che non si mischiassono con altre nazioni, e ivi per viltà di loro e vano intendimento, vi stettono rinchiusi da Allessandro infino a questo tempo, credendosi che l'oste d'Allessandro sempre vi fosse; imperciò ch'egli per maestrevole artificio sopra i monti ordinò trombe grandissime si dificiate, che ad ogni vento trombavano con grande suono. Ma poi si dice che per gufi che nelle bocche di quelle trombe feciono nidio, e stopparono i detti artificii per modo che rimase il detto suono, e per questa cagione hanno i gufi in grande reverenzia, e per leggiadria portano i grandi signori di loro le penne del gufo in capo, per memoria che stopparo le trombe e artificii detti. Per la qual cosa il detto popolo, il quale come a guisa di bestie viveano, e erano multiplicati in innumerabile numero, sì si cominciarono a sicurare, e certi di loro a passare i detti monti; e trovando come sopra le montagne non avea gente, se none il vano inganno delle trombe turate, scesono al piano e al paese d'India ch'era fruttifero, e ubertoso, e dolce; e tornando e rapportando al loro popolo e genti le dette novelle, allora si congregaro insieme, e feciono per divina visione loro imperadore e signore uno fabbro di povero stato, il quale avea nome Cangius, il quale in su un povero feltro fu levato imperadore; e come fu fatto signore, fu chiamato il sopranome Cane, cioè in loro lingua imperadore. Questi fu molto valoroso e savio, e per suo senno e valentia uscì con tutto quello popolo de le dette montagne, e ordinogli a decine e a centinaia e a migliaia, con capitani acconci a combattere; e per essere più obbedito, prima a' maggiori di sua gente fece per suo comandamento uccidere a ciascuno il suo figliuolo primogenito di loro mano; e quando si vide così obbedito, e dato suo ordine a la sua gente, entrò in India, e vinse il Presto Giovanni, e sottomisesi tutto il paese. E ebbe più figliuoli, che appresso lui feciono di grandi conquisti, e quasi di tutta la parte d'Asia i populi e li re si misono sotto loro signoria, e parte d'Europia inverso Cumania, e Alania, e Bracchia infino al Danubio. E' discendenti de' figliuoli del detto Cangius Cane sono oggi signori intra' Tartari. Questi non hanno ordinata legge, che chi è stato di loro Cristiano, e chi Saracino, ma i più pagani idolatri. Avemo raccontato di loro nascimento e movimento, imperciò che in così piccolo tempo mai gente non fece sì gran conquisto, né nullo popolo né setta nonn-ha tanta signoria, podere, e ricchezza. E chi delle loro geste vorrà meglio sapere cerchi il libro di frate Aiton, signore del Colco d'Erminia, il quale fece ad istanza di papa Chimento quinto, e ancora il libro detto Milione, che fece messere Marco Polo di Vinegia, il quale conta molto di loro podere e signoria, imperciò che lungo tempo fu tra·lloro. Lasceremo de' Tartari, e torneremo a nostra materia de' fatti di Firenze.
<B>XXX</B>
<I>Come i Fiorentini disfecero il castello di Simifonti e quello di Combiata.</I>
Negli anni di Cristo MCCII, essendo consolo in Firenze Aldobrandino Barucci da Santa Maria Maggiore, che furono molto antichi uomini, co la sua compagnia i Fiorentini ebbono il castello di Simifonti, e feciollo disfare, e il poggio apropiare al Comune, però che lungamente avea fatta guerra a' Fiorentini. E ebbollo i Fiorentini per tradimento per uno da San Donato in Poci, il quale diede una torre, e volle per questa cagione egli e' suoi discendenti fossono franchi in Firenze d'ogni incarico, e così fu fatto, con tutto che prima nella detta torre, combattendola, fu morto da' terrazzani il detto traditore. E nel detto anno i Fiorentini andarono ad oste al castello di Combiata, ch'era molto forte in sul capo del fiume della Marina verso il Mugello, il quale era de' cattani della contrada che non voleano obbedire il Comune e facevano guerra; e disfatti i detti castelli, feciono dicreto che mai non si dovessono rifare.
<B>XXXI</B>
<I>Disfacimento di Montelupo, e come i Fiorentini ebbono Montemurlo.</I>
Negli anni di Cristo MCCIII, essendo consolo in Firenze Brunellino Brunelli de' Razzanti e suoi compagni, i Fiorentini disfeciono il castello di Montelupo perché non volea ubidire al Comune. E in questo anno medesimo i Pistolesi tolsono il castello di Montemurlo a' conti Guidi; ma poco appresso, il settembre, v'andarono ad oste i Fiorentini in servigio de' conti Guidi, e riebborlo, e renderlo a' conti Guidi. E poi nel MCCVII i Fiorentini feciono fare pace tra' Pistolesi e' conti Guidi; ma poi non possendo bene difendere i conti da' Pistolesi Montemurlo, però ch'era loro troppo vicino, e aveanvi fatto appetto il castello del Montale, sì 'l vendero i conti Guidi al Comune di Firenze libbre Vm di fiorini piccioli, che sarebbono oggi Vm fiorini d'oro; e ciò fu gli anni di Cristo MCCVIIII. Ma i conti da Porciano mai non vollono dare parola per la loro parte a la vendita.
<B>XXXII</B>
<I>Come i Fiorentini elessono di prima podestade.</I>
Negli anni di Cristo MCCVII i Fiorentini ebbono di prima signoria forestiera, che infino allora s'era retta la città sotto signoria de' consoli cittadini, de' maggiori e migliori della città, con consiglio del senato, cioè di cento buoni uomini; e quelli consoli al modo di Roma tutto guidavano, e governavano la città, e rendeano ragione, e facevano giustizia: e durava il loro officio uno anno. E erano quattro consoli mentre che·lla città fu a quartieri, per ciascuna porta uno; e poi furono VI quando la città si partì a sesti. Ma gli antichi nostri non faceano menzione de' nomi di tutti, ma dell'uno di loro di maggiore stato e fama, dicendo: al tempo di cotale consolo e de' suoi compagni. Ma poi cresciuta la città e di genti e di vizii, e faceansi più malifici, sì s'accordaro per meglio del Comune, acciò che i cittadini nonn-avessono sì fatto incarico di signoria, né per prieghi, né per tema, o per diservigio, o per altra cagione non mancasse la giustizia, sì ordinaro di chiamare uno gentile uomo d'altra città, che fosse loro podestà per uno anno, e rendesse le ragioni civili con suoi collaterali e giudici, e facesse l'esecuzione delle condannagioni e giustizie corporali. E 'l primo che fu podestà in Firenze fu nel detto anno Gualfredotto da Milano, e abitò al vescovado, imperciò che ancora non ave' in Firenze palazzo di Comune. E però non rimase la signoria de' consoli, ritegnendo a·lloro l'aministragione d'ogn'altra cosa del Comune. E per la detta signoria si resse la cittade infino al tempo che·ssi fece il primo popolo in Firenze, come innanzi faremo menzione; e allora si criò l'officio degli anziani.
<B>XXXIII</B>
<I>Come i Fiorentini sconfissono i Sanesi a Monte Alto.</I>
Nel detto anno, a la signoria di Gualfredotto di Milano il primo anno, i Fiorentini ricominciaro guerra co' Sanesi, però che' Sanesi aveano ricominciata guerra a Montepulciano e Monte Alcino contra i patti della pace; per la qual cosa i Fiorentini andarono a oste in su quello di Siena al castello di Montalto. I Sanesi per soccorrere il detto castello combattero co' Fiorentini, e furono sconfitti, e molti morti; e presi ne vennero in Firenze MCCC Sanesi; e' Fiorentini ebbono il detto Montalto e disfeciollo.
<B>XXXIV</B>
<I>Come i Sanesi richiesono di pace i Fiorentini ed ebbolla.</I>
Apresso, l'anno MCCVIII, il secondo anno della signoria del detto Gualfredotto, essendo rifermato, i Fiorentini feciono oste sopra i Sanesi, e disfeciono Rugomagno loro castello, e andarono infino a Rapolano nel contado di Siena, menandone grande preda e molti pregioni; ma poi l'anno nel MCCX i Sanesi non potendo più durare la guerra co' Fiorentini, e per riavere i loro pregioni, richiesono pace a' Fiorentini, e quetarono Montepulciano e Monte Alcino e tutte le castella che' Fiorentini aveano prese sopra loro. E in quello tempo era consolo in Firenze messer Catalano della Tosa e sua compagnia. Lasceremo alquanto a dire de' fatti di Firenze, e diremo d'Otto il quarto di Sassogna imperadore, e quello che fece al suo tempo.
<B>XXXV</B>
<I>Come Otto quarto fu coronato imperadore, e come si fece nimico e persecutore di santa Chiesa.</I>
Otto quarto di Sassogna fue eletto re de' Romani, per lo modo detto addietro, quando fu eletto Filippo di Soavia, il quale fu morto. Ma questo Otto, a petizione e studio di papa Innocenzio terzo, fu confermato re de' Romani l'anno di Cristo MCCIII, ma però non venne incontanente a Roma per molta guerra li surse in Alamagna, sì che Italia stette sanza imperio da XII anni; ma tratte a fine Otto le guerre d'Alamagna, passò in Italia, e dal sopradetto papa Innocenzo fu coronato l'anno di Cristo MCCX. Ma incontanente ch'ebbe la corona dello 'mperio, ove la Chiesa e 'l detto papa si credeano fosse amico e difenditore, si fece nemico e persecutore, e a' Romani incominciò incontanente guerra, e contra volontà del detto papa e della Chiesa passò in Puglia, e prese gran parte del Regno, il quale la Chiesa guardava siccome tutrice e madre di Federigo il giovane, figliuolo che fu dello 'mperadore Arrigo di Soavia e di Gostanza imperadrice. Per la qual cosa il detto papa scomunicò il detto Otto e dispuose dello imperio in uno grande concilio che fece in Roma, e mandò in Alamagna per lo giovane Federigo, e colla forza della Chiesa raquistò il Regno e Cicilia. E 'l detto Otto si tornò in Alamagna, e di là per contradio della Chiesa fece lega e congiura col conte Ferrante di Fiandra, e con quello di Bari e di Bologna, e più altri baroni di Francia, i quali s'erano rubellati al re Filippo il Bornio re di Francia. E essendo il detto re acampato contra il detto imperadore e gli altri signori, quasi tutti i suoi baroni il voleano abandonare; per la qual cosa fece uno altare nel campo, e trassesi la corona in presenza de' suoi baroni e puoselavi suso, e disse: "Donatela a chi è più degno di me, e io l'obbedirò volentieri". I baroni vedendo la sua umilità, si rivolsono e promisogli d'essere leali e fedeli a la battaglia. Il quale re Filippo avendo con seco riconciliati i suoi baroni, col detto Otto imperadore, e Ferrante conte di Fiandra, e gli altri rubelli, battaglia di campo fece al ponte a Bovino a' confini di Fiandra, là dove ebbe molta gente francesca e tedesca morta. A la fine il detto buono re Filippo per la grazia di Dio ebbe vittoria, e però che si ritenne in una schiera con Vc cavalieri vecchi e indurati in battaglie e tornianti, de' quali parte di loro non intesono se non a rompere le schiere co' destrieri, sanza fedire colpi, e così ruppono i Tedeschi; e prese il detto conte Ferrante di Fiandra, e tolsegli Artese e Vermandois; e Otto imperadore a gran periglio e vergogna fuggì con poca di sua gente del campo, e grande danno ricevette di sua gente; e ciò fu gli anni di Cristo MCCXIIII. E il dì medesimo essendo il giovane Luis figliuolo del detto re Filippo a oste in Paico, battaglia ebbe col re Arrigo d'Inghilterra e' suoi allegati che da l'altra parte venieno sopra il re di Francia, e lui vinse e sconfisse. E in quello giorno medesimo essendo il conte di Barzellona e di Valenza, onde furono poi i suoi discendenti re d'Aragona, ad assedio de la città di Carcasciona che vi cosava ragione, la quale tenea il detto re di Francia e eravi dentro il conte di Monforte con buona gente, il quale uscì fuori vigorosamente, e assalì improviso e sconfisse l'oste de' Catalani, e fu preso il conte di Barzellona, e per gli Franceschi tagliatagli la testa. Per le quali tre sì grandi e bene aventurose vittorie molto sormontò il re di Francia, e prese Paico e la Roccella e molto acrebbe suo reame.
<B>XXXVI</B>
<I>Come vivendo Otto fu eletto imperadore Federigo secondo di Soavia a richiesta della Chiesa di Roma.</I>
Essendo il detto Otto nimico della Chiesa e disposto per concilio generale dello 'mperio, la Chiesa ordinò colli elettori d'Alamagna ch'egli elessono a re de' Romani Federigo il giovane re di Cicilia, il quale era in Alamagna, e contra il detto Otto ebbe grande vittoria. E poi il detto Otto tornato a coscienza, andòe al passaggio di Dammiata oltremare, e di là morìo, e rimase Federigo colla elezione. E poi al tempo d'Onorio terzo papa, che succedette a Innocenzo detto di sopra, il detto Federigo d'Alamagna venne a Vinegia, e poi per mare nel suo regno di Puglia, e poi a Roma; e dal detto papa Onorio e da' Romani fu ricevuto a grande onore, e coronato imperadore, come innanzi nel suo trattato faremo menzione. Lasceremo alquanto dello 'mperadore, e diremo de' fatti de' Fiorentini che furono infino alla sua coronazione.
<B>XXXVII</B>
<I>Come morì il conte Guido vecchio, e di sua progenia.</I>
Negli anni di Cristo MCCXIII morì il conte Guido vecchio, del quale rimasono cinque figliuoli, ma l'uno morìo e lasciò reda della sua parte quegli ch'ebbono Poppi, però che di lui non rimasono figliuoli; poi de' quattro figliuoli sono discesi tutti i conti Guidi. Questo conte Guido, la sua progenia si dice che anticamente furono d'Alamagna grandi baroni, i quali passarono con Otto primo imperadore, il quale diede loro il contado di Modigliana in Romagna, e di là rimasono; e poi i loro discendenti per loro podere furono signori quasi di tutta Romagna, e faceano loro capo in Ravenna, ma per soperchi ch'egli usarono a' cittadini di loro donne, e d'altre tirannie, a romore di popolo furono cacciati in uno giorno, corsi, e morti in Ravenna, che nullo ne campò piccolo o grande, se none uno picciolino fanciullo ch'avea nome Guido, il quale era a Modigliana a balìa, il quale fu sopranomato Guido Besangue per lo molesto de' suoi, come nelle storie d'Otto imperadore adietro facemmo menzione. Questo Guido fu padre del detto conte Guido vecchio, onde poi tutti i conti Guidi sono discesi. Questo conte Guido vecchio prese per moglie la figliuola di messere Bellincione Berti de' Ravignani, ch'era il maggiore e 'l più onorato cavaliere di Firenze, e le sue case succedettono poi per retaggio a' conti, le quali furono a porta San Piero in su la porta vecchia. Quella donna ebbe nome Gualdrada, e per bellezza e bello parlare di lei la tolse, veggendola in Santa Reparata coll'altre donne e donzelle di Firenze. Quando lo 'mperadore Otto quarto venne in Firenze, e veggendo le belle donne della città che in Santa Reparata per lui erano raunate, questa pulcella più piacque allo 'mperadore; e 'l padre di lei dicendo allo 'mperadore ch'egli avea podere di fargliele basciare, la donzella rispuose che già uomo vivente la bascerebbe se non fosse suo marito, per la quale parola lo 'mperadore molto la commendò; e il detto conte Guido preso d'amore di lei per la sua avenentezza, e per consiglio del detto Otto imperadore, la si fece a moglie, non guardando perch'ella fosse di più basso lignaggio di lui, né guardando a dote; onde tutti i conti Guidi sono nati del detto conte e della detta donna in questo modo; che, come dice di sopra, ne rimasono IIII figliuoli che·nne discesono rede. In primo ebbe nome Guiglielmo, di cui nacque il conte Guido Novello e 'l conte Simone. Questi furono Ghibellini, ma per oltraggi che Guido Novello fece al conte Simone suo fratello per la parte del suo patrimonio, si fece Guelfo e s'allegò co' Guelfi di Firenze, e di questo Simone nacque il conte Guido da Battifolle. L'altro figliuolo ebbe nome Ruggieri, onde nacquero il conte Guido Guerra e 'l conte Salvatico; e questi tennero parte guelfa. L'altro ebbe nome Guido da Romena, onde sono discesi quegli da Romena, gli quali sono stati Guelfi e Ghibellini. L'altro fu il conte Tegrimo, onde sono quegli da Porciano, e sempre furono Ghibellini. Il sopradetto Otto imperadore privileggiò il detto conte Guido della signoria di Casentino. Avemo sì lungo parlato del detto conte Guido, bene che in altra parte avessimo trattato del cominciamento di suo lignaggio, però che fue valente uomo, e di lui sono tutti i conti Guidi discesi, e perché' suoi discendenti molto si mischiarono poi de' fatti di Firenze, come per gli tempi faremo menzione.
<B>XXXVIII</B>
<I>Come si cominciò parte guelfa e ghibellina in Firenze.</I>
Negli anni di Cristo MCCXV, essendo podestà di Firenze messere Gherardo Orlandi, avendo uno messer Bondelmonte de' Bondelmonti nobile cittadino di Firenze promesse a·ttorre per moglie una donzella di casa gli Amidei, onorevoli e nobili cittadini; e poi cavalcando per la città il detto messer Bondelmonte, ch'era molto leggiadro e bello cavaliere, una donna di casa i Donati il chiamò, biasimandolo della donna ch'egli avea promessa, come nonn era bella né sofficiente a·llui, e dicendo: "Io v'avea guardata questa mia figliuola"; la quale gli mostrò, e era bellissima; incontanente per <I>subsidio diaboli</I> preso di lei, la promise e isposò a moglie. Per la qual cosa i parenti della prima donna promessa raunati insieme, e dogliendosi di ciò che messer Bondelmonte aveva loro fatto di vergogna, sì presono il maladetto isdegno onde la città di Firenze fu guasta e partita; che di più causati de' nobili si congiuraro insieme di fare vergogna al detto messer Bondelmonte per vendetta di quella ingiuria. E stando tra·lloro a consiglio in che modo il dovessero offendere, o di batterlo o di fedirlo, il Mosca de' Lamberti disse la mala parola "Cosa fatta capo ha", cioè che fosse morto: e così fu fatto; ché la mattina di Pasqua di Risurresso si raunaro in casa gli Amidei da Santo Stefano, e vegnendo d'Oltrarno il detto messere Bondelmonte vestito nobilemente di nuovo di roba tutta bianca, e in su uno palafreno bianco, giugnendo a piè del ponte Vecchio dal lato di qua, apunto a piè del pilastro ov'era la 'nsegna di Mars, il detto messer Bondelmonte fue atterrato del cavallo per lo Schiatta degli Uberti, e per lo Mosca Lamberti e Lambertuccio degli Amidei assalito e fedito, e per Oderigo Fifanti gli furono segate le vene e tratto a·ffine; e ebbevi co·lloro uno de' conti da Gangalandi. Per la qual cosa la città corse ad arme e romore. E questa morte di messere Bondelmonte fu la cagione e cominciamento delle maladette parti guelfa e ghibellina in Firenze, con tutto che dinanzi assai erano le sette tra' nobili cittadini e le dette parti, per cagione delle brighe e questioni dalla Chiesa allo 'mperio; ma per la morte del detto messere Bondelmonte tutti i legnaggi de' nobili e altri cittadini di Firenze se ne partiro, e chi tenne co' Bondelmonti che presono la parte guelfa e furonne capo, e chi cogli Uberti che furono capo de' Ghibellini; onde alla nostra città seguì molto di male e ruina, come innanzi farà menzione, e mai non si crede ch'abbia fine, se Idio nol termina. E bene mostra che 'l nemico dell'umana generazione per le peccata de' Fiorentini avesse podere nell'idolo di Mars, che i Fiorentini pagani anticamente adoravano, ché a piè della sua figura si commise sì fatto micidio, onde tanto male è seguito alla città di Firenze. I maladetti nomi di parte guelfa e ghibellina si dice che·ssi criarono prima in Alamagna, per cagione che due grandi baroni di là aveano guerra insieme, e aveano ciascuno uno forte castello l'uno incontro all'altro, che l'uno avea nome Guelfo e l'altro Ghibellino, e durò tanto la guerra, che tutti gli Alamanni se ne partiro, e l'uno tenea l'una parte, e l'altro l'altra; e eziandio infino in corte di Roma ne venne la questione, e tutta la corte ne prese parte, e l'una parte si chiamava quella di Guelfo, e l'altra quella di Ghibellino: e così rimasero in Italia i detti nomi.
<B>XXXIX</B>
<I>Delle case e de' nobili che divennero Guelfi e Ghibellini in Firenze.</I>
Per la detta divisione questi furono i legnaggi de' nobili che a quello tempo furono e divennoro Guelfi in Firenze, contando a sesto a sesto, e simile i Ghibellini. Nel sesto d'Oltrarno furono Guelfi i Nerli gentiluomini, tutto fossero prima abitanti in Mercato vecchio, la casa de' Giacoppi detti Rossi, non però di grande progenia d'antichità, e già cominciavano a venire possenti i Frescobaldi, i Bardi, e' Mozzi, ma di piccolo cominciamento; Ghibellini nel sesto d'Oltrarno, de' nobili, i conti da Gangalandi, Obbriachi, e' Mannelli. Nel sesto di San Piero Scheraggio, i nobili che furono Guelfi, la casa de' Pulci, i Gherardini, i Foraboschi, i Bagnesi, i Guidalotti, i Sacchetti, e' Manieri, e quegli da Quona consorti di quegli da Volognano, i Lucardesi, i Chiermontesi, e' Compiobesi, i Cavalcanti; ma di poco tempo erano stratti di mercatanti. Nel detto sesto furono i Ghibellini la casa degli Uberti, che ne fu capo di parte, i Fifanti, gl'Infangati, e Amidei, e quegli da Volognano, e' Malespini, con tutto che poi per gli oltraggi degli Uberti loro vicini eglino e più altri legnaggi di San Piero Scheraggio si feciono Guelfi. Nel sesto di Borgo furono Guelfi la casa de' Bondelmonti, e furonne capo, la casa de' Giandonati, i Gianfigliazzi, la casa degli Scali, la casa de' Gualterotti, e quella degl'Importuni; i Ghibellini del detto sesto, la casa degli Scolari, che furono di ceppo consorti de' Bondelmonti, la casa de' Iudi, quella de' Galli, e' Cappiardi. Nel sesto di San Brancazio furono Guelfi i Bostichi, i Tornaquinci, i Vecchietti; i Ghibellini del detto sesto furono i Lamberti, i Soldanieri, i Cipriani, i Toschi, e gli Amieri, e Palermini, e Megliorelli, e Pigli, con tutto che poi parte di loro si fecioro Guelfi. Nel sesto di porte del Duomo furono in quegli tempi di parte guelfa i Tosinghi, gli Arrigucci, gli Agli, i Sizii; i Ghibellini del detto sesto, i Barucci, i cattani da Castiglione e da Cersino, gli Agolanti, i Brunelleschi; e poi si feciono Guelfi parte di loro. Nel sesto di porte San Piero furono de' nobili guelfi gli Adimari, i Visdomini, i Donati, i Pazzi, que' della Bella, gli Ardinghi, e' Tedaldi detti que' della Vitella; e già i Cerchi cominciavano a·ssalire in istato, tutto fossono mercatanti. I Ghibellini del detto sesto, i Caponsacchi, i Lisei, gli Abati, i Tedaldini, i Giuochi, i Galigari; e molte altre schiatte d'orrevoli cittadini e popolani tennero l'uno coll'una parte e l'altro coll'altra, e si mutaro per gli tempi d'animo e di parte, che sarebbe troppa lunga matera a raccontare. E per la detta cagione si cominciaro di prima le maladette parti in Firenze; con tutto che di prima assai occultamente, pure era parte tra' cittadini nobili, che chi amava la signoria della Chiesa e chi quella dello 'mperio, ma però inn-istato e bene del Comune tutti erano in concordia.
<B>XL</B>
<I>Come fu presa la città di Dammiata per gli Cristiani, e poi perduta.</I>
Nell'anno MCCXV papa Innocenzo celebrò generale concilio a Roma per fare passaggio oltremare al soccorso della Terrasanta, e più ordini fece, ma poco appresso morì. E l'anno MCCXVI fu fatto papa Onorio terzo nato di Roma, il quale seguì poi il detto passaggio, ove andarono molti Romani, e Italiani, e Fiorentini, e andovvi d'oltramonti Otto imperadore, e più altri baroni d'Alamagna e di Francia l'anno MCCXVIII. E assediaro la città di Dammiata in Egitto per due anni, e dopo grande danno di mortalità de' Cristiani, che vi moriro il detto Otto e molta di sua gente, e l'anno appresso ebbono Dammiata per forza; e la 'nsegna del Comune di Firenze, il campo rosso e 'l giglio bianco, fu la prima che·ssi vide in sulle mura di Dammiata, per virtù de' pellegrini fiorentini che furono de' primi combattendo a vincere la terra; e ancora per ricordanza il detto gonfalone si mostra per le feste nella chiesa di San Giovanni. E vinta Dammiata per gli Cristiani, tutti i Saracini vi furono morti e presi; ma poco la tennero i Cristiani, per disensione che avenne tra·legato del papa e' signori franceschi ch'aveno fatto il conquisto, per tale modo che l'anno di Cristo MCCXXI per assedio la rendero i Cristiani a' Saracini, riavendo i loro pregioni.
<B>XLI</B>
<I>Come i Fiorentini fecero giurare alla città tutti i contadini e si cominciò il ponte nuovo da la Carraia.</I>
Negli anni di Cristo MCCXVIII, essendo podestà di Firenze Otto da Mandella di Milano, i Fiorentini feciono giurare tutto il contado alla signoria del Comune, che prima la maggiore parte si tenea a signoria de' conti Guidi, e di quegli di Mangone, e di quegli di Capraia, e da Certaldo, e di più cattani che 'l s'aveano occupato per privilegi, e tali per forza degl'imperadori. E in questo anno si cominciaro a fondare le pile del ponte alla Carraia.
<B>XLII</B>
<I>Come i Fiorentini presono Mortennana, e compiési il ponte nuovo detto dalla Carraia.</I>
Negli anni di Cristo MCCXX, essendo podestà di Firenze messer Ugo del Grotto di Pisa, i Fiorentini andarono a oste sopra uno castello degli Squarcialupi che·ssi chiamava Mortennana, il quale era molto forte; ma per forza e ingegno si vinse; e quegli che per suo ingegno l'ebbe fu fatto a perpetuo franco d'ogni gravezza di Comune, e egli e' suoi discendenti; e 'l detto castello fu tutto disfatto infino alle fondamenta. E in questo anno medesimo si compié di fare il ponte alla Carraia, il quale si chiamava il ponte Nuovo, però che allora la città di Firenze nonn-avea che due ponti, cioè il ponte Vecchio e questo detto Nuovo.
<B>LIBRO SETTIMO</B>
<B>I</B>
<I>Qui comincia il VII libro: come Federigo secondo fue consecrato e fatto imperadore, e le grandi novitadi che furono.</I>
Negli anni di Cristo MCCXX, il dì di santa Cecilia di novembre, fue coronato e consecrato a Roma a imperadore Federigo secondo re di Cicilia, figliuolo che fu dello 'mperadore Arrigo di Soavia e della imperadrice Gostanza, per papa Onorio terzo a grande onore. Al cominciamento questi fu amico della Chiesa, e bene dovea esser; tanti benefici e grazie avea dalla Chiesa ricevute, ché per la Chiesa il padre suo Arrigo ebbe per moglie Gostanza reina di Cicilla, e in dote il detto reame e·regno di Puglia, e poi morto il padre, rimanendo piccolino fanciullo, dalla Chiesa, come da madre, fu guardato e conservato, e eziandio difeso il suo reame, e poi fattolo re de' Romani eleggere contro a Otto quarto imperadore, e poi coronato imperadore, come di sopra è detto. Ma elli figliuolo d'ingratitudine, non riconoscendo santa Chiesa come madre, ma come nemica matrigna, in tutte le cose le fu contrario e perseguitatore, egli e' suoi figliuoli, quasi più che' suoi anticessori, sì come innanzi faremo di lui menzione. Questo Federigo regnò XXX anni imperadore, e fue uomo di grande affare e di gran valore, savio di scrittura e di senno naturale, universale in tutte cose; seppe la lingua latina, e la nostra volgare, tedesco, e francesco, greco, e saracinesco, e di tutte virtudi copioso, largo e cortese in donare, prode e savio in arme, e fue molto temuto. E fue dissoluto in lussuria in più guise, e tenea molte concubine e mammoluchi a guisa de' Saracini: in tutti diletti corporali volle abbondare, e quasi vita epicuria tenne, non faccendo conto che mai fosse altra vita. E questa fu l'una principale cagione perché venne nemico de' cherici e di santa Chiesa. E per la sua avarizia di prendere e d'occupare le giuridizioni di santa Chiesa per male dispenderle, e molti monasteri e chiese distrusse nel suo regno di Cicilia e di Puglia, e per tutta Italia, sicché, o colpa de' suoi vizii e difetti, o de' rettori di santa Chiesa che co·llui non sapessono o non volessono praticare, né esser contenti ch'elli avessero le ragioni dello 'mperio, per la qual cosa sottomise e percosse santa Chiesa; overo che Idio il permettesse per giudicio divino, perché i rettori della Chiesa furono operatori ch'egli nascesse della monaca sagra Gostanza, non ricordandosi delle persecuzioni che Arrigo suo padre e Federigo suo avolo aveano fatte a santa Chiesa. Questi fece molte notabili cose al suo tempo, che fece a tutte le caporali città di Cicilia e di Puglia uno forte e ricco castello, come ancora sono in piede, e fece il castello di Capovana in Napoli, e le torri e porta sopra il ponte del fiume del Volturno a Capova, le quali sono molto maravigliose, e fece il parco dell'uccellagione al Pantano di Foggia in Puglia, e fece il parco della caccia presso a Gravina e a Melfi a la montagna. Il verno stava a Foggia, e la state a la montagna a la caccia a diletto. E più altre notabili cose fece fare: il castello di Prato, e la rocca di Samminiato, e molte altre cose, come innanzi faremo menzione. E ebbe due figliuoli della sua prima donna, Arrigo e Currado, che ciascuno a sua vita fece l'uno appresso l'altro eleggere re de' Romani; e della figliuola del re Giovanni di Ierusalem ebbe Giordano re, e d'altre donne ebbe il re Federigo, onde sono discesi il legnaggio di coloro che si chiamano d'Antioccia, il re Enzo e lo re Manfredi, che assai furono nimici di santa Chiesa. E alla sua vita egli e' figliuoli vivettono e signoreggiaro con molta gloria mondana, ma alla fine egli e' suoi figliuoli per gli loro peccati capitaro e finiro male, ed ispensesi la sua progenia, sì come innanzi faremo menzione.
<B>II</B>
<I>La cagione perché si cominciò la guerra da' Fiorentini a' Pisani.</I>
A la detta coronazione dello 'mperadore Federigo si ebbe grande e ricca ambasceria di tutte le città d'Italia; e di Firenze vi fue molta buona gente, e simile di Pisa. Avvenne che uno grande signore romano ch'era cardinale, per fare onore a' detti ambasciadori, convitò a mangiare gli ambasciadori di Firenze, e andati al suo convito, uno di loro veggendo uno bello catellino di camera al detto signore, sì gliele domandò; e il detto signore disse che mandasse per esso a sua volontà. Poi il detto cardinale il dì appresso convitò gli ambasciadori di Pisa, e per simile modo uno de' detti ambasciadori invaghì del detto catellino, e domandollo in dono. Il detto cardinale non ricordandosi come l'avea donato all'ambasciadore di Firenze, il promise a quello di Pisa. E partiti dal convito, l'ambasciadore di Firenze mandò per lo catellino, e ebbelo. Poi vi mandò quello di Pisa, e trovò come l'aveano avuto gli ambasciadori di Firenze: recarlosi in onta e in dispetto, non sappiendo com'era andato il detto dono del catellino. E trovandosi per Roma insieme i detti ambasciadori, richeggendo il catellino, vennero insieme a villane parole, e di parole si toccaro; onde gli ambasciadori di Firenze furono alla prima soperchiati e villaneggiati dalle persone, però che cogli ambasciadori pisani avea L soldati di Pisa. Per la qual cosa tutti i Fiorentini ch'erano intorno alla corte del papa e dello 'mperadore, ch'erano in gran quantità (e ancora ve n'andarono assai di Firenze per volontà, onde fu capo messer Oderigo de' Fifanti), s'accordarono e assaliro i detti Pisani con aspra vendetta. Per la qual cosa scrivendo eglino a Pisa come erano stati soperchiati e vergognati da' Fiorentini, incontanente il Comune di Pisa fece arrestare tutta la roba e mercatantia de' Fiorentini che si trovò in Pisa, ch'era in buona quantità. I Fiorentini per fare ristituire a' loro mercatanti, più ambascerie mandaro a Pisa, pregando che per amore dell'amistà antica dovessono ristituire la detta mercatantia. I Pisani non l'assentiro, dando cagione che la detta mercatantia era barattata. Alla fine s'agecchiro a tanto i Fiorentini, che mandarono pregando il Comune di Pisa che in luogo della mercatantia mandassero almeno altrettante some di qual più vile cosa si fosse, acciò che quella onta non facessono a·lloro, e il Comune di Firenze de' suoi danari ristituirebbe i suoi cittadini; e se ciò non volessono fare, che protestavano che più non poteano durare l'amistà insieme, e che comincerebbono loro guerra; e questa richesta durò per più tempo. I Pisani per loro superbia, parendo loro esser signori del mare e della terra, rispuosono a' Fiorentini che qualunque ora eglino uscissono a oste rammezzerebbono loro la via. E così avenne che' Fiorentini, non possendo più sostenere l'onta e 'l danno che faceano loro i Pisani, cominciaro loro guerra. Questo cominciamento e cagione della detta guerra, com'è detto di sopra, sapemo il vero da antichi nostri cittadini, che i loro padri furono presenti a queste cose, e ne feciono loro ricordo e memoria.
<B>III</B>
<I>Come i Pisani furono sconfitti da' Fiorentini a Castello del Bosco.</I>
Avenne che gli anni di Cristo MCCXXII i Fiorentini s'apparecchiaro d'andare ad oste sopra la città di Pisa, e partiti di Firenze del mese di luglio, i Pisani, come aveano promesso, si feciono loro allo 'ncontro a·luogo detto Castello del Bosco nel contado di Pisa. Quivi s'afrontaro insieme, e fuvi grande battaglia. A la fine i Pisani vi furono sconfitti da' Fiorentini a dì XXI di luglio del detto anno, e molti ne furono morti, e presi ne vennoro a Firenze per numero MCCC uomini, e de' migliori della città di Pisa; e così si mostra per giudicio d'Iddio che' Pisani avessono quella disciplina per la loro superbia, arroganza, e ingratitudine. Avemo sì lungamente detto sopra questa matera da' Fiorentini a' Pisani, perché sia notorio a ciascuno il cominciamento di tanta guerra e dissensione che ne seguì appresso, e grandi aversità e battaglie e pericoli in tutta Italia, e massimamente in Toscana, e alla città di Firenze e di Pisa; e cominciossi per così vil cosa, come fu per la contenza d'uno piccolo cagniuolo, il qual si può dire che fosse diavolo in ispezie di catellino, perché tanto male ne seguìo, come per innanzi faremo menzione.
<B>IV</B>
<I>Come i Fiorentini andarono ad oste a Fegghine, e feciono l'Ancisa.</I>
Negli anni di Cristo MCCXXIII quegli del castello di Fegghine in Valdarno, il quale era molto forte e possente di genti e di ricchezze, sì si rubellaro, e non vollono ubbidire al Comune di Firenze; per la qual cosa nel detto anno, essendo podestà in Firenze messere Gherardo Orlandi, i Fiorentini per comune feciono oste a Figghine, e guastarla intorno, ma non l'ebbono; e per battifolle, overo bastita, tornando l'oste de' Fiorentini a Firenze, sì puosono i Fiorentini il castello di l'Ancisa, acciò ch'al continuo colle masnade de' Fiorentini fosse guerreggiato il castello di Fegghine.
<B>V</B>
<I>Come i Fiorentini fecero oste sopra Pistoia, e guastarla intorno.</I>
Negli anni di Cristo MCCXXVIII, essendo podestà di Firenze messer Andrea da Perugia, i Fiorentini feciono oste sopra la città di Pistoia col carroccio; e ciò fu perché i Pistolesi guerreggiavano e trattavano male quegli di Montemurlo; e guastò la detta oste intorno alla città infino alle borgora, e disfeciono le torri di Montefiore ch'erano molto forti; e 'l castello di Carmignano s'arendé al Comune di Firenze. E nota che in su la rocca di Carmignano avea una torre alta LXX braccia, e ivi su due braccia di marmo, che faceano le mani le fiche a Firenze, onde per rimproccio usavano gli artefici di Firenze quando era loro mostrata moneta o altra cosa, diceano: "No·lla veggo, però che m'è dinanzi la rocca di Carmignano"; e per questa cagione feciono i Pistolesi le comandamenta de' Fiorentini, sì come seppono divisare i Fiorentini, e feciono disfare la detta rocca di Carmignano.
<B>VI</B>
<I>Come i Sanesi ricominciaro la guerra a' Fiorentini per Montepulciano.</I>
Negli anni di Cristo MCCXXVIIII i Sanesi ruppono la pace a' Fiorentini, imperciò che contra i patti della detta pace i Sanesi feciono oste sopra Montepulciano del mese di giugno nel detto anno. Per la qual cosa il settembre vegnente, essendo podestà di Firenze messer Giovanni Bottacci, i Fiorentini feciono oste sopra i Sanesi, e guastarono il loro contado infino a la pieve a Sciata verso Chianti, e disfeciono Montelisciai, uno loro castello presso a Siena a tre miglia. E poi l'anno appresso, essendo podestà di Firenze Otto da Mandella di Milano, i Fiorentini fecero generale oste sopra Siena a dì XXI di maggio l'anno MCCXXX, e menaro il carroccio, e valicaro la città di Siena, e andarono a San Chirico a Rosenna, e disfeciono il bagno a Vignone. E poi andaro per la valle d'Orcia infino a Radicofani, e passaro le Chiane per guastare i Perugini, perché aveano favorati i Sanesi, domandando giuridizione del lago, per ragione che v'avea la Badia di Firenze per privilegio del marchese Ugo. Ma i Perugini richesto l'aiuto de' Romani, i Fiorentini si partiro di sopra il contado di Perugia, e tornaro in su quello di Siena, e disfeciono da XX tra castella e gran fortezze, e tagliaro il pino da Montecellese, e tornando si puosono a Siena a campo, e per forza combattero l'antiporte, e ruppero i serragli, e entraro ne' borghi della città, e menarne presi a Firenze più di MCC uomini. In questo anno MCCXXX i Fiorentini andarono ad oste a Caposelvoli in Valdambra a le confine d'Arezzo, imperciò che facea guerra in Valdarno nel contado di Firenze co la forza degli Aretini, e sì era della diocesi di Fiesole e del distretto di Firenze, e presollo, e disfeciollo.
<B>VII</B>
<I>D'uno grande miracolo ch'avenne a Santo Ambruogio in Firenze del corpo di Cristo.</I>
Nel detto anno MCCXXVIIII, il dì di san Firenze, dì XXX di dicembre, uno prete della chiesa di Santo Ambruogio di Firenze ch'avea nome prete Uguiccione, avendo detta la messa e celebrato il sacrificio, e per vecchiezza non asciugò bene il calice; per la qual cosa il dì appresso prendendo il detto calice, trovovvi dentro vivo sangue appreso e incarnato, e ciò fu manifesto a tutte le donne di quello munistero, e a tutti i vicini che vi furono presenti, e al vescovo, e a tutto il chericato, e poi si palesò tra tutti i Fiorentini, i quali vi trassono a vedere con grande devozione, e trassesi il detto sangue del calice, e misesi in una ampolla di cristallo, e ancora si mostra al popolo con grande reverenza.
<B>VIII</B>
<I>Ancora della guerra da' Fiorentini a' Sanesi.</I>
Negli anni di Cristo MCCXXXII i Sanesi presono Montepulciano, e disfeciono le mura e tutte le fortezze de la terra, imperciò che quelli di Montepulciano per mantenersi in loro libertade si erano in lega e compagnia co' Fiorentini. Per la qualcosa i Fiorentini andaro ad oste sopra i Sanesi, essendo podestà di Firenze messer Iacopo da Perugia, e guastarono molto del loro contado, e puosono oste al castello di Querciagrossa, presso a Siena a quattro miglia, il quale era molto forte, e per forza d'edifici s'arendero; e avuto il castello, il feciono tutto disfare, e gli uomini che v'erano dentro menaro pregioni a Firenze.
<B>IX</B>
<I>Di novità da Firenze.</I>
Nel detto anno s'apprese il fuoco in Firenze da casa i Caponsacchi presso di Mercato Vecchio, onde arsono molte case, e arsono uomini e femmine e fanciulli XXII, onde fu grande danno.
<B>X</B>
<I>Ancora della guerra di Siena.</I>
L'anno appresso MCCXXXIII i Fiorentini feciono grande oste sopra la città di Siena, e assediarla dalle tre parti, e con molti difici vi gittaro dentro pietre assai, e per più dispetto e vergogna vi manganarono asini e altra bruttura.
<B>XI</B>
<I>Ancora della guerra co' Sanesi.</I>
Apresso, l'anno MCCXXXIIII i Fiorentini ancora rifeciono oste sopra i Sanesi, e mossesi di Firenze a dì IIII di luglio, essendo podestà di Firenze messer Giovanni del Giudice di Roma, e stettono in oste sopra il loro contado LIII dì, e disfeciono Asciano e Orgiale, con XLIII tra castella e ville e grandi fortezze, onde i Sanesi ricevettono gran dannaggio.
<B>XII</B>
<I>Di novità di Firenze.</I>
Nel detto anno, per pasqua di Natale, s'apprese il fuoco in Firenze nel borgo di piazza Oltrarno, e quasi arse tutto con grandissimo danno. E nota quanta pestilenzia la nostra città ha ricevuta di fuochi appresi, che quasi tra più volte il più della città è stato arso e rifatto.
<B>XIII</B>
<I>Come fu fatta pace da' Fiorentini a' Sanesi.</I>
Negli anni di Cristo MCCXXXV, essendo podestà di Firenze messer Compagnone del Poltrone, apparecchiandosi i Fiorentini di fare sopra la città di Siena maggiore oste che per gli anni passati non aveano fatta, e' Sanesi veggendosi molto guasti del loro contado, e la loro forza e potenza molto affiebolita, sì richiesono di pace i Fiorentini, la quale fu esaudita e ferma con patti, che' Sanesi alle loro spese rifacessono Montepulciano, e quetassollo d'ogni ragione e domanda, e alle loro spese, a·ppetizione de' Fiorentini, fornissono il castello di Monte Alcino, il quale era in lega co' Fiorentini, e riebbono i loro pregioni; la quale guerra pienamente era durata VI anni, onde i Fiorentini ebbono grande onore. Lasceremo alquanto de' fatti di Firenze e del paese intorno, faccendo incidenzia, tornando addietro, per raccontare de' fatti, e dell'opere, e guerre dello 'mperadore Federigo alla Chiesa di Roma; le quali novitadi furono sì grandi, che bene sono da notare, imperciò che furono commovimento quasi a tutto il mondo, onde molto ne cresce materia di dire.
<B>XIV</B>
<I>Come lo 'mperadore Federigo venne in discordia colla Chiesa.</I>
Dapoi che Federigo secondo fue coronato da papa Onorio, come detto avemo addietro, nel suo cominciamento fu amico della Chiesa, ma poco tempo appresso per la sua superbia e avarizia cominciò ad esurpare le ragioni della Chiesa in tutto suo imperio, e nel reame di Cicilia e di Puglia, promutando vescovi, e arcivescovi, e altri prelati, e cacciandone quegli messi per lo papa, e faccendo imposte e taglie sopra i cherici a vergogna di santa Chiesa; per la qual cosa da papa Onorio detto che·ll'avea coronato fue citato e ammonito che lasciasse a santa Chiesa le sue giuridizioni, e rendesse il censo. Il quale imperadore veggendosi in grande potenzia e stato, sì per la forza degli Alamanni e per quella del reame di Cicilia, e ch'era signore del mare e della terra, e temuto da tutti i signori de' Cristiani, e eziandio da' Saracini, e veggendosi abracciato de' figliuoli che della prima donna figliuola dell'antigrado d'Alamagna avea, Arrigo e Currado, il quale Arrigo già avea fatto coronare in Alamagna re de' Romani, e Currado era duca di Soavia, e Federigo d'Antioccia suo primo figliuolo naturale fece re, e Enzo suo figliuolo naturale era re di Sardigna, e Manfredi prenze di Taranto, non si volle dechinare all'obedienza della Chiesa, anzi fu pertinace, vivendo mondanamente in tutti i diletti corporali. Per la qual cosa dal detto papa Onorio fu scomunicato gli anni di Cristo..., e per ciò non lasciò di perseguire la Chiesa, ma maggiormente occupava le sue ragioni, e così stette nimico della Chiesa e di papa Onorio infino che vivette. Il quale papa passò di questa vita gli anni di Cristo MCCXXVI, e dopo lui fu fatto papa Gregorio nono nato d'Alagna di Campagna, il quale regnò papa anni XIIII; il quale papa Gregorio ebbe collo imperadore Federigo grande guerra, imperciò che·llo 'mperadore in nulla guisa volea lasciare le ragioni e giuridizioni di santa Chiesa, ma maggiormente l'occupava, e molte chiese del Regno fece abattere e disertare, faccendo imposte gravi a' cherici, e alle chiese. E' Saracini, i quali erano in sulle montagne di Trapali in Cicilia, per esser più al sicuro dell'isola, e dilungati da' Saracini della Barberia, e ancora per tenere per loro in paura i suoi suditi del regno di Puglia, con ingegno e promesse gli trasse di quelle montagne, e misegli in Puglia in una antica città diserta, che anticamente fue in lega co' Romani, e fue disfatta per gli Sanniti, cioè per quelli di Benevento, la quale allora si chiamava Licera, e oggi si chiama Nocera, e furono più di XXm uomini d'arme, e quella città rifeciono molto forte; i quali più volte corsono le terre di Puglia e guastarle. E quando il detto imperadore Federigo ebbe guerra colla Chiesa, gli fece venire sopra il ducato di Spuleto, e assediaro in quel tempo la città d'Ascesi, e feciono gran danno a santa Chiesa. Per la qual cosa il detto papa Gregorio confermò contra lui le sentenzie date per papa Onorio suo predecessore, e di nuovo gli diè sentenzia di scomunicazione gli anni di Cristo...
<B>XV</B>
<I>Come fu fatto accordo da papa Gregorio e lo 'mperadore Federigo.</I>
Avenne in que' tempi, dapoi che 'l soldano e' Saracini d'Egitto ripresono la città di Dammiata, e quella di Ierusalem, e gran parte della Terrasanta, il re Giovanni ch'era allora re di Ierusalem, il quale fu del legnaggio del conte di Brenna, e per sua bontà essendo oltremare ebbe per moglie la figliuola che fu del re Almerigo re di Ierusalem, della schiatta di Gottifredi di Buglione, ch'era reda, e per lei era re di Ierusalem, veggendo la Terrasanta in male stato per la soperchia forza de' Saracini, passò in ponente per avere aiuto dal papa e da la Chiesa, e dallo imperadore Federigo, e dal re di Francia, e dagli altri re di Cristianità, e trovò papa Gregorio detto di sopra co la Chiesa a Roma molto tribolato da Federigo imperadore; e mostrando al detto papa il grande bisogno che·lla Terrasanta avea d'aiuto e di soccorso, e come Federigo imperadore era quegli che più vi potea operare di bene per la sua gran forza e podere ch'egli avea in mare e in terra, sì cercò pace tra la Chiesa e 'l detto imperadore, acciò ch'egli andasse oltremare al passaggio, e il papa gli perdonasse l'offese fatte alla Chiesa e ricomunicasselo. Il quale accordo fu fatto per lo detto re Giovanni, ch'era savio e valoroso signore. E oltre a·cciò fatta la detta pace, il detto papa Gregorio diè per moglie allo 'mperadore Federigo, ch'era morta la sua prima donna, la figliuola del detto re Giovanni ch'era reda del reame di Ierusalem per la madre, e promise e giurò il detto imperador di difendere il detto papa e la Chiesa da' malvagi mani, che tutto dì erano ribelli contra la Chiesa per loro avarizia, e poi d'andare oltremare con tutta sua forza al passaggio ordinato per lo detto papa. E fatta la detta pace, la figliuola del re Giovanni venne di Soria a Roma, e lo 'mperadore la sposò con gran festa per mano del detto papa Gregorio, e di lei ebbe tosto uno figliuolo ch'ebbe nome Giordano, ma poco tempo vivette. Ma per l'opera del nimico dell'umana generazione, trovando Federigo corrotto in vizio di lussuria, si giacque con una cugina della detta imperadrice e reina, ch'era pulcella e di sua camera privata; e la 'mperadrice lasciando, e trattandola male, sì si dolfe al re Giovanni suo padre dell'onta e vergogna che Federigo le facea, e avea fatto della nipote. Per la qual cosa il re Giovanni crucciato, di ciò dolendosi allo 'mperadore, e ancora minacciandolo, lo 'mperadore batté la moglie, e misela in pregione, e mai poi non istette co·llei; e secondo che·ssi disse, tosto la fece morire. E lo re Giovanni, il quale era in Puglia, tutto governatore per la Chiesa e per lo 'mperadore a·ffare fornire e apparecchiare lo stuolo del passaggio che dovea andare oltremare, si·ll'acommiatò del Regno, onde molto isconciò il passaggio per la detta discordia. Poi il re Giovanni tornò a Roma al papa, dogliendosi molto di Federigo, e andossene in Lombardia, e da' Lombardi molto fue onorato, e ubbidieno lui più che·llo 'mperadore; onde grande parte e sette si cominciaro in Lombardia e in Toscana, che molte terre si teneano dalla parte della Chiesa e del re Giovanni e altre collo imperadore. Poi lo re Giovanni andòe in Francia e inn Inghilterra, e grande aiuto ebbe da tutti que' signori per lo passaggio, e per mantenere le terre d'oltremare che·ssi teneano per gli Cristiani.
<B>XVI</B>
<I>Come la Chiesa ordinò il passaggio oltremare, ond'era capitano lo 'mperadore Federigo, il quale mosso lo stuolo si tornòe addietro.</I>
Infra questo tempo papa Gregorio con grande sollecitudine formò l'apparecchiamento del passaggio d'oltremare. Per lo detto papa Gregorio sì richiese lo 'mperadore Federigo che attenesse la promessa e saramento fatto a la Chiesa, d'andare oltremare con uno legato cardinale, e egli fosse signore dello stuolo in mare e in terra. Il quale imperadore fece tutto l'apparecchiamento, e collo stuolo de' Cristiani si partì di Brandizio in Puglia gli anni di Cristo MCCXXXIII, e come lo stuolo fu alquanto infra mare e mosso a piene vele, lo 'mperadore Federigo segretamente fece volgere la sua galea, e tornossi in Puglia, sanza andare oltremare, egli e gran parte di sua gente. Per la qual cosa il papa e tutta la Chiesa indegnati dell'opere e falli di Federigo, tegnendo ch'egli avesse ingannata e tradita la Chiesa e tutta la Cristianità, e messo in grande pericolo le bisogne e 'l soccorso della santa terra d'oltremare, il detto papa Gregorio scomunicò da capo il detto imperadore Federigo, gli anni di Cristo MCCXXXIII. Questo ritorno che·llo 'mperadore fece, e non seguire il passaggio giurato, egli medesimo e chi·llo volle difendere disse ch'avea sentito che come fosse oltremare, il papa e la Chiesa col re Giovanni gli dovea rubellare il regno di Cicilia e di Puglia. Altri dissono che 'l detto imperadore al continuo s'intendea col soldano di Babbillonia per lettere e messaggi e grandi presenti, e ch'egli mandò con patti fatti e fermi che s'egli rompesse il detto grande passaggio (temendo forte de' Cristiani), che a·ssua volontà il metterebbe in signoria e sagina del reame di Ierusalem sanza colpo di spada; le quali di su dette cagioni e l'una e l'altra pareano esser il vero, per le cose che avennero appresso; imperciò che con tutta la pace e accordo fatto da la Chiesa allo 'mperadore, sempre di ciascuna parte rimase la mala volontà, e maggiormente nello 'mperadore, per la sua superbia.
<B>XVII</B>
<I>Come lo 'mperadore Federigo passòe oltremare, e fece pace col soldano, e riebbe Ierusalem contra volontà della Chiesa.</I>
Poi gli anni di Cristo MCCXXXIIII lo 'mperadore Federigo fatta sua armata e grande apparecchiamento, sanza richiedere il papa o la Chiesa, o nullo altro signore de' Cristiani, si mosse di Puglia e andonne oltremare più per avere la signoria di Ierusalem, come gli avea promessa il soldano, che per altro benificio di Cristianità; e ciò apparve apertamente, ché giunto lui in Cipri, e mandato in Soria innanzi il suo maliscalco con parte di sua gente, non intese a guerreggiare i Saracini, ma i Cristiani; ché tornando i pellegrini d'una cavalcata fatta sopra i Saracini con grande preda e molti pregioni, il detto maliscalco combatté co·lloro, e molti n'uccise, e rubò loro tutta la preda. E questo si disse che fece per lo trattato che·llo 'mperadore tenea col soldano, stando lui in Cipri, che spesso si mandavano ambasciadori e ricchi presenti. E ciò fatto, lo 'mperadore n'andòe in Acri, e volle disfare il tempio d'Acri a' Tempieri, e fece torre loro castella, e mandòe suoi ambasciadori a papa Gregorio, che gli piacesse di ricomunicarlo, imperciò ch'avea fatta sua penitenza e saramento; dal quale papa non fu intesa sua petizione e richesta, imperciò che al papa e alla Chiesa era palese per lettere e per messaggi venuti di Soria dal legato del papa, e dal patriarca di Ierusalem, e dal mastro del Tempio, e da quello dello Spedale, e da più altri signori di là, che·llo imperadore non facie in Soria nullo beneficio comune de' Cristiani, né co' signori ch'erano di là non consigliava al racquisto della Terrasanta, ma istava in trattati col soldano e co' Saracini. E al detto trattato e accordo diede compimento abboccandosi a parlamento col soldano, nel quale il soldano gli fece molta reverenza, dicendogli: "Tu se' Cesare de' Romani, maggiore signore di me". L'accordo fu tra·lloro in questo modo, che 'l soldano gli rendé a queto la città di Ierusalem, salvo il tempio <I>Domini</I> che volle rimanesse a la guardia de' Saracini, acciò che vi si gridasse la salà, e chiamasse Maometto; e lo 'mperadore l'asentì per dispetto e mala volontà ch'avea co' Tempieri, e lasciogli il soldano tutto il reame di Ierusalem, salvo il castello chiamato il Craito di Monreale, e più altre castella fortissime alle frontiere, e erano la chiave e l'entrata del reame. A la qual pace non fu consenziente il legato del papa cardinale, né 'l patriarca di Ierusalem, né Tempieri, né gli Spedalieri, né gli altri signori di Soria, né capitani de' pellegrini, imperciò che a·lloro parve falsa pace, e a danno e vergogna de' Cristiani, e a sconcio del racquisto della Terrasanta. Ma però lo 'mperadore Federigo non lasciò, ma co' suoi baroni e col mastro maggiore de la magione degli Alamanni andò in Ierusalem, e fecesi coronare in mezza quaresima, gli anni di Cristo MCCXXXV. E ciò fatto, sì mandò suoi ambasciatori in ponente a significarlo al papa, e al re di Francia, e a più altri re e signori, com'era coronato, e possedea il reame di Ierusalem; de la qual cosa il papa e tutta la Chiesa ne furono crucciosi a morte, conoscendo come ciò era falsa pace, e con inganno a piacere del soldano, acciò che' pellegrini ch'erano iti al passaggio nol potessono guerreggiare. E videsi apertamente, ché poco appresso che Federigo fu tornato in ponente i Saracini ripresono Ierusalem e quasi tutto il paese che 'l soldano gli avea renduto, a grande danno e vergogna de' Cristiani; e rimase la Terrasanta e la Soria in peggiore stato che no·lla trovò.
<B>XVIII</B>
<I>Come lo 'mperadore tornò d'oltremare perché gli era rubellato il Regno, e come ricominciò la guerra colla Chiesa.</I>
Come papa Gregorio seppe la falsa pace fatta per lo 'mperadore Federigo e col soldano, a vergogna e danno de' Cristiani, incontanente ordinò col re Giovanni, il quale era in Lombardia, che colla forza della Chiesa entrasse con gente d'arme nel regno di Puglia a rubellare il paese a Federigo imperadore; e così fece, e gran parte del Regno ebbe a' suoi comandamenti e della Chiesa. Incontanente che Federigo ebbe oltremare la novella, lasciò il suo maliscalco, il quale non intese ad altro ch'a guerreggiarsi co' baroni di Soria per occupare loro città e signoria, che' loro anticessori con grande affanno e dispendio e spargimento di sangue aveano conquistato sopra i Saracini, e combattési col re Arrigo di Cipri e co' baroni di Soria, e sconfissegli a saetta; ma poi fue egli sconfitto in Cipri, e perdé quasi tutto il reame di Ierusalem in poco tempo, ché 'l ripresono i Saracini per la discordia ch'era tra 'l detto maliscalco e gli altri signori cristiani. E chi queste storie vorrà meglio sapere le troverrà distesamente nel libro del conquisto. Lasceremo omai de' fatti d'oltremare, e diremo di Federigo, il quale con due galee solamente, gli anni di Cristo MCCXXXVI, arrivò al castello d'Astone in Puglia, la quale fu la prima terra che gli s'arrendé. E lui arrivato in Puglia, raunò le sue forze, e cominciarsi le terre a ritornare alla sua signoria; e mandò in Alamagna per Currado suo figliuolo e per lo duca d'Ostericchi, i quali con gente grande vennero in Puglia, e per la loro forza tutto il paese che gli s'era rubellato racquistaro, e più; che 'l Patrimonio San Piero, e il ducato di Spuleto, che sono propio retaggio della Chiesa, e la Marca d'Ancona, e la città di Benevento, camera della Chiesa, occupò, menando in loro oste i Saracini di Nocera, tutto tolsono a santa Chiesa, e 'l papa Gregorio quasi assediaro in Roma, e con dispendio di moneta fatto per Federigo a certi malvagi nobili romani avrebbe preso il detto papa Gregorio in Roma, il quale accorgendosi di ciò, trasse di Santo Santoro di Laterano la testa de' beati appostoli Pietro e Paulo, e con essi in mano, con tutti i cardinali, vescovi, e arcivescovi, e altri prelati ch'erano in corte, e col chericato di Roma, con solenni digiuni e orazioni andò per tutte le principali chiese di Roma a processione; per la quale devozione e miracolo de' detti santi appostoli il popolo di Roma fu tutto rivocato a la difensione del papa e della Chiesa, e quasi tutti si crucciaro contra Federigo, dando il detto papa indulgenza e perdono di colpa e di pena. Per la qual cosa Federigo, che di queto si credeva intrare in Roma e prendere il detto papa, sentita la detta novitade, temette del popolo di Roma e si ritrasse in Puglia, e il detto papa fu liberato, con tutto che molto fosse afflitto dal detto imperadore, però ch'egli tenea tutto il Regno e Cicilia, e avea preso il ducato di Spuleto, e Campagna, e il Patrimonio Santo Piero, e la Marca, e Benevento, come detto è di sopra, e distruggea in Toscana e in Lombardia tutti i fedeli di santa Chiesa.
<B>XIX</B>
<I>Come lo 'mperadore Federigo fece che' Pisani presono in mare i parlati della Chiesa che venieno al concilio.</I>
Papa Gregorio veggendo la Chiesa di Dio così tempestata da Federigo imperadore, ordinò di fare a Roma concilio generale, e mandò in Francia due legati cardinali, l'uno fu messer Iacopo vescovo di Pilestrino, e l'altro messer Oddo vescovo di Porto detto il cardinale Bianco, acciò che richiedessono il re Luis di Francia e quello d'Inghilterra d'aiuto contra Federigo, e che sommovessono tutti i prelati d'oltremonti a venire al concilio, per dare sentenzia contra Federigo. I quali legati sollicitamente fecero loro legazione, e predicando contro a Federigo, tutto il ponente scommossono contra lui. E 'l cardinale Bianco ne venne innanzi con molti prelati, arcivescovi, e vescovi, e abati, i quali arrivarono a Nizza in Proenza, e poco appresso vi venne e arrivò l'altro cardinale di Pilestrino, imperciò che per Lombardia non poterono avere il cammino, ché Federigo avea a sua gente fatti prendere i passi e le strade in Toscana e in Lombardia. Per la qual cosa papa Gregorio mandò a' Genovesi che co·lloro navilio, alle spese della Chiesa, dovessono levare i detti cardinali e parlati da Nizza, e conducergli per mare a Roma; la quale cosa fu fatta, ch'egli armaro in Genova che galee, e che uscieri, e batti, e barcosi, in quantità di LX legni, onde fu ammiraglio messere Guiglielmo Ubbriachi di Genova. Lo 'mperadore Federigo, il quale non dormia a perseguitare santa Chiesa, mandò Enzo suo figliuolo bastardo con galee armate del Regno a Pisa, e mandò a' Pisani che dovessono armare galee, e intendere col detto Enzo a prendere i detti parlati; i quali armaro XL galee di molta buona gente, onde fue ammiraglio messer Ugolino Buzzaccherini di Pisa; e sentendo la venuta de' legni de' Genovesi, si feciono loro incontro tra Porto Pisano e l'isola di Corsica. E ciò sentendo i cardinali, e' parlati, e' signori ch'erano in sull'armata de' Genovesi, pregarono l'amiraglio che tenesse la via di fuori dall'isola di Corsica per ischifare l'armata de' Pisani, non sentendo la loro armata con tante galee di corso e da battaglia, e molti legni grossi carichi di cavalli, e d'arnesi, e di cherici, e di gente disutile a battaglia. Messere Guiglielmo Obbriaco, ch'era di nome e di fatto e uomo di testa e di poco senno, non volle seguire quello consiglio, ma per sua superbia e disdegno de' Pisani si volle conducere alla battaglia, la quale fu aspra e dura, ma tosto fu sconfitta l'armata de' Genovesi da' Pisani, onde furono presi i detti legati cardinali e prelati, e molti n'anegaro e gittaro in mare sopra lo scoglio, overo isoletta, che si chiama la Meloria, presso a Porto Pisano, e gli altri ne menarono presi nel Regno, e più tempo gli tenne lo 'mperadore in diverse pregioni; e ciò fu gli anni di Cristo MCCXXXVII. Per la qual cosa la Chiesa di Dio ricevette grande danno e persecuzione; e se non fossono i messaggi del re Luis di Francia, e le minacce, se non lasciasse i parlati di suo reame, Federigo non gli avrebbe mai diliberi; ma per paura della forza de' Franceschi, quegli ch'erano rimasi in vita poveramente diliberò di pregione, ma molti ne moriro innanzi per diverse pregioni, fame, e disagi. Per la detta presura furono scomunicati i Pisani, e tolto loro ogni benificio di santa Chiesa, e cominciossene la prima guerra tra Genovesi e' Pisani; onde poi Iddio per lo suo giudicio, de' Pisani per la forza de' Genovesi fece giusta e aspra vendetta, come innanzi farà menzione.
<B>XX</B>
<I>Come i Melanesi furono sconfitti dallo 'mperadore.</I>
Poi che Federigo imperadore si fu partito dall'asedio di Roma e tornato in Puglia, come addietro facemmo menzione, ebbe novelle come la città di Milano, e Parma, e Bologna, e più altre terre di Lombardia e di Romagna s'erano rubellate dalla sua signoria, e teneano parte colla Chiesa; per la qual cosa si partì dal Regno, e andonne colle sue forze in Lombardia, e là fece molta guerra alle cittadi che si teneano colla Chiesa. A la fine i Melanesi con tutta loro forza, e del legato del papa, e di tutta la lega di Lombardia, che teneano colla Chiesa, s'afrontaro a battaglia col detto imperadore al luogo detto Cortenuova, e dopo la grande battaglia Melanesi e tutta loro oste furono sconfitti, gli anni di Cristo MCCXXXVII, onde ricevettono gran danno di morti e de' presi; e prese il carroccio loro, e la loro podestà ch'era figliuolo del dogio di Vinegia, e lui e molti nobili di Milano e di Lombardia ne mandò presi in Puglia, e la detta podestà fece impiccare a Trani in Puglia sopra un'alta torre a la marina, e gli altri pregioni, cui fece morire a tormento, e cui in crudeli carcere. Per la detta vittoria lo 'mperadore ricoverò la sua signoria, e assediò Brescia con più di VIm cavalieri, e furonvi i Guelfi e' Ghibellini di Firenze a gara al servigio dello 'mperadore, e poi l'ebbe a patti; e simile tutte le città e terre di Lombardia, salvo Parma e Bologna; e montò in grande superbia e signoria, e 'l papa e·lla Chiesa e tutti i suoi seguaci n'abassaro molto in tutta Italia. Per la qual cosa poco tempo appresso papa Gregorio quasi per dolore infermò, e poi morì a Roma gli anni di Cristo MCCXXXVIIII; e dopo lui fu fatto papa Celestino nato di Milano, ma non vivette che XVII dì nel papato, e vacò la Chiesa sanza pastore XX mesi in mezzo, imperciò che era tanta la forza di Federigo, che non lasciava fare papa, se non fosse a sua volontà. E di ciò era grande contasto nella Chiesa, che' cardinali erano tornati a picciolo numero per le tribolazioni e aversitadi ch'avea avuta la Chiesa dal detto Federigo, e che era sì infiebolita la forza e la baldanza della Chiesa, che non ardivano gli cardinali a fare più ch'allo 'mperadore piacesse, e a fare il suo volere non s'accordavano e non piaceva loro.
<B>XXI</B>
<I>Come Federigo imperadore assediò e prese la città di Faenza.</I>
Nella detta vacazione, cioè gli anni di Cristo MCCXL, Federigo imperadore tribolando e perseguendo tutte le terre e città e signori che si teneano a la fedeltà e obbedienza di santa Chiesa, sì entrò nella contea di Romagna, la quale si dicea ch'era di ragione di santa Chiesa, e quella ribellò e tolse per forza, salvo che si tenne la città di Faenza, a la quale stette con sua oste all'asedio VII mesi, e poi l'ebbe a patti; e nel detto asedio ebbe gran difalta e di vittuaglia e di moneta, e poco vi fosse più dimorato all'assedio, era stancato. Ma lo 'mperadore per suo senno, fallitagli la moneta, e impegnati i suoi gioelli e vasellamenti, e più moneta non potea rimedire, sì ordinò di dare a' suoi cavalieri e a chi servia l'oste una stampa in cuoio di sua figura, stimandola in luogo di moneta, sì come la valuta d'uno agostaro d'oro; e quelle stampe promise di fare buone per la detta valuta a chiunque poi l'arecasse al suo tesoriere, e fece bandire che ogni maniera di gente per tutte vittuaglie le prendesse sì come moneta d'oro, e così fu fatto, e in questo modo civanzò la sua oste. E poi avuta la città di Faenza, a chiunque avea delle dette stampe gli cambiò ad agostari d'oro, i quali valea l'uno la valuta di fiorini uno e quarto; e dall'uno lato dell'agostaro improntato era il viso dello 'mperadore a modo di Cesari antichi, e da l'altro una aguglia, e era grosso, e di carati XX di fine paragone, e questa molto ebbe grande corso al suo tempo e poi assai nella detta oste. Furono i Fiorentini, Guelfi e Ghibellini, in servigio dello imperadore.
<B>XXII</B>
<I>Come lo 'mperadore fece pigliare il re Arrigo suo figliuolo.</I>
In questi medesimi tempi, con tutto che prima si cominciasse, Arrigo Sciancato, primogenito del detto Federigo imperadore, il quale avea fatto eleggere da' lettori d'Alamagna re de' Romani, come addietro fatta è menzione, veggendo egli che·llo 'mperadore suo padre facie ciò che potea di contradio a santa Chiesa, de la qual cosa prese conscienzia, e più volte riprese il padre, ch'egli faceva male. Della qual cosa lo 'mperadore il si recò a contradio, e non amandolo né trattandolo come figliuolo, fece nascere falsi accusatori che 'l detto Arrigo gli volea fare rubellazione, a petizione della Chiesa, di suo imperio; per la qual cosa, o vero o falso che fosse, fece prendere il detto suo figliuolo re Arrigo e due suoi figliuoli piccoli garzoni, e mandogli in Puglia in diverse carcere, e in quelle il fece morire a inopia a grande tormento, i figliuoli poi fé morire Manfredi. Lo 'mperadore mandò inn Alamagna, e di capo fece eleggere re de' Romani succedente a·llui Currado suo secondo figliuolo; e ciò fu gli anni di Cristo MCCXXXVI. Poi alquanto tempo lo 'mperadore fece abbacinare il savio uomo maestro Piero da le Vigne, il buono dittatore, opponendogli tradigione; ma ciò gli fu fatto per invidia di suo grande stato. Per la qual cosa il detto per dolore si lasciò tosto morire in pregione, e chi disse ch'egli medesimo si tolse la vita.
<B>XXIII</B>
<I>Come si cominciò la guerra tra papa Innocenzio quarto e lo 'mperadore Federigo.</I>
Avenne poi, come piacque a·dDio, che fu eletto papa messer Ottobuono dal Fiesco, de' conti da Lavagna di Genova, il quale era cardinale, e fu fatto papa per lo più amico e confidente che·llo 'mperadore Federigo avesse in santa Chiesa, acciò che accordo avesse dalla Chiesa a·llui, e fu chiamato papa Innocenzio quarto. E ciò fu gli anni di Cristo MCCXLI, e regnò papa anni XI, e riempié la Chiesa di molti cardinali di diversi paesi di Cristianità. E come fu eletto papa, fu recata la novella allo 'mperadore Federigo per grande festa, sappiendo ch'egli era suo grande amico e protettore. Ma ciò udito lo 'mperadore, si turbò forte, onde i suoi baroni si maravigliarono molto. E que' disse: "Non vi maravigliate, però che di questa elezione avemo molto disavanzato; ch'egli ci era amico cardinale, e ora ci fia nimico papa"; e così avenne, ché come il detto papa fu consecrato, sì fece richiedere allo 'mperadore le terre e le giuridizioni che tenea della Chiesa, della quale richesta lo 'mperadore il tenne più tempo in trattato d'accordo, ma tutto era vano e per inganno. A la fine veggendosi il detto papa menare per ingannevoli parole, a danno e vergogna di lui e di santa Chiesa, divenne più nimico di Federigo imperadore che nonn-erano stati i suoi anticessori; e veggendo che la forza dello imperadore era sì grande che quasi tutta Italia tirannescamente signoreggiava, e' cammini tutti presi, e per sue guardie guardati, che nullo potea venire a corte di Roma sanza sua volontà e licenza, e 'l detto papa veggendosi per lo detto modo così assediato, sì ordinò segretamente per gli suoi parenti di Genova, e fece armare XX galee, e subitamente le fece venire a Roma, e ivi su montò con tutti i cardinali e con tutta la corte, e di presente si fece portare alla sua città di Genova sanza contasto niuno; e soggiornato alquanto in Genova, se n'andò a Leone sovra Rodano per la via di Proenza; e ciò fu gli anni di Cristo MCCXLI.
<B>XXIV</B>
<I>Della sentenzia che papa Innocenzo diede al concilio a·lLeone sovra Rodano sopra Federigo imperadore.</I>
Come papa Innocenzo fue a Leone, ordinò concilio generale nel detto luogo, e fece richiedere per l'universo mondo vescovi e arcivescovi e altri prelati, i quali tutti vi vennero. E vennollo a vedere infino a la badia di Crugnì in Borgogna il buono re Luis di Francia, e poi venne infino al concilio a·lLeone, ove sé e 'l suo reame proferse al servigio del detto papa e di santa Chiesa contra Federigo imperadore, e contra chi fosse nimico di santa Chiesa, e crociossi per andare oltremare. E partito il re Luis, il papa fece nel detto concilio più cose in bene della Cristianità, e canonizzò più santi, come fa menzione la cronica martiniana nel suo trattato. E ciò fatto, il detto papa fece citare il detto Federigo, che personalmente dovesse venire al detto concilio, sì come in luogo comune, a scusarsi di XIII articoli provati contro a·llui di cose fatte contra a la fede di Cristo e contra a santa Chiesa. Il quale imperadore non vi volle comparire, ma mandovvi suoi ambasciadori e proccuratori, il vescovo di Freneborgo d'Alamagna, e frate Ugo mastro della magione di Santa Maria degli Alamanni, e il savio cherico e maestro Piero da le Vigne del Regno, i quali scusando lo 'mperadore come nonn-era potuto venire per malatia e disagio di sua persona, ma pregando il detto papa e' suoi frati che gli dovessono perdonare, e ch'egli tornerebbe a misericordia, e renderebbe ciò che occupava della Chiesa, e profersono, se 'l papa gli volesse perdonare, s'obbligava che infra uno anno adoperrebbe sì che 'l soldano de' Saracini renderebbe a' suoi comandamenti la Terrasanta d'oltremare. E 'l detto papa udendo le 'nfinte scuse e vane proferte dello 'mperadore, domandò i detti ambasciadori se di ciò fare aveano autentico mandato, li quali appresentaro piena procura a tutto promettere e obbligare sotto bolla d'oro del detto imperadore. E come il papa l'ebbe a·ssé, in pieno concilio e presenti i detti ambasciadori, abbominò Federigo di tutti i detti XIII articoli colpevole, e per ciò confermare disse: "Vedete, fedeli Cristiani, se Federigo tradisce santa Chiesa e tutta Cristianità, che secondo il suo mandato egli proffera infra uno anno di fare rendere la Terrasanta al soldano; assai chiaramente si mostra che 'l soldano la tiene per lui, a vergogna di tutti i Cristiani". E ciò detto e sermonato, fece piuvicare il processo incontro al detto impradore, e condannollo e scomunicollo siccome eretico e persecutore di santa Chiesa, agravandolo di più crimini disonesti contra lui provati, e privollo della signoria dello 'mperio, e del reame di Cicilla, e di quello di Ierusalem, assolvendo d'ogni fedeltà e saramento tutti i suoi baroni e sudditi, iscomunicando chiunque l'ubbidisse, o gli desse aiuto o favore, o più il chiamasse imperadore o re. E il detto processo fu fatto al detto concilio a Leone sopra Rodano gli anni di Cristo MCCXLV, dì XVII di luglio. Le principali ragioni perché Federigo fu condannato furono IIII: la prima imperciò che, quando la Chiesa lo 'nvestì del reame di Cicilla e di Puglia, e poi dello 'mperio, giurò a la Chiesa dinanzi a' suoi baroni, e dinanzi allo 'mperatore Baldovino di Costantinopoli, e a·ttutta la corte di Roma di difendere santa Chiesa in tutti suoi onori e diritti contra tutte genti, e di dare il debito censo, e ristituire tutte le possessioni e giuridizioni di santa Chiesa; delle quali cose fece il contradio, e fu ispergiuro, e tradimento commise, e infamò villanamente a torto papa Gregorio VIIII e' suoi cardinali per sue lettere per l'universo mondo. La seconda cosa fu che ruppe la pace fatta da·llui alla Chiesa, non ricordandosi della perdonanza a·llui fatta delle scomuniche e degli altri misfatti per lui operati contra santa Chiesa; e quegli che furono colla Chiesa contro a·llui in quella pace giurò e promise di mai non offendere, e elli fece tutto il contradio; che tutti gli disperse, o per morte o per esilio, loro e loro famiglie, levando loro possesioni, e non ristituì a' Tempieri né agli Spedalieri le loro magioni per lui occupate, le quali per patti della pace avea promessi di ristituire e rendere, e lasciò per forza vacanti XI arcivescovadi, con molti vescovadi e badie nello imperio e nel reame, i quali non lasciava a quegli che degnamente erano eletti per lo papa tenere né coltivare, faccendo forze e torzioni alle sacre persone, recandoli a piati dinanzi a' suoi balii e corti secolari. La terza causa fu per sacrilegio che fece, che per le galee di Pisa e per lo figliuolo re Enzo fece pigliare i cardinali e molti parlati in mare, come detto è in adietro, e di quegli mazzerare in mare, e tenere morendo in diverse e aspre carcere. La quarta causa fu perch'egli fu trovato e convinto in più articoli di resia di fede; e di certo egli non fu cattolico Cristiano, vivendo sempre più a suo diletto e piacere, che a ragione, o a giusta legge, e participando co' Saracini: sempre usò poco o niente la Chiesa e 'l suo oficio, e non facie limosina; sì che non sanza grandi cagioni e evidenti fue disposto e condannato; e con tutto che molta molestia e persecuzione facesse a santa Chiesa, come fue condannato, ogni onore e stato e potenzia e grandezza in poco di tempo Idio gli levò, e gli mostrò la sua ira, sì come innanzi faremo menzione. E perché molti fecero questione chi avesse il torto della discordia, o la Chiesa o lo 'mperadore, udendo le sue scuse per le sue lettere, a·cciò rispondo e dico, manifestamente e per divino miracolo, ma più miracoli si mostrarono, che 'l torto fu dello 'mperadore, imperciò che aperti e visibili giudicii Idio mostrò per la sua ira a Federigo e a sua progenia.
<B>XXV</B>
<I>Come il papa e la Chiesa feciono eleggere nuovo imperio contra Federigo disposto imperadore.</I>
E disposto e condannato il detto Federigo, com'è detto di sopra, il papa mandò agli elettori d'Alamagna che hanno a eleggere il re de' Romani, che dovessono sanza indugio fare nuova elezione d'imperio, e così fue fatto; ch'eglino elessono Guiglielmo conte d'Olanda e antigrado, valente signore, al quale la Chiesa diè le sue forze, e fecegli rubellare gran parte d'Alamagna, e diede indulgenza e perdono, sì come andasse oltremare, a chi fosse contro al detto Federigo; onde in Alamagna ebbe grande guerra tra 'l detto eletto re Guiglielmo d'Olanda e 'l re Currado figliuolo del detto Federigo. Ma poco durò di là la guerra, ché si morì il detto re Guiglielmo gli anni di Cristo..., e regnò in Alamagna Currado detto, il quale il padre Federigo imperadore avea fatto eleggere re, come faremo menzione. Di questa sentenzia Federigo appellò al successore di papa Innocenzo, e mandò sue lettere e messaggi per tutta la Cristianità, dolendosi della detta sentenzia, e mostrando com'era iniqua, come appare per la sua pistola la quale dittò il detto maestro Piero da le Vigne, che comincia detta la salutazione: "Avegna che noi crediamo che parole della innanzi corritrice novella etc.". Ma considerando la verità del processo e dell'opere di Federigo fatte contro a la Chiesa, e della sua dissoluta e non cattolica vita, egli fu colpevole e degno della privazione, per le ragioni dette nel detto processo, e poi per l'opere commesse per lo detto Federigo appresso la sua privazione; che se prima fue, e era stato crudele e persecutore di santa Chiesa e de' suoi fedeli in Toscana e in Lombardia, appresso fu maggiormente infino che vivette, come innanzi faremo menzione. Lasceremo alquanto la storia de' fatti di Federigo, ritornando addietro, ove lasciammo, a' fatti di Firenze, e dell'altre notevoli novitadi avenute per gli tempi per l'universo mondo, ritornando poi all'opere e alla fine del detto Federigo e de' suoi figliuoli.
<B>XXVI</B>
<I>Incidenza, e diremo de' fatti di Firenze.</I>
Negli anni di Cristo MCCXXXVII, essendo podestà di Firenze messer Rubaconte da Mandello da Milano, si fece in Firenze il ponte nuovo, e elli fondò con sua mano la prima pietra, e gittò la prima cesta di calcina; e per lo nome della detta podestà fu nomato il ponte Rubaconte. E alla sua signoria si lastricarono tutte le vie di Firenze, che prima ce n'avea poche lastricate, se non in certi singulari luoghi, e mastre strade lastricate di mattoni; per lo quale acconcio e lavorio la cittade di Firenze divenne più netta, e più bella, e più sana.
<B>XXVII</B>
<I>Come e quando scurò tutto il sole.</I>
L'anno appresso, ciò fu MCCXXXVIII a dì III di giugno, iscurò il sole tutto a·ppieno nell'ora di nona, e durò scurato parecchie ore, e del giorno si fece notte; onde molte genti ignoranti del corso del sole e dell'altre pianete si maravigliaro molto, e con grande paura e spavento molti uomini e femmine in Firenze, per la tema della non usata novità, tornaro a confessione e penitenzia. Dissesi per gli astrolaghi che la detta scurazione anunziò la morte di papa Gregorio, che morì l'anno appresso, e l'abassamento e scuritade ch'ebbe la Chiesa di Roma da Federigo imperadore, e molto danno de' Cristiani, come poi fu appresso.
<B>XXVIII</B>
<I>Della venuta de' Tartari nelle parti d'Europia infino in Alamagna.</I>
Nel detto anno MCCXXXVIIII i Tartari, i quali erano scesi di levante, e presa Turchia e Cumania, sì passaro in Europia, e feciono due parti di loro, l'una andòe nel reame da·pPollonia, e l'altra gente entraro in Ungaria, e colle dette nazioni ebbono dure e aspre battaglie; ma alla fine il fratello del re d'Ungaria ch'avea nome Filice, duca di Colmano in Pannonia, e lo re Arrigo da·pPollonia uccisono e sconfissono in battaglia, e tutta la gente, sì uomini come femmine e fanciulli, misono alle spade e a morte; per la qual cagione i detti due così grandi paesi e reami furono quasi diserti d'abitanti. E dopo lo stimolo de' Tartari, quegli cotanti che di loro mano scamparono, fu sì grande e sì crudele fame nel paese, che la madre per la fame mangiava il figliuolo, e gran parte polvere d'uno monte che v'era, come diciamo gesso, in luogo di farina mangiavano. E guasti i Tartari quelli paesi, scorsono infino in Alamagna, e volendo passare il grande fiume del Danubio in Ostericchi, chi di loro con navi e, co·lloro cavagli, e chi con otri pieni di vento, si misono nel fiume; e difesi con saette e altri ingegni e armi al passo del detto fiume, onde forati gli otri colle saette da' paesani, quasi tutti annegaro, e furono morti sanza potere ritornare adietro; e così finìo la loro pestilenzia, non sanza infinito e gravissimo danno de' Cristiani di quegli paesi lontani da·nnoi. E di questa venuta de' Tartari fu sì grande e spaventevole fama, che infino in questo nostro paese si temea fortemente di loro, che non passassono in Italia.
<B>XXIX</B>
<I>D'uno grande miracolo di tremuoto ch'avvenne in Borgogna.</I>
Nel detto anno avvenne nella Borgogna imperiale, nella contrada di..., per diversi tremuoti certe montagne si dipartirono, e per ruina nelle valli somersero; onde tutte le villate di quelle valli furono sommerse, ove morirono più di Vm persone.
<B>XXX</B>
<I>D'uno grande miracolo che si trovò in Ispagna.</I>
Nel detto tempo e anno avenne uno miracolo in Ispagna, il quale è bene da notare, e per ogni Cristiano d'avere in reverenzia, e bene che sia in altre croniche, da recarlo in memoria in questo: ché regnando Ferrante re di Castello e di Spagna, nella contrada di Tolletta, uno Giudeo cavando una ripa per crescere una sua vigna, sotterra trovò uno grande sasso, il quale di fuori era tutto saldo e sanza neuna fessura, e rompendo il detto sasso, il trovò dentro vacuo, e dentro al vacuo, quasi imarginato col sasso, vi trovò uno libro con fogli sottili, quasi di legno, ed era di volume quasi com'uno saltero: iscritto era di tre lingue, greca, ebraica, e latina, e contenea in sé tre membri del mondo, da Adam infino ad Anticristo, le propietà degli uomini che doveano essere al mondo ne' detti isvariati tempi. Il principio del terzo mondo, overo secolo, puose così: "Nel terzo mondo nascerà il figliuolo di Dio d'una vergine ch'avrà nome Maria, il quale patirà morte per salute dell'umana generazione"; le quali cose leggendo il detto Giudeo, incontanente con tutta sua famiglia divenne Cristiano, e si feciono battezzare. E ancora era scritto a la fine del detto libro che nel tempo che Ferrante re regnerà in Castella si troverebbe il detto libro: lo quale miracolo veduto per molta gente degni di fede, fu rapportato al detto re, e fattane memoria, e grande reverenza. E 'l detto libro fu traslatato e isposto, e molte grandi profezie e vere vi si trovaro. E di certo si disse, e si dee credere, che ciò fosse opera fatta per la volontà di Dio. E simile miracolo si trovò in Gostantino sesto, i quali miracoli sono molto efficaci e affermativi a la nostra fede.
<B>XXXI</B>
<I>Come fue fatto e poi disfatto il borgo a San Giniegio.</I>
Negli anni di Cristo MCCXL fue rifatto il borgo a San Giniegio a piè di Samminiato per quegli della terra, per lo buono sito e trapasso, il quale era in sul cammino di Pisa; ma poi l'anno MCCXLVIII, l'ultimo di giugno, fue disfatto per modo che mai più non si rifece.
<B>XXXII</B>
<I>Come i Tartari sconfissono i Turchi.</I>
Negli anni di Cristo MCCXLIIII Hoccata Cane imperadore de' Tartari mandò Bacho suo secondo figliuolo contra il soldano d'Alappo e contra quello di Turchia, ch'avea nome Givatadin, con XXXm Tartari a cavallo, e nel luogo chiamato Cosadach fue dura e aspra battaglia tra' detti Tartari e' Turchi, e certi Cristiani ch'erano al soldo del soldano. A la fine il soldano e sua gente furono sconfitti, e più di XXm Saracini vi furono tra morti e presi.
<B>XXXIII</B>
<I>Come di prima fu cacciata la parte guelfa di Firenze per gli Ghibellini e la forza di Federigo imperadore.</I>
Ne' detti tempi, essendo Federigo in Lombardia, e essendo disposto del titolo dello imperio per papa Innocenzio, come detto avemo, in quanto potéo si mise a distruggere in Toscana e in Lombardia i fedeli di santa Chiesa in tutte le città ov'ebbe podere. E prima cominciò a volere stadichi di tutte le città di Toscana, e tolse de' Ghibellini e de' Guelfi, e mandogli a Sa·Miniato del Tedesco; ma ciò fatto, fece lasciare i Ghibellini e ritenere i Guelfi, i quali poi abandonati, come poveri pregioni, di limosine in Samminiato stettono lungo tempo. E imperciò che la nostra città di Firenze in quelli tempi nonn-era delle meno notabili e poderose d'Italia, sì volle in quella spandere il suo veleno e fare partorire le maladette parti guelfa e ghibellina, che più tempo dinanzi erano incominciate per la morte di messer Bondelmonte, e prima, sì come adietro facemmo menzione. Ma bene che poi fossono le dette parti tra' nobili di Firenze, e spesso si guerreggiassono tra loro di propie nimistadi, e erano in setta per le dette parti e si teneano insieme, e quegli che si chiamavano Guelfi amavano lo stato del papa e di santa Chiesa, e quegli che si chiamavano Ghibellini amavano e favoravano lo 'mperadore e suoi seguaci, ma però il popolo e Comune di Firenze si mantenea in unitade, a bene e onore e stato della repubblica. Ma il detto imperadore mandando sodducendo per suoi ambasciadori e lettere quegli della casa delli Uberti ch'erano caporali di sua parte, e loro seguaci che si chiamavano Ghibellini, ch'elli cacciassono della cittade i loro nemici che si chiamavano Guelfi, profferendo loro aiuto de' suoi cavalieri; sì fece a' detti cominciare dissensione e battaglia cittadina in Firenze, onde la città si cominciò a scominare, e a·ppartirsi i nobili e tutto il popolo, e chi tenea dall'una parte, e chi dall'altra; e in più patti della città si combattero più tempo. Intra gli altri luoghi, il principale era per gli Uberti alle loro case, ch'erano ov'è oggi il gran palagio del popolo: si raunavano co' loro seguaci, e combattiesi, co' Guelfi del sesto di San Piero Scheraggio, ond'erano capo quegli dal Bagno, detti Bagnesi, e' Pulci, e' Guidalotti, e tutti i seguaci di parte guelfa di quello sesto; e ancora gli Guelfi d'Oltrarno su per le pescaie passando, gli venieno a soccorrere quando erano combattuti dagli Uberti. L'altra puntaglia era in porte San Piero, ond'erano capo de' Ghibellini i Tedaldini, perch'aveano più forti casamenti di palagi e torri, e co·lloro teneano Caponsacchi, Lisei, Giuochi, e Abati, e Galigari, e erano le battaglie con quegli della casa de' Donati, e con Visdomini, e Pazzi, e Adimari. E l'altra puntaglia era in porte del Duomo a la torre di messer Lancia de' cattani da Castiglione, e da Cersino, ond'erano capo de' Ghibellini con Agolanti e Bruneleschi, e molti popolari di loro parte, contra i Tosinghi, Agli, e Arrigucci. E l'altra punga e battaglia era in San Brancazio, ond'erano capo per gli Ghibellini i Lamberti, e Toschi, Amieri, Cipriani, e Megliorelli, e con molto seguito di popolo, contra i Tornaquinci, e Vecchietti, e Pigli, tutto che parte de' Pigli erano Ghibellini. E' Ghibellini faceano capo in San Brancazio a la torre dello Scarafaggio de' Soldanieri; e di quella venne a messer Rustico Marignolli, ch'avea la 'nsegna de' Guelfi, cioè il campo bianco e 'l giglio vermiglio, uno quadrello nel viso, ond'egli morìo; e il dì che' Guelfi furono cacciati, e innanzi che si partissono, armati il vennono a soppellire a San Lorenzo; e partiti i Guelfi, i calonaci di San Lorenzo tramutaro il corpo, acciò che' Ghibellini nol disotterrassono e facessone strazio, però ch'era uno grande caporale di parte guelfa. E l'altra forza de' Ghibellini era in Borgo, ond'erano capo gli Scolari, e Soldanieri, e Guidi, contra i Bondelmonti, Giandonati, Bostichi, e Cavalcanti, Scali, e Gianfigliazzi. Oltrarno erano tra gli Ubbriachi e' Mannelli (e altri nobili di rinnomo non n'avea, se none di case de' popolari), incontro a' Rossi e' Nerli. Avenne che·lle dette battaglie duraro più tempo, combattendosi a' serragli, overo isbarre, da una vicinanza ad altra, e alle torri l'una a l'altra (che molte n'avea in Firenze in quegli tempi, e alte da C braccia in suso); e con manganelle, e altri difici si combatteano insieme di dì e di notte. In questo contasto e battaglie Federigo imperadore mandò a Firenze lo re Federigo suo figliuolo bastardo, con XVIc di cavalieri di sua gente tedesca. Sentendo i Ghibellini ch'egli erano presso a Firenze, presono vigore, e con più forza e ardire pugnando contra i Guelfi, i quali nonn-aveano altro aiuto, né attendeano nullo soccorso, perché la Chiesa era a Leone sopra Rodano oltremonti, e la forza di Federigo era troppo grande in tutte parti in Italia. E in questo usarono i Ghibellini una maestria di guerra, che a casa gli Uberti si raunava il più della forza de' detti Ghibellini, e cominciandosi le battaglie ne' sopradetti luoghi, sì andavano tutti insieme a contastare i Guelfi, e per questo modo gli vinsono quasi in ogni parte della città, salvo nella loro vicinanza contra il serraglio de' Guidalotti e Bagnesi, che più sostennono; e in quello luogo si ridussono i Guelfi, e tutta la forza de' Ghibellini contra loro. Alla fine veggendosi i Guelfi aspramente menare, e sentendo già la cavalleria di Federigo imperadore in Firenze, entrato già lo re Federigo con sua gente la domenica mattina, sì si tennero i Guelfi infino al mercolidì vegnente. Allora non potendo più resistere a la forza de' Ghibellini, si abandonarono la difenza, e partirsi della città la notte di santa Maria Candellara gli anni di Cristo MCCXLVIII. Cacciata la parte guelfa di Firenze, i nobili di quella parte si ridussono parte nel castello di Montevarchi in Valdarno, e parte nel castello di Capraia; e Pelago, e Ristonchio, e Magnale, infino a Cascia per gli Guelfi si tenne, e chiamossi la Lega; e in quelli faceano guerra a la cittade e al contado di Firenze. Altri popolani di quella parte si ridussono per lo contado a·lloro poderi e di loro amici. I Ghibellini che rimasono in Firenze signori colla forza e cavalleria di Federigo imperadore sì riformaro la cittade a·lloro guisa, e feciono disfare da XXXVI fortezze de' Guelfi, che palagi e grandi torri, intra le quali fu la più nobile quella de' Tosinghi in su Mercato Vecchio, chiamato il Palazzo, alto LXXXX braccia, fatto a colonnelli di marmo, e una torre con esso alta CXXX braccia. Ancora mostraro i Ghibellini maggiore empiezza, per cagione che i Guelfi faceano di loro molto capo a la chiesa di San Giovanni, e tutta la buona gente v'usava la domenica mattina, e faceansi i matrimoni. Quando vennero a disfare le torri de' Guelfi, intra l'altre una molto grande e bella ch'era in sulla piazza di San Giovanni a l'entrare del corso degli Adimari, e chiamavasi la torre del Guardamorto, però che anticamente tutta la buona gente che moria si soppelliva a San Giovanni, i Ghibellini faccendo tagliare dal piè la detta torre, sì·lla feciono puntellare per modo che, quando si mettesse il fuoco a' puntelli, cadesse in su la chiesa di Santo Giovanni; e così fu fatto. Ma come piacque a Dio, per reverenza e miracolo del beato Giovanni, la torre, ch'era alta CXX braccia, parve manifestamente, quando venne a cadere, ch'ella schifasse la santa chiesa, e rivolsesi, e cadde per lo diritto della piazza, onde tutti i Fiorentini si maravigliaro, e il popolo ne fu molto allegro. E nota che poi che·lla città di Firenze fu rifatta, non v'era disfatta casa niuna, e allora si cominciò la detta maladizione di disfarle per gli Ghibellini. E ordinaro che della gente dello 'mperadore ritennero VIIIc cavalieri tedeschi al loro soldo, onde fu capitano il conte Giordano. Avvenne che infra l'anno medesimo che' Guelfi furono cacciati di Firenze quegli ch'erano a Montevarchi furono assaliti da le masnade de' Tedeschi che stavano in guernigione nel castello di Gangareta nel mercatale del detto Montevarchi, e di poca gente fue aspra battaglia, infino nell'Arno, dagli usciti guelfi di Firenze a' detti Tedeschi; a la fine i Tedeschi furono sconfitti, e gran parte di loro furono tra morti e presi; e ciò fu dì..., gli anni di Cristo MCCXLVIII.
<B>XXXIV</B>
<I>Come l'oste di Federigo imperadore fu sconfitta da' Parmigiani e dal legato del papa.</I>
In questo tempo Federigo imperadore si puose ad assedio a la città di Parma in Lombardia, imperciò ch'erano rubellati dalla sua signoria e teneano colla Chiesa, e dentro in Parma era il legato del papa con gente d'arme a cavallo per la Chiesa in loro aiuto. Federigo con tutte le sue forze e quelle de' Lombardi v'era intorno, e stettevi per più mesi, e giurato aveva di non partirsi mai, se prima non l'avesse; e però avea fatto incontro a la detta città di Parma una bastita a modo d'un'altra cittade con fossi, e steccati, e torri, e case coperte e murate, a la quale puose nome Vittoria; e per lo detto assedio avea molto ristretta la città di Parma, e era sì assottigliata di fornimento di vittuaglia, che poco tempo si poteano più tenere, e ciò sapea bene lo 'mperadore per sue spie; e per la detta cagione quasi gli tenea come gente vinta, e poco gli curava. Avenne, come piacque a Dio, che uno giorno lo 'mperadore, per prendere suo diletto, si andò in caccia con uccegli e con cani, con certi suoi baroni e famigliari, fuori di Vittoria; i cittadini di Parma avendo ciò saputo per loro spie, come gente avolontata, ma più come disperata, uscirono tutti fuori di Parma armati, popolo e cavalieri, a una ora, e vigorosamente da più parti assaliro la detta bastita di Vittoria. La gente dello 'mperadore improvisi, e non con ordine, e con poca guardia, come coloro che non curavano i nemici, veggendosi così sùbiti e aspramente assaliti, e non essendovi il loro signore, non ebbono nulla difesa, anzi si misono in fugga e inn-isconfitta; e sì erano tre cotanti cavalieri e genti a piè che quegli di Parma; ne la quale sconfitta molti ne furono presi e morti, e lo 'mperadore medesimo sappiendo la novella, con gran vergogna si fuggìo a Chermona; e' Parmigiani presono la detta bastita, ove trovarono molto guernimento e vittuaglia, e molte vasellamenta d'argento, e tutto il tesoro che·llo 'mperadore aveva in Lombardia, e la corona del detto imperadore, la quale i Parmigiani hanno ancora nella sagrestia del loro vescovado, onde furono tutti ricchi; e spogliato il detto luogo della preda, vi misero fuoco, e tutto l'abattero, acciò che mai non v'avesse segno di cittade, né di bastita; e ciò fu il primo martedì di febbraio, gli anni di Cristo MCCXLVIII.
<B>XXXV</B>
<I>Come i Guelfi usciti di Firenze furono presi nel castello di Capraia.</I>
Poco tempo appresso lo 'mperadore si partì di Lombardia, e lasciovvi suo vicario generale Enzo re di Sardigna suo figliuolo naturale, con gente assai a cavallo, sopra la taglia de' Lombardi, e venne in Toscana, e trovò che·lla parte de' Ghibellini, che signoreggiavano la città di Firenze, del mese di marzo s'erano posti ad assedio al castello di Capraia, nel quale erano i caporali delle maggiori case de' nobili guelfi usciti di Firenze. Lo 'mperadore vegnendo in Toscana, non volle entrare nella città di Firenze, né mai v'era entrato, ma se ne guardava, che per suoi aguri, overo detto d'alcuno demonio, overo profezia, trovava ch'egli dovea morire in Firenze, onde forte temea; ma passò all'oste, e andossene a soggiornare nel castello di Fucecchio, e la maggior parte di sua gente lasciò all'asedio di Capraia, il quale castello per forte assedio e fallimento di vittuaglia non possendosi più tenere, feciono quegli d'entro consiglio di patteggiare, e avrebbono avuto ogni largo patto ch'avessono voluto; ma uno calzolaio uscito di Firenze, ch'era stato uno grande anziano, non essendo richesto al detto consiglio, isdegnato si fece alla porta, e gridò a quegli dell'oste che·lla terra non si potea più tenere; per la qual cosa quegli dell'oste non vollono intendere a patteggiare, onde quegli d'entro, come gente morta, s'arrendero a la mercé dello imperadore; e ciò fu del mese di maggio, gli anni di Cristo MCCXLVIIII. E' capitani de' detti Guelfi era il conte Ridolfo di Capraia e messer Rinieri Zingane de' Bondelmonti; e rapresentati a Fucecchio allo 'mperadore, tutti gli ne menò seco pregioni in Puglia, e poi per lettere a ambasciadori mandatigli per gli Ghibellini di Firenze, a tutti quegli delle gran case nobili di Firenze fece trarre gli occhi, e poi mazzerare in mare, salvo messer Rinieri Zingane: perché 'l trovò savio e magnanimo no·llo volle fare morire, ma fecelo abacinare degli occhi, e poi in su l'isola di Montecristo come religioso finì sua vita. E 'l sopradetto calzolaio da quegli di fuori fu guarentito, il quale, tornati poi i Guelfi in Firenze, egli vi ritornò, e riconosciuto in parlamento, a grido di popolo fu lapidato, e vilmente per gli fanciulli strascinato per la terra, e gittato a' fossi.
<B>XXXVI</B>
<I>Come il re Luis di Francia fue sconfitto e preso da' Saracini a la Monsura in Egitto.</I>
Nel detto tempo essendo il buono Luis re di Francia andato oltremare con grande stuolo e passaggio di navilio, e in sua compagnia Ruberto conte d'Artese e Carlo conte d'Angiò suoi fratelli, con tutta la baronia di Francia, puosono in Egitto con allegro cominciamento, ma con tristo fine; che nella loro venuta ebbono di presente la città di Dammiata, e poi volendo andare per forza d'arme al Caro e Babbillonia d'Egitto, ov'era il soldano e tutto suo podere, come furono al luogo detto la Monsura, avendo avute più battaglie e assalti da Saracini, e di tutte essendo vincitori i Franceschi, il soldano conoscendo ch'egli erano in quella parte ch'a·llui piaceva, maestrevolmente fece rompere in più parti gli argini del fiume del Calice, ch'esce dal fiume del Nilo, i quali argini sono a modo di quelli che sono sopra il fiume del Po in Lombardia; e rotti i detti argini, il fiume che soprasta alle pianure d'Egitto incontanente allagò tutto il piano dov'era l'oste de' Franceschi per tale modo che molti n'anegaro, e non potevano andare a neuno salvamento, né riconoscere via o cammino, né avere mercato né vittuaglia; onde gran parte dell'oste chi morì di fame e chi affogò in acqua, e tutti i loro cavalli e bestiame moriro. Per la qual cosa di nicessità quegli che scampati erano s'arendero a pregioni al soldano e a' Saracini, e fu preso il detto re Luis e Carlo conte d'Angiò suo fratello con molti baroni; e morìvi Ruberto conte d'Artese. Ma come piacque a Dio, avuti i Cristiani la detta aversità, il detto Luis e' suoi baroni tosto trovarono pace e redenzione da' Saracini, ché rendendo la città di Dammiata, e pagando CCm di parigini furono liberi; ma Carlo si fuggì colla guardia ch'avea nome Ferzacata. La detta scofitta fue a dì XXVII di marzo, gli anni di Cristo MCCL. E come lo re Luis e gli suoi baroni furono ricomperati, e pagata la detta moneta, si tornarono in ponente; e per ricordanza della detta presura, acciò che vendetta ne fosse fatta o per Luis o per li suoi, lo re Luis fece fare nella moneta del tornese grosso dal lato della pila le bove da pregioni. E nota che quando questa novella venne in Firenze, signoreggiando i Ghibellini, ne feciono festa e falò, secondo che si dice. Lasceremo a parlare de' Franceschi, e torneremo a nostra materia, a dire de' fatti di Firenze, e di Federigo imperadore, e della sua fine.
<B>XXXVII</B>
<I>Come lo re Enzo figliuolo di Federigo imperadore fue sconfitto e preso da' Bolognesi.</I>
Negli anni di Cristo MCCL, del mese di maggio, lo re Enzo figliuolo di Federigo imperadore, essendo rimaso generale vicario e capitano della taglia in Lombardia, venne ad oste sopra la città di Bologna, i quali si teneano colla Chiesa di Roma, ed eravi il legato del papa con gente d'arme al soldo della Chiesa. I Bolognesi uscirono fuori vigorosamente, popolo e cavalieri, incontra il detto re Enzo, e combattersi co·llui, e sconfissollo e presollo nella detta battaglia con molta di sua gente, e lui misono in carcere in una gabbia di ferro, e in quella con grande misagio finì sua vita a grande dolore.
<B>XXXVIII</B>
<I>Come certi Ghibellini di Firenze furono sconfitti nel borgo di Fegghine dagli usciti guelfi</I>
Per la partita che·llo 'mperadore fece di Toscana, e per la sconfitta ch'ebbe lo re Enzo da' Bolognesi, come detto avemo, la forza dello 'mperio cominciò alquanto a calare in Toscana e in Lombardia; e quegli che teneano parte guelfa e della Chiesa cominciarono a prendere forza e vigore. Avenne che essendo il vicario dello 'mperadore co' Fiorentini ghibellini ad assedio al castello d'Ostina in Valdarno, il quale gli usciti guelfi di Firenze aveano rubellato, e essendo grande parte de la detta oste nel borgo di Fegghine per guardia, acciò che' Guelfi ch'erano co·lloro amistade in Montevarchi raunati non potessono venire a soccorrere il detto castello d'Ostina, i detti Guelfi partendosi di Montevarchi la notte di santo Matteo di settembre, gli anni di Cristo MCCL, vennero e entraro ne' detti borghi di Fegghine, e subitamente assalendo la detta gente, per la notte ch'era, e sùbito assalto, sanza nulla difenza furono sconfitti, e la maggiore parte morti e presi per le case; e la mattina vegnente si levò l'oste villanamente da Ostina, e tornò in Firenze.
<B>XXXIX</B>
<I>Come in Firenze si fece il primo popolo per riparare le forze e le 'ngiurie che facieno i Ghibellini.</I>
Tornata la detta oste in Firenze, si ebbe infra' cittadini grande ripitio, imperciò che i Ghibellini che signoreggiavano la terra gravavano il popolo d'incomportabili gravezze, libbre e imposte; e con poco frutto, che' Guelfi erano già isparti per lo contado di Firenze, e teneano molte castella, e faceano guerra alla cittade, e oltre a·cciò quegli della casa degli Uberti e tutti gli altri nobili ghibellini tiranneggiavano il popolo di gravi torsioni e forze e ingiurie. Per la qual cosa i buoni uomini di Firenze raunandosi insieme a romore, e feciono loro capo a la chiesa di San Firenze; e poi per la forza degli Uberti non v'ardiro a stare, sì n'andarono a stare a la chiesa de' frati minori a Santa Croce, e ivi stando armati, non s'ardivano di tornare a·lloro case, acciò che dagli Uberti e gli altri nobili, avendo lasciate l'arme, non fossono rotti, e da le signorie condannati. Sì n'andaro armati alle case delli Anchioni da San Lorenzo, ch'erano molto forti, e qui armati durando, co·lloro forza feciono XXXVI caporali di popolo, e levarono la signoria a la podestà ch'allora era in Firenze, e tutti gli uficiali rimossono. E ciò fatto, sanza contasto sì ordinarono e feciono popolo con certi nuovi ordini e statuti, e elessono capitano di popolo messer Uberto da Lucca; e fu il primo capitano di Firenze; e feciono XII anziani di popolo, due per ciascuno sesto, i quali guidavano il popolo e consigliavano il detto capitano, e ricogliensi nelle case della Badia sopra la porta che vae a Santa Margherita, e tornavansi alle loro case a mangiare e a dormire. E ciò fu fatto a dì XX d'ottobre, gli anni di Cristo MCCL, e in quello dì si diedono per lo detto capitano XX gonfaloni per lo popolo a certi caporali partiti per compagnie d'arme e per vicinanze, e a più popoli insieme, acciò che quando bisognasse, ciascuno dovesse trarre armato al gonfalone della sua compagnia, e poi co' detti gonfaloni trarre al detto capitano del popolo. E feciono fare una campana, la quale tenea il detto capitano in su la torre del Leone; e 'l gonfalone principale del popolo, ch'avea il capitano, era dimezzata bianca e vermiglia. Le 'nsegne de' detti gonfaloni erano queste: nel sesto d'Oltrarno, il primo si era il campo vermiglio e la scala bianca; il secondo, il campo bianco con una ferza nera; il terzo, il campo azzurro iv'entro una piazza bianca con nicchi vermigli; il quarto, il campo rosso con uno dragone verde. Nel sesto di San Piero Scheraggio, il primo fu il campo azzurro e uno carroccio giallo, overo a oro; il secondo, il campo giallo con uno toro nero; il terzo, il campo bianco con uno leone rampante nero; il quarto, era pezza gagliarda, cioè a liste a traverso bianche e nere: questa era di San Pulinari. Nel sesto di Borgo, il primo era il campo giallo e una vipera, overo serpe verde; il secondo, il campo bianco e una aguglia nera; il terzo, il campo verde con uno cavallo isfrenato covertato a bianco e a croce rossa. Nel sesto di San Brancazio, il primo, il campo verde con uno leone naturale rampante; il secondo, il campo bianco con uno leone rampante rosso; il terzo, il campo azzurro con uno leone rampante bianco. In porte del Duomo, il primo, il campo azzurro con uno leone a oro; il secondo, il campo giallo con uno drago verde; il terzo, il campo bianco con uno leone rampante azzurro incoronato. Nel sesto di porte San Piero, il primo, il campo giallo con due chiavi rosse; il secondo, a ruote acerchiate bianche e nere; il terzo, il di sotto a vai e di sopra rosso. E come ordinò il detto popolo le 'nsegne e gonfaloni in città, così fece in contado a tutti i pivieri il suo ch'erano LXXXXVI; e ordinargli a leghe, acciò che·ll'una atasse l'altra, e venissero a città e in oste quando bisognasse. Per questo modo s'ordinò il popolo vecchio di Firenze, e per più fortezza di popolo ordinaro e cominciaro a fare il palagio il quale è di dietro a la Badia, e in su la piazza di San Pulinari, cioè quello ch'è di pietre conce colla torre; ché prima non avea palagio di Comune in Firenze, anzi stava la signoria ora in una parte de la città e ora in altra. E come il popolo ebbe presa signoria e stato, sì ordinaro per più fortezza di popolo che tutte le torri di Firenze, che ce n'avea grande quantità alte CXX braccia, si tagliassono e tornassono alla misura di L braccia e non più, e così fu fatto; e delle pietre si murò poi la città oltrarno.
<B>XL</B>
<I>Delle insegne per guerra ch'usava il Comune di Firenze.</I>
Poi ch'avemo detto de' gonfaloni e insegne del popolo, è convenevole che facciamo menzione di quelle de' cavalieri e della guerra, e come i sesti andavano per ordine nell'osti. La 'nsegna della cavalleria del sesto d'Oltrarno era tutta bianca; quella di San Piero Scheraggio a traverso nera e gialla, e ancora oggi l'usano i cavalieri in loro sopransegne ad armeggiare; quello di Borgo addogato per lungo bianco e azzurro; quello di San Brancazio tutto vermiglio; quello di porte del Duomo era...; quello di porte San Piero era tutto giallo. Le 'nsegne dell'oste erano le prime del Comune dimezzate bianche e vermiglie: queste aveva la podestà. Quelle della posta dell'oste e guardia del carroccio erano due, l'uno campo bianco e croce piccola rossa, l'altro per contrario campo rosso e croce bianca. Quello del mercato era...; quelle de' balestrieri erano due, l'una il campo bianco, e l'altra vermiglio, in ciascuno il balestro; e per simile modo quelle de' pavesari, l'uno gonfalone bianco col pavese vermiglio e il giglio bianco, e l'altro rosso col pavese bianco e 'l giglio rosso; e quegli degli arcadori l'uno bianco e l'altro rosso, iv'entro gli archi; quello della salmeria era bianco col mulo nero; e quello de' ribaldi bianco co' ribaldi dipinti in gualdana e giucando. Queste insegne de' cavalieri e dell'oste si davano sempre il dì di Pentecosta ne la piazza di Mercato Nuovo, e per antico così ordinate, e davansi a' nobili e popolani possenti per la podestà. I sesti quando andavano tre insieme, era ordinato Oltrarno Borgo, e San Brancazio, e gli altri tre insieme: e quando andavano a due sesti insieme, andava Oltrarno e San Brancazio, San Piero Scheraggio e Borgo, porte del Duomo e porte San Piero; e questo ordine fu molto antico. Lasceremo degli ordini di Firenze, e diremo della morte di Federigo imperadore, che molto fu utole e bisognevole a santa Chiesa, e al nostro Comune.
<B>XLI</B>
<I>Come lo 'mperadore Federigo morì a Firenzuola in Puglia.</I>
Nel detto anno MCCL, essendo Federigo imperadore in Puglia nella città di Fiorenzuola a l'uscita d'Abruzzi, si amalò forte, e già del suo aguro non si seppe guardare, che trovava che dovea morire in Firenze, e come dicemmo adietro, per la detta cagione mai non volle entrare in Firenze, né in Faenza; ma male seppe interpetrare la parola mendace del dimonio, che gli disse si guardasse che morrebbe in Firenze, e elli non si guardò di Fiorenzuola. Avenne che agravando de la detta malatia, essendo co·llui uno suo figliuolo bastardo ch'avea nome Manfredi, disiderando d'avere il tesoro di Federigo suo padre, e la signoria del Regno e di Cicilia, e temendo che Federigo di quella malatia non iscampasse o facesse testamento, concordandosi col suo segreto ciamberlano, promettendoli molti doni e signoria, con uno pimaccio che a Federigo puose il detto Manfredi in su la bocca, sì·ll'afogò; e per lo detto modo morì il detto Federigo disposto dello 'mperio e scomunicato da santa Chiesa, sanza penitenzia, o nullo sagramento di santa Chiesa. E per questo potemo notare la parola che Cristo disse nel Vangelio: "Voi morrete nelle peccata vostre"; che così avenne a Federigo, il quale fu così nimico di santa Chiesa, ch'egli fece morire la moglie e Arrigo re suo figliuolo, e... e videsi sconfitto e preso Enzo suo figliuolo, e egli dal suo figliuolo Manfredi vilmente morto e sanza penitenza; e ciò fu il dì di santa Lucia di dicembre, gli anni detti MCCL. E lui morto, Manfredi detto prese la guardia del reame e tutto il tesoro, e 'l corpo di Federigo fece portare e soppellire nobilemente alla chiesa di Monreale di sopra a la città di Palermo in Cicilia, e a la sua sepultura volendo scrivere molte parole di sua grandezza e podere, e grandi cose fatte per lui, uno cherico Trottano fece questi brievi versi, i quali piacquero molto a Manfredi e agli altri baroni, e fecegli intagliare nella detta sepultura, gli quali diceano:
Si probitas, sensus, virtutum gratia, census,
Nobilitas orti possint resistere morti,
Non foret extintus Federicus qui iacet intus.
E nota che in quello tempo che lo 'mperadore Federigo morìo avea mandato in Toscana per tutti gli stadichi di Guelfi per fargli morire; e andando in Puglia, quando furono in Maremma, seppono novelle della morte di Federigo, le guardie per paura gli lasciarono; i quali ricoverarono in Campiglia, e di là tornarono a Firenze e nell'altre terre di Toscana molto poveri e bisognosi.
<B>XLII</B>
<I>Come il popolo di Firenze rimisono per pace i Guelfi in Firenze.</I>
La notte medesima che morì Federigo imperadore morì il podestà che per lui era in Firenze, ch'avea nome messer Rinieri da Montemerlo, che dormendo nel letto suo gli cadde adosso una volta ch'era sopra la camera, e ciò fu in casa gli Abati. E ciò fu bene segnale che nella città di Firenze dovea morire la sua signoria, e così avenne assai tosto; ché essendo levato popolo in Firenze per le forze e oltraggi de' nobili ghibellini, come avemo detto adietro, e vegnendo in Firenze novelle de la morte del detto Federigo, pochi giorni appresso, il popolo di Firenze rappellò e rimisono in Firenze la parte de' Guelfi che fuori n'erano cacciati, faccendo loro fare pace co' Ghibellini; e ciò fu a dì VII di gennaio, gli anni di Cristo MCCL.
<B>XLIII</B>
<I>Come al tempo del detto popolo i Fiorentini sconfissono i Pistolesi, e poi cacciarono certe case di Ghibellini di Firenze.</I>
Molto esultò la parte della Chiesa e parte guelfa per tutta Italia e per la morte dello 'mperadore, e la parte d'imperio e ghibellina abassò, imperciò che papa Innocenzo tornò d'oltre i monti colla corte a Roma, favorando i fedeli della Chiesa. Avenne che del mese di luglio, gli anni di Cristo MCCLI, il popolo e Comune di Firenze feciono oste a la città di Pistoia, ch'erano loro ribelli, e combattero co' detti Pistolesi, e sconfissongli a Monte Robbolini con grande danno de' morti e de' presi de' Pistolesi. E allora era podestà di Firenze messer Uberto da Mandella di Milano. E per cagione che la maggiore parte delle case de' Ghibellini di Firenze non piacea la signoria del popolo, perché parea loro che favorassono più ch'a·lloro non piacea i Guelfi, e per lo passato tempo erano usi di fare le forze e tiranneggiare per la baldanza dello 'mperadore, sì non vollono seguire il popolo né 'l Comune a la detta oste sopra Pistoia; anzi in detto e in fatto la contradiaro per animosità di parte, imperciò che Pistoia in quelli tempi si reggea a parte ghibellina; per la quale cagione e sospetto, tornata l'oste da Pistoia vittoriosamente, le dette case de' Ghibellini di Firenze furono cacciati e mandati fuori della città per lo popolo di Firenze il detto mese di luglio MCCLI. E cacciati i caporali de' Ghibellini di Firenze, il popolo e gli Guelfi che dimoraro a la signoria di Firenze si mutaro l'arme del Comune di Firenze; e dove anticamente si portava il campo rosso e 'l giglio bianco, si feciono per contradio il campo bianco e 'l giglio rosso, e' Ghibellini si ritennero la prima insegna; ma·lla insegna antica del Comune dimezzata bianca e rossa, cioè lo stendale ch'andava nell'osti in sul carroccio, non si mutò mai. Lasceremo alquanto de' fatti de' Fiorentini, e diremo alquanto della venuta del re Currado figliuolo dello 'mperadore Federigo.
<B>XLIV</B>
<I>Come lo re Currado figliuolo di Federigo imperadore venne d'Alamagna in Puglia, e ebbe la segnoria del reame di Cicilia, e come morì.</I>
Come il re Currado d'Alamagna seppe la morte dello 'mperadore Federigo suo padre, s'aparecchiò con grande compagnia per passare in Puglia e in Cicilia, per possedere il detto Regno, del quale Manfredi suo fratello bastardo s'era fatto vicario generale e signoreggiava tutto, salvo la città di Napoli e di Capova, i quali s'erano rubellati per la morte di Federigo, e tornati a l'ubbidenza della Chiesa. E per cagione della morte del detto Federigo molte cittadi di Lombardia e di Toscana aveano fatta mutazione, e tornate all'obedienza della Chiesa. Non si volle il detto Currado mettere a passare per terra, ma lui arrivato nella Marca di Trevigi, fece co' Viniziani apparecchiare grande navilio, e di là per mare con tutta sua gente arrivò in Puglia gli anni di Cristo MCCLI. E con tutto che Manfredi fosse cruccioso della sua venuta, perché intendea a esser signore del detto Regno, a Currado suo fratello fece grande accoglienza, rendendogli molto onore e reverenza. E come fue in Puglia, sì fece oste sopra la città di Napoli, la quale prima da Manfredi prenze di Salerno per V volte era stata osteggiata e assediata, e no·ll'avea potuta vincere, ma Currado con sua grande oste per lungo assedio ebbe la cittade, salvi le persone e la terra.
Ma Currado non attenne loro i patti, ma come fu in Napoli sì fece disfare le mura e tutte le fortezze di Napoli; e simigliantemente fece a la città di Capova che s'era rubellata, e in poco di tempo tutto il Regno recò sotto la sua signoria, abbattendo ogni ribello, o che fosse amico o seguace di santa Chiesa; e non solamente i laici, ma i religiosi e le sacre persone, fece morire per tormenti, rubando le chiese, e abbattendo chi non era della sua obbedienza, e promovendo i benefici, come fosse papa, sì che se Federigo suo padre fue persecutore di santa Chiesa, questo Currado, se fosse vivuto lungamente, sarebbe stato peggiore. Ma come piacque a Dio, poco appresso infermò di grande malatia, ma non però mortale, e faccendosi curare a medici fisiziani, Manfredi suo fratello, per rimanere signore, il fece a' detti medici per moneta e gran promesse avelenare in uno cristeo, e per tale sentenzia di Dio, per opera del fratello, di tale morte morìo sanza penitenzia e scomunicato gli anni di Cristo MCCLII. E di lui rimase in Alamagna uno picciolo figliuolo ch'ebbe nome Curradino, nato per madre della figlia del duca di Baviera.
<B>XLV</B>
<I>Come Manfredi figliuolo naturale di Federigo prese la signoria del regno di Cicilia e di Puglia, e fecesi coronare re.</I>
Morto Currado detto re della Magna, Manfredi rimase signore e balio di Cicilia e del Regno, con tutto che per la morte di Currado alquante terre del Regno si rubellassono, e papa Innocenzo quarto con grande oste della Chiesa si mise nel Regno per racquistare la terra che tenea Manfredi contra volontà della Chiesa, e sì come scomunicato. E come la detta oste della Chiesa fu entrata nel Regno, tutte le città e castella infino a Napoli s'arendero al detto papa; ma poco lui dimorato in Napoli, infermò e passò di questa vita gli anni di Cristo MCCLII, e nella città di Napoli fue soppellito. E per la morte del detto papa, e per la vacazione che dopo lui ebbe la Chiesa, che più di due anni stette sanza pastori, Manfredi racquistò tutto il Regno, e crebbe molto la sua forza e lungi e appresso; e con grande studio s'intendea con tutte le città d'Italia, ch'erano Ghibellini e fedeli dello imperio, e aiutavagli co' suoi cavalieri tedeschi, faccendo co·lloro taglia e compagnia in Toscana e in Lombardia. E quando il detto Manfredi si vide in gloria e inn-istato, si pensò di farsi fare re di Cicilia e di Puglia, e perché ciò gli venisse fatto, si recò ad amici con ispendio, e doni, e promesse, e ufici, i maggiori baroni de·Regno. E sappiendo come del re Currado suo fratello era rimaso uno suo figliuolo chiamato Curradino, il quale per ragione era diritto erede del reame di Cicilia, e era in Alamagna a la guardia della madre, sì si pensò una frodolente malizia per esser re, ch'elli raunò tutti i baroni del Regno, e propuose loro quello ch'avesse a·ffare della signoria, con ciò fosse cosa che elli avesse novelle come il suo nipote Curradino era grave infermo, e da non potere mai reggere reame; onde per gli suoi baroni fue consigliato che mandasse suoi ambasciadori in Alamagna a sapere dello stato di Curradino, e se fosse morto o infermo. Infino allora consigliavano che Manfredi fosse fatto re. A·cciò s'accordò Manfredi, come colui che tutto avea ordinato fittiziamente, e mandati i detti ambasciadori a Curradino e a la madre con ricchi presenti e grandi proferte. I quali ambasciadori giunti in Soavia, trovarono il garzone che la madre ne facea gran guardia, e co·llui tenea più altri fanciulli di gentili uomini vestiti di sua roba: dimandando i detti ambasciadori Curradino, la madre temendo di Manfredi, sì mostrò loro uno de' detti fanciulli. E quegli con ricchi presenti gli feciono doni e reverenzia, intra' quali doni furono de' confetti di Puglia avelenati, e quello garzone prendendone, tosto morìo. Eglino credendo Curradino avere morto di veleno, si partirono d'Alamagna, e come furono tornati in Vinegia, feciono fare alla loro galea vele di panno nero e tutti gli arredi neri, e eglino si vestiro a nero; e sì come giunsono in Puglia feciono sembiante di grande dolore, sì come da Manfredi erano amaestrati. E rapportato a Manfredi e a' baroni tedeschi del Regno come Curradino era morto, e fatto per Manfredi sembiante di grande corrotto, a grido de' suoi amici e di tutto il popolo, sì come avea ordinato, fu eletto re di Cicilla e di Puglia, e a Monreale in Cicilia si fece coronare gli anni di Cristo MCCLV.
<B>XLVI</B>
<I>De la guerra che fu tra papa Allessandro e lo re Manfredi.</I>
Dopo la morte di papa Innocenzo e della sua vacazione fu eletto papa Allessandro quarto, nato della città d'Alagna di Campagna, gli anni di Cristo MCCLV, e sedette nel papato anni VII, mesi, e dì. Il qual papa Allessandro avendo inteso come Manfredi s'era coronato re di Cicilia contra la volontà di santa Chiesa, per lo detto papa fu richesto Manfredi che lasciasse la signoria del Regno e di Cicilia, il quale non volle intendere né ubidire; per la qual cosa il detto papa prima lo scomunicò e privò. E poi mandò contro a·llui Otto cardinale legato con grande oste della Chiesa, e prese molte terre della marina di Puglia, ciò fu la città di Sipanto, e il Monte Santagnolo, e Barletta, e Bari, infino a Otranto in Calavra; ma poi la detta oste per la morte del detto legato tornò in vano, e Manfredi riprese e racquistò tutto; e ciò fu gli anni di Cristo MCCLVI. Il detto re Manfredi fue nato per madre d'una bella donna de' marchesi Lancia di Lombardia, con cui lo 'mperadore ebbe affare; e fu bello del corpo, e come il padre, e più, dissoluto in ogni lussuria; sonatore e cantatore era, volentieri si vedea intorno giocolari e uomini di corte, e belle concubine, e sempre si vestìo di drappi verdi; molto fue largo e cortese e di buon'aire, sì ch'egli era molto amato e grazioso; ma tutta sua vita fue epicuria, non curando quasi Idio né santi, se non al diletto del corpo. Nimico fu di santa Chiesa, e di cherici e de' religiosi, occupando le chiese, come il suo padre e più; ricco signore fu, sì del tesoro che gli rimase dello 'mperadore e del re Currado suo fratello, e per lo suo regno ch'era largo e fruttuoso. E egli, mentre che vivette, con tutte le guerre ch'ebbe colla Chiesa, il tenne in buono stato, sì che 'l montò molto di ricchezze e in podere per mare e per terra. Per moglie ebbe la figliuola del dispoto di Romania, ond'ebbe figliuoli e figliuole. L'arme che prese e portò fue quella dello 'mperio, salvo ove lo 'mperadore suo padre portò il campo ad oro e l'aguglia nera, egli portò il campo d'argento e l'aguglia nera. Questo Manfredi fece disfare la città di Sipanto in Puglia, perché per gli paduli che l'erano intorno non era sana, e non avea porto; e di quelli cittadini fece ivi presso a due miglia, in su la roccia e in luogo d'avere buono porto, fece fondare una terra, la quale per suo nome la fece chiamare Manfredonia, la quale ha oggi il migliore porto che sia da Vinegia a Brandizio. E di quella terra fue Manfredi Bonetta, conte camerlingo del detto re Manfredi, uomo di gran diletto, sonatore e cantatore, il quale per sua memoria fece fare la grande campana di Manfredonia, la qual è la più grande che si truovi di larghezza, e per la sua grandezza non può sonare. Lasceremo alquanto a parlare di Manfredi infino che luogo e tempo sarà, e torneremo ove lasciammo adietro a nostra materia de' fatti di Firenze, e di Toscana, e di Lombardia, con tutto ch'assai si mischiaro co' fatti del detto re Manfredi in più cose.
<B>XLVII</B>
<I>Come i Fiorentini sconfissono gli Ubaldini in Mugello.</I>
Negli anni di Cristo MCCLI i signori della casa degli Ubaldini co·lloro amistadi di Ghibellini e di Romagnuoli aveano fatta gran raunanza in Mugello per fare oste a Monte Accianico, che ancora non era loro. I Fiorentini vi cavalcaro, e sconfissono i detti Ubaldini con gran danno di loro e di loro amistà.
<B>XLVIII</B>
<I>Come i Fiorentini presono Montaia, e misono in isconfitta le masnade de' Sanesi e de' Pisani.</I>
Nel detto anno essendo i Ghibellini usciti di Firenze entrati con masnade di Tedeschi, e rubellato al Comune di Firenze il castello di Montaia in Valdarno, e cavalcatovi i cavalieri delle quattro sestora di Firenze, che v'erano andati per porvi l'oste, i Ghibellini colla forza delle masnade de' Tedeschi non lasciarono acampare i Fiorentini, ma da' detti Ghibellini e Tedeschi furono rotti e cacciati. Per la qual cosa i Fiorentini per comune, popolo e cavalieri, co' Lucchesi e loro amistade del mese di gennaio v'andaro ad oste, e non lasciarono per lo forte tempo e grandissime nevi ch'erano allora che non tenessono l'assedio intorno intorno al castello, per modo che non vi potea entrare né uscire persona, gittandovi dentro più difici. Al soccorso del detto castello vennoro le masnade de' cavalieri di Siena e di Pisa, con popolo assai del contado di Siena, che allora si teneano a parte ghibellina; per la qual venuta de' Sanesi e de' Pisani si ricominciò la guerra da·lloro a' Fiorentini. E loro venuti, colle loro forze si puosono a campo a la badia a Coltobuono presso a Montaia a uno miglio. I Fiorentini ordinati i loro battifolli intorno al castello di pedoni e di buone guardie, la cavalleria di Firenze con certi pedoni eletti lasciarono l'assedio, e francamente s'adirizzaro contro a' Pisani e' Sanesi per combattere, non lasciando per le nevi né per la salita del poggio. Veggendo ciò i nimici, sanza attendere i Fiorentini si fuggiro vilmente in isconfitta con grande danno di loro e di loro arnesi; e veggendo ciò quegli del castello, s'arendero a pregioni, i quali tutti ne furono menati legati in Firenze, e 'l castello disfatto e abattuto; e ciò fu del detto mese di gennaio, essendo podestà di Firenze messere Filippo degli Ugoni da Brescia.
<B>XLIX</B>
<I>Come i Fiorentini presono Tizzano e poi sconfissono i Pisani al Ponte ad Era, avendo i Pisani sconfitti i Lucchesi.</I>
Nel detto anno MCCLII i Fiorentini andaro per comune ad oste a Pistoia, e guastarla intorno, e puosono l'assedio al loro castello di Tizzano, e ebbollo a patti a dì XXIIII di giugno nel detto anno. E essendo la detta oste de' Fiorentini a Tizzano, ebbono novelle come i Pisani coll'aiuto de' Sanesi aveano sconfitti i Lucchesi a Montetopoli; incontanente compiero i patti e ebbono il castello, e si levaro da oste, e passaro in Valdarno per seguire i Pisani e loro oste, i quali sopragiunsono al Ponte ad Era, e quivi ebbe grande battaglia. A la fine i Pisani furono sconfitti, e' Lucchesi, che gli aveano legati pregioni, legaro e presono i Pisani, e la caccia fu infino a la badia a San Savino presso a Pisa a tre miglia, onde molti ne furono morti de' Pisani e de' Sanesi, e presi più di IIIm, i quali ne vennero legati a Firenze, sanza quegli che ne menarono i Lucchesi; e fu presa la podestà di Pisa, ch'avea nome messer Angiolo di Roma. E ciò fu al tempo ch'era podestà di Firenze messere Filippo delli Ugoni di Brescia, il primo dì del mese di luglio nel detto anno MCCLII.
<B>L</B>
<I>Come fu fatto il ponte a Santa Trinita.</I>
In questo tempo essendo la città di Firenze per la signoria del popolo in felice stato, si fece il ponte sopra l'Arno di Santa Trinita a casa i Frescobaldi oltrarno; e in ciò adoperò molto il procaccio di Lamberto Frescobaldi, il quale era nel popolo grande anziano, ed egli e' suoi venuti in grande stato e ricchezza.
<B>LI</B>
<I>Come i Fiorentini presono il castello di Fegghine.</I>
Nel detto tempo, essendo gli usciti ghibellini di Firenze col conte Guido Novello della casa de' conti Guidi e ritratti nel castello di Fegghine, il quale era molto forte, e rubellatolo al Comune di Firenze, essendo l'oste de' Fiorentini fuori sopra i Pisani, come detto è di sopra, tornata la detta oste vittoriosamente in Firenze, incontanente sanza soggiorno andarono e puosonsi ad oste a Fegghine, e a quella dirizzarono difici, e diedonvi aspre battaglie; alla fine s'arendero a patti d'andarne sani e salvi il conte co' forestieri, e' Ghibellini usciti di tornare in Firenze per pace; e ciò fu perché più casati guelfi ch'erano terrazzani di Fegghine, non piacendo loro la signoria de' Ghibellini, cercaro il detto trattato. E chi disse che quegli della casa de' Franzesi, per moneta ch'ebbono da' Fiorentini, aveano ordinato di dare loro il castello; per la qual cosa il conte e gli usciti di Firenze vennero a' detti patti. E partitone il conte e sua gente, la terra fue contra' patti rubata e arsa e abattuta; e ciò fu alla signoria del detto messer Filippo degli Ugoni, del mese d'agosto gli anni di Cristo MCCLII.
<B>LII</B>
<I>Come i Sanesi furono sconfitti da' Fiorentini a Monte Alcino.</I>
Nel detto tempo, essendo l'oste de' Fiorentini a Fegghine, i Sanesi andarono ad oste a Monte Alcino, il qual era raccomandato del Comune di Firenze per gli patti della pace tra' Fiorentini e' Sanesi, e molto aveano istretto il castello con battaglie e difici; e ciò sentendo i Fiorentini, incontanente v'andarono al soccorso, e combattero co' Sanesi, e sconfissongli, e molti ne furono morti e presi, e per gli Fiorentini fue guernito Monte Alcino; ed era podestà di Firenze il detto messer Filippo degli Ugoni; ciò fu gli anni di Cristo MCCLII del mese di settembre. E tornaro in Firenze con grande vittoria di più battaglie di campo, vinte e più terre e castella; ma a quello tempo i Fiorentini erano uniti per lo buono popolo, e andavano in persona a cavallo e a piè nell'osti, e con cuore e con franchezza, sicché di tutte patti bene aventurosamente in questo anno recarono triunfo e vittoria in Firenze.
<B>LIII</B>
<I>Come di prima si feciono in Firenze i fiorini dell'oro.</I>
Tornata e riposata l'oste de' Fiorentini colle vittorie dette dinanzi, la cittade montò molto inn-istato e in ricchezze e signoria, e in gran tranquillo: per la qual cosa i mercatanti di Firenze, per onore del Comune, ordinaro col popolo e comune che·ssi battesse moneta d'oro in Firenze; e eglino promisono di fornire la moneta d'oro, che in prima battea moneta d'ariento da danari XII l'uno. E allora si cominciò la buona moneta d'oro fine di XXIIII carati, che si chiamano fiorini d'oro, e contavasi l'uno soldi XX; e ciò fu al tempo del detto messere Filippo degli Ugoni di Brescia, del mese di novembre gli anni di Cristo MCCLII. I quali fiorini, gli otto pesavano una oncia, e dall'uno lato era la 'mpronta del giglio, e dall'altro il san Giovanni. Per cagione della detta nuova moneta del fiorino d'oro, sì·cci acadde una bella novelletta, e da dovere notare. Cominciati i detti nuovi fiorini a spargersi per lo mondo, ne furono portati a Tunisi in Barberia; e recati dinanzi al re di Tunisi, ch'era valente e savio signore, sì gli piacque molto, e fecene fare saggio, e trovata di fine oro, molto la commendò, e fatta interpetrare a' suoi interpetri la 'mpronta e scritta del fiorino, trovò dicea: "Santo Giovanni Batista"; e dal lato del giglio: "Fiorenzia". Veggendo era moneta di Cristiani, mandò per gli mercatanti pisani che allora erano franchi e molto innanzi al re (e eziandio i Fiorentini si spacciavano in Tunisi per Pisani), e domandogli che città era tra' Cristiani quella <I>Florenza</I> che faceva i detti fiorini. Rispuosono i Pisani dispettosamente e per invidia, dicendo: "Sono nostri Arabi fra terra", che tanto viene a dire come nostri montanari. Rispuose saviamente il re: "Non mi pare moneta d'Arabi; o voi Pisani, quale moneta d'oro è la vostra?". Allora furono confusi e non seppono rispondere. Domandò se tra·lloro era alcuno di Florenza; trovovisi uno mercatante d'Oltrarno ch'avea nome Pera Balducci, discreto e savio. Lo re lo domandò dello stato e essere di Firenze, cui i Pisani faceano loro Arabi; lo quale saviamente rispuose, mostrando la potenzia e la magnificenzia di Fiorenza, e come Pisa a comparazione non era di podere né di gente la metà di Firenze, e che non aveano moneta d'oro, e che il fiorino era guadagnato per gli Fiorentini sopra loro per molte vittorie. Per la qual cagione i detti Pisani furono vergognati, e lo re per cagione del fiorino, e per le parole del nostro savio cittadino, fece franchi i Fiorentini, e che avessono per loro fondaco d'abitazione e chiesa in Tunisi, e privilegiogli come i Pisani. E questo sapemo di vero dal detto Pera, uomo degno di fede, che·cci trovammo co·llui in compagnia all'uficio del priorato.
<B>LIV</B>
<I>Come i Fiorentini feciono oste a Pistoia, e ebborla, e poi la città di Siena, e presono più loro castella.</I>
Negli anni di Cristo MCCLIII i Fiorentini feciono oste sopra la città di Pistoia, che si tenea a parte ghibellina, e guastarla intorno intorno, per modo che neuno ne potea uscire. I Pistolesi veggendosi così assediati, sanza speranza di soccorso o aiuto neuno, sì s'arrenderono, a patti di rimettere i loro usciti guelfi in Pistoia, e che i Fiorentini vi facessono uno castello il quale fosse in sulla porta che viene da Firenze, e quello si facesse guardare per gli Fiorentini; e così fue fatto forte e bello, con tutto che assai dispiacesse a' Pistolesi; ma tuttora si tenne per gli Fiorentini infino che durò il buono popolo vecchio. Ma dopo la sconfitta da Monte Aperti, tornati i Ghibellini in Pistoia, si disfece il detto castello per gli Pistolesi. E tornata la detta felice oste a Firenze, incontanente andarono sopra la città di Siena, e diedono il guasto, e andarono infino al castello di Monte Alcino ch'è di là da Siena, e contra la forza de' Sanesi guernirono il detto castello, imperciò ch'era a·lloro lega e accomandagione; e presono Rapolano e più altre castella e fortezze de' Sanesi, e tornarono in Firenze con grande onore; e a quello era podestà di Firenze messer Paolo da Soriano.
<B>LV</B>
<I>Come i Fiorentini feciono oste a Siena, e' Sanesi feciono le comandamenta, e fue pace tra·lloro.</I>
Nell'anno seguente MCCLIIII, essendo podestà di Firenze messer Guiscardo da Pietrasanta di Milano, i Fiorentini feciono oste per comune sopra la città di Siena, e puosono il campo e assedio al castello di Montereggione; e di certo l'avrebbono avuto, però che i Tedeschi che 'l guardavano erano in trattato di renderlo per libbre Lm di soldi XX il fiorino d'oro; e trovato gli anziani in una notte solo XX cittadini che ciascuno ne proferse M, sanza quegli delle minori somme; sì erano allora i cittadini in buona disposizione per lo bene del comune! Ma i Sanesi per non perdere Montereggioni feciono le comandamenta de' Fiorentini, e fue fatta pace tra·lloro e' Sanesi, e al tutto quetaro a' Fiorentini il castello di Monte Alcino.
<B>LVI</B>
<I>Come i Fiorentini ebbono ii castello di Poggibonizzi e quello di Mortenana.</I>
Nel detto anno partitasi la detta bene aventurosa oste de' Fiorentini di su il contado di Siena, sì ebbono il castello di Poggibonizzi a patti, e poi il castello di Mortenana degli Isquarcialupi ebbono per forza e per ingegno, ch'era rubellato da' Fiorentini; e coloro che prima v'entrarono dentro furono fatti franchi in perpetuo da' Fiorentini.
<B>LVII</B>
<I>Come i Fiorentini sconfissono i Volterrani e combattendo presono la città di Volterra.</I>
Come la detta oste si partì da Poggibonizzi, sanza tornare in Firenze, andò sopra la città di Volterra che·lla teneano i Ghibellini, e giugnendo la detta oste su per le piagge e vigne di Volterra guastando, per intendimento che come l'avessono guasta tornarsi a Firenze, con ciò fosse che·lla città di Volterra fosse delle più forti terre d'Italia, avenne, come piacque a Dio, una bella e improvisa vittoria a' Fiorentini; che' Volterrani, veggendo l'oste presso a le porte della loro città, con grande rigoglio e baldanza tutta la buona gente de la terra usciro fuori a la battaglia sanza niuno buono ordine di guerra o capitaneria, e assaliro i Fiorentini molto aspramente, e assai gli danneggiaro per lo vantaggio della scesa dal poggio. Ma il buono popolo de' Fiorentini vigorosamente sostennero la battaglia; e cominciato l'asalto, la cavalleria de' Fiorentini pinse al poggio all'aiuto del popolo che combatteano co' Volterrani, per modo che per forza gli misono in volta e in isconfitta. E fuggendo i Volterrani per ricoverare nella città, ch'erano le porte aperte, i Fiorentini mischiati co' Volterrani, combattendo co·lloro e cacciando insieme, sanza grande contasto si misono dentro a le porte; e quegli ch'erano a la guardia, veggendo i loro cittadini tornare in isconfitta, si misono a la fugga per modo che, ingrossando la gente de' Fiorentini, presono le porte, e le fortezze di sopra guerniro di loro gente, e entrato dentro, incontanente corsono la città sanza contasto niuno, anzi vennono loro incontro il vescovo con tutto il chericato della città colle croci in mano, e le donne della città scapigliate, gridando pace e misericordia. Per la qual cosa i Fiorentini, entrati nella terra, non vi lasciarono fare nulla ruberia, né micidio, né altro malificio, se non che a·lloro guisa riformaro la signoria, e poi ne mandarono fuori i caporali de' Ghibellini; e questo fue del mese d'agosto gli anni di Cristo MCCLIIII, a la detta signoria di messere Guiscardo da Pietrasanta.
<B>LVIII</B>
<I>Come i Fiorentini andaro ad oste sopra Pisa, e' Pisani feciono le loro comandamenta.</I>
Come i Fiorentini ebbono riformata la città di Volterra a·lloro volontà, sanza tornare in Firenze, la loro bene aventurosa oste andarono sopra la città di Pisa. I Pisani avendo intese le vittorie de' Fiorentini, e la presa della forte città di Volterra, isbigottiti molto, mandarono loro ambasciadori a l'oste de' Fiorentini colle chiavi in mano in segno d'umiltà, per trattare di pace, e fare il piacere de' Fiorentini; la qual pace fue accettata in questo modo: che' Fiorentini a perpetuo fossono franchi in Pisa, sanza pagare niente di gabella né di niuno diritto di nulla mercatantia che entrasse o uscisse in Pisa per mare o per terra, e che i Pisani terrebbono il peso di Firenze, e la misura de' panni, e una lega di moneta, e di non essere contradi né fare guerra a' Fiorentini, né dare aiuto privato o palese a' loro nemici; e per patto domandaro la terra di Piombino o 'l castello di Ripafratta. E sentendo ciò i Pisani furono molto crucciosi, spezialmente perché i Fiorentini non prendessero Piombino per cagione del porto, e disdire non poteano la richesta de' Fiorentini. Uno Pisano ch'avea nome Vernagallo disse: "Se noi vogliamo ingannare i Fiorentini, mostrianne più teneri di Ripafratta che di Piombino, e eglino per prendere più tosto quello che più ci spiaccia, e per infestamento de' Lucchesi, prenderanno Ripafratta"; e così avenne, e Ripafratta presono, e poco appresso i Fiorentini la donaro a' Lucchesi. E ciò fu poco senno per gli Fiorentini, ch'avendo Piombino, e porto in mare, e la signoria di Volterra, troppo n'acrescea la città di Firenze. E per ciò tenere fermo, diedono i Pisani a' Fiorentini cinquanta stadichi de' migliori uomini di Pisa, i quali ne vennero in Firenze; ma poco tempo i detti Pisani attennero la detta pace. E ciò fatto per gli Fiorentini, la detta felice e bene aventurosa oste tornò in Firenze con grande trionfo e onore; e ciò fu del mese di settembre, gli anni di Cristo MCCLIIII, essendo podestà di Firenze il detto messer Guiscardo da Pietrasanta di Milano. E il detto anno fue per gli Fiorentini chiamato l'anno vittorioso; che ciò che per la detta oste s'imprese di fare venne loro bene fatto, e con grande vittoria e onore. Lasceremo alquanto de' fatti di Firenze, e diremo d'altre novitadi state ne' detti tempi in diverse parti brievemente.
<B>LIX</B>
<I>Come il grande Cane de' Tartari si fece Cristiano, e mandò sua oste col fratello sopra i Saracini in Soria.</I>
Negli anni di Cristo MCCLIIII Mango, nipote che fu de Occota Cane imperadore de' Tartari, a richesta e amaestramento del re Aiton d'Ermenia si fece battezzare Cristiano, e col detto re d'Ermenia mandò Haloon suo fratello con grandissimo esercito di Tartari a cavallo per conquistare la Terrasanta, e renderla a' Cristiani. E vegnendo per lo reame di Persia, isconfisse il calif di Baldacca, ciò era il papa de' Saracini, e prese il detto calif e la città di Baldracca, che anticamente fue la grande Babbillonia chiamata, e 'l detto calif mise in pregione nella camera del suo tesoro medesimo, la quale era la più ricca d'oro e d'argento e di pietre preziose che fosse al mondo, e per avarizia non avea soldati, cavalieri, e genti a sua difenzione. Per la qual cosa il detto imperadore de' Tartari gli disse che del suo tesoro che s'avea serbato convenia che mangiasse, e vivesse sanza altra vivanda; e così tra quello tesoro morì di fame: e ciò fu gli anni di Cristo MCCLVI. Appresso il detto Haloon col re d'Ermenia discesono in Soria, vegnendo conquistando le province e terre di Saracini, e per forza presono la città d'Alappo, e quella di Damasco, e Antioccia, che teneano i Saracini; e il soldano d'Alappo fu preso, e tutto suo paese distrutto; e ciò fu gli anni di Cristo MCCLX. Ma ciò fatto, non compié di racquistare Gerusalem, perch'ebbe novelle che Mango Cane imperadore suo fratello era morto; e per essere egli gran Cane, cioè in nostra lingua grande imperadore, tornò in suo paese, e lasciòe il conquisto della detta Terrasanta.
<B>LX</B>
<I>Come si cominciò la prima guerra tra' Genovesi e' Viniziani.</I>
Negli anni di Cristo MCCLVI si cominciò nella città d'Acri in Soria la guerra tra' Genovesi e' Viniziani, per cagione che ciascuno di loro Comuni vi volea essere il maggiore, e per la possessione di San Sabe d'Acri, che ciascuno la volea; onde derivò molto di male per gli tempi appresso, come di loro fatti faremo menzione. In quella riotta i Viniziani furono soperchiati da' Genovesi, ma ivi a due anni, ciò fu nel MCCLVIII, trovandosi in Acri l'armata de' Genovesi, ch'erano L galee e IIII navi, furono sconfitti dall'armata de' Viniziani, e prese XXIIII galee, e morti più di MDCC Genovesi; e disfeciono i Viniziani la ruga de' Genovesi e una loro bella torre che si chiamava la Mongioia, e recarne delle pietre infino in Vinegia: era loro amiraglio uno di quegli da ca' Corino.
<B>LXI</B>
<I>Come il conte Guido Guerra cacciò la parte ghibellina d'Arezzo, e come i Fiorentini la vi rimisono.</I>
Negli anni di Cristo MCCLV i Fiorentini in servigio delli Orbitani, i quali aveano guerra co' Viterbesi e cogli altri loro vicini ghibellini e fedeli dello 'mperio e di Manfredi, mandarono loro inn-aiuto Vc cavalieri, onde feciono capitano il conte Guido Guerra de' conti Guidi; e giunto lui in Arezzo colla detta cavalleria, sanza volontà o mandato del Comune di Firenze, cacciò d'Arezzo la parte ghibellina, i quali Aretini erano in pace co' Fiorentini. Per la qual cosa il popolo di Firenze, adirato contro al detto conte, v'andarono ad oste ad Arezzo, e tanto vi stettono ch'egli ebbono la terra a·lloro comandamento, e rimisonvi i Ghibellini, e 'l detto conte se ne partì; ma vi si volle prima dagli Aretini libbre XIIm, i quali i Fiorentini prestarono al Comune di Arezzo, ma non so s'elli si riebbono mai. E in questo tempo messer Alamanno de la Torre di Milano era podestà di Firenze.
<B>LXII</B>
<I>Come i Pisani ruppono la pace; e come i Fiorentini gli sconfissono al ponte al Serchio.</I>
Negli anni di Cristo MCCLVI, ancora essendo podestà di Firenze il detto messer Alamanno, i Pisani per caldo e sodducimento del re Manfredi ruppono la pace ch'era tra·lloro e' Fiorentini e' Lucchesi, e andarono sopra il contado di Lucca a oste al castello del ponte al Serchio. Per la qual cosa i Fiorentini andaro ad oste sopra Pisa da la parte di Lucca al soccorso del detto castello; e quivi assaliti i Pisani da' Fiorentini e Lucchesi, furono rotti e sconfitti, e molti morti, e presi più di IIIm, e annegati nel fiume del Serchio in grande quantità. E ciò fatto, i Fiorentini vennero ad oste a Pisa infino a Sa·Iacopo in Valdiserchio, e quivi tagliaro uno grande pino, e battero in sul ceppo del detto pino i fiorini d'oro; e per ricordanza quelli che in quello luogo furono coniati ebbono per contrasegna tra' piedi di santo Giovanni quasi come uno trefoglio, a guisa d'uno piccolo albero; e de' nostri dì ne vedemmo noi assai di quelli fiorini. I Pisani vedendosi così sconfitti e assediati, feciono pace co' Fiorentini e co' Lucchesi, con ogni reverenza e patti che' Fiorentini seppono divisare. Intra gli altri patti vollono i Fiorentini in servigio de' Lucchesi, e ancora per avere libera la piaggia del Motrone per le loro mercatantie, che 'l castello del Motrone, che 'l teneano i Pisani, fosse a·lloro comandamento, o fatto o disfatto, come piacesse al popolo di Firenze; e così fu promesso per gli Pisani. E essendo sopra·cciò tenuto segreto consiglio tra·ll'uficio degli anziani del popolo di Firenze, fu preso partito che 'l Mutrone si dovesse disfare per lo migliore, e il dì appresso si dovea in publico parlamento sentenziare. I Pisani temendo che' Fiorentini non giudicassero che rimanesse fatto a la signoria de' Lucchesi, sì mandarono incontanente in Firenze uno segreto e discreto cittadino con danari assai a dispendere per ciò riparare. E trovando in Firenze il più grande anziano e possente in popolo e in Comune (era Aldobrandino Ottobuoni, uno franco popolano da San Firenze), segretamente gli fece parlare a uno suo amico, profferendogli di dare IIIIm fiorini d'oro e più, se ne volesse, e egli adoperasse che 'l Mutrone si disfacesse. Il buono anziano Aldobrandino udendo la promessa, non fece come cupido o avaro, ma come leale e virtudioso cittadino; e avisandosi che il consiglio preso il dì dinanzi per lui e per gli altri anziani di disfare il Mutrone era al piacere de' Pisani, e potea esser danno de' Fiorentini e de' Lucchesi, si tornò al consiglio sanza scoprire la promessa che gli era stata fatta, e consigliò per belle e utili ragioni il contrario, cioè che 'l Mutrone non si disfacesse; e così fu preso e stanziato. E nota lettore la virtù di tanto cittadino, che non essendo troppo ricco d'avere, ebbe in sé tanta continenza e sincerità per lo suo Comune, che più non ebbe del tanto il buono romano Fabbrizio del tesoro a·llui proferto per gli Sanniti; e però ne pare degna cosa di fare di lui memoria, per dare buono esemplo a' nostri cittadini che sono e che saranno, d'essere leali al loro Comune, e d'amare meglio memoria di fama di virtù che·lla corruttibile pecunia. Il detto Aldobrandino, come piacque a Dio, poco tempo appresso morì in tanta buona fama per le sue virtudiose opere fatte per lo popolo e 'l Comune: per non essere ingrato feciono grande onore al suo corpo e a la sua memoria, che alle spese del Comune feciono fare nella chiesa di Santa Reparata uno monimento di marmo levato più che niuno altro, e in quello soppellire il suo corpo a grande onore; e nel detto sepolcro feciono intagliare questi versi:
Fons est suppremus Aldibrandinus amenus
Ottoboni natus, a bono civita datus.
E poi dopo la sconfitta da Monte Aperti, tornati i ghibellini in Firenze, e rotto il popolo, certi per empiezza di parte feciono abattere la detta sepultura, e trarne il corpo morto di tre anni passati, e farlo strascinare per la città e gittare a' fossi. E però ancora nota gli atti della fallace fortuna a ricevere la sua memoria indegnamente sì fatta vergogna, dopo tanto degno onore ricevuto per lui a la sua vita e a la sua morte; ma faccendo comparazione a la sua buona fama e opere di virtù, le quali non si possono torre per la fallace ventura, ogni non dovuta vergogna fatta al suo corpo fu corona perpetua della sua buona fama, e obrobrio e vergogna degl'iniqui e malvagi operanti.
<B>LXIII</B>
<I>Come i Fiorentini disfecero la prima volta il castello di Poggibonizzi.</I>
Negli anni di Cristo MCCLVII, essendo podestà di Firenze Matteo da Coreggia di Parma, i Fiorentini avendo sospetto del castello di Poggibonizzi, perché teneano parte ghibellina e d'imperio, ed erano in lega co' Sanesi, che allora nonn-erano amici de' Fiorentini, sì v'andarono i Fiorentini subitamente, e entrati nel castello, presono la terra per disfare le mura e fortezze. Per la qual cosa i Poggibonizzesi, ch'erano per loro grande Comune, vennero a·fFirenze colle coregge in collo a chiedere mercé al Comune di Firenze, che 'l castello non fosse disfatto; ma invano furono le loro richeste, che 'l castello per gli Fiorentini fue abattuto e disfatto.
<B>LXIV</B>
<I>Incidenza, raccontando uno grande miracolo del corpo di Cristo ch'avenne nella città di Parigi.</I>
Ne' detti tempi, regnando in Francia il buono re Luis, avenne uno grande miracolo del corpo di Cristo; che celebrando uno prete il sacramento in una cappella di Parigi presso a la sala del re, come piacque a Dio, apparve in sulle mani del prete a la vista de le genti, in luogo dell'ostia sacra, uno piccolo fanciullo molto bello e grazioso, il quale veduto da molti, pregaro il prete il sostenesse infino che al re Luis fosse fatto assapere, e che 'l venisse a vedere; così fece, onde molta quantità di gente entrasse a vedere. E essendo ciò detto al re Luis, e ch'egli v'andasse a vederlo, rispuose: "Vadalo a vedere chi nol crede, ch'io il veggio tuttavia nel mio cuore"; per la quale risposta fue commendato molto il re di grandissimo senno e di cattolica fede.
<B>LXV</B>
<I>Come il popolo di Firenze cacciò la prima volta i Ghibellini di Firenze, e la cagione perché.</I>
Negli anni di Cristo MCCLVIII, essendo podestà di Firenze messere Iacopo Bernardi di Porco, all'uscita del mese di luglio quegli della casa degli Uberti co·lloro séguito de' Ghibellini, per sodducimento di Manfredi, ordinarono di rompere il popolo di Firenze, perché parea loro che pendessono in parte guelfa. Iscoperto il detto trattato per lo popolo, fatti richiedere e citare da la signoria, non vollono comparire né venire dinanzi, ma la famiglia della podestà da·lloro furono duramente fediti e percossi. Per la qual cosa il popolo corse ad arme, e a·ffurore corsono alle case degli Uberti, ov'è oggi la piazza del palagio del popolo e de' priori, e uccisorvi Schiattuzzo degli Uberti, e più loro masnadieri e famigliari; e fue preso Uberto Caini degli Uberti e Mangia degl'Infangati, i quali per loro confessata la congiura in parlamento, in Orto Sa·Michele fu loro tagliata la testa; e gli altri della casa degli Uberti con più altre case de' Ghibellini uscirono di Firenze. I nomi delle case di rinnomo ghibelline ch'uscirono di Firenze furono queste: gli Uberti, i Fifanti, i Guidi, li Amidei, i Lamberti, gli Scolari, e parte degli Abati, Caponsacchi, Migliorelli, Soldanieri, Infangati, Ubriachi, Tedaldini, Galigari, que' della Pressa, Amieri, que' da Cersino, e' Razzanti, e più altre case e schiatte di popolari e grandi scaduti, che tutti non si possono nominare, e altre case de' nobili di contado; e andarne a Siena, la quale si reggea a parte ghibellina, e erano nemici de' Fiorentini: e furono disfatti i loro palagi e torri, che n'aveano assai, e di quelle pietre si murarono le mura da San Giorgio Oltrarno, che 'l popolo di Firenze fece in quelli tempi cominciare per la guerra de' Sanesi. E poi del mese di settembre prossimo del detto anno il popolo di Firenze fece pigliare l'abate di Valembrosa, il quale era gentile uomo de' signori di Beccheria di Pavia in Lombardia, essendoli apposto che a petizione de' Ghibellini usciti di Firenze trattava tradimento, e quello per martiro gli fece confessare, e scelleratamente nella piazza di Santo Appolinare gli feciono a grido di popolo tagliare il capo, non guardando a sua dignità, né a ordine sacro. Per la qual cosa il Comune di Firenze e' Fiorentini dal papa furono scomunicati; e dal Comune di Pavia, ond'era il detto abate, e da' suoi parenti i Fiorentini che passavano per Lombardia ricevevano molto danno e molestia. E di vero si disse che 'l religioso uomo nulla colpa avea, con tutto che di suo legnaggio fosse grande Ghibellino. Per lo quale peccato, e per molti altri fatti per lo scellerato popolo, si disse per molti savi che Iddio per giudicio divino permise vendetta sopra il detto popolo a la battaglia e sconfitta da Monte Aperti, come innanzi faremo menzione. Il detto popolo di Firenze, che in quegli tempi resse la città, fue molto superbo e d'alte e grandi imprese, e in molte cose fue molto trascotato; ma una cosa ebbono i rettori di quello, che furo molto leali e diritti a Comune; e perché uno ch'era anziano fece ricogliere e mandollo in sua villa uno cancello ch'era stato della chiusa del Leone, e andava per lo fango per la piazza di San Giovanni, sì ne fu condannato in libbre M, e sì come frodatore delle cose del Comune.
<B>LXVI</B>
<I>Come gli Aretini presono e disfeciono Cortona.</I>
Negli anni di Cristo MCCLVIIII, essendo podestà d'Arezzo messere Stoldo Giacoppi de' Rossi di Firenze, per suo senno e valentia menò gli Aretini, e di notte con iscale entraro in Cortona, la quale era molto fortissima, ma per la mala guardia la perdero i Cortonesi; e gli Aretini disfeciono le mura e le fortezze, e feciogli loro suggetti; onde i Fiorentini, i quali erano a·lloro lega, furono molto crucciosi, e recarsi che gli Aretini avessono rotta loro pace.
<B>LXVII</B>
<I>Come i Fiorentini presono e disfeciono il castello di Gressa.</I>
Per la detta cagione i Fiorentini, il febbraio vegnente del detto anno, andarono ad oste a uno castello del vescovo d'Arezzo, ch'avea nome Gressa, molto forte con due cinte di mura, in Casentino, e quello per forza e per assedio ebbono, e poi il feciono disfare. Era podestà di Firenze messer Danese Crevelli di Milano.
<B>LXVIII</B>
<I>Come il popolo di Firenze prese i castelli di Vernia e di Mangone.</I>
E poi tornata la detta oste, incontanente andaro ad oste sopra il castello di Vernia de' conti Alberti, e quello per assedio ebbono e disfeciono; e presono il castello di Mangona, e le genti e' fedeli feciono giurare a la fedeltà e ubidenza del popolo e Comune di Firenze, dando ogn'anno per san Giovanni certo censo al Comune. La cagione di ciòe fue che essendo il conte Allessandro, che di ragione n'era signore, piccolo garzone, il conte Nepoleone suo consorto e Ghibellino, imperciò ch'egli era a la sua guardia del popolo di Firenze, sì gli tolsono le dette castella, e guerreggiavano i Fiorentini; e per lo popolo di Firenze per lo modo detto furono racquistate; per la qual cosa rinvestironne poi il conte Allessandro, quando i Guelfi tornarono in Firenze: non vogliendo esser figliuolo d'ingratitudine, sì donò e fece testamento <I>intervivos</I>, che se' due suoi figliuoli Nerone e Alberto morissono sanza rede maschi e legittimi, lasciava i detti Vernia e Mangone a la massa della parte guelfa di Firenze; e ciò fu gli anni di Cristo MCCLXXIII.
<B>LXIX</B>
<I>Incidenza, de' fatti che furono in Firenze al tempo del popolo</I>
Al tempo del detto popolo di Firenze fu al Comune presentato uno bellissimo e forte leone, il quale era inchiuso nella piazza di Santo Giovanni. Avenne che per mala guardia di quelli che 'l custodiva uscì il detto leone della sua stia correndo per la terra, onde tutta la città fu commossa di paura. Capitò inn-Orto Sammichele, e quivi prese uno fanciullo e tenealsi tra le branche. Udendolo la madre che non avea più, e questo fanciullo le rimase in ventre quando il padre gli fu morto, come disperata, con grande pianto scapigliata corse contra il leone, e trassegli il fanciullo tra·lle branche; e' leone nullo male fece né a la donna né al fanciullo se non ch'egli guatò, e ristettesi. Fu questione qual caso fosse, o la gentilezza della natura del leone, o la fortuna riserbasse la vita del detto fanciullo perché poi facesse la vendetta del padre, com'elli fece, e fu poi chiamato Orlanduccio del leone di Calfette. E nota ch'al tempo del detto popolo, e in prima, e poi a gran tempo, i cittadini di Firenze viveano sobri, e di grosse vivande, e con piccole spese, e di molti costumi e leggiadrie grossi e ruddi; e di grossi drappi vestieno loro e loro donne, e molti portavano le pelli scoperte sanza panno, e colle berrette in capo, e tutti colli usatti in piede, e le donne fiorentine co' calzari sanza ornamenti, e passavansi le maggiori d'una gonnella assai stretta di grosso scarlatto d'Ipro, o di Camo, cinta ivi su d'uno scaggiale a l'antica, e uno mantello foderato di vaio col tassello sopra, e portavallo in capo; e le comuni donne vestite d'uno grosso verde di Cambragio per lo simile modo; e libbre C era comune dota di moglie, e libbre CC o CCC era a quegli tempi tenuta isfolgorata; e le più delle pulcelle aveano XX o più anni anzi ch'andassono a marito. Di sì fatto abito e di grossi costumi erano allora i Fiorentini, ma erano di buona fe' e leali tra·lloro e al loro Comune; e colla loro grossa vita e povertà feciono maggiori e più virtudiose cose, che non sono fatte a' tempi nostri con più morbidezza e con più ricchezza.
<B>LXX</B>
<I>Come il Paglialoco imperadore de' Greci tolse Gostantinopoli a' Franceschi e a' Viniziani.</I>
Nel detto anno di Cristo MCCLVIIII la città di Gostantinopoli, la quale fue conquistata per gli Franceschi e per gli Viniziani, come adietro facemmo menzione, essendone imperadore Baldovino nato della casa di Fiandra, Paglialoco imperadore de' Greci colla forza de' Genovesi, i quali con loro galee e navilio l'ataro per dispetto de' Viniziani loro nemici, fue presa, e cacciatine i Franceschi, e' Viniziani, e tutti i Latini; e mai poi non n'ebbono signoria. E a' Genovesi donò il Paglialoco molto tesoro, e diede per loro stanza la terra che·ssi chiama Pera, la quale è presso di Gostantinopoli in sul corno del golfo, non fidandosi ch'eglino né altri Latini avessono fortezza in Gostantinopoli.
<B>LXXI</B>
<I>D'una grandissima battaglia che fu tra gli re d'Ungaria e quello di Buem.</I>
Nell'anno MCCLX, essendo grande discordia tra 'l re d'Ungaria e quello di Buem per certe terre infra·lloro confini, il re d'Ungaria entròe nel reame di Buem con più di LXXXm uomini a cavallo, che Ungheri, e Cumani, e Bracchi, e Alani, la maggiore parte pagani. Lo re di Buem si fece loro incontro con più di Cm uomini a cavallo; ma nota che tutti vanno a cavallo in su ogni ronzino, ferrato o isferrato, si nominano per cavalieri; ma infra questi n'ebbe bene VIIm a grandi cavagli coverti di maglia di ferro. E cominciata la grande battaglia a' confini de' detti reami, per la moltitudine e discorso de' cavagli si levò sì grande polvere, che di mezzodì si fece sì oscura l'aria, che l'uno non conoscie l'altro. Alla fine essendo il re d'Ungaria duramente fedito, gli Ungari si misono in fugga, e al trapasso d'una riviera più di XIIIIm si dice che n'anegaro. E dopo la detta sconfitta il re di Buem entrato in Ungaria, per solenni ambasciadori dagli Ungari fu richesto di pace, il quale raunate le terre ond'era il contasto, si fermòe con matrimonio tra·lloro.
<B>LXXII</B>
<I>Come il grande tiranno Azzolino di Romano fu sconfitto da' Chermonesi; e morì in pregione.</I>
Nel detto anno MCCLX Azzolino di Romano, cioè d'uno castello di trivigiana, dal marchese Palavigino e da' Chermonesi nel contado di Milano, presso al ponte di Casciano in sul fiume d'Adda, avendo con seco più di MD cavalieri, e andava per torre la città di Milano, fue sconfitto, e fedito, e preso; delle quali fedite in pregione morìo, nel castello di Solcino nobilemente fue soppellito. Elli trovava per sua profezia ch'egli dovea morire in uno castello del contado di Padova ch'avea nome Basciano, e in quello non entrava; e quando si sentì fedito, domandò come si chiamava il luogo; fugli detto Casciano; allora disse: "Casciano Basciano tutto è uno"; e giudicossi morto. Questo Azzolino fue il più crudele e ridottato tiranno che mai fosse tra' Cristiani, e signoreggiò per sua forza e tirannia, essendo di sua nazione della casa di Romano gentile uomo, grande tempo tutta la Marca di Trivigi, e la città di Padova, e gran parte di Lombardia; e' cittadini di Padova molta gran parte consumò, e acceconne pur de' migliori e de' più nobili in grande quantità, e togliendo le loro possesioni, e mandandogli mendicando per lo mondo, e molti altri per diversi martìri e tormenti fece morire, e a una ora XIm Padovani fece ardere, e per la innocenzia del loro sangue, per miracolo, mai poi in quello non nacque erba niuna. E sotto l'ombra d'una rudda e scellerata giustizia fece molti mali, e fue uno grande fragello al suo tempo nella Marca Trevigiana e in Lombardia, per pulire il peccato de la loro ingratitudine. A la fine, come piacque a Dio, vilmente da men possente gente della sua fue sconfitto e morto, e tutta la sua gente si sperse, e la sua signoria venne meno e suo legnaggio.
<B>LXXIII</B>
<I>Come furono eletti re di Romani il re di Castello e Ricciardo conte di Cornovaglia.</I>
Nel detto anno, essendo d'assai tempo prima per gli elettori dello 'mperio eletti per discordia due imperadori, l'una parte (ciò furono tre de' lettori) elessono il re Alfonso di Spagna, e l'altra parte degli elettori elessono Ricciardo conte di Cornovaglia e fratello del re d'Inghilterra; e perché il reame di Boemia era in discordia, e due se ne faceano re, ciascuno diede la sua boce a la sua parte. E per molti anni era stata la discordia de' due eletti, ma la Chiesa di Roma più favoreggiava Alfonso di Spagna, acciò ch'egli colle sue forze venisse ad abattere la superbia e signoria di Manfredi; per la qual cagione i Guelfi di Firenze gli mandarono ambasciadori per somuoverlo del passare, promettendogli grande aiuto acciò che favorasse parte guelfa. E l'ambasciadore fue ser Brunetto Latini, uomo di grande senno e autoritade; ma innanzi che fosse fornita l'ambasciata, i Fiorentini furono sconfitti a Monte Aperti, e lo re Manfredi prese grande vigore e stato in tutta Italia, e 'l podere della parte della Chiesa n'abassò assai, per la qual cosa Alfonso di Spagna lasciò la 'mpresa dello 'mperio, e Ricciardo d'Inghilterra no·lla seguìo.
<B>LXXIV</B>
<I>Come gli usciti ghibellini di Firenze mandaro in Puglia al re Manfredi per soccorso.</I>
In questi tempi i Ghibellini scacciati di Firenze (ed erano nella città di Siena, e da' Sanesi erano male aiutati contra i Fiorentini, imperciò che non aveano podere contra la loro potenzia) sì ordinarono tra·lloro di mandare loro ambasciadori in Puglia al re Manfredi per soccorso. I quali andati, pure de' migliori e più caporali di loro, più tempo seguendo, Manfredi no·lli spacciava, né udiva la loro richesta, per molte bisogne ch'avea a·ffare. A la fine volendosi partire, e prendendo commiato da·llui molto male contenti, Manfredi promise loro di dare cento cavalieri tedeschi per loro aiuto. I detti ambasciadori turbatisi della prima proferta, e traendosi a consiglio di fare loro risposta, quasi per rifiutare sì povero aiuto, vergognandosi di tornare a Siena, ch'aveano speranza che desse loro aiuto di più di VIc cavalieri, messer Farinata degli Uberti disse: "Non vi sconfortate, e non rifiutiamo niuno suo aiuto, e sia piccolo quanto si vuole; facciamo che di grazia mandi co·lloro la sua insegna, che venuti a Siena, noi la metteremo in tale luogo, che converrà ch'egli ce ne mandi anche"; e così avenne. E preso il savio consiglio del cavaliere, accettaro la profetta di Manfredi, graziosamente pregandolo che al capitano di loro desse la sua insegna; e così fece. E tornati in Siena con sì piccolo aiuto, grande scherna ne fu fatta da' Sanesi, e grande isbigottimento n'ebbono gli usciti di Firenze, attendendo troppo maggiore aiuto e sussidio da Manfredi.
<B>LXXV</B>
<I>Come il Comune e popolo di Firenze feciono una grande oste infino a le porte di Siena col carroccio.</I>
Avenne che gli anni di Cristo MCCLX, del mese di maggio, il popolo e Comune di Firenze feciono oste generale sopra la città di Siena, e menarvi il carroccio. E nota che 'l carroccio che menava il Comune e popolo di Firenze era uno carro in su quattro ruote tutto dipinto vermiglio, e aveavi su commesse due grandi antenne vermiglie, in su le quali stava e ventilava il grande stendale dell'arme del Comune, ch'era dimezzato bianco e vermiglio, e ancora oggi si mostra in San Giovanni; e tiravalo uno grande paio di buoi coverti di panno vermiglio, che solamente erano diputati a·cciò, e erano dello spedale di Pinti, e 'l guidatore era franco in Comune. Questo carroccio usavano i nostri antichi per trionfo e dignità; e quando s'andava in oste, e' conti vicini e' cavalieri il traevano dell'opera di San Giovanni, e conduciello in su la piazza di Mercato Nuovo, e posato per me' uno termine che ancora v'è d'una pietra intagliata a carroccio, sì·ll'acomandavano al popolo. E' popolani il guidavano nell'osti, e a quello erano diputati in guardia i migliori e più forti e virtudiosi popolani a piè della cittade; e a quello s'amassava tutta la forza del popolo. E quando l'oste era bandita, uno mese dinanzi dove dovesse andare, si ponea una campana in su l'arco di porte Sante Marie, ch'era in sul capo di Mercato Nuovo; e quella al continuo era sonata di dìe e di notte, e per grandigia di dare campo al nimico ov'era bandita l'oste, che s'apparecchiasse. E chi la chiamava Martinella, e chi la campana degli asini. E quando l'oste de' Fiorentini andava, si sponeva dell'arco, e poneasi in su uno castello di legname in su uno carro, e al suono di quella si guidava l'oste. Di queste due pompe del carroccio e della campana si reggea la signorevole superbia del popolo vecchio e de' nostri antichi nell'osti. Lasceremo di ciò, e torneremo come i Fiorentini feciono sopra i Sanesi, che presono il castello di Vico, e quello di Mezano, e Casciole, ch'erano de' Sanesi, e puosonsi a oste a Siena presso a l'antiporta al munistero di Santa Petronella, e fecionvi fare ivi presso, in su uno poggetto rilevato che si vedea dalla cittade, una torre, ove teneano la campana; e a dispetto de' Sanesi, e a ricordanza di vittoria, ripiena di terra, vi piantarono suso uno ulivo, il quale infino a' nostri dì ancora v'era. Avenne in quello assedio che gli usciti di Firenze uno giorno diedono mangiare a' Tedeschi di Manfredi, e fattigli bene avinazzare e innebbriare, a romore caldamente gli feciono armare e montare a cavallo per fargli assalire l'oste de' Fiorentini, promettendo loro grandi doni e paga doppia; e ciò fu fatto cautamente per gli savi, seguendo il consiglio di Farinata degli Uberti preso infino in Puglia. I Tedeschi forsennati e caldi di vino uscirono fuori di Siena, e vigorosamente assaliro il campo de' Fiorentini, e perch'erano improvisi e con poca guardia, avendo la forza de' nemici per niente, con tutto che' Tedeschi fossono poca gente, in quello assalto feciono all'oste grande danno; e molti del popolo e della cavalleria in quello sùbito assalto feciono mala vista fuggendo, per tema che gli assalitori non fossono maggiore gente. Ma alla fine ravveggendosi, presono l'arme e la difenza contra i Tedeschi; e di quanti n'uscirono di Siena non ne scampò niuno vivo, che tutti furono morti e abbattuti, e la 'nsegna di Manfredi presa e strascinata per lo campo, e recata in Firenze; e ciò fatto, poco appresso si tornò l'oste de' Fiorentini in Firenze.
<B>LXXVI</B>
<I>Come i Sanesi e gli usciti ghibellini di Firenze ebbono dal re Manfredi i·lloro aiuto il conte Giordano con VIIIc Tedeschi.</I>
I Sanesi e gli usciti di Firenze veggendo la mala pruova che' Fiorentini aveano fatta per l'asalto di sì pochi cavalieri tedeschi, avisaro che avendone maggior quantità, sarebbono vincitori de la guerra. Incontanente si providono di moneta, e accattaro da la compagnia de' Salimbeni, ch'allora erano mercatanti, XXm fiorini d'oro, e puosono loro pegno la rocca a Tentennana, e più altre castella del Comune, e rimandarono loro ambasciadori in Puglia co la detta moneta al re Manfredi dicendo come la sua poca gente di Tedeschi per loro grande vigore e valentia s'erano messi ad assalire tutta l'oste de' Fiorentini, e gran parte di quella messa in fugga, ma se più fossono stati, aveano la vittoria; ma per la poca gente ch'erano, tutti erano rimasi morti al campo, e la sua insegna strascinata e vergognata per lo campo, e in Firenze e intorno. A·cciò dissono quelle ragioni che seppono meglio per ismuovere Manfredi, il quale intesa la novella fu crucciato, e co la moneta de' Sanesi, che pagaro la metade per tre mesi, e a suo soldo, mandò in Toscana il conte Giordano suo maliscalco con VIIIc cavalieri tedeschi co detti ambasciadori, i quali giunsono in Siena a l'uscita di luglio, gli anni di Cristo MCCLX; e da' Sanesi furono ricevuti a gran festa, e eglino e tutti i Ghibellini di Toscana ne presono grande vigore e baldanza. E giunti in Siena, incontanente i Sanesi bandirono oste sopra il castello di Monte Alcino, il quale era accomandato del Comune di Firenze, e mandaro per aiuto a' Pisani e a tutti i Ghibellini di Toscana, sì che co' cavalieri di Siena, e cogli usciti di Firenze, e co' Tedeschi, e loro amistade, si trovarono con XVIIIc di cavalieri in Siena, che la maggiore parte erano Tedeschi.
<B>LXXVII</B>
<I>Come gli usciti ghibellini di Firenze ordinaro d'ingannare e fare tradire il Comune e popolo di Firenze.</I>
Li usciti di Firenze, per cui trattato e opera il re Manfredi avea mandato il conte Giordano con VIIIc cavalieri tedeschi, si pensarono ch'elli aveano fatto niente, se non attraessono i Fiorentini fuori a campo, imperciò che' sopradetti Tedeschi nonn-erano pagati per più di tre mesi, e già n'era passato più d'uno e mezzo colla loro venuta; né moneta nonn-aveano da più conducergli, né attendeano da Manfredi; e passando il tempo di loro soldo, sanza fare alcuna cosa si tornavano in Puglia, con grande pericolo di loro stato. Ragionaro che ciò non si potea fornire sanza maestria e inganno di guerra, la quale industria fu commessa in messer Farinata degli Uberti e messer Gherardo Ciccia de' Lamberti. Costoro sottilemente ordinarono due savi frati minori loro messaggi al popolo di Firenze, e innanzi gli acozzaro con VIIII de' più possenti di Siena, i quali infintamente feciono veduta a' detti frati come spiacea loro la signoria di messer Provenzano Salvani, ch'era il maggiore del popolo di Siena, e che volentieri darebbono la terra a' Fiorentini, avendo Xm fiorini d'oro, e che venissono con grande oste sotto cagione di fornire Monte Alcino, e andassono infino in sul fiume d'Arbia; e allora co la forza di loro e di loro seguaci darebbono a' Fiorentini la porta di Santo Vito, ch'è nella via d'Arezzo. I frati, sotto questo inganno e tradimento, vennero a Firenze con lettere e suggegli de' detti, e feciono capo agli anziani del popolo, e profersono che recavano gran cose per onore del popolo e Comune di Firenze; ma la cosa era sì sagreta, che si volea sotto saramento manifestare a pochi. Allora gli anziani elessono di loro lo Spedito di porte San Piero, uomo di grande opera e ardire, ed era de' principali guidatori del popolo, e co·llui messer Gianni Calcagni di Vacchereccia; e fatto il saramento in su l'altare, i frati discopersono il detto trattato, e mostrarono le dette lettere. I detti due anziani, che gli portava più volontà che fermezza, diedono fede al trattato, e incontanente si trovaro i detti Xm fiorini d'oro, e si misono in diposito, e raunarono consiglio di grandi e di popolo, e misono innanzi che di nicessità bisognava di fare oste a Siena per fornire Monte Alcino, maggiore che nonn-era stata quella di maggio passato a Santa Petornella. I nobili de le gran case guelfe di Firenze, e 'l conte Guido Guerra ch'era co·lloro, non sappiendo il falso trattato, e sapeano più di guerra che' popolani, conoscendo la nuova masnada de' Tedeschi ch'era venuta in Siena, e la mala vista che fece il popolo a Santa Petornella quando i cento Tedeschi gli asaliro, non parea loro la 'mpresa sanza grande pericolo. E ancora sentendo i cittadini variati d'animi, e male disposti a fare più oste, rendero savio consiglio, che per lo migliore l'oste non procedesse al presente per le ragioni di su dette, e ancora mostrando come per poco costo si potea fornire Monte Alcino, e prendeallo a fornire gli Orbitani, e assegnando come i detti Tedeschi non aveano paga per più di tre mesi, e già aveano servito mezzo il tempo, e lasciandogli stentare sanza fare oste, tosto sarebbono straccati e tornerebbonsi in Puglia, e' Sanesi e gli usciti di Firenze rimarrebbono in peggiore stato che di prima. E 'l dicitore fu per tutti messer Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, cavaliere savio e prode e di grande autoritade; e di largo consigliava il migliore. Il sopradetto Spedito anziano, uomo molto prosuntuoso, compiuto il suo consiglio, villanamente il riprese, dicendo si cercasse le brache, s'aveva paura. E messer Tegghiaio gli rispuose ch'al bisogno non ardirebbe di seguirlo nella battaglia colà ov'egli si metterebbe. E finite le dette parole, poi si levò messere Cece de' Gherardini per dire il simigliante ch'avea detto messer Tegghiaio: gli anziani gli comandaro che non dicesse, e era pena libbre C, chi aringasse contra il comandamento degli anziani. Il cavaliere le volle pagare per contradire la detta andata: non vollono gli anziani, anzi raddoppiarono la pena; ancora volle pagare, e così infino libbre CCC; e quando ancora volle dire e pagare, fu comandamento pena la testa; e così rimase. Ma per lo popolo superbo e traccurato si vinse il peggiore, che la detta oste presentemente e sanza indugio procedesse.
<B>LXXVIII</B>
<I>Come i Fiorentini feciono oste per fornire Monte Alcino, e furono sconfitti dal conte Giordano e da' Sanesi a Monte Aperti.</I>
Preso il mal consiglio per lo popolo di Firenze che l'oste si facesse, richiesono loro amistadi d'aiuto, i quali, i Lucchesi vennero per comune popolo e cavalieri, e' Bolognesi, e' Pistolesi, e' Pratesi, e' Volterrani, e' Saminiatesi, e San Gimignano, e Colle di Valdelsa ch'erano in taglia col Comune e popolo di Firenze; e in Firenze aveva VIIIc cavallate de' cittadini, e più di Vc soldati. E raunata la detta gente in Firenze, si partì l'oste all'uscita d'agosto, e menarono per pompa e grandigia il carroccio, e una campana che si chiamava Martinella in su uno carro con uno castello di legname a ruote, e andarvi quasi tutto il popolo colle insegne delle compagnie, e non rimase casa né famiglia di Firenze, che non v'andasse pedone a piè o a cavallo, il meno uno per casa, e di tali due, e più, secondo ch'erano potenti. E quando si trovaro in sul contado di Siena al luogo ordinato in sul fiume d'Arbia, nel luogo detto Monte Aperti, con Perugini e Orbitani che là s'aggiunsono co' Fiorentini, si ritrovaro più di IIIm cavalieri e più di XXXm pedoni. In questo apparecchio dell'oste de' Fiorentini, i sopradetti maestri del trattato ch'erano in Siena, acciò che pienamente venisse fornito, anche mandarono a Firenze altri frati a trattare tradimento con certi grandi e popolani ghibellini ch'erano rimasi in Firenze, e doveano venire per comune nell'oste, che come fossono assembiati, si dovessono da più parti fuggire delle schiere, e tornare dalla loro parte, per isbigottire l'oste de' Fiorentini, parendo a·lloro avere poca gente a comparazione de' Fiorentini; e così fu fatto. Avenne che, essendo la detta oste in su i colli di Monte Aperti, e' savi anziani guidatori dell'oste e del trattato attendeano che per gli traditori d'entro fosse loro data la porta promessa. Uno grande popolare di Firenze di porte San Piero, ch'era Ghibellino, e avea nome il Razzante, avendo alcuna cosa spirato dell'attendere dell'oste de' Fiorentini, con volontà de' Ghibellini del campo ch'erano al tradimento, gli fu commesso ch'entrasse in Siena, ond'egli si fuggì a cavallo del campo per fare assapere agli usciti di Firenze come si dovea tradire la città di Siena, e come i Fiorentini erano bene in concio, e con molta potenza di cavalieri e di popolo, e per dire a que' d'entro che non s'avisassono a battaglia. E giunto in Siena, e scoperte queste cose a' detti messer Farinata e messer Gherardo trattatori, sì gli dissono: "Tu ci uccideresti, se tu ispandessi queste novelle per Siena, imperciò che ogni uomo faresti impaurire, ma vogliamo che dichi il contrario; imperciò che se ora ch'avemo questi Tedeschi non si combatte, noi siamo morti, e mai non ritorneremo in Firenze; e per noi farebbe meglio la morte e d'essere isconfitti, ch'andare più tapinando per lo mondo"; e facea per loro di mettersi a la fortuna della battaglia. Il Razzante assettato da' detti, intese e promise di così dire; e con una ghirlanda in capo, co' detti a cavallo, mostrando grande allegrezza, venne al parlamento al palagio ov'era tutto il popolo di Siena, e' Tedeschi, e l'altre amistadi; e in quello con lieta faccia disse le novelle larghe da parte de' Ghibellini e traditori del campo, e come l'oste si reggea male, e erano male guidati, e peggio in concordia, e che assalendogli francamente, di certo erano sconfitti. E fatto il falso rapporto per Razzante, a grido di popolo si mossono tutti ad arme dicendo: "Battaglia, battaglia!". I Tedeschi vollono promessa di paga doppia, e così fue fatto; e loro schiera misono innanzi all'asalto per la detta porta di San Vito, che dove' a' Fiorentini essere data; e gli altri cavalieri e popolo usciro appresso. Quando quegli dell'oste ch'attendeano che fosse loro data la porta vidono uscire i Tedeschi e l'altra cavalleria e popolo fuori di Siena inverso loro con vista di combattere, sì·ssi maravigliarono forte e non sanza isbigottimento grande, veggendo il sùbito avenimento e assalto non proveduto; e maggiormente gli fece isbigottire che più Ghibellini ch'erano nel campo a cavallo e a piè, veggendo appressare le schiere de' nemici, com'era ordinato il tradimento, si fuggirono da l'altra parte; e ciò furono di que' della Pressa, e degli Abati, e più altri. E però non lasciarono i Fiorentini e l'altra loro amistade di fare loro schiere, e attendere la battaglia. E come la schiera de' Tedeschi rovinosamente percosse la schiera de' cavalieri de' Fiorentini ov'era la 'nsegna della cavalleria del Comune, la quale portava messer Jacopo del Naca della casa de' Pazzi di Firenze, uomo di grande valore, il traditore di messer Bocca degli Abati, ch'era in sua schiera e presso di lui, colla spada fedì il detto messer Jacopo e tagliogli la mano co la quale tenea la detta insegna, e ivi fu morto di presente. E ciò fatto, la cavalleria e popolo veggendo abattuta la 'nsegna, e così traditi da·lloro, e da' Tedeschi sì forte assaliti, in poco d'ora si misono inn-isconfitta. Ma perché la cavalleria di Firenze prima s'avidono del tradimento, non ne rimasono che XXXVI uomini di nome di cavallate tra morti e presi. Ma la grande mortalità e presura fue del popolo di Firenze a piè, e di Lucchesi, e Orbitani, però che si rinchiusono nel castello di Monte Aperti, e tutti furono presi; ma più di MMD ne rimasono al campo morti, e più di MD presi pur de' migliori del popolo di Firenze di ciascuna casa, e di Lucca, e degli altri amici che furono a la detta battaglia. E così s'adonò la rabbia dell'ingrato e superbio popolo di Firenze; e ciò fu uno martedì, a dì IIII di settembre, gli anni di Cristo MCCLX; e rimasevi il carroccio, e la campana detta Martinella, con innumerabile preda d'arnesi di Fiorentini e di loro amistade. E allora fu rotto e annullato il popolo vecchio di Firenze, ch'era durato in tante vittorie e grande signoria e stato per X anni.
<B>LXXIX</B>
<I>Come i Guelfi di Firenze dopo la detta sconfitta si partirono di Firenze, e andarsene a Lucca.</I>
Venuta in Firenze la novella della dolorosa sconfitta, e tornando i miseri fuggiti di quella, si levò il pianto d'uomini e di femmine in Firenze sì grande, ch'andava infino a cielo; imperciò che non avea casa niuna in Firenze, piccola o grande, che non vi rimanesse uomo morto o preso; e di Lucca e del contado ve ne rimasono gran quantità, e degli Orbitani. Per la qual cosa i caporali de' Guelfi, nobili e popolari, ch'erano tornati dalla sconfitta, e quegli ch'erano in Firenze, isbigottiti e impauriti, e temendo degli usciti che venieno da Siena colle masnade tedesche; e' Ghibellini ribelli e confinati ch'erano fuori della cittade cominciarono a tornare nella terra; per la qual cosa i Guelfi, sanz'altro commiato o cacciamento, colle loro famiglie piagnendo uscirono di Firenze, e andarsene a Lucca, giuovedì a dì XIII di settembre, gli anni di Cristo MCCLX. Queste furono le principali case guelfe ch'uscirono di Firenze: del sesto d'Oltrarno, i Rossi, e' Nerli, e parte de' Mannelli, i Bardi, e' Mozzi, e' Frescobaldi; gli popolani del detto sesto case notabili, Canigiani, Magli, e Machiavelli, Belfredelli, e Orciolini, Aglioni, Rinucci, Barbadori, e Battimammi, e Soderini, e Malduri, e Amirati. Di San Piero Scheraggio, i nobili: Gherardini, Lucardesi, Cavalcanti, Bagnesi, Pulci, Guidalotti, Malispini, Foraboschi, Manieri, quelli da Quona, Sacchetti, Compiobbesi; i popolani: Magalotti, Mancini, Bucelli, e quelli della Vitella. Del sesto di Borgo, i nobili: i Bondelmonti, Scali, Spini, Gianfigliazzi, Giandonati, Bostichi, Altoviti, i Ciampali, Baldovinetti e altri. Del sesto di San Brancazio, i nobili: Tornaquinci, Vecchietti, e' Pigli parte di loro, Minerbetti, Becchenugi, e Bordoni e altri. Di porte del Duomo: i Tosinghi, Arrigucci, Agli, Sizii, Marignolli, e ser Brunetto Latini e' suoi, e più altri. Di porte San Piero: Adimari, Pazzi, Visdomini, e parte de' Donati; dal lato delli Scolari rimasono que' della Bella, i Carri, i Ghiberti, i Guidalotti di Balla, i Mazzocchi, gli Uccellini, Boccatonde; e oltre a questi molti confinati grandi e popolani per ciascuno sesto. E della partita molto furono da riprendere i Guelfi, imperciò che·lla città di Firenze era molto forte di mura e di fossi pieni d'acqua, e da poterla bene difendere e tenere; ma il giudicio di Dio per punire le peccata conviene che faccia suo corso sanza riparo; e a cui Idio vuole male gli toglie il senno e l'accorgimento. E partiti i Guelfi il giuovidì, la domenica vegnente a dì XVI di settembre, gli usciti di Firenze ch'erano stati a la battaglia a Monte Aperti, col conte Giordano e colle sue masnade de' Tedeschi, e cogli altri soldati de' Ghibellini di Toscana, arricchiti delle prede de' Fiorentini e degli altri Guelfi di Toscana, entrarono nella città di Firenze sanza contasto neuno. E incontanente feciono podestà di Firenze per lo re Manfredi Guido Novello de' conti Guidi dal dì a calen di gennaio vegnente a due anni; e tenea ragione nel palagio vecchio del popolo da San Pulinari, ed era la scala di fuori. E poco tempo appresso fece fare la porta Ghibellina, e aprire quella via di fuori, acciò che per quella via che risponde al palagio potesse avere entrata e uscita al bisogno, per mettere in Firenze i suoi fedeli di Casentino a guardia di lui e della terra; e perché si fece al tempo de' Ghibellini, la porta e la via ebbe sopranome Ghibellina. Questo conte Guido fece giurare tutti i cittadini che rimasono in Firenze la fedeltà del re Manfredi, e per patti promessi a' Sanesi fece disfare cinque castella del contado di Firenze ch'erano alle loro frontiere; e rimase in Firenze per capitano di guerra, e vicario generale per lo re Manfredi, il detto conte Giordano colle masnade de' tedeschi al soldo de' Fiorentini, i quali molto perseguitarono i Guelfi in più parti in Toscana, come innanzi faremo menzione; e tolsono tutti i loro beni, e disfeciono molti palagi e torri de' Guelfi, e misono in comune i loro beni. Il detto conte Giordano fu gentile uomo di Piemonte in Lombardia, e parente della madre del re Manfredi; e per la sua prodezza, e perch'era molto fedele di Manfredi, e di vita e di costumi così mondano com'egli, il fece conte e li diè terra in Puglia, e di piccolo stato il mise in grande signoria.
<B>LXXX</B>
<I>Come la novella della sconfitta de' Fiorentini fu in corte di papa, e la profezia che ne disse il cardinale Bianco.</I>
Come in corte di Roma venne la novella della sopradetta sconfitta, il papa e' cardinali, ch'amavano lo stato di santa Chiesa, n'ebbono grande dolore e compassione, sì per gli Fiorentini, e sì perché di ciò montava lo stato e podere di Manfredi nimico della Chiesa; ma il cardinale Attaviano degli Ubaldini ch'era Ghibellino ne fece gran festa; onde ciò veggendo il cardinale Bianco, il qual era grande astrolago e maestro di nigromanzia, disse: "Se 'l cardinale Attaviano sapesse il futuro di questa guerra de' Fiorentini, e' non farebbe questa allegrezza". Il collegio de' cardinali il pregaro che dovesse dichiarire più in aperto. Il cardinale Bianco non volea dire, perché parlare del futuro gli pareva inlicito a la sua dignità, ma i cardinali pregarono tanto il papa che gliele comandasse sotto ubbidienza ch'egli il dicesse. Avuto il detto comandamento, disse in brieve sermone: "I vinti vittoriosamente vinceranno, e in etterno non saranno vinti". Ciò s'interpetrò che' Guelfi vinti e cacciati di Firenze vittoriosamente tornerebbono innistato, e mai in etterno non perderebbono loro stato e signoria di Firenze.
<B>LXXXI</B>
<I>Come i Ghibellini di Toscana ordinarono di disfare la città di Firenze, e come messer Farinata degli Uberti la difese.</I>
Per lo simile modo ch'uscirono i Guelfi di Firenze, così feciono quegli di Prato, e di Pistoia, e di Volterra, e di Samminiato, e di San Gimignano, e di più altre terre e castella di Toscana, le quali tornarono tutte a parte ghibellina, se non fu la città di Lucca, la quale si tenne a parte guelfa uno tempo, e fu rifuggio de' Guelfi di Firenze, e degli altri usciti di Toscana. I quali Guelfi di Firenze feciono loro istanza in Lucca in borgo intorno a San Friano; e la loggia dinanzi a San Friano feciono i Fiorentini. E ritrovandosi i Fiorentini in quello luogo, messer Tegghiaio Aldobrandi veggendo lo Spedito che nel consiglio gli avea detta villania, e che si cercasse le brache, s'alzò e trassesi de' caviglioni V fiorini d'oro ch'avea, e mostrogli allo Spedito che di Firenze era uscito assai povero; disse per rimproccio: "Vedi com'io ho conce le brache? A questo hai tu condotto te e me e gli altri per la tua audacia e superbia signoria". Lo Spedito rispuose: "E voi perché·cci credavate?". Avemo di queste piccole e vili parole fatta menzione per assempro che niuno cittadino, e massimamente i popolani o di piccolo affare, quando ha signoria non dee essere troppo ardito o prosuntuoso. In questo tempo i Pisani, e' Sanesi, e gli Aretini col detto conte Giordano e cogli altri caporali ghibellini di Toscana ordinaro di fare parlamento a Empoli, per riformare lo stato di parte ghibellina in Toscana, e fare taglia; e così feciono. E però che al conte Giordano convenia tornare in Puglia al re Manfredi, per mandato del detto Manfredi fue ordinato suo vicario generale e capitano di guerra in Toscana il conte Guido Novello de' conti Guidi di Casentino e di Modigliana, il quale per parte disertò il conte Simone suo fratello, e 'l conte Guido Guerra suo consorto, e tutti quegli del suo lato che teneano parte guelfa; e disposto era al tutto di cacciarne chi Guelfo fosse di Toscana. E nel detto parlamento tutte le città vicine, e' conti Guidi, e' conti Alberti, e que' da Santa Fiore, e gli Ubaldini, e tutti i baroni d'intorno propuosono e furono in concordia, per lo migliore di parte ghibellina, di disfare al tutto la città di Firenze, e di recarla a borgora, acciò che mai di suo stato non fosse rinnomo, fama, né podere. A la quale proposta si levò e contradisse il valente e savio cavaliere messer Farinata degli Uberti, e nella sua diceria propuose gli antichi due grossi proverbi che dicono: "Com'asino sape, così minuzza rape" e "Vassi capra zoppa, se 'l lupo no·lla 'ntoppa"; e questi due proverbi rinestò in uno, dicendo. "Com'asino sape, sì va capra zoppa; così minuzza rape, se 'l lupo no·lla 'ntoppa"; recando poi con savie parole assempro e comparazioni sopra il grosso proverbio, com'era follia di ciò parlare, e come gran pericolo e danno ne potea avenire; e s'altri ch'egli non fosse, mentre ch'egli avesse vita in corpo, colla spada in mano la difenderebbe. Veggendo ciò il conte Giordano, e l'uomo, e della autoritade ch'era messer Farinata, e il suo gran seguito, e come parte ghibellina se ne potea partire e avere discordia, sì·ssi rimase, e intesono ad altro; sicché per uno buono uomo cittadino scampò la nostra città di Firenze da tanta furia, distruggimento, ruina. Ma poi il detto popolo di Firenze ne fu ingrato, male conoscente contra il detto messer Farinata, e sua progenia e lignaggio, come innanzi faremo menzione; ma per la sconoscenza dello ingrato popolo, nondimeno è da commendare e da·ffare notabile memoria del virtudioso e buono cittadino, che fece a guisa del buono antico Cammillo di Roma, come racconta Valerio, e Tito Livio.
<B>LXXXII</B>
<I>Come il conte Guido vicario colla taglia de' Ghibellini di' Toscana andarono sopra Lucca, e ebbono Santa Maria a Monte, e più castella.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXI il conte Guido Novello vicario per lo re Manfredi in Firenze, co la taglia di parte ghibellina di Toscana, feciono oste sopra il contado di Lucca del mese di settembre, e furono IIIm cavalieri tra Toscani e Tedeschi, e popolo grandissimo. E ebbono Castello Franco, e Santa Croce, e puosono assedio a Santa Maria a Monte, e a quello stettono per tre mesi; e poi per difalta di vittuaglia s'arendero a patti, salvi avere e persone. E poi ebbono Montecalvi, e 'l Pozzo; e poi tornarono all'asedio di Fucecchio, che v'erano dentro il fiore di tutti gli usciti guelfi di Toscana, e a quello stettono all'assedio, gittandovi più difici, e con molti ingegni e assalti, per XXX dì. A la fine per la buona gente che dentro v'era, e bene guernito, ma maggiormente per grande acquazzone (che 'l terreno d'intorno, ch'è forte, per la piova male si può osteggiare), convenne si partisse l'oste, e nol poterono avere; e sì vi fu intorno all'assedio le masnade de' Tedeschi ch'erano a la taglia de' Ghibellini di Toscana, ch'erano M cavalieri, onde Guido Novello era vicario generale per lo re Manfredi, e tutta la forza de' Ghibellini di Firenze, e di Pisa, e di Siena, e d'Arezzo, e di Pistoia, e di Prato, e dell'altre città e castella di Toscana; e compiuta la detta oste, si tornarono a Firenze.
<B>LXXXIII</B>
<I>Come gli usciti guelfi di Firenze mandarono loro ambasciadori in Alamagna per sommuovere Curradino contra Manfredi.</I>
In questi tempi veggendosi gli usciti guelfi di Firenze, e dell'altre terre di Toscana, esser così perseguiti da la forza di Manfredi e de' Ghibellini di Toscana, e veggendo che nullo signore si levava contra la forza di Manfredi, e eziandio la Chiesa avea piccolo podere contra·llui, sì·ssi pensarono di mandare loro ambasciadori nella Magna a sommuovere lo picciolo Curradino contro a Manfredi suo zio, che falsamente gli tenea il regno di Cicilia e di Puglia, profferendogli grande aiuto e favore. E così fu fatto, ché de' maggiori usciti di Firenze v'andarono per ambasciadori con quegli del Comune di Lucca; e per gli usciti guelfi di Firenze v'andò messer Bonaccorso Bellincioni degli Adimari e messer Simone Donati. E trovarono Curradino sì piccolo garzone, che la madre in nulla guisa acconsentìo di lasciarlo partire da sé, con tutto che di volere e d'animo era grande contro a Manfredi, e avealo per nimico e ribello di Curradino. E tornando i detti ambasciadori d'Alamagna, per insegna e arra della venuta di Curradino, si feciono donare la sua mantellina foderata di vaio, la quale recata a Lucca, grande festa ne fu fatta per gli Guelfi, e mostravasi in San Friano di Lucca com'una santuaria. Ma non sapeano il futuro distino i Guelfi di Toscana, come il detto Curradino dovea esser loro nemico.
<B>LXXXIV</B>
<I>Come gli usciti guelfi di Firenze presono Signa, ma poco la tennono.</I>
L'anno appresso MCCLXII i Guelfi usciti di Firenze e gli altri usciti di Toscana, essendo l'oste e la taglia de' Ghibellini tornati tutti a·lloro terre, per alcuno trattato ch'aveano in Firenze, subitamente partiti da Lucca, una notte entrarono in Signa e presono la terra, e quella intendeano afforzare; onde in Firenze ebbe grande romore e sombuglio. Il conte Guido incontanente mandò a Pisa, e a Siena, e all'altre terre vicine per soccorso di genti, e incontanente vennero con grande cavalleria. Gli usciti guelfi sentendo loro venuta, non s'ardirono di restare in Signa, ma si partirono e tornarono in Lucca; e ciò fu del mese di...
<B>LXXXV</B>
<I>Come il conte Guido vicario colla taglia di Toscana e colla forza de' Pisani feciono oste sopra Lucca, per la qual cosa i Lucchesi s'accordaro a pace, e cacciarono di Lucca gli usciti guelfi.</I>
La state appresso il detto vicario co' Fiorentini, co' Pisani, e l'altre amistà della taglia de' Ghibellini di Toscana, a petizione de' Pisani, feciono oste sopra le terre e castella de' Lucchesi, ed ebbono Castiglione, e sconfissonvi i Lucchesi, e gli usciti guelfi di Firenze; e messer Cece de' Bondelmonti vi fu preso, e miselsi in groppa messer Farinata degli Uberti: chi dice per iscamparlo. Messer Piero Asino degli Uberti gli diede d'una mazza di ferro in testa, e in groppa del fratello l'uccise; onde furono assai ripresi. E dopo la detta sconfitta il conte Guido co' Pisani e' Ghibellini di Firenze ebbono il castello di Nozano, e ponte al Serchio, e Rotaia; e Serrezzano s'arrendé a·lloro. I Lucchesi veggendosi così assalire e spogliare di loro castella, e per riavere i loro pregioni, che ancora n'avea in Siena della sconfitta di Monte Aperti grande quantità, e pur de' migliori, e veggendo che degli usciti guelfi delle terre di Toscana non aveano altro che briga, e impaccio, e danno per la loro povertà, segretamente feciono trattato col vicario di Manfredi di cacciare gli usciti guelfi di Firenze e dell'altre terre di Toscana, di Lucca, e di riavere i loro pregioni e le loro castella, e di tenere alla taglia, e prendere vicario, mantenendosi in unitade e in pacifico stato, sanza cacciare di Lucca parte alcuna. E così fu fatto e fermo l'accordo, e sì segreto, che nullo uscito ne sentì nulla, che bene l'avrebbono sturbato. E subitamente fu a tutti comandato che sotto pena dell'avere e della persona che dovessono isgombrare Lucca e 'l contado infra i tre dì; onde gli sventurati Guelfi usciti di Firenze e dell'altre terre guelfe di Toscana, sanz'altro rimedio o misericordia, convenne loro uscire di Lucca e del contado colle loro famiglie; imperciò che di presente furono in Lucca le masnade tedesche, e fatto capitano per lo vicario messer Gozello da Ghianzuolo; per la qual cosa molte gentili donne mogli degli usciti di Firenze per niccessità in su l'alpe di San Pellegrino, che sono tra Lucca e Modona, partoriro loro figliuoli, e con tanto esilio e miseria se n'andarono alla città di Bologna; e ciò fu del mese di..., gli anni di Cristo MCCLXIII. Ben si dice per molti antichi che l'uscita de' Guelfi di Firenze di Lucca fu cagione di loro ricchezza, perciò che molti Fiorentini usciti n'andarono oltremonti in Francia a guadagnare, che prima non erano mai usati, onde poi molte ricchezze ne reddiro in Firenze; e cadeci il proverbio che dice: "Bisogno fa prod'uomo". E partiti i Guelfi di Lucca, non rimase città né castello in Toscana, picciolo o grande, che non tornasse a parte ghibellina. In questi tempi, essendo il conte Guido Novello signore in Firenze, tutta la camera del Comune votò, e trassene tra più volte assai bellissime balestra e altri guernimenti da oste, e mandonnegli a Poppi in Casentino suo castello.
<B>LXXXVI</B>
<I>Come gli usciti guelfi di Firenze e gli altri usciti di Toscana cacciarono i Ghibellini di Modona, e poi di Reggio.</I>
Venuti nella città di Bologna i miseri Guelfi cacciati di Firenze e di tutte le terre di Toscana, che niuna se ne tenea a parte guelfa, più tempo stettono in Bologna con grande soffratta e povertà, chi a soldo a piè, e chi a cavallo, e chi sanza soldo. Avenne in quegli tempi che quegli della città di Modona, la parte guelfa co' Ghibellini, vennono a disensione e battaglia cittadinesca tra·lloro, com'è usanza delle terre di Lombardia di raunarsi e di combattersi in su la piazza del Comune: più dì stettono afrontati l'uno contra l'altro sanza soprastare l'una parte l'altra. Avenne che' Guelfi mandarono per soccorso a Bologna, e spezialmente agli usciti guelfi di Firenze, i quali incontanente, come gente bisognosa e che per loro facie guerra, sì v'andarono a piè e a cavallo, come meglio ciascuno potéo. E giunti a Modona, per gli Guelfi fu data loro una porta, e messi dentro; e incontanente, venuti in su la piazza di Modona, come gente virtudiosa, e disposta ad arme e a guerra, si misono a la battaglia contro a' Ghibellini, i quali poco sostennero, che furono sconfitti, e morti, e cacciati della terra, e rubate le loro case, e beni; delle quali prede i detti usciti di Firenze guelfi e dell'altra Toscana molto ingrassaro, e si forniro di cavagli e d'arme, che n'aveano grande bisogno; e ciò fu gli anni di Cristo MCCLXIII. E stando in Modona, poco tempo appresso, per simile modo come fece Modona, si cominciò battaglia nella città di Reggio in Lombardia tra' Guelfi e' Ghibellini; e mandato per gli Guelfi di Reggio per soccorso agli usciti guelfi di Firenze ch'erano in Modona, incontanente v'andarono, e feciono capitano di loro messere Forese degli Adimari. E entrati in Reggio, furono in su la piazza a la battaglia, la quale molto durò, imperciò che' Ghibellini di Reggio erano molto possenti, e intra gli altri v'avea uno chiamato il Caca da Reggio, e ancora per ischerne del nome di lui si fa menzione in motti. Questi era grande quasi com'uno gigante, e di maravigliosa forza, e con una mazza di ferro in mano, nullo gli s'ardiva ad appressare che non abbattesse in terra o morto o guasto, e per lui era ritenuta quasi tutta la battaglia. Veggendo ciò i gentili uomini di Firenze usciti, si elessono tra·lloro XII de' più valorosi, e chiamaronsi gli XII paladini, i quali colle coltella in mano si strinsono adosso al detto valente uomo, il quale dopo molto grande difesa, e molti de' nimici abattuti, sì fu aterrato e morto in su la piazza; e sì tosto come i Ghibellini vidono atterrato il loro campione, si misono in fuga e in sconfitta, e furono cacciati di Reggio. E se gli usciti guelfi di Firenze e dell'altre terre di Toscana arricchirono delle prede de' Ghibellini di Modona, maggiormente aricchirono di quelle de' Ghibellini di Reggio; e tutti s'incavallaro, sicché in poco tempo, standosi in Reggio e in Modona, furono più di CCCC a cavallo di buona gente d'arme bene montati, e vennono a grande bisogno e sussidio di Carlo conte d'Angiò e di Proenza, quando passò in Puglia contra Manfredi, come innanzi faremo menzione.
Lasceremo alquanto de' fatti di Firenze e degli usciti guelfi, e torneremo alle novitadi che ne' detti tempi furono tra la Chiesa di Roma e Manfredi.
<B>LXXXVII</B>
<I>Come Manfredi perseguitò papa Urbano e la Chiesa co' suoi Saracini di Nocera, e come fu predicata la croce contro a·lloro.</I>
Per la sconfitta de' Fiorentini e degli altri Guelfi di Toscana a Monte Aperti, come detto avemo adietro, lo re Manfredi montò in grande signoria e stato, e tutta la parte imperiale di Toscana e di Lombardia molto n'asaltò; e la Chiesa e' suoi divoti e fedeli n'abassarono molto in tutte parti. Avenne che molto poco tempo appresso, nel detto anno MCCLX, papa Allessandro passò di questa vita nella città di Viterbo, e vacò la Chiesa sanza pastore V mesi per discordia de' cardinali. Poi elessono papa Urbano il IIII, della città di Tresi di Campagna in Francia, il quale fue di vile nazione, siccome figliuolo d'uno ciabattiere, ma valente uomo fu, e savio. Ma la sua elezione fu in questo modo: egli era in corte di Roma povero cherico, e piativa una sua chiesa che gli era tolta, di libbre XX di tornesi l'anno; i cardinali per loro discordia serrarono con chiavi ov'erano rinchiusi, e feciono tra·lloro dicreto segreto che 'l primo cherico che picchiasse la porta fosse papa. Come piacque a·dDio, questo Urbano fu il primo, e dove piativa la povera chiesa di libbre XX di tornesi, ebbe l'universale Chiesa, come dispuose Idio, al modo della elezione del beato Niccolaio. Perché fu miracolosa la elezione, n'avemo fatta menzione e memoria; il quale fu consecrato gli anni di Cristo MCCLXI. Questi trovando la Chiesa in grande abassamento per la forza di Manfredi, il quale occupava quasi tutta Italia, e l'oste de' suoi Saracini di Nocera avea messa nelle terre del Patrimonio di San Piero, sì predicò croce contro a·lloro, onde molta gente fedeli si crucciaro, e andarono ad oste contra loro; per la qual cosa i detti Saracini si fuggirono in Puglia; ma però non lasciava Manfredi di continuo fare perseguitare il papa e la Chiesa a' suoi fedeli e masnade; e egli stava quando in Cicilia e quando in Puglia a grande delizia e in grandi diletti, seguendo vita mondana e epicurea, ad ogni suo piacere, tenendo più concubine, vivendo lussuriosamente, e non parea che curasse né Dio né santi. Ma Idio giusto signore, il quale per grazia indugia il suo giudicio a' peccatori perché si riconoscano, ma alla fine non perdona chi non ritorna a·llui, tosto mandò la sua maladizione e ruina a Manfredi, quando egli si credea esser in maggiore stato e signoria, come innanzi faremo menzione.
<B>LXXXVIII</B>
<I>Come la Chiesa di Roma elesse Carlo di Francia a esser re di Cicilia e di Puglia.</I>
Essendo il detto papa Urbano e la Chiesa così abbassata per la potenzia di Manfredi, e li eletti due imperadori (ciò era quello di Spagna e quello d'Inghilterra) nonn-aveano concordia né potenzia di passare in Italia, e Curradino figliuolo del re Currado, a cui apartenea per retaggio il regno di Cicilia e di Puglia, era sì piccolo garzone, che non potea ancora venire contro a Manfredi, il detto papa per infestamento di molti fedeli della Chiesa, i quali per le forze di Manfredi erano cacciati di loro terre, e spezialmente per gli usciti guelfi di Firenze e di Toscana che al continuo erano seguendo la corte, compiagnendosi a' piè del papa, il detto papa Urbano fece uno grande concilio de' suoi cardinali e di molti prelati, e propuose come la Chiesa era soggiogata da Manfredi, e come sempre quegli di sua casa e lignaggio erano stati nimici e persecutori di santa Chiesa, non essendo grati di molti benifici ricevuti, che, quando a·lloro paresse, avea pensato di trarre santa Chiesa di servaggio, e di recarla in suo stato e libera; e ciò potea esser, chiamando Carlo conte d'Angiò e di Proenza, figliuolo del re di Francia, e fratello del buono re Luis, il quale era il più sofficiente prencipe di prodezza d'arme e d'ogni virtù che fosse al suo tempo, e di sì possente casa come quella di Francia, e che fosse campione di santa Chiesa, e re di Cicilia e di Puglia, raquistandola dal re Manfredi, il quale la tenea per forza inlicitamente, e era scomunicato e dannato, e contro a la volontà di santa Chiesa, e come suo ribello; e egli si confidava tanto nella prodezza del detto Carlo e della baronia di Francia, che 'l seguiterebbono, ch'egli non dubitava ch'egli non contastasse Manfredi, e gli togliesse la terra e il regno tutto in poco tempo, e mettesse la Chiesa in grande stato. Al quale consiglio s'accordarono tutti i cardinali e prelati, e così elessono il detto Carlo a re di Cicilia e di Puglia, egli e' suoi discendenti insino in quarta di sua generazione appresso a lui; e fermata la elezione, gli mandarono il decreto; e ciò fu gli anni di Cristo MCCLXIII.
<B>LXXXIX</B>
<I>Come Carlo conte d'Angiò e di Proenza accettò la elezione fattagli di Puglia e di Cicilia per la Chiesa di Roma.</I>
Come la detta elezione fu portata in Francia al detto Carlo per lo cardinale Simone dal Torso, sì n'ebbe consiglio col re Luis di Francia, e col conte d'Artese, e con quello di Lanzone suoi fratelli, e cogli altri grandi baroni di Francia, e per tutti fu consigliato ch'al nome di Dio dovesse fare la detta impresa in servigio di santa Chiesa, e per portare onore di corona e di reame. E lo re Luis di Francia suo maggiore fratello gli proferse aiuto di gente e di tesoro; e simigliante gli profersono tutti i baroni di Francia. E la donna sua, ch'era figliuola minore del buono conte Ramondo Berlinghieri di Proenza, per la quale ebbe in retaggio la detta contea di Proenza, come sentì la elezione del conte Carlo suo marito, per esser reina si impegnò tutti i suoi gioegli, e richiese tutti i baccellieri d'arme di Francia e di Proenza, che fossono alla sua bandiera, e a farla reina. E ciò fece maggiormente per uno dispetto e sdegno, che poco dinanzi le sue tre maggiori serocchie, che tutte erano reine, l'aveano fatto, di farla sedere uno grado più bassa di loro, onde con grande duolo se ne richiamò a Carlo suo marito, il quale le rispuose: "Datti pace, ch'io ti farò tosto maggiore reina di loro"; per la qual cosa ella procacciò e ebbe la migliore baronia di Francia al suo servigio, e quegli che più adoperarono nella detta impresa. E così intese Carlo al suo apparecchiamento con ogni sollecitudine e podere, e rispuose al papa e a' cardinali per lo detto legato cardinale, come avea accettata la loro elezione, che sanza guari d'indugio passerebbe in Italia con forte braccio e grande potenzia alla difensione di santa Chiesa e contro a Manfredi, per cacciarlo della terra di Cicilia e di Puglia; della quale novella la Chiesa e tutti suoi fedeli, e chiunque era di parte guelfa, si confortarono assai e presono grande vigore. Come Manfredi sentì la novella, si provide al riparo di gente e di moneta, e colla forza della parte ghibellina di Lombardia e di Toscana, ch'erano in sua lega e compagnia, ordinò taglia e guernimento di più gente assai che prima nonn-aveano, e fecene venire della Magna per suo riparo, acciò che 'l detto Carlo né sua gente di Francia non potessono entrare in Italia né passare a Roma; e con moneta e con promesse si recò gran parte de' signori e delle città d'Italia sotto sua signoria, e in Lombardia fece suo vicario il marchese Palavigino di Piemonte suo parente, che molto il somigliava di persona e di costumi. E simigliante fece apparecchiare grande guardia in mare di galee armate de' suoi Ciciliani e Pugliesi, e de' Pisani ch'erano in lega con lui, e poco dottava la venuta del detto Carlo, il quale chiamavano per dispetto Carlotto. E imperciò che a Manfredi parea esser, e era, signore del mare e della terra, e la sua parte ghibellina era al di sopra e signoreggiava Toscana e Lombardia, la sua venuta avea per niente.
<B>XC</B>
<I>Incidenza, raccontando del buono conte Ramondo di Proenza.</I>
Poi che nel capitolo di sopra avemo contato della valente donna, moglie che fu del re Carlo e figliuola del buono conte Ramondo Berlinghieri di Proenza, è ragione ch'alcuna cosa in brieve diciamo del detto conte, onde il re Carlo rimase reda. Il conte Ramondo fu gentile signore di legnaggio, e fu d'una progenia di que' della casa d'Araona, e di quella del conte di Tolosa; per retaggio fu sua la Proenza di qua dal Rodano. Signore fu savio e cortese, e di nobile stato, e virtuoso, e al suo tempo fece onorate cose, e in sua corte usarono tutti i gentili uomini di Proenza, e di Francia, e Catalogna per la sua cortesia e nobile stato; e molte cobbole e canzoni provenzali di gran sentenzie fece. Arrivò in sua corte uno romeo che tornava da Sa·Jacopo, e udendo la bontà del conte Ramondo, ristette in sua corte, e fu sì savio e valoroso, e venne tanto in grazia al conte, che di tutto il fece maestro e guidatore; il quale sempre in abito onesto e riligioso si mantenne, e in poco tempo per sua industria e senno radoppiò la rendita di suo signore in tre doppi, mantenendo sempre grande e onorata corte. E avendo guerra col conte di Tolosa per confini di loro terre (e il conte di Tolosa ch'era il maggiore conte del mondo, e sotto sé avea XIIII conti), per la cortesia del conte Ramondo, e per lo senno del buono romeo, e per lo tesoro ch'egli gli avea raunato, ebbe tanti baroni e cavalieri, ch'egli venne al disopra della guerra, e con onore. Quattro figliuole avea il conte e nullo figliuolo maschio. Per lo senno e procaccio del buono romeo, prima gli maritò la maggiore al buono re Luis di Francia per moneta, dicendo al conte: "Lasciami fare, e non ti gravi il costo, che se tu mariti bene la prima, tutte l'altre per lo suo parentado le mariterai meglio, e con meno costo". E così venne fatto, che incontanente il re d'Inghilterra per esser cognato del re di Francia tolse l'altra per poca moneta; appresso il fratello carnale essendo eletto re de' Romani, simile tolse la terza; la quarta rimanendo a maritare, disse il buono romeo: "Di questa voglio che abbi uno valente uomo per figliuolo, che rimanga tua reda"; e così fece. Trovando Carlo conte d'Angiò, fratello del re Luis di Francia, disse: "A costui la da', ch'è per esser il migliore uomo del mondo", profetando di lui; e così fu fatto. Avenne poi per invidia, la quale guasta ogni bene, che' baroni di Proenza appuosono al buono romeo ch'egli avea male guidato il tesoro del conte, e feciongli domandare conto; il valente romeo disse: "Conte, io t'ho servito gran tempo, e messo di picciolo stato in grande, e di ciò per lo falso consiglio di tue genti se' poco grato; io venni in tua corte povero romeo, e onestamente del tuo sono vivuto: fammi dare il mio muletto, e 'l mio bordone, e scarsella, com'io ci venni, e quetoti ogni servigio". Il conte non volea si partisse; per nulla volle rimanere, e com'era venuto, così se n'andò, che mai non si seppe onde si fosse, né dove s'andasse: avisossi per molti che fosse santa anima la sua.
<B>XCI</B>
<I>Come in quegli tempi apparve una grande stella comata, e le sue significazioni.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXIIII, del mese d'agosto, apparve in cielo una stella comata con grandi raggi e chioma dietro, che levandosi dall'oriente con grande luce infino ch'era al mezzo il cielo, inverso l'occidente, la sua chioma risplendea, e durò tre mesi: ciò fu infino del mese di novembre. E la detta stella comata significò diverse novitadi in più parti del secolo; e molti dissono ch'apertamente significò la venuta del re Carlo di Francia, e la mutazione che seguì l'anno appresso del regno di Cicilia e di Puglia, il quale si trasmutò per la sconfitta e morte del re Manfredi della signoria de' Tedeschi a quella de' Franceschi; e simigliante molte mutazioni e traslazioni di parti, per cagione di quella del Regno, avennero a più città di Toscana e di Lombardia, come innanzi faremo menzione. E come s'apruovi che queste stelle comate significano mutazioni di regni, per gli antichi autori in loro versi, si mostra per Istazio poeta, nel primo suo libro di Tebe, ove disse: "Bella quibus populis que mutat regni comete". E Lucano nel primo suo libro disse: "Sideris et terris mutante regna comete". Ma questa intra l'altre significazioni fu evidente e aperta, che come la detta stella apparve, papa Urbano amalò d'infermità, e la notte che la detta cometa venne meno si passò il detto papa di questa vita nella città di Perugia, e là fu soppellito; della cui morte alquanto tardò la venuta di Carlo, e Manfredi e' suoi seguaci furono molto allegri, avisando che morto il detto papa Urbano ch'era Francesco, s'impedisse la detta impresa di Carlo. E vacò la Chiesa sanza pastore V mesi; ma come piacque a·dDio, fu fatto papa Clemente IIII della città di San Gilio in Proenza, il quale fu buono uomo e di santa vita per orazioni, e digiuni, e limosine, tutto che prima fosse suto laico, e avesse avuto moglie e figliuoli, cavaliere e grande avogado in ogni consiglio del re di Francia; ma morta la moglie, si fece cherico, e fu vescovo dal Poi, e appresso arcivescovo di Nerbona, e poi cardinale di Savina, e regnò presso di IIII anni, e molto fu favorevole alla venuta del detto Carlo, e rimise santa Chiesa in buono stato. Lasceremo alquanto del papa e dell'altre novità d'Italia, imperciò che tutte seguiro all'avento del detto Carlo e de' suoi successori, e le novità che furono quasi per tutto il mondo.
<B>LIBRO OTTAVO</B>
<B>I</B>
<I>Qui comincia il VIII libro, il quale tratta dell'avenimento del re Carlo, e di molte mutazioni e novitadi che ne seguirono appresso.</I>
Carlo figliuolo secondo che fu di Luis Piacevole re di Francia, e nipote del buono re Filippo il Bornio suo avolo, onde facemmo menzione adietro, e fratello del buono re Luis di Francia, e di Ruberto conte d'Artese, e d'Infons conte di Pettieri, tutti e quattro fratelli, furono nati della reina Biancia figliuola del re Alfons di Spagna. Il detto Carlo conte d'Angiò per retaggio del padre, e conte di Proenza di qua dal Rodano per retaggio della moglie, figliuola del buono conte Ramondo Berlinghieri, sì come per lo papa e per la Chiesa fu eletto re di Cicilia e di Puglia, sì s'apparecchiò di cavalieri e di baroni per fornire sua impresa e passare in Italia, come innarrammo dinanzi. Ma acciò che più apertamente si possa sapere per quegli che sono a venire come questo Carlo fu il primo origine de' re di Cicilia e di Puglia stratti della casa di Francia, sì direno alquanto delle sue virtù e condizioni; ed è bene ragione di far memoria di tanto signore, e tanto amico e protettore e difenditore di santa Chiesa e della nostra città di Firenze, sì come innanzi faremo menzione. Questo Carlo fu savio, di sano consiglio, e prode in arme, e aspro, e molto temuto e ridottato da tutti i re del mondo, magnanimo e d'alti intendimenti, in fare ogni grande impresa sicuro, in ogni aversità fermo, e veritiere d'ogni sua promessa, poco parlante, e molto adoperante, e quasi non ridea se non poco, onesto com'uno religioso, e cattolico; aspro in giustizia, e di feroce riguardo; grande di persona e nerboruto, di colore ulivigno, e con grande naso, e parea bene maestà reale più ch'altro signore. Molto vegghiava e poco dormiva, e usava di dire che dormendo tanto tempo si perdea. Largo fu a' cavalieri d'arme, ma covidoso d'aquistare terra, e signoria, e moneta, d'onde si venisse, per fornire le sue imprese e guerre. Di gente di corte, minestrieri o giucolari, non si dilettò mai. La sua arme era quella di Francia, cioè il campo azzurro e fioridaliso d'oro, e di sopra uno rastrello vermiglio: tanto si divisava da quella del re di Francia. Questo Carlo quando passò in Italia era d'età di XLVI anni, e regnò re di Cicilia e di Puglia, come faremo menzione innanzi, anni XVIIII. Ebbe della moglie due figliuoli e più figliuole: il primo ebbe nome Carlo secondo, e fu sciancato alquanto, e fu prenze di Capova, e appresso del primo Carlo suo padre fu re di Cicilia e di Puglia, come innanzi faremo menzione; l'altro ebbe nome Filippo, il quale per la moglie fu prenze della Morea, ma morì giovane, e sanza figliuoli, però che si guastò a tendere uno balestro. Lasceremo alquanto della progenie del buono re Carlo, e seguiremo nostra storia del suo passaggio in Italia e d'altre cose conseguenti a quello.
<B>II</B>
<I>Come i Guelfi usciti di Firenze ebbono l'arme da papa Chimento, e come seguirono la gente francesca del conte Carlo.</I>
In questi tempi i Guelfi usciti di Firenze e dell'altre terre di Toscana, i quali s'erano molto avanzati per la presura ch'aveano fatta della città di Modona e di Reggio, come addietro facemmo menzione, sentendo come il conte Carlo s'apparecchiava di passare in Italia, sì si misono con tutto loro podere in arme e in cavagli, isforzandosi ciascuno giusta sua possa, e feciono più di CCCC buoni uomini a cavallo gentili di lignaggio, e provati in arme, e mandarono loro ambasciadori a papa Chimento, acciò che gli raccomandasse al conte Carlo eletto re di Cicilia, e profferendosi al servigio di santa Chiesa; i quali dal detto papa furono ricevuti graziosamente, e proveduti di moneta e d'altri benifici; e volle il detto papa che per suo amore la parte guelfa di Firenze portasse sempre la sua arme propia in bandiera e in suggello, la quale era, e è, il campo bianco con una aguglia vermiglia in su uno serpente verde, la quale portarono e tennero poi, e fanno insino a' nostri presenti tempi; bene v'hanno poi agiunto i Guelfi uno giglietto vermiglio sopra il capo dell'aquila. E con quella insegna si partirono di Lombardia in compagnia de' cavalieri franceschi del conte Carlo quando passarono a Roma, come appresso faremo menzione; e fu della migliore gente, e che più adoperarono d'arme ch'avesse del tanto il re Carlo alla battaglia contro a Manfredi. Lasceremo alquanto degli usciti guelfi di Firenze, e diremo della venuta del conte Carlo e di sua gente.
<B>III</B>
<I>Come il conte Carlo si partì di Francia, e per mare si passò di Proenza a Roma.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXV Carlo conte d'Angiò e di Proenza, fatta sua raunata di baroni e di cavalieri di Francia, e di moneta per fornire suo viaggio, e fatta sua mostra, si lasciò il conte Guido di Monforte capitano e guidatore di MD cavalieri franceschi, i quali dovessono venire a Roma per la via di Lombardia. E fatta la festa della Pasqua della Resurressione di Cristo col re Luis di Francia e cogli altri suoi fratelli e amici, subitamente si partì di Parigi con poca compagnia: sanza soggiorno venne a Marsilia in Proenza, là dove avea fatte apparecchiare XXX galee armate, in su le quali si ricolse con alquanti baroni che di Francia avea menato seco, e con certi de' suoi baroni e cavalieri provenzali, e misesi in mare per venire a Roma a grande pericolo; però che 'l re Manfredi colle sue forze avea fatte armare in Genova, e in Pisa, e nel Regno più di LXXX galee, le quali stavano in mare alla guardia, acciò che 'l detto Carlo non potesse passare. Ma il detto Carlo, come franco e ardito signore, si mise a passare, non guardando agli aguati de' suoi nimici, dicendo uno proverbio, overo sentenzia di filosofo, che dice: "Buono studio rompe rea fortuna". E ciò avenne al detto Carlo bene a bisogno; ché essendo colle sue galee sopra il mare di Pisa, per fortuna di mare si sciarrarono, e Carlo con III delle sue galee, per forza straccando, arrivò a Porto Pisano. Sentendo ciò il conte Guido Novello, ch'allora era in Pisa vicaro del re Manfredi, s'armò colle sue masnade di Tedeschi per cavalcare a Porto, e prendere il conte Carlo; i Pisani presono loro punto, e chiusono le porte della città, e furono ad arme, e mossono questione al vicario, che rivoleano il cassero del Mutrone ch'egli tenea per gli Lucchesi, il quale era a·lloro molto caro e bisognevole; e così convenne che fosse fatto innanzi si potesse partire. E per lo detto intervallo e dimoro, quando il conte Guido partito di Pisa e giunto a Porto, il conte Carlo, cessata alquanto la fortuna, e con grande sollecitudine fatte racconciare le sue galee, e messosi in mare, di poco dinanzi s'era partito di Porto, e cessato tanto pericolo e isventura: e così come piacque adDio, passando poi assai di presso del navilio del re Manfredi, prendendo alto mare, arrivò colla sua armata sano e salvo alla foce del Tevero di Roma del mese di maggio del detto anno, la cui venuta fu tenuta molto maravigliosa e sùbita, e dal re Manfredi e da sua gente appena si potea credere. Giunto Carlo a Roma, da' Romani fu ricevuto a grande onore, imperciò che non amavano la signoria di Manfredi, e incontanente fu fatto sanatore di Roma per volontà del papa e del popolo di Roma. Con tutto che papa Chimento fosse a Viterbo, li diede ogni aiuto e favore contro a Manfredi, spirituale e temporale; ma per cagione che·lla sua cavalleria che venia di Francia per terra, per molti impedimenti apparecchiati per le genti di Manfredi in Lombardia, penarono molto a giugnere a Roma, come faremo menzione, sicché al conte Carlo convenne soggiornare a Roma, e in Campagna, e a Viterbo tutta quella state, nel quale soggiorno provide e ordinò come potesse entrare nel Regno con sua oste.
<B>IV</B>
<I>Come il conte Guido di Monforte colla cavalleria del conte Carlo passò per Lombardia a Roma.</I>
Il conte Guido di Monforte colla cavalleria che 'l conte Carlo gli lasciò a guidare, e colla contessa moglie del detto Carlo, e co' suoi cavalieri si partirono di Francia del mese di giugno del detto anno. E questi furono i caporali de' baroni col conte di Monforte: messer Boccardo conte di Vandomo, e messere Giovanni suo fratello, messer Guido di Bieluogo vescovo d'Alsurro, messere Filippo di Monforte, messere Guiglielmo e messer Piero di Bielmonte, messer Ruberto di Bettona primogenito del conte di Fiandra il quale era genero del conte Carlo, messer Gilio il Bruno conastabolo di Francia, maestro e balio del detto Ruberto, il maliscalco di Mirapesce, messere Guiglielmo lo Stendardo, messer Gianni di Bresiglia maliscalco del conte Carlo, cortese e valente cavaliere; e feciono la via di Borgogna e di Savoia, e passarono le montagne di Monsanese; e arrivati nella contrada di Torino e d'Asti, dal marchese di Monferrato ch'era signore di quello paese furono ricevuti onorevolmente, perché 'l detto marchese tenea colla Chiesa, e era contro a Manfredi; e per lo suo condotto, e coll'aiuto de' Melanesi, si misono a passare la Lombardia tutti in arme, e cavalcando schierati, e con molto affanno di Piemonte infino a Parma, però che 'l marchese Palavigino parente di Manfredi, colla forza de' Chermonesi e dell'altre città ghibelline di Lombardia ch'erano in lega con Manfredi, era a guardare i passi con più di IIIm cavalieri, che Tedeschi e che Lombardi. Alla fine, come piacque a·dDio, veggendosi assai di presso le dette due osti al luogo detto...., i Franceschi passarono sanza contasto di battaglia, e arrivarono alla città di Parma. Bene si disse che uno messer Buoso della casa di que' da Duera di Chermona, per danari ch'ebbe da' Franceschi, mise consiglio per modo che l'oste di Manfredi non fosse al contasto al passo, com'erano ordinati, onde poi il popolo di Chermona a·ffurore distrussono il detto legnaggio di quegli da Duera. Giunti i Franceschi alla città di Parma, furono ricevuti graziosamente; e gli usciti guelfi di Firenze e dell'altre città di Toscana, con più di CCCC cavalieri, onde aveano fatto loro capitano il conte Guido Guerra de' conti Guidi, andarono loro incontro infino a Mantova. E quando i Franceschi si scontrarono con gli usciti guelfi di Firenze e di Toscana, parve loro sì bella gente e sì riccamente a cavagli e ad arme, che molto si maravigliarono che usciti di loro terre potessono esser così nobilemente adobbati, e la loro compagnia ebbono molto cara de' detti nostri usciti. E poi gli scorsono e condussono per Lombardia a Bologna, e per Romagna, e per la Marca, e per lo Ducato, che per Toscana non poterono passare, però che tutta era a parte ghibellina e alla signoria di Manfredi; per la qual cosa misono molto tempo in loro viaggio, sicché prima fu l'entrante del mese di dicembre del detto anno MCCLXV, che giugnessono a Roma; e giunti loro alla città di Roma, il conte Carlo fu molto allegro, e gli ricevette a gran festa e onore.
<B>V</B>
<I>Come lo re Carlo fu coronato in Roma re di Cicilia, e come incontanente si partì con sua oste per andare incontro al re Manfredi.</I>
Come la cavalleria del conte Carlo fu giunta a Roma, sì intese a prendere sua corona, e il dì della Befania, gli anni detti MCCLXV, per due cardinali legati e mandati dal papa fue consecrato in Roma e coronato del reame di Cicilia e di Puglia, egli e la donna sua, a grande onore; e sì tosto come fu finita la festa della sua coronazione, sanza alcuno soggiorno si mise al camino con sua oste per la via di Campagna inverso il regno di Puglia; e Campagna ebbe assai tosto grande parte sanza contasto al suo comandamento. Lo re Manfredi sentendo la loro venuta, del detto Carlo, e poi della sua gente, com'era passata per difalta della sua grande oste ch'era in Lombardia, fu molto cruccioso: incontanente mise tutto suo studio alla guardia de' passi del Regno, e al passo al ponte a Cepperano mise il conte Giordano e quello di Caserta, i quali erano della casa di quegli d'Aquino, e con genti assai a piè e a cavallo, e in San Germano mise grande parte di sua baronia, Tedeschi e Pugliesi, e tutti i Saracini di Nocera coll'arcora e balestra e con molto saettamento, confidandosi più in quello riparo che inn-altro, per lo forte luogo e per lo sito, che dall'una parte ha grandi montagne e dall'altra paduli e marosi, ed era fornito di vittuaglia e di tutte cose bisognevoli per più di due anni. Avendo fatto il re Manfredi di fornimento a' passi, come detto avemo, sì mandò suoi ambasciadori al re Carlo, per trattare co·llui triegue o pace; ed isposta loro ambasciata, il re Carlo di sua bocca volle fare la risposta, e disse in sua lingua in francesco: "Ales e dite moi a le sultam de Nocere: o gie metterai lui en enferne o il mettra moi em paradis"; ciò vuole dire: "Io non voglio altro che·lla battaglia, ove o io ucciderò lui, o egli me"; e ciò fatto, sanza soggiorno si mise al cammino. Avenne che giunto il re Carlo con sua oste a Fresolone in Campagna, iscendendo verso Cepperano, il detto conte Giordano che a quello passo era a guardia, veggendo venire la gente del re per passare, volle difendere il passo; il conte di Caserta disse ch'era meglio a lasciarne prima alquanti passare, sì gli avrebbono di là dal passo sanza colpo di spada. Il conte Giordano credendo che consigliasse il migliore, aconsentì, ma quando vide ingrossare la gente, ancora volle assalirgli con battaglia; allora il conte di Caserta, il quale era nel trattato, disse che·lla battaglia era di gran rischio, imperciò che troppi n'erano passati. Allora il conte Giordano veggendo sì possente la gente del re, abandonarono la terra e 'l ponte, chi dice per paura, ma i più dissono per lo trattato fatto da·re al conte di Caserta, imperciò ch'egli nonn-amava Manfredi, però che per la sua disordinata lussuria per forza avea giaciuto colla moglie del conte di Caserta, onde da·llui si tenea forte ontato, e volle fare questa vendetta col detto tradimento. E a questo diamo fede, però che furono de' primi egli e' suoi che s'arrenderono al re Carlo, e lasciato Cepperano, non tornaro a l'oste del re Manfredi a San Germano, ma si tennero in loro castella.
<B>VI</B>
<I>Come il re Carlo, avuto il passo di Cepperano, ebbe per forza la terra di San Germano.</I>
Come lo re Carlo e sua oste ebbono preso il passo di Cepperano, presono Aquino sanza contasto, e per forza ebbono la rocca d'Arci, ch'è delle più forti tenute di quello paese; e ciò fatto, si misono a campo coll'oste a San Germano. Quegli della terra per lo forte luogo, e perch'era bene fornito di genti e di tutte cose, aveano per niente la gente del re Carlo, ma per dispregio, a·lloro ragazzi che menavano i cavagli a l'acqua faceano spregiare, e dire onta e villania, chiamando: "Ov'è il vostro Carlotto?". Per la qual cosa i ragazzi de' Franceschi si misono a badaluccare e a combattere con quegli d'entro, per la qual cosa tutta l'oste de' Franceschi si levò a romore. E temendo che 'l campo non fosse assalito, tutti furono ad arme i Franceschi subitamente, correndo inverso la terra; quegli d'entro non prendendosi di ciò guardia, non furono così tosto tutti a l'arme. I Franceschi con grande furore assalirono la terra, e dando battaglia da più parti; e chi migliore schermo non potea avere, ismontando de' cavagli, e levando loro le selle, e con esse in capo andavano sotto le mura e torri della terra. Il conte di Vandomo con messer Gianni suo fratello, e co·lloro bandiera, i quali furono de' primi che s'armarono, seguirono i ragazzi di que' d'entro ch'erano usciti al badalucco, e cacciandogli, co·lloro insieme si misono dentro per una postierla ch'era aperta per ricoglierli; e ciò non fu sanza grande pericolo, imperciò che·lla porta era bene guardata da più gente d'arme, e rimasonvene e morti e fediti di quegli che seguivano il conte di Vandomo e 'l fratello; ma eglino per loro grande ardire e virtù pur vinsono la punga a la porta per forza d'arme, e entrarono dentro, e incontanente la loro insegna misono in su le mura. E de' primi che gli seguirono furono gli usciti guelfi di Firenze, ond'era capitano il conte Guido Guerra, e la 'nsegna portava messer Stoldo Giacoppi de' Rossi: i quali Guelfi alla presa del detto San Germano si portarono maravigliosamente e come buona gente, per la qual cosa quegli di fuori presono cuore e ardire, e chi meglio poteva si mettea dentro alla terra. Quegli d'entro, vedute le 'nsegne de' nemici in su le mura, e presa la porta, molti ne fuggirono, e pochi ne stettono alla difensione; per la qual cosa la gente del re Carlo combattendo ebbono la terra di San Germano a dì X di febbraio MCCLXV, e fu tenuta grandissima maraviglia, per la fortezza della terra, e piuttosto fattura di Dio che forza umana, perché dentro v'avea più di M cavalieri e più di Vm pedoni, intra' quali avea molti arcieri saracini di Nocera; ma per una zuffa che la notte dinanzi, come a Dio piacque, surse tra' Cristiani e' Saracini, della quale i Saracini furono soperchiati, il giorno appresso non furono in fede alla difensione della terra; e questa infra l'altre fu bene una delle cagioni perché perderono la terra di San Germano. Delle masnade di Manfredi furono assai morti e presi, e la terra tutta corsa e rubata per li Franceschi, e ivi soggiornò lo re e sua oste alquanto per prendere riposo, e per sapere gli andamenti di Manfredi.
<B>VII</B>
<I>Come lo re Manfredi andò a Benivento, e come ordinò sue schiere per combattere col re Carlo.</I>
Lo re Manfredi intesa la novella della perdita di San Germano, e tornandone la sua gente sconfitti, fu molto isbigottito, e prese suo consiglio quello ch'avesse a·ffare, il quale fu consigliato per lo conte Calvagno, e per lo conte Giordano, e per lo conte Bartolomeo, e per lo conte camerlingo, e per gli altri suoi baroni ch'egli con tutto suo podere si ritraesse alla città di Benivento per forte luogo, e per avere la signoria di prendere la battaglia a sua posta, e per ritrarsi inverso Puglia, se bisognasse, e ancora per contradiare il passo al re Carlo, imperciò che per altra via non potea entrare in Principato e a Napoli, né passare in Puglia se non per la via di Benivento; e così fu fatto. Lo re Carlo sentendo l'andata di Manfredi a Benivento, incontanente si partì da San Germano, per seguirlo con sua oste, e non tenne il cammino diritto di Capova, e per Terra di Lavoro, imperciò che al ponte di Capova non avrebbe potuto passare, per la fortezza ch'è in su il fiume delle torri del ponte, e il fiume è grosso; ma si mise a passare il fiume del Voltorno presso a Tuliverno, ove si può guadare, e tenne per la contrada d'Alifi, e per aspri cammini delle montagne di beneventana, e sanza soggiorno, e con grande disagio di muneta e di vittuaglia, giunse all'ora di mezzogiorno a piè di Benevento, alla valle d'incontro alla città, per ispazio di lungi di due miglia alla riva del fiume di Calore, che corre a piè di Benevento. Lo re Manfredi veggendo apparire l'oste del re Carlo, avuto suo consiglio, prese partito del combattere, e d'uscire fuori a campo con sua cavalleria, per assalire la gente del re Carlo anzi che si riposassono; ma in ciò prese mal partito, che se fosse atteso uno o due giorni, lo re Carlo e sua oste erano morti e presi sanza colpo di spada, per difalta di vivanda per loro e per gli loro cavagli; ché 'l giorno dinanzi che giugnessono a piè di Benevento, per nicessità di vittuaglia, molti di sua oste convenne vivesse di cavoli, e' loro cavagli di torsi, sanza altro pane, o biada per gli cavagli, e la moneta per dispendere era loro fallita. Ancora era la gente e forza del re Manfredi molto sparta, che messer Currado d'Antioccia era in Abruzzi con gente, il conte Federigo era in Calavra, il conte di Ventimiglia era in Cicilia: che se avesse alquanto atteso crescevano le sue forze; ma a cui Iddio vuole male gli toglie il senno. Manfredi uscito di Benevento con sua gente, passò il ponte ch'è sopra il detto fiume di Calore, nel piano ove si dice Santa Maria della Grandella, il luogo detto la pietra a Roseto; ivi fece tre battaglie overo schiere: l'una fu di Tedeschi di cui si rifidava molto, e erano bene MCC cavalieri, ond'era capitano il conte Calvagno; la seconda era di Toscani e Lombardi, e anche Tedeschi, in numero di M cavalieri, la quale guidava il conte Giordano; la terza fu de' Pugliesi co' Saracini di Nocera, la quale guidava lo re Manfredi, la quale era di MCCCC cavalieri, sanza i pedoni e gli arcieri saracini ch'erano in grande quantità.
<B>VIII</B>
<I>Come il re Carlo ordinò sue schiere per combattere col re Manfredi.</I>
Lo re Carlo veggendo Manfredi e sua gente venuti a campo per combattere, ebbe suo consiglio di prendere la battaglia il giorno o d'indugiarla. Gli più de' suoi baroni consigliarono del soggiorno infino a la mattina vegnente, per riposare i cavagli dell'affanno avuto per lo forte cammino, e messer Gilio il Bruno conastabole di Francia disse il contrario, e che indugiando, i nimici prenderanno cuore e ardire, e a·lloro potea al tutto fallire la vivanda, e che se altri dell'oste no·lla volesse la battaglia, egli solo col suo signore Ruberto di Fiandra e con sua gente si metterebbe alla ventura del combattere, avendo fidanza in Dio d'avere la vittoria contra' nemici di santa Chiesa. Veggendo ciò il re Carlo, s'attenne e prese il suo consiglio, e per la grande volontà ch'avea del combattere, disse con alta voce a' suoi cavalieri: "Venus est le iors ce nos avons tant desiré"; e fece sonare le trombe, e comandò ch'ogni uomo s'armasse e apparecchiasse per andare alla battaglia, e così in poca d'ora fu fatto. E ordinò, sì come i suoi nemici, a petto di loro tre schiere principali: la prima schiera era de' Franceschi in quantità di M cavalieri, ond'erano capitani messer Filippo di Monforte e 'l maliscalco di Mirapesce; la seconda lo re Carlo col conte Guido di Monforte, e con molti de' suoi baroni e cavalieri della reina, e co' baroni e cavalieri di Proenza, e Romani, e Campagnini, ch'erano intorno di VIIIIc cavalieri, e le 'nsegne reali portava messer Guiglielmo lo Stendardo, uomo di grande valore; la terza fu guidatore Ruberto conte di Fiandra col suo maestro Gilio maliscalco di Francia, con Fiamminghi, e Bramanzoni, e Annoieri, e Piccardi, in numero di VIIc cavalieri. E di fuori di queste schiere furono gli usciti guelfi di Firenze con tutti gl'Italiani, e furono più di CCCC cavalieri, de' quali molti di loro delle maggiori case di Firenze si feciono cavalieri per mano del re Carlo in su il cominciare della battaglia; e di questa gente, Guelfi di Firenze e di Toscana, era capitano il conte Guido Guerra, e la 'nsegna di loro portava in quella battaglia messer Currado da Montemagno di Pistoia. E veggendo il re Manfredi fatte le schiere, domandò della schiera quarta che gente erano, i quali comparivano molto bene inn-arme e in cavagli e in arredi e sopransegne; fugli detto ch'erano la parte guelfa usciti di Firenze e dell'altre terre di Toscana. Allora si dolfe Manfredi dicendo: "Ov'è l'aiuto ch'io hoe dalla parte ghibellina, ch'io ho cotanto servita, e messo in loro cotanto tesoro?", e disse: "Quella gente", cioè la schiera de' Guelfi, "non possono oggi perdere"; e ciò venne a dire, s'egli avesse vittoria ch'egli sarebbe amico de' Guelfi di Firenze, veggendogli sì fedeli al loro signore e a·lloro parte, e nemico de' Ghibellini.
<B>IX</B>
<I>Come la battaglia dal re Carlo al re Manfredi fu, e come il re Manfredi fu sconfitto e morto.</I>
Ordinate le schiere de' due re nel piano della Grandella per lo modo detto dinanzi, e ciascuno de' detti signori amonita la sua gente di ben fare, e dato il nome per lo re Carlo a' suoi, "Mongioia, cavalieri", e per lo re Manfredi a' suoi, "Soavia, cavalieri", il vescovo d'Alsurro, siccome legato del papa, asolvette e benedisse tutti quelli dell'oste del re Carlo, perdonando colpa e pena, però ch'essi combatteano in servigio di santa Chiesa. E ciò fatto, si cominciò l'aspra battaglia tra le prime due schiere de' Tedeschi e de' Franceschi, e fu sì forte l'asalto de' Tedeschi, che malamente menavano la schiera de' Franceschi, e assai gli feciono rinculare adietro, e presono campo. E 'l buono re Carlo veggendo i suoi così malmenare, non tenne l'ordine della battaglia di difendersi colla seconda schiera, avisandosi che se la prima schiera de' Franceschi ove avea tutta sua fidanza fosse rotta, piccola speranza di salute attendea dell'altre; incontanente colla sua schiera si mise al soccorso della schiera de' Franceschi contro a quella de' Tedeschi; e come gli usciti di Firenze e loro schiera vidono lo re Carlo fedire alla battaglia, si misono appresso francamente, e feciono maravigliose cose d'arme il giorno, seguendo sempre la persona del re Carlo; e simile fece il buono Gilio il Bruno conastabile di Francia con Ruberto di Fiandra con sua schiera, e da l'altra parte fedì il conte Giordano colla sua schiera, onde la battaglia fu aspra e dura, e grande pezza durò, che non si sapea chi avesse il migliore; però che gli Tedeschi per loro virtude e forza colpendo di loro spade, molto danneggiavano i Franceschi. Ma subitamente si levò uno grande grido tra·lle schiere de' Franceschi, chi che 'l si cominciasse, dicendo: "Agli stocchi, agli stocchi, a fedire i cavagli!"; e così fu fatto, per la qual cosa in piccola d'ora i Tedeschi furono molto malmenati e molto abattuti, e quasi inn isconfitta volti. Lo re Manfredi, lo quale con sua schiera de' Pugliesi stava al soccorso dell'oste, veggendo gli suoi che non poteano durare la battaglia, sì confortò la sua gente della sua schiera, che 'l seguissono alla battaglia, da' quali fu male inteso, però che la maggiore parte de' baroni pugliesi e del Regno, in tra gli altri il conte camerlingo, e quello della Cerra, e quello di Caserta e altri, o per viltà di cuore, o veggendo a loro avere il peggiore, e chi disse per tradimento, come genti infedeli e vaghi di nuovo signore, si fallirono a Manfredi, abandonandolo e fuggendosi chi verso Abruzzi e chi verso la città di Benevento. Manfredi rimaso con pochi, fece come valente signore, che innanzi volle in battaglia morire re, che fuggire con vergogna; e mettendosi l'elmo, una aquila d'argento ch'egli avea ivi su per cimiera gli cadde in su l'arcione dinanzi. E egli ciò veggendo isbigottì molto, e disse a' baroni che gli erano dal lato in latino: "<I>Hoc est signum Dei</I>, però che questa cimiera appiccai io colle mie mani in tal modo che non dovea potere cadere". Ma però non lasciò, ma come valente signore prese cuore, e incontanente si mise alla battaglia, non con sopransegne reali per non esser conosciuto per lo re, ma come un altro barone, lui fedendo francamente nel mezzo della battaglia. Ma però i suoi poco duraro, che già erano in volta: incontanente furono sconfitti, e lo re Manfredi morto in mezzo de' nemici, dissesi per uno scudiere francesco, ma non si seppe il certo. In quella battaglia ebbe gran mortalità d'una parte e d'altra, ma troppo più della gente di Manfredi. E fuggendo del campo verso Benevento, cacciati da quegli dell'oste del re Carlo, infino nella terra, che·ssi facea già notte, gli seguirono, e presono la città di Benevento, e quegli che fuggieno. Molti de' baroni caporali del re Manfredi rimasono presi: intra gli altri furono presi il conte Giordano, e messer Piero Asini degli Uberti, i quali il re Carlo mandò in pregione in Proenza, e di là d'aspra morte in carcere gli fece morire. Gli altri baroni pugliesi e tedeschi ritenne in pregione in diversi luoghi nel Regno. E pochi dì apresso la moglie del detto Manfredi e' figliuoli e la suora, i quali erano in Nocera de' Saracini in Puglia, furono renduti presi al re Carlo, i quali poi morirono in sua pregione. E bene venne a Manfredi e a sue rede la maladizione d'Iddio, e assai chiaro si mostrò il giudizio d'lddio in lui, perch'era scomunicato e nimico e persecutore di santa Chiesa. Nella sua fine, di Manfredi si cercò più di tre giorni, che non si ritrovava, e non si sapea se fosse morto, o preso, o scampato, perché nonn-avea avuto a la battaglia indosso armi reali. Alla fine per uno ribaldo di sua gente fu riconosciuto per più insegne di sua persona in mezzo il campo ove fu la battaglia. E trovato il suo corpo per lo detto ribaldo, il mise traverso in su uno asino, vegnendo gridando: "Chi acatta Manfredi, chi acatta Manfredi?"; il quale ribaldo da uno barone del re fu battuto, e recato il corpo di Manfredi dinanzi al re, fece venire tutti i baroni ch'erano presi, e domandato ciascuno s'egli era Manfredi, tutti temorosamente dissono di sì. Quando venne il conte Giordano sì si diede delle mani nel volto piagnendo e gridando: "Omè, omè, signore mio!"; onde molto ne fu commendato da' Franceschi, e per alquanti de' baroni del re fu pregato che gli facesse fare onore alla seppultura. Rispuose il re: "Si feisse ie volontiers, s'il non fust scomunié"; ma imperciò ch'era scomunicato, non volle il re Carlo che fosse recato in luogo sacro; ma appiè del ponte di Benevento fu soppellito, e sopra la sua fossa per ciascuno dell'oste gittata una pietra, onde si fece grande mora di sassi. Ma per alcuni si disse che poi per mandato del papa il vescovo di Cosenza il trasse di quella sepultura, e mandollo fuori del Regno, ch'era terra di Chiesa, e fu sepolto lungo il fiume del Verde a' confini del Regno e di Campagna: questo però nonn-affermiamo. Questa battaglia e sconfitta fu uno venerdì, il sezzaio di febbraio, gli anni di Cristo MCCLXV.
<B>X</B>
<I>Come lo re Carlo ebbe la signoria de' Regno e di Cicilia, e come don Arrigo di Spagna venne a·llui.</I>
Come il re Carlo ebbe sconfitto e morto Manfredi, la sua gente furono tutti ricchi delle spoglie del campo, e maggioremente de' signoraggi e de' baronaggi che teneano i baroni di Manfredi, che in poco tempo appresso tutte le terre del Regno, di Puglia e gran parte di quelle dell'isola di Cicilia feciono le comandamenta del re Carlo; delle quali baronie, e signoraggi, e fii de' cavalieri rinvestì a tutti coloro che·ll'aveano servito, Franceschi, e Provenzali, e Latini, ciascuno secondo il suo grado. E quando il re Carlo venne in Napoli, da' Napoletani fu ricevuto come signore a grande onore, e ismontò al castello di Capova, il quale avea fatto fare lo 'mperadore Federigo, nel quale trovò il tesoro di Manfredi quasi tutto in oro di terì spezzato, il quale si fece venire innanzi, e porre in su' tappeti ov'era egli e la reina e messer Beltram del Balzo; e fece venire bilance, e disse a messer Beltram che 'l partisse. Il magnanimo cavaliere disse: "Che a gie a fer de balance a departir vostre tesor?", ma co' piedi vi salì suso, e co' piedi ne fece tre parti: "L'una parte", disse, "sia di monsignor lo re, e l'altra di madama la reina, e l'altra sia de' vostri cavalieri"; e così fu fatto. Lo re veggendo la magnanimità di messere Beltram, incontanente gli diede la contea d'Avellino, e fecenelo conte. E poco appresso a·re non piacque d'abitare nel castello di Capova, perch'era abitato al modo tedesco; ordinò che si facesse castello nuovo al modo francesco, il quale è presso a San Piero in Castello da l'altra parte di Napoli. E poco tempo appresso tutti i baroni pugliesi, i quali lo re avea presi alla battaglia, fece scapolare, e a molti rendé loro terre e retaggi, per avere più l'amore di que' del paese; della qual cosa, di gran parte, fece il peggiore per la rea uscita che poco tempo appresso gli feciono certi de' detti baroni pugliesi, siccome innanzi faremo menzione. Avenne poco tempo appresso, il seguente anno che il re Carlo ebbe il reame e signoria di Cicilia e di Puglia, che don Arrigo figliuolo secondo del re di Spagna cugino del re Carlo, nato di serocchia e di fratello, il quale era stato in Africa a' soldi del re di Tunisi, udendo lo stato del re suo cugino, passò di Tunisi in Puglia con più di VIIIc cavalieri spagnuoli, molto bella e buona gente; il quale don Arrigo dal re Carlo fu ricevuto graziosamente, e ritenuto a' suoi soldi, e in luogo di lui il fece senatore di Roma, e guardia di tutte le terre di Campagna e dal Patrimonio. Ma il detto don Arrigo, il quale da Tunisi era tornato ricco di danari, per bisogno del re Carlo gli prestò, si dice, XLm dobble d'oro, le quali non riebbe mai, onde nacque poi grande scandalo tra·lloro, come innanzi faremo menzione. E intra l'altre cagioni della discordia da don Arrigo e lo re fu che don Arrigo procacciava colla Chiesa d'avere l'isola di Sardigna, e lo re Carlo la volea per sé; e per la discordia no·ll'ebbe né·ll'uno né·ll'altro; e per questo isdegno don Arrigo si fece nimico, e in parte nonn-ebbe il torto, che lo re Carlo avea bene tanta terra, che bene dovea volere che 'l suo cugino avesse quella poca, ma per l'avarizia e invidia nol volle a vicino; e don Arrigo disse: "Per lo cor Dio, o el mi matrà, o io il matrò". Lasceremo ora alquanto de' fatti del re Carlo, e diremo d'altre cose che furono in quelli tempi, tornando a nostra materia de' fatti di Firenze,, che per la vittoria del re Carlo ebbe grandi mutazioni.
<B>XI</B>
<I>Come i Saracini di Barberia passarono inn-Ispagna, e come vi furono sconfitti.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXVI grandissimo esercito di numero di Saracini passarono d'Africa per lo stretto di Sibilia per racquistare la Spagna e l'Araona, e agiunti co' Saracini di Granata, i quali ancora abitavano in Ispagna, grande danno feciono a' Cristiani. Ma sentendo ciò lo re di Spagna, col re di Portogallo e con quello d'Araona raunati insieme, e con molti altri Cristiani di croce segnati per indulgenzia di colpa e pena data per lo papa e per la Chiesa di Roma, co' detti Saracini ebbono grande battaglia, e dopo molto sangue de' Cristiani sparto, i Saracini furono sconfitti e morti, che quasi di quegli che passarono non ne campò niuno che non fosse morto o preso, e simile molti di quelli di Granata. E nota che come i Cristiani fanno loro podere di raquistare la Terrasanta per boti, per promesse, e lasci di moneta, o prendere croce, e pellegrinaggi per indulgenzia de' loro peccati, per simile modo fanno i Saracini per racquistare la Spagna, e per mantenere la terra di Granata, la quale ancora tengono di qua da mare i Saracini a grande obbrobbio e vergogna de' Cristiani.
<B>XII</B>
<I>Come i Fiorentini ghibellini assediarono Castello Nuovo in Valdarno, e come se ne partirono a modo di sconfitti.</I>
Ne' tempi che il re Carlo fu coronato a Roma, come è fatta menzione, il vescovo d'Arezzo, ch'era degli Ubertini, tutto fosse Ghibellino, perché non era in accordo cogli Aretini, né col conte Guido Novello vicario per Manfredi in Toscana, perché gl'ingiuriavano il vescovado e sue terre, sì diede in guardia le sue castella agli usciti guelfi di Firenze, i quali per lo favore della venuta del re Carlo feciono gran guerra in Valdarno a' Ghibellini che teneano Firenze, e aveano preso Castelnuovo in Valdarno. Per la qual cosa le masnade de' Fiorentini ch'erano col conte Guido Novello, con gente a piè assai, e con certi caporali ghibellini cittadini di Firenze, v'andarono ad oste, e a quello diedono più battaglie per modo che quasi più non si potea tenere, se non fosse il senno e sagacità di guerra ch'usò messer Uberto Spiovanato de' Pazzi di Valdarno del lato guelfo, ch'era capitano in quello castello, il quale prese e levò uno suggello di cera intero d'una lettera ch'egli avea avuta dal detto vescovo suo zio d'altra materia, e fece fare una lettera, dicendo come francamente si dovesse tenere, imperciò che di presente avrebbono soccorso di VIIIc cavalieri franceschi del re Carlo, e rimise il suggello a quella, e miselasi in borsa di seta con altre lettere e con danari. E uscito fuori ad uno badalucco, cautamente la borsa si tagliò e lasciolla; la quale da' nemici trovata, fu portata a' capitani, e letta la detta lettera, diedono fede alla venuta de' Franceschi. Incontanente presono partito di levarsi da oste, e per la fretta si partiro a modo di sconfitta, co·lloro danno e vergogna tornato in Firenze; per la qual cosa quasi tutte le terre di Valdarno si rubellarono a' Ghibellini. In questi tempi venne in Firenze uno Saracino ch'avea nome Buzzeca, ed era il migliore maestro di giucare a scacchi, e in su il palagio del popolo dinanzi al conte Guido Novello giucò a un'ora a tre scacchieri co' migliori maestri di scacchi di Firenze, cogli due a mente, e coll'uno a veduta; e gli due giuochi vinse, e l'uno fece tavola; la qual cosa fu tenuta grande maraviglia.
<B>XIII</B>
<I>Come in Firenze si feciono i XXXVI e come si diede ordine e gonfaloni a l'arti.</I>
Come la novella fu in Firenze e per Toscana della sconfitta di Manfredi, i Ghibellini e i Tedeschi cominciarono ad invilire e avere paura in tutte parti, e' Guelfi usciti di Firenze ch'erano ribelli, e tali a' confini per lo contado e in più parti, cominciarono a invigorire e a prendere cuore e ardire. E faccendosi presso alla città, ordinarono dentro alla terra novità e mutazioni, per trattati co' loro amici d'entro, che s'intendeano con loro, e vennero infino ne' Servi Sancte Marie a fare consiglio, avendo speranza di loro gente ch'erano stati alla vittoria col re Carlo, i quali attendeano con gente de' Franceschi in loro aiuto; onde il popolo di Firenze ch'era più Guelfo che Ghibellino d'animo per lo danno ricevuto, chi di padre, chi di figliuolo, e chi di fratelli, alla sconfitta di Monte Aperti, simile cominciarono a rinvigorire, e a mormorare, e parlare per la città, dogliendosi delle spese e incarichi disordinati che riceveano dal conte Guido Novello e dagli altri che reggeano la terra. Onde quegli che reggeano la città di Firenze a parte ghibellina, sentendo nella città il detto subuglio e mormorio, e avendo paura che 'l popolo non si rubellasse contro a·lloro per una cotale mezzanità, e per contentare il popolo, elessono due cavalieri frati godenti di Bologna per podestadi di Firenze, che l'uno ebbe nome messer Catalano de' Malavolti, e l'altro messer Loderigo delli Andalò, e l'uno era tenuto di parte guelfa, ciò era messer Catalano, e l'altro di parte ghibellina. E nota che' frati godenti erano chiamati cavalieri di santa Maria, e cavalieri si faceano quando prendeano quello abito, che·lle robe aveano bianche e uno mantello bigio, e l'arme il campo bianco e la croce vermiglia con due stelle, e doveano difendere le vedove e' pupilli, e intramettersi di paci; e altri ordini, come religiosi, aveno. E il detto messer Loderigo ne fu cominciatore di quello ordine; ma poco durò, che seguiro al nome il fatto, cioè d'intendere più a godere ch'ad altro. Questi due frati per lo popolo di Firenze furono fatti venire, e misongli nel palagio del popolo d'incontro a la Badia, credendo che per l'onestà dell'abito fossono comuni, e guardassono il Comune di soperchie spese; i quali, tutto che d'animo di parte fossono divisi, sotto coverta di falsa ipocresia furono in concordia più al guadagno loro propio ch'al bene comune; e ordinarono XXXVI buoni uomini mercatanti e artefici, de' maggiori e migliori che fossono nella cittade, i quali dovessono consigliare le dette due potestadi, e provedere alle spese del Comune; e di questo novero furono de' Guelfi e de' Ghibellini, popolani e grandi non sospetti, ch'erano rimasi in Firenze alla cacciata de' Guelfi. E raunavansi i detti XXXVI a consigliare ogni dì per lo buono stato comune della città nella bottega e corte de' consoli di Calimala, ch'era a piè di casa i Cavalcanti in Mercato Nuovo, i quali feciono molti buoni ordini e stato comune della terra, intra' quali ordinarono che ciascuna delle VII arti maggiori di Firenze avessono consoli e capitudini, e ciascuna avesse suo gonfalone e insegna, acciò che se nella città si levasse niuno con forza d'arme, sotto i loro gonfaloni fossono a la difesa del popolo e del Comune. E le 'nsegne delle VII arti maggiori furono queste: i giudici e notari, il campo azzurro e una stella grande ad oro; i mercatanti di Calimala, cioè de' panni franceschi, il campo rosso con una aguglia ad oro in su uno torsello bianco; i cambiatori, il campo vermiglio e fiorini d'oro iv'entro seminati; l'arte della lana, il campo vermiglio iv'entro uno montone bianco; i medici e speziali, il campo vermiglio iv'entro santa Maria col figliuolo Cristo in collo; l'arte de' setaiuoli e merciari, il campo bianco e una porta rossa iv'entro per lo titolo di porte Sante Marie; i pillicciai, l'arme a vai, e nell'uno capo uno <I>agnus Dei</I> in campo azzurro. L'altre V seguenti alle maggiori arti s'ordinarono poi quando si criò in Firenze l'uficio de' priori dell'arti, come a tempo più innanzi faremo menzione; e fu loro ordinato, per simile modo delle VII arti, gonfaloni e arme. Ciò furono i baldrigari, ciò sono mercatanti di ritaglio di panni fiorentini, calzaiuoli, e pannilini, e rigattieri, la 'nsegna bianca e vermiglia; i beccari, il campo giallo e un becco nero; i calzolai, atraverso listata bianca e nero, chiamata pezza gagliarda; i maestri di pietre e di legname, il campo rosso iv'entro la sega, e la scure, e mannaia, e piccone; i fabbri e ferraiuoli, il campo bianco e tanaglie grandi nere.
<B>XIV</B>
<I>Come in Firenze si levò il secondo popolo, per la quale cagione il conte Guido Novello co' caporali ghibellini uscirono di Firenze.</I>
Per le dette novitadi fatte in Firenze per le dette due podestadi e per gli XXXVI, i grandi Ghibellini di Firenze, com'erano Uberti, e Fifanti, e Lamberti, e Scolari, e gli altri delle grandi case ghibelline, presono sospetto di parte, parendo loro che' detti XXXVI sostenessono e favorassono i Guelfi popolani ch'erano rimasi in Firenze, e ch'ogni novità fosse contro a parte. Per questa gelosia, e per la novella della vittoria del re Carlo, il conte Guido Novello mandò per genti a tutte l'amistà vicine, come furono Pisani, Sanesi, Aretini, Pistolesi, e Pratesi, e Volterrani, Colle, e Sangimignano, sì che con VIc Tedeschi ch'avea si trovarono in Firenze con MD cavalieri. Avenne che per pagare le masnade tedesche ch'erano col conte Guido Novello capitano della taglia, il quale volea che si ponesse una libbra di soldi X il centinaio, i detti XXXVI cercavano altro modo di trovare danari con meno gravezza del popolo, e per questa cagione aveano indugiato alquanti dì più che non parea al conte e agli altri grandi Ghibellini di Firenze; per lo sospetto preso per gli ordini fatti per lo popolo, i detti grandi ordinarono di mettere la terra a romore, e disfare l'oficio de' detti XXXVI col favore della grande cavalleria ch'avea il vicario in Firenze, e armatisi, i primi che cominciarono furono i Lamberti, che co·lloro masnadieri armati uscirono di loro case in Calimala, dicendo: "Ove sono questi ladroni de' XXXVI, che noi gli taglieremo tutti per pezzi?"; i quali XXXVI erano allora al consiglio insieme nella bottega ove i consoli di Calimala teneano ragione sotto casa i Cavalcanti in Mercato Nuovo. Sentendo ciò i XXXVI si partirono dal consiglio, e incontanente si levò la terra a romore, e serrarsi le botteghe, e ogni uomo fu a l'arme. Il popolo si ridusse tutto nella via larga di Santa Trinita, e messer Gianni de' Soldanieri si fece capo del popolo per montare inn-istato, non guardando al fine, che dovea riuscire a sconcio di parte ghibellina e suo dammaggio, che sempre pare sia avenuto in Firenze a chi s'è fatto capo di popolo; e così armati a piè di casa i Soldanieri s'amassarono i popolani in grandissimo numero, e feciono serragli a piè della torre de' Girolami. Il conte Guido Novello con tutta la cavalleria e con grandi Ghibellini di Firenze furono in arme e a cavallo in su la piazza di San Giovanni, e mossonsi per andare contro al popolo, e schierarsi a la 'ncontra del serraglio in su i calcinacci delle case de' Tornaquinci, e feciono vista e saggio di combattere, e alcuno Tedesco a cavallo si mise infra il serraglio; il popolo francamente si tenne difendendo colle balestra, e gittando dalle torri e case. Veggendo ciò il conte, che non poteano diserrare il popolo, volse le 'nsegne, e con tutta la cavalleria ritornò in su la piazza di San Giovanni, e poi venne al palagio nella piazza di San Pulinari, ov'erano le due podestadi, messer Catalano e messer Loderigo frati godenti, e tenea la cavalleria da porte San Piero infino a San Firenze. Il conte domandava le chiavi delle porti della città per partirsi della terra, e per tema non gli fosse gittato delle case; e per sua sicurtà si mise il conte dall'uno lato Uberto de' Pulci, e dall'altro Cerchio de' Cerchi, e di dietro Guidingo Savorigi, ch'erano de' detti XXXVI e de' maggiori della terra. I detti due frati gridando del palagio, e chiamando con grandi grida i detti Uberto e Cerchio ch'andassono a·lloro, acciò che pregassono il conte che·ssi tornasse all'albergo e non si dovesse partire, ch'eglino aqueterebbono il popolo, e farebbono che' soldati sarebbono pagati: il conte entrato in gelosia e in paura del popolo più che non gli bisognava, non si volle attendere, ma volle pur le chiavi delle porti, e ciò mostrò che fosse più opera di Dio che altra cagione; che quella cavalleria sì grande e possente non combattuti, non cacciati, né acommiatati, né forza di nimici non era contro a·lloro; che perché il popolo fosse armato e raunato insieme, erano più per paura che per offendere al conte e a sua cavalleria, e tosto sarebbono aquetati, e tornati a·lloro case, e disarmati. Ma quando è presto il giudicio di Dio è aparecchiata la cagione. Il conte avute le chiavi, essendo grande silenzio, fece gridare se v'erano tutti i Tedeschi: fu risposto di sì; appresso disse de' Pisani, e simile di tutte le terre della taglia, e risposto di tutti di sì, disse al suo banderaio che si movesse colle 'nsegne; e così fu fatto. E tennero la via larga da San Firenze, e dietro da Santo Piero Scheraggio, e da San Romeo alla porta vecchia de' Buoi, e quella fatta aprire, il conte con tutta sua cavalleria n'uscì, e tenne su per li fossi dietro a Sa·Jacopo, e dalla piazza di Santa Croce, ch'allora nonn avea case, e per lo borgo di Pinti; e in quello fu loro gittato de' sassi; e volsonsi per Cafaggio, e la sera se n'andarono in Prato; e ciò fu il dì di santo Martino, a dì XI di novembre, gli anni di Cristo MCCLXVI.
<B>XV</B>
<I>Come il popolo rimise i Guelfi in Firenze, e come poi ne cacciarono i Ghibellini.</I>
Giunto in Prato il conte Guido Novello con tutta sua cavalleria e con molti caporali ghibellini di Firenze, furono ravisati ch'egli aveano fatta gran follia a partirsi della città di Firenze sanza colpo di spada od essere cacciati; e parve loro avere mal fatto, e presono per consiglio di tornare a Firenze la mattina vegnente, e così feciono; e giunsono tutti armati e schierati in su l'ora di terza a la porta del ponte alla Carraia ov'è oggi il borgo d'Ognesanti, ch'allora non v'avea case, e domandarono che fosse loro aperta la porta. Il popolo di Firenze fu ad arme, e per tema che rientrando il conte colla sua cavalleria in Firenze non volesse fare vendetta, e correre la terra, s'accordarono di non aprire, ma di difendere la terra, la quale era molto forte di mura e di fossi pieni d'acqua alle cerchie seconde. E volendosi strignere alla porta, furono saettati e fediti; e dimorati infino dopo nona, né per lusinghe né per minacce non poterono tornare dentro. Si tornarono tristi e scornati a Prato, e tornando per cruccio diedono battaglia al castello di Capalle, e no·ll'ebbono. E venuti in Prato, ebbono tra·lloro di molti ripitii; ma dopo cosa male consigliata e peggio fatta invano è il pentere. I Fiorentini rimasi riformarono la terra, e mandarono fuori le dette due podestadi frati godenti di Bologna, e mandarono ad Orbivieto per aiuto di gente, e per podestà e capitano; i quali Orbitani mandarono C cavalieri alla guardia della terra: e messer Ormanno Monaldeschi fu podestà, e un altro gentile uomo d'Orbivieto ne fu capitano del popolo. E per trattato di pace il gennaio vegnente il popolo rimise in Firenze i Guelfi e' Ghibellini, e feciono fare tra·lloro più matrimonii e parentadi. Intra li quali questi furono i maggiorenti, che messer Bonaccorso Bellincioni degli Adimari diede per moglie a messer Forese suo figliuolo la figliuola del conte Guido Novello, e messer Bindo suo fratello tolse una degli Ubaldini, e messer Cavalcante de' Cavalcanti diede per moglie a Guido suo figliuolo la figliuola di messer Farinata degli Uberti, e messer Simone Donati diede la figliuola a messer Azzolino di messer Farinata degli Uberti; per gli quali parentadi gli altri Guelfi di Firenze gli ebbono tutti a sospetti a parte; e per la detta cagione poco durò la detta pace, ché tornati i detti Guelfi in Firenze, sentendosi poderosi della baldanza della vittoria ch'aveano avuta col re Carlo contro a Manfredi, segretamente mandarono in Puglia al detto re Carlo per gente e per uno capitano, il quale mandò il conte Guido di Monforte con VIIIm cavalieri franceschi; e giunse in Firenze il dì della Pasqua di Risoresso, gli anni di Cristo MCCLXVII. E sentendo i Ghibellini la sua venuta, la notte dinanzi uscirono di Firenze sanza colpo di spada, e andarsene a Siena, e chi a Pisa, e inn-altre castella. I Fiorentini guelfi diedono la signoria della terra al re Carlo per X anni; e mandatagli la elezione libera e piena con mero e misto imperio per solenni ambasciadori, lo re rispuose che de' Fiorentini volea il cuore e la loro buona volontà, e non altra giuridizione; tuttora a priego del Comune la prese simplicemente; al quale reggimento vi mandava d'anno in anno suoi vicarii e XII buoni uomini cittadini che col vicario reggeano la cittade. E puossi notare in questa cacciata de' Ghibellini che fu in quello medesimo dì di Pasqua di Risoresso ch'eglino aveano commesso il micidio di messere Bondelmonte de' Bondelmonti, onde si scoprirono le parti in Firenze, e se ne guastò la città; e parve che fosse giudicio d'Iddio, che mai poi non tornarono inn-istato.
<B>XVI</B>
<I>Come, cacciati i Ghibellini di Firenze, si riformò la città d'ordini e di consigli.</I>
Tornata parte guelfa in Firenze, e venuto il vicario overo podestà per lo re Carlo, che 'l primo fu messer...., e fatti XII buoni uomini a modo ch'anticamente faceano gli anziani che reggeano la repubblica, sì riformarono il consiglio di C buoni uomini di popolo, sanza la diliberazione de' quali nulla grande cosa né spesa si potea fare; e poi che per quello consiglio si vincesse, andava a partito a pallottole al consiglio delle capitudini dell'arti maggiori, e a quello della credenza, ch'erano LXXX. Questi consiglieri, che col generale erano CCC, erano tutti popolani e Guelfi: poi vinti a' detti consigli, convenia il dì seguente le medesime proposte rimettere al consiglio della podestà, ch'era il primo di LXXXX uomini grandi e popolani, e co·lloro ancora le capitudini dell'arti, e poi il consiglio generale, ch'erano CCC uomini d'ogni condizioni, e questi si chiamavano i consigli opportuni; e in quegli si davano le castellanerie, dignità, ufici piccoli e grandi; e ciò ordinato, feciono àrbitri, e corressono tutti statuti e ordinamenti, e ordinarono ogni anno si facessono. In questo modo s'ordinò lo stato e corso del Comune e del popolo di Firenze alla tornata de' Guelfi; e camerlenghi della pecunia feciono religiosi di Settimo e d'Ognesanti di sei in sei mesi.
<B>XVII</B>
<I>Come i Guelfi di Firenze ordinarono gli ordini di parte.</I>
In questi tempi, cacciati i Ghibellini di Firenze, i Guelfi che vi tornarono, avendo tra·lloro questioni per gli beni de' Ghibellini ribelli, sì mandarono loro ambasciadori a corte a papa Urbano e al re Carlo, che gli dovesse ordinare. Il quale papa Urbano e il re Carlo per loro stato e pace gli ordinarono in questo modo, che de' beni fossono fatte tre parti: l'una fosse del Comune; l'altra fu diputata per amenda de' Guelfi ch'erano stati disfatti e rubelli; l'altra fu diputata a la parte guelfa certo tempo; ma poi tutti i detti beni rimasono a la parte, onde ne cominciarono a·ffare mobile, e ogni dì il cresceano, per avere da dispendere quando bisognasse per la parte; del quale mobile, udendolo il cardinale Attaviano degli Ubaldini, disse: "Dapoi che' Guelfi di Firenze fanno mobile, già mai non vi tornano i Ghibellini". E feciono per mandato del papa e del re i detti Guelfi tre cavalieri rettori di parte, e chiamargli prima consoli de' cavalieri, e poi gli chiamarono capitani di parte; e durava il loro uficio due mesi, a tre sesti a tre sesti, e raunarsi a' loro consigli nella chiesa nuova di Santa Maria sopra Porta, per lo più comune luogo della città, e dov'ha più case guelfe intorno. E feciono loro consiglio segreto di XIIII, e il maggiore consiglio di LX grandi e popolani, per lo cui scruttino s'eleggessono i capitani di parte e gli altri uficiali. E chiamarono tre grandi e tre popolani priori di parte, i quali sono sopra l'ordine e guardia della moneta della parte, e uno che tenesse il suggello, e uno sindaco accusatore de' Ghibellini. E tutte loro segrete cose dipongono alla chiesa de' Servi Sante Marie. Per simili ordini e capitani feciono gli usciti ghibellini. Assai avemo detto degli ordini di parte, e torneremo a' fatti comuni, e altre cose.
<B>XVIII</B>
<I>Come il soldano de' Saracini prese Antioccia.</I>
Ne' detti tempi, gli anni di Cristo MCCLXVII, il soldano di Babbillonia con suo esercito de' Saracini corse e guastò quasi tutta l'Erminia, ch'erano e sono Cristiani; e poi si puose ad assedio alla città d'Antioccia, ch'era delle famose terre del mondo, e era de' Cristiani, e quella prese per forza del mese di maggio, e quanti Cristiani, uomini e femmine e fanciulli, v'erano dentro, furono morti e presi e menati per ischiavi, onde per tutta Cristianità n'ebbe grande dolore; ma per lo peccato per gli Cristiani s'intendea più alle guerre tra·lloro per le maladette parti, ch'al benificio comune di fare guerra co' Saracini.
<B>XIX</B>
<I>Come i Guelfi di Firenze presono il castello di Santellero con molti ribelli ghibellini.</I>
Nel detto anno di Cristo MCCLXVII, del mese di giugno, essendo di poco cacciata la parte ghibellina di Firenze, una gente de' detti Ghibellini, pur de' migliori e caporali, si rinchiusono co·lloro masnade nel castello di Santo Ellero, onde fu loro capitano messer Filippo da Quona, overo da Volognano, e cominciarono guerra a la città di Firenze. Per la qual cosa i Fiorentini guelfi v'andarono ad oste le due sestora, e andovvi il maliscalco del re Carlo con tutta la cavalleria de' Franceschi ch'erano co·llui, e per battaglia ebbono il detto castello, nel quale avea rinchiusi bene VIIIc uomini, che·lla maggiore parte furono morti e tagliati, e parte presi; e rimasonvi di quegli della casa degli Uberti, e de' Fifanti, e Scolari, e di quegli da Volognano, e di più altre case ghibelline uscite di Firenze, e loro seguaci, onde i Ghibellini ricevettono gran dammaggio, e allora perderono anche i Ghibellini Campi di Firacchi, e Gressa; e dicesi che uno giovane degli Uberti il quale era fuggito in sul campanile, veggendo che non potea scampare, per non venire a mano de' Bondelmonti suoi nemici, si gittò di sua volontà del campanile in terra, e morì. E Geti da Volognano fu menato preso con altri suoi consorti, e messo nella torre del palagio; e però poi sempre fu chiamata la Volognana.
<B>XX</B>
<I>Come molte città e terre di Toscana tornarono a parte guelfa.</I>
In quegli tempi che·lla città di Firenze tornò a parte guelfa, e furonne cacciati i Ghibellini, e venuto in Toscana il maliscalco del re Carlo, come adietro avemo fatta menzione, molte delle terre di Toscana tornarono a parte guelfa, e cacciarono i Ghibellini, come fu la città di Lucca, e di Pistoia, e Volterra, e Prato, e San Gimignano, e Colle, e feciono taglia co' Fiorentini, ond'era capitano il maliscalco del re Carlo con VIIIc cavalieri franceschi, e non rimase a parte ghibellina se non la città di Pisa e di Siena; e così in poco di tempo si rivolse lo stato in Toscana e in molte terre di Lombardia di tornare a parte guelfa e della Chiesa, ch'erano a parte ghibellina e d'imperio, per la sconfitta del re Manfredi e vittoria del re Carlo. E però non dee niuno porre fede o speranza in queste signorie e stati mondani, che sono dati a' tempi secondo la disposizione di Dio, e secondo i meriti o peccati delle genti; e questo vedemo per provati esempli, e in tra gli altri questo fu uno di quegli che fu assai visibile, che in poco di tempo essendo Toscana quasi tutte città e castella a parte ghibellina, e simile Lombardia, e quasi de' Guelfi non n'era ricordo, tornarono a parte guelfa.
<B>XXI</B>
<I>Come il maliscalco del re Carlo co' Fiorentini feciono oste a Siena, e come il re venne in Firenze, e prese Poggibonizzi.</I>
Nel detto tempo, del mese di luglio, gli anni di Cristo MCCLXVII, il maliscalco del re Carlo con sua gente e cavalleria di Firenze ricominciarono guerra a' Sanesi per l'offesa ricevuta a Monte Aperti, e imperciò ch'aveano ritenuti i Ghibellini usciti di Firenze, e favoreggiavagli, onde faceano guerra nel contado di Firenze, e andarono a oste sopra Siena. E stando ad oste sopra quello di Siena, gli usciti ghibellini di Firenze con masnade tedesche ch'erano in Siena e in Pisa, per trattato de' Ghibellini e terrazzani del castello di Poggibonizzi, entrarono nel detto castello di Poggibonizzi, il quale era al poggio molto forte. Per la qual cagione il detto maliscalco coll'oste si partì del contado di Siena, e infra il terzo dì si puose ad oste al detto castello di Poggibonizzi, e' Fiorentini vi cavalcarono per comune in mezzo luglio, e simigliante vi venne gente di tutte le terre di Toscana ch'erano a lega co' Fiorentini a parte guelfa, e isteccarlo intorno intorno, e con torri e difici di legname, acciò che la gente che v'erano rinchiusi dentro non ne potessono uscire né avere soccorso, e gittandovi dentro con molti difici. E essendo al detto assedio, lo re Carlo essendo fatto per lo papa e per la Chiesa generale vicario di Toscana, mentre che imperio vacasse, sì venne di Puglia in Toscana, e il presente mese di agosto con sua baronia entrò in Firenze, il quale da' Fiorentini fu ricevuto a grande onore come loro signore, andandogli incontro il carroccio e molti armeggiatori. E in Firenze soggiornò VIII dì, e fece più gentili uomini di Firenze cavalieri, e appresso in persona con tutta sua cavalleria volle andare nell'oste a Poggibonizzi, perché sentiva che' Pisani, e' Sanesi, e gli altri Ghibellini faceano grande raunata di gente a cavallo e a piè per soccorrere la gente ch'era assediata in Poggibonizzi; e al detto assedio si stette IIII mesi. Alla fine per difalta di vittuaglia il detto castello di Poggibonizzi s'arendé al re in mezzo dicembre MCCLXVII, salvi l'avere e le persone, giurando i forestieri e' terrazzani di non essergli mai incontro. E avuto il castello, vi soggiornò XV giorni, e misevi podestà, e fecevi cominciare una fortezza, ma non si compié poi, per molto affare del re e del Comune di Firenze.
<B>XXII</B>
<I>Come il re Carlo co' Fiorentini andarono a oste sopra la città di Pisa.</I>
Partito il re Carlo da oste da Poggibonizzi co' Fiorentini, sì cavalcarono sopra la città di Pisa, e prese molte castella con grande danno de' Pisani, e ebbe Porto Pisano, e fecelo disfare, e abattere le torri del porto. E poi del mese di febbraio, nel detto anno MCCLXVII, lo re Carlo andò a Lucca, e poi in servigio de' Lucchesi assediò il castello del Mutrone ch'era fortissimo di mura grossissime, e invano vi sarebbe stato assai, senno che fece vista di cavallo e di tagliarlo da piè, ma in sei mesi non se ne sarebbe venuto a fine; ma per ingegno e inganno la notte faceano recare calcinacci d'altra parte, e il dì lo faceano gittare fuori, mostrando che fosse del tagliamento del muro del castello, per la qual cosa quegli d'entro impauriti s'arenderono, salve le persone; e usciti del castello, e vedute le cave, s'avidono dello 'nganno. E avuto il re il detto castello, sì 'l donò a' Lucchesi.
<B>XXIII</B>
<I>Come il giovane Curradino figliuolo del re Currado venne d'Alamagna in Italia contro al re Carlo.</I>
Istando lo re Carlo in Toscana, i Ghibellini usciti di Firenze co' Pisani e' Sanesi sì feciono lega e compagnia, e ordinaro con don Arrigo di Spagna, il quale era sanatore di Roma, fatto già nemico del re Carlo suo cugino; e con certi baroni di Puglia e di Cicilia fece congiurazione e cospirazione di rubellargli certe terre di Cicilia e di Puglia, e di mandare in Alamagna, e fare sommuovere Curradino figliuolo che fu del re Currado figliuolo dello 'mperatore Federigo, che passasse in Italia per torre Cicilia e il Regno al re Carlo. E così fu fatto, che subitamente in Puglia si rubellò Nocera de' Saracini, e Aversa in Terra di Lavoro, e molte terre in Calavra, e in Abruzzi quasi tutte, se non fu l'Aguglia, e in Cicilia quasi tutta o gran parte dell'isola di Cicilia, se non fu Messina e Palermo. E don Arrigo rubellò Roma, e tutta Campagna, e 'l paese d'intorno; e' Pisani, e' Sanesi, e l'altre terre ghibelline gli mandarono di loro danari Cm fiorini d'oro per sommuovere il detto Curradino, il quale molto giovane, di XVI anni, si mosse d'Alamagna a contradio della madre, ch'era figliuola del duca d'Osteric, che per la sua giovanezza nol volea lasciare venire. E giunse a Verona del mese di febbraio, gli anni di Cristo MCCLXVII, con molta baronia e buona gente d'arme d'Alamagna in sua compagnia; e dicesi il seguiro infino a Verona presso a Xm uomini tra a cavallo e ronzini, e per necessità di moneta gran parte si tornò in Alamagna; ma de' migliori si ritenne da IIImD cavalieri tedeschi. E di Verona passò per Lombardia, per la via di Pavia venne nella riviera di Genova, e arrivò di là da Saona a la piaggia di Varagine, e ivi entrò in mare, e per la forza de' Genovesi co·lloro navilio di XXV galee passò per mare a Pisa, e là giunse di maggio MCCLXVIII, e da' Pisani e da tutti i Ghibellini d'Italia fu ricevuto a grande onore, quasi come imperadore. La sua cavalleria venne per terra passando le montagne di Pontriemoli, e arrivarono a Serrezzano, che si tenea per gli Pisani, e poi feciono la via della marina con iscorta infino a Pisa. Lo re Carlo sentendo come Curradino era passato in Italia, e sentendo la rubellazione delle sue terre di Cicilia e di Puglia fatta per gli baroni del Regno traditori, i quali i più avea lasciati di pregione, e per don Arrigo di Spagna, sì si partì incontanente di Toscana, e a grandi giornate n'andò in Puglia, e in Toscana lasciò messer Guiglielmo di Berselve suo maliscalco, e co·llui messer Guiglielmo lo Stendardo con VIIIc cavalieri franceschi e provenzali, per mantenere le città di Toscana a sua parte, e per contastare Curradino che non potesse passare. E sentendo papa Chimento la venuta di Curradino, sì gli mandò suoi messi e legati, comandando sotto pena di scomunicazione ch'egli non dovesse passare, né essere contra lo re Carlo campione e vicario di santa Chiesa. Il quale Curradino però non lasciò sua impresa, né volle obbedire i comandamenti del papa, parendogli avere giusta causa, e che 'l Regno e Cicilia fosse sua e di suo patrimonio; e però cadde in sentenzia di scomunicazione della Chiesa, la quale ebbe a dispetto, e poco curò; ma istando lui in Pisa, raunò moneta e genti, e tutti i Ghibellini e chi era di parte imperiale si ridusse a·llui, onde gli crebbe grandissima forza. E stando in Pisa, venne a oste sopra la città di Lucca, la quale si tenea per la parte di santa Chiesa, e eravi dentro il maliscalco del re Carlo con sua gente, e il legato del papa e della Chiesa, e colla forza de' Fiorentini e degli altri Guelfi di Toscana e di più gente di croce segnati, i quali per predicazione, e indulgenzia, e perdoni dati dal papa e da' suoi legati erano venuti contra Curradino. E stette sopra Lucca dieci dì a oste; e aboccarsi insieme per combattere le dette due osti a Pontetetto a due miglia presso di Lucca, ma non combattero, ma ciascuno schifò la battaglia, e era in mezzo la Guiscianella, e però si tornaro chi a Pisa e chi a Lucca.
<B>XXIV</B>
<I>Come il maliscalco del re Carlo fu sconfitto al ponte a Valle per la gente di Curradino.</I>
Poi si partì Curradino con sua gente di Pisa, e venne a Poggibonizzi, il quale come i terrazzani sentirono la venuta di Curradino in Pisa si rubellarono dal re Carlo e dal Comune di Firenze, e gli mandarono le chiavi infino a Pisa. E poi di Poggibonizzi n'andò in Siena, e da' Sanesi ricevuto a grande onore; e soggiornando in Siena, il maliscalco del re Carlo ch'avea nome, come detto avemo, messer Guiglielmo di Berselve, con sua gente si partì da Firenze il dì di santo Giovanni di giugno per andare ad Arezzo per impedire gli andamenti di Curradino; e da' Fiorentini furono scorti e acompagnati infino a Montevarchi e voleagli acompagnare infino ad Arezzo, sentendo il cammino dubbioso, e temendo d'aguato per lo contado d'Arezzo. Il detto maliscalco rendendosi di soperchio sicuro di sua gente, non volle più condotto di Fiorentini, inanzi al passare si mise messer Guiglielmo lo Stendardo con CCC cavalieri bene armati e in concio, e passò sano e salvo. Il maliscalco con Vc de' suoi cavalieri, non prendendosi guardia e sanza ordine, e i più di sua gente disarmata, si mise a passare, e quando giunse al ponte a Valle, ch'è in su l'Arno presso a Laterino, uscì loro adosso uno aguato della gente di Curradino, i quali sentendo l'andamento del detto maliscalco, erano partiti di Siena per lo condotto degli Ubertini e d'altri Ghibellini usciti di Firenze, e sopragiunti al detto ponte, i Franceschi non proveduti e sanza gran difesa furono sconfitti e morti, e presi la maggiore parte, e quegli che fuggirono verso il Valdarno nel contado di Firenze furono così presi e rubati come da' nimici; e il detto messer Guiglielmo maliscalco, e messer Amelio di Corbano, e più baroni e cavalieri, furono presi e menati in Siena a Curradino; e ciò fu il dì appresso la festa di san Giovanni, a dì XXV del mese di giugno, gli anni di Cristo MCCLXVIII. Della quale sconfitta e presura la gente del re Carlo e tutti quegli di parte guelfa ne sbigottirono molto, e Curradino e sua gente ne montarono in grande superbia e baldanza, e quasi aveano per niente i Franceschi; e sentendosi ciò nel Regno, si rubellarono assai terre al re Carlo. E ne' detti tempi il re Carlo era ad assedio alla città di Nocera de' Saracini in Puglia, la quale s'era rubellata, acciò che l'altre terre della marina di Puglia, che tutte erano sommosse, non gli si ribellassono.
<B>XXV</B>
<I>Come Curradino entrò in Roma, e poi con sua oste passò nel regno di Puglia.</I>
Soggiornato Curradino alquanto in Siena, sì n'andò a Roma, e da' Romani e da don Arrigo senatore fu ricevuto a grande onore a guisa d'imperadore, e in Roma fece sua raunata di gente e di moneta, e spogliò il tesoro di San Piero e d'altre chiese di Roma per fare danari, e trovossi in Roma con più di Vm cavalieri tra Tedeschi e Italiani con quegli di don Arrigo senatore, fratello del re di Spagna, ch'avea seco bene VIIIc buoni cavalieri spagnuoli. E sentendo Curradino che 'l re Carlo era a oste in Puglia alla città di Nocera, e molte delle terre e baroni del Regno erano rubellati, e dell'altre in sospetto, sì gli parve tempo accettevole d'entrare nel Regno, e partissi da Roma a dì X d'agosto, gli anni di Cristo MCCLXVIII, col detto don Arrigo e con sua compagnia e baronia, e con molti Romani; e non fece la via di Campagna, però che seppe che 'l passo da Cepperano era guernito e guardato: sì non si volle mettere alla contesa, ma fece la via delle montagne tra l'Abruzzi e Campagna per Valle di Celle, ove non avea guardie né guernigione, e sanza niuno contasto passò e arrivò nel piano di San Valentino nella contrada detta Tagliacozzo.
<B>XXVI</B>
<I>Come l'oste di Curradino e quella del re Carlo s'affrontarono per combattere a Tagliacozzo.</I>
Lo re Carlo sentendo come Curradino era partito di Roma con sua gente per entrare nel Regno, si levò da oste da Nocera, e con tutta sua gente a grandi giornate venne incontro a Curradino, e alla città dell'Aquila in Abruzzi attese sua gente. E stando lui nell'Aquila, e tenendo consiglio cogli uomini della terra, amonendogli fossono fedeli e leali, e fornissono l'oste, uno savio villano e antico si levò, e disse: "Re Carlo, non tenere più consigli, e non schifare uno poco di fatica, acciò che tu ti possi riposare sempre; togli ogni dimoranza, e va' contra il nimico, e nol lasciare prendere più campo, e noi ti saremo leali e fedeli". Lo re udendosi sì saviamente consigliare, sanza nullo indugio o più parole di là si partìo per la via traversa delle montagne, e acozzossi assai di presso all'oste di Curradino nel luogo e piano di San Valentino, e nonn-avea in mezzo se non il fiume del... Lo re Carlo avea di sua gente, tra Franceschi e Provenzali e Italiani, meno di IIIm cavalieri, e veggendo che Curradino avea troppa più gente di lui, per lo consiglio del buon messere Alardo di Valleri, cavaliere francesco di grande senno e prodezza, il quale di quegli tempi era arrivato in Puglia tornando d'oltremare dalla Terrasanta, sì disse al re Carlo se volesse essere vincitore gli convenia usare maestria di guerra più che forza. Il re Carlo confidandosi molto nel senno del detto messer Alardo, al tutto gli commise il reggimento dell'oste e della battaglia; il quale ordinò della gente del re tre schiere, e dell'una fece capitano messer Arrigo di Cosance, grande di persona e buono cavaliere d'arme: questi fu armato colle sopransegne reali in luogo della persona de·re, e guidava Provenzali, e Toscani, e Lombardi, e Campagnini. L'altra schiera furono de' Franceschi, onde furono capitani messer Gianni di Crarì e messer Guiglielmo lo Stendardo. E mise i Provenzali a la guardia del ponte del detto fiume, acciò che l'oste di Curradino non potesse passare sanza disavantaggio della battaglia. Il re Carlo col fiore della sua baronia, di quantità di VIIIc cavalieri, fece riporre in aguato dopo uno colletto in una vallea, e col re Carlo rimase il detto messer Alardo di Valleti con messer Guiglielmo di Villa, e Arduino prenze della Morea, cavaliere di grande valore. Curradino dall'altra parte fece di sua gente tre schiere: l'una de' Tedeschi, ond'egli era capitano col dogi d'Osteric, e con più conti e baroni; l'altra degl'Italiani, onde fece capitano il conte Calvagno con alquanti Tedeschi; l'altra fu di Spagnuoli, ond'era capitano don Arrigo di Spagna loro signore. In questa stanza, l'una oste appetto a l'altra, i baroni del Regno ribelli del re Carlo fittiziamente, per fare isbigottire lo re Carlo e sua gente, feciono venire nel campo di Curradino falsi ambasciadori molto parati, con chiavi in mano e con grandi presenti, dicendo ch'egli erano mandati dal Comune dell'Aquila per dargli le chiavi e signoria della terra, sì come suoi uomini e fedeli, acciò che gli traesse della tirannia del re Carlo. Per la qual cosa l'oste di Curradino e egli medesimo, stimando fosse vero, feciono grande allegrezza; e sentito ciò nell'oste del re Carlo, n'ebbe grande isbigottimento, temendo non fallisse loro la vittuaglia che veniva loro di quella parte, e l'aiuto di quegli dell'Aquila. Lo re medesimo sentendo ciò, n'entròe in tanta gelosia, che di notte tempore si partì con pochi dell'oste in sua compagnia, e venne all'Aquila la notte medesima, e faccendo domandare le guardie delle porte per cui si tenea la terra, rispuosono: "Per lo re Carlo"; il quale entrato dentro sanza ismontare de' cavagli, amonitigli di buona guardia, incontanente tornò all'oste, e fuvi la mattina a buona ora, e per l'affanno dell'andare e tornare la notte lo re Carlo dall'Aquila si posava e dormiva.
<B>XXVII</B>
<I>Come Curradino e sua gente furono sconfitti dal re Carlo.</I>
Curradino e sua oste avendo vana speranza che l'Aquila fosse ribellata al re Carlo, con grande vigore e grida, fatte le sue schiere, si strinse a valicare il passo del fiume per combattere col re Carlo. Lo re Carlo, con tutto si posasse, come detto avemo, sentendo il romore de' nimici, e com'erano inn-arme per venire a la battaglia, incontanente fece armare e schierare sua gente per l'ordine e modo che dinanzi facemmo menzione. E stando la schiera de' Provenzali, la quale guidava messer Arrigo di Consancia, alla guardia del ponte, contastando a don Arrigo di Spagna e a sua gente il passo, gli Spagnuoli si misono a passare il guado della riviera ch'era assai piccolo, e incominciarono a inchiudere la schiera de' Provenzali, che difendeano il ponte. Curradino e l'altra sua oste veggendo passati gli Spagnuoli, si mise a passare il fiume, e con grande furore assaliro la gente del re Carlo, e in poca d'ora ebbono barattati e sconfitti la schiera de' Provenzali; e 'l detto messer Arrigo di Consancia colle 'nsegne del re Carlo abattute, e egli morto e tagliato; credendosi don Arrigo e' Tedeschi avere la persona del re Carlo, perché vestiva le sopransegne reali, tutti gli s'agreggiarono adosso. E rotta la detta schiera de' Provenzali, simile feciono di quella de' Franceschi e degl'Italiani, la quale guidava messer Gianni di Crarì, e messer Guiglielmo lo Stendardo, però che·lla gente di Curradino erano per uno due che quegli del re Carlo, e fiera gente e aspra in battaglia: e veggendosi la gente del re Carlo così malmenare, si misono in fugga e abandonarono il campo. I Tedeschi si credettero avere vinto, che non sapeano dell'aguato del re Carlo, si cominciarono a spandere per lo campo, e intendere a la preda e alle spoglie. Lo re Carlo era in sul colletto di sopra alla valle, dov'era la sua schiera, con messer Alardo di Valleri e col conte Guido di Monforte per riguardare la battaglia, e veggendo la sua gente così barattare, prima l'una schiera e poi l'altra, e venire in fugga, moria a dolore, e volea pure fare muovere la sua schiera per andare a soccorrere i suoi. Messer Alardo, maestro dell'oste e savio di guerra, con grande temperanza e con savie parole ritenne assai lo re, dicendo che per Dio sì sofferisse alquanto, se volesse l'onore della vittoria, però che conoscea la covidigia de' Tedeschi, come sono vaghi delle prede, per lasciargli più spartire dalle schiere, e quando gli vide bene sparpagliati, disse al re: "Fa' muovere le bandiere, ch'ora è tempo"; e così fu fatto. E uscendo la detta schiera della valle, Curradino né' suoi non credeano che fossono nimici, ma che fossono di sua gente, e non se ne prendeano guardia. E vegnendo lo re con sua gente stretti e serrati, al diritto se ne vennero ov'era la schiera di Curradino co' maggiori di suoi baroni, e quivi si cominciò la battaglia aspra e dura, con tutto che poco durasse, però che·lla gente di Curradino erano lassi e stanchi per lo combattere, e non erano tanti cavalieri schierati ad assai quanti quegli del re, e sanza ordine di battaglia, però che·lla maggiore parte di sua gente, chi era cacciando i nemici, e chi ispartito per lo campo per guadagnare preda e pregioni, e la schiera di Curradino per lo improviso assalto de' nimici tuttora scemava, e quella del re Carlo tuttora cresceva per gli primi di sua gente ch'erano fuggiti della prima sconfitta, conoscendo le 'nsegne del re si metteano in sua schiera, sicché in poca d'ora Curradino e sua gente furono sconfitti. E quando Curradino s'avide che·lla fortuna della battaglia gli era incontro, e per consiglio de' suoi maggiori baroni, si mise alla fugga egli, e 'l dogi d'Osteric, e il conte Calvagno, e il conte Gualferano, e 'l conte Gherardo da Pisa, e più altri. Messere Alardo di Valleri veggendo fuggire i nimici, con grandi grida dice e pregava lo re e' capitani della schiera non si partissono né seguissono caccia de nimici né altra preda, temendo che·lla gente di Curradino non si ranodasse, o niuno aguato uscisse fuori, ma stessono fermi e schierati in sul campo; e così fu fatto. E venne bene a bisogno, che don Arrigo co' suoi Spagnoli e altri Tedeschi i quali aveano seguita la caccia de' Provenzali e Italiani, i quali aveano prima sconfitti per una valle, e non aveano veduta la battaglia del re Carlo e la sconfitta di Curradino, alla ricolta che fece di sua gente, e ritornando al campo, veggendo la schiera del re Carlo, credette che fosse Curradino e sua gente; sì scese il colle dov'era ricolto per venire a' suoi, e quando si venne appressando conobbe le 'nsegne de' nimici, e come ingannato si tenne confuso; ma com'era valente signore, si strinse a schiera, e serrò colla sua gente per tale modo che 'l re Carlo e' suoi, i quali per l'afanno della battaglia erano travagliati, non s'ardirono di fedire alla schiera di don Arrigo, e per non recare in giuoco vinto a partito stavano aringati l'una schiera appetto a l'altra buona pezza. Il buono messer Alardo veggendo ciò, disse al re che bisognava di fargli dipartire da schiera per rompergli: lo re gli commise facesse a suo senno. Allora prese de' migliori baroni della schiera del re da XXX in XL, e uscirono della schiera faccendo sembianti che per paura si fuggissono, siccome gli avea amaestrati. Gli Spagnuoli veggendogli con più delle bandiere di quegli signori si metteano in volta e in vista di fuggire, con vana speranza cominciarono a gridare: "E' sono in fugga!", e cominciarono a dipartirsi da schiera e volergli seguire. Lo re Carlo veggendo schiarire e aprire la schiera degli Spagnuoli e altri Tedeschi, francamente si misono a fedire tra·lloro; e messer Alardo co' suoi saviamente si raccolsono e tornarono alla schiera. Allora fu la battaglia aspra e dura; ma gli Spagnuoli erano bene armati, per colpi di spade non gli poteano aterrare, e spesso al loro modo si rannodavano insieme. Allora i Franceschi cominciarono con gridare ad ire, e a prendelli a braccia, e abattergli de' cavagli a modo de' torniamenti; e così fu fatto, per modo che in poca d'ora gli ebbono rotti, e sconfitti, e messi in fugga, e molti ve ne rimasono morti.
Don Arrigo con assai de' suoi si fuggì in Montecascino, e diceano che 'l re Carlo era sconfitto. L'abate ch'era signore di quella terra conobbe don Arrigo, e a' segnali di loro com'erano fuggiti, sì fece prendere lui e gran parte di sua gente. Lo re Carlo con tutta sua gente rimasono in sul campo armati e a cavallo infino alla notte per ricogliere i suoi e per avere de' nemici piena e sicura vittoria. E questa sconfitta fu la vilia di santo Bartolomeo a dì XXIII d'agosto, gli anni di Cristo MCCLXVIII. E in quello luogo fece poi fare lo re Carlo una ricca badia per l'anime della sua gente morta, che si chiama Santa Maria della Vittoria, nel piano di Tagliacozzo.
<B>XXVIII</B>
<I>Della avisione ch'avenne a papa Chimento della sconfitta di Curradino.</I>
Avenne grande maraviglia che, essendo stata la detta sconfitta di Curradino, la vilia di santo Bartolomeo, e era già notte anzi che 'l certo si sapesse a cui fosse rimaso il campo colla vittoria, per le molte riprese e variazioni ch'ebbe la detta battaglia, la mattina per tempo vegnente della festa di santo Bartolomeo, essendo papa Chimento in Viterbo, e sermonava, e vegnendoli subitamente uno pensiero per lo quale parve al popolo che contemplasse uno buono pezzo lasciando la materia del sermone, levato della detta contemplazione disse: "Correte, correte alle strade a prendere i nimici di santa Chiesa, che sono sconfitti e morti"; e della detta sconfitta nulla novella né messo era venuto al papa, né potea venire in così corto spazio di tempo come una notte, però che da Viterbo al luogo dove fu la battaglia avea più di C miglia; e fu l'altro giorno, inanzi che nullo messaggio ne venisse in corte; ma di certo si disse per gli savi che in corte erano che il papa l'ebbe per ispirazione divina, e egli era uomo di santa vita.
<B>XXIX</B>
<I>Come Curradino con certi suoi baroni furono presi dal re Carlo, e fece loro tagliare la testa.</I>
Curradino col dogio d'Ostaric e con più altri, i quali del campo erano fuggiti co·llui, sì arrivarono alla piaggia di Roma in su la marina a una terra ch'ha nome Asturi, ch'era degl'Infragnipani di Roma, gentili uomini; e in quella arrivati, feciono armare una saettia per passare in Cicilia, credendo scampare dal re Carlo, e in Cicilia, che era quasi tutta rubellata a lo re, ricoverare suo stato e signoria. Essendo loro già entrati in mare sconosciuti nella detta barca, uno de' detti Infragnipani ch'era in Asturi, veggendo ch'erano gran parte Tedeschi, e begli uomini, e di gentile aspetto, e sappiendo della sconfitta, sì s'avisò di guadagnare e d'esser ricco, e però i detti signori prese; e saputo di loro esser, e com'era tra quegli Curradino, sì gli menò al re Carlo pregioni, per gli quali lo re gli donò terra e signoraggio a la Pilosa, tra Napoli e Benevento. E come lo re ebbe Curradino e que' signori in sua balia, prese suo consiglio quello ch'avesse a·ffare. Alla fine prese partito di fargli morire, e fece per via di giudicio formare inquisizione contro a·lloro, come a traditori della corona e nemici di santa Chiesa; e così fu fatto; che a dì.... fu dicollato Curradino, e 'l duca d'Osteric, e 'l conte Calvagno, e 'l conte Gualferano, e 'l conte Bartolomeo e due suoi figliuoli, e 'l conte Gherardo de' conti da Doneratico di Pisa in sul mercato di Napoli lungo il ruscello dell'acqua che corre di contra alla chiesa de' frati del Carmino; e non sofferse il re che fossono soppelliti in luogo sacro, ma in su il sabbione del mercato, perch'erano scomunicati. E così in Curradino finì il legnaggio della casa di Soave, che fu in così grande potenzia d'imperadori e di re, come adietro è fatta menzione. Ma di certo si vede per ragione e per isperienza che chiunque si leva contra santa Chiesa e è scomunicato conviene che·lla fine sia rea per l'anima e per lo corpo; e però è sempre da temere la sentenza della scomunicazione di santa Chiesa giusta o ingiusta, che assai aperti miracoli ne sono stati, chi legge l'antiche croniche, e per questa il può vedere per gl'imperadori e signori passati, che furono ribelli e persecutori di santa Chiesa. Della detta sentenzia lo re Carlo ne fu molto ripreso, e dal papa, e da' suoi cardinali, e da chiunque fu savio, però ch'egli avea preso Curradino e' suoi per caso di battaglia, e non per tradimento, e meglio era a tenerlo pregione che farlo morire. E chi disse che 'l papa l'asentì; ma non ci diamo fede, perch'era tenuto santo uomo. E parve che·lla innocenzia di Curradino, ch'era di così giovane etade a giudicarlo a morte, Iddio ne mostrasse miracolo contra lo re Carlo, che non molti anni appresso Iddio gli mandò di grandi aversitadi quando si credea essere in maggiore stato, sì come innanzi nelle sue storie faremo menzione. Al giudice che condannò Curradino Ruberto figliuolo del conte di Fiandra, genero del re Carlo, com'ebbe letta la condannagione, gli diede d'uno stocco, dicendo ch'a·llui nonn-era licito di sentenziare a morte sì grande e gentile uomo; del quale colpo il giudice, presente lo re, morì, e non ne fu parola, però che Ruberto era molto grande apo lo re, e parve al re e a tutti i baroni ch'egli avesse fatto come valente signore. Don Arrigo di Spagna, il quale era de' pregioni del re, però ch'egli era suo cugino carnale, e perché l'abate di Montecascino che·ll'avea dato preso al re, per non essere inregolare, per patti l'avea dato che nol farebbe morire, nol fece giudicare il re a morte, ma condannollo a perpetuale carcere, e mandollo in pregione al castello del Monte Sante Marie in Puglia; molti degli altri baroni di Puglia e d'Abruzzi ch'erano stati contro a lo re Carlo e suoi ribelli fece morire con diversi tormenti.
<B>XXX</B>
<I>Come lo re Carlo raquistò tutte le terre di Cicilia e di Puglia che gli s'erano rubellate.</I>
Lo re Carlo avuta la vittoria contra Curradino, tutte le terre del regno di Puglia ch'erano rubellate s'arrenderono al re sanza contasto; e molti de' caporali ribelli che·ll'aveano ribellate gli fece morire di mala morte. E in Cicilia mandò incontanente il conte Guido di Monforte, e messer Filippo suo fratello, e messer Guiglielmo di Belmonte, e messer Guiglielmo lo Stendardo, suoi baroni, con grande armata di galee e con grande compagnia di cavalieri franceschi e provenzali per racquistare le terre dell'isola, le quali quasi tutte s'erano rubellate dal re, salvo che Messina e Palermo; ed erane capitano uno messer Currado, detto Caputo overo d'Antioccia, de' discendenti dello 'mperadore Federigo, il quale con suo seguito de' rubelli mantenea le terre rubellate contro al re Carlo, e fecegli grande guerra. Ma come i detti signori furono in Cicilia, e per la vittoria che 'l re avea avuta contra Curradino, molte delle terre s'arrenderono a' detti signori, e assediarono il detto Currado nel castello di Santo Orbe, il quale per assedio vinsono, e 'l detto Currado presono, e feciongli cavare gli occhi, e poi il feciono impiccare. E morto il detto Currado e i più de' caporali rubelli suoi seguaci, tutte le terre dell'isola furono all'ubidenza del re Carlo. E ciò fatto, riformò il reame di Cicilia e di Puglia in buono e pacifico stato, e guidardonò i suoi baroni che·ll'aveano servito di terre e di signoraggi. Lasceremo alquanto de' fatti del re Carlo, e torneremo a nostra materia de' fatti di Firenze.
<B>XXXI</B>
<I>Come i Fiorentini sconfissono i Sanesi a piè di Colle di Valdelsa.</I>
Gli anni di Cristo MCCLXVIIII, del mese di giugno, i Sanesi, ond'era governatore messer Provenzano Salvani di Siena, col conte Guido Novello, colle masnade de' Tedeschi e di Spagnuoli, e cogli usciti ghibellini di Firenze e dell'altre terre di Toscana, e colla forza de' Pisani, i quali erano in quantità di MCCCC cavalieri e da VIIIm pedoni, sì vennono ad oste al castello di Colle di Valdelsa, il quale era alla guardia de' Fiorentini; e ciò feciono, perché i Fiorentini il maggio dinanzi erano venuti a oste e guastare Poggibonizzi. E postosi a campo a la badia a Spugnole, e venuta la novella in Firenze il venerdì sera, il sabato mattina messer Giambertaldo vicario del re Carlo per la taglia di Toscana si partì di Firenze colle sue masnade, il quale allora avea in Firenze da IIIIc cavalieri franceschi; e sonando la campana, i Guelfi di Firenze seguendolo a cavallo e a piedi, giunsono in Colle la cavalleria la domenica sera, e trovarsi intorno di VIIIc cavalieri, o meno, con poco popolo, però che così tosto come i cavalieri non poterono giugnere a Colle. Avenne che i·lunedì mattina vegnente, il dì di santo Bartolomeo di giugno, sentendo i Sanesi la venuta della cavalleria di Firenze, si levarono da campo dalla detta badia per recarsi in più salvo luogo. Messer Giambertaldo veggendogli mutare il campo, sanza attendere più gente, passò colla cavalleria ch'avea il ponte, e schierata sua gente colla cavalleria di Firenze, e quello popolo che v'era giunto, e' Colligiani (ma per la sùbita venuta de' Fiorentini nullo ordine aveano di capitani d'oste, né d'insegna del Comune), e prendendo messer Giambertaldo la 'nsegna del Comune di Firenze, e richeggendo i cavalieri di Firenze che v'erano di tutte le case guelfe, ch'alcuno di loro la prendesse, e nullo si movea a prenderla, o per viltà o per gara l'uno dell'altro, e stato gran pezza alla contesa, messer Aldobrandino della casa de' Pazzi francamente si trasse avanti e disse: "Io la rendo a l'onore d'Iddio, e di vittoria del nostro Comune"; onde fu molto comendato in franchezza, e incontanente mosse, e tutta la cavalleria seguendolo, e francamente percosse alla schiera de' Sanesi; e tutto che non fosse tenuta troppo savia e proveduta capitaneria di guerra, come ardita e franca gente, bene aventurosamente, come piacque a·dDio, ruppono e sconfissono i Sanesi e loro amistà, ch'erano quasi due cotanti cavalieri e popolo grandissimo, onde molti ne furono morti e presi; e se dalla parte de' Fiorentini fossono giunti e stati alla battaglia i loro pedoni, non ne campava quasi niuno de' Sanesi. Il conte Guido Novello si fuggì, e messer Provenzano Salvani signore e guidatore dell'oste de' Sanesi fu preso, e tagliatogli il capo, e per tutto il campo portato fitto in su una lancia. E bene s'adempié la profezia e revelazione che gli avea fatta il diavolo per via d'incantesimo, ma no·lla intese; ch'avendolo fatto costrignere per sapere come capiterebbe in quella oste, mendacemente rispuose, e disse: "Anderai e combatterai, vincerai non, morrai alla battaglia, e la tua testa fia la più alta del campo"; e egli credendo avere la vittoria per quelle parole, e credendo rimanere signore sopra tutti, non fece il punto alla fallace, ove disse: "Vincerai no, morrai etc."; e però è grande follia a credere a sì fatto consiglio come quello del diavolo. Questo messer Provenzano fu grande uomo in Siena al suo tempo dopo la vittoria ch'ebbono a Monte Aperti, e guidava tutta la città, e tutta parte ghibellina di Toscana facea capo di lui, e era molto presentuoso di sua volontà. In questa battaglia si portò il detto messere Giambertardo come valente signore in pugnare contro a' nimici, e simigliantemente la sua gente, e tutti Guelfi di Firenze, faccendo grande uccisione de' nimici per vendetta di loro parenti e amici che rimasono alla sconfitta a Monte Aperti; quasi nullo o pochi ne menarono a pregioni, ma gli misono a morte e alle spade; onde la città di Siena, a comparazione del suo popolo, ricevette maggiore danno de' suoi cittadini in questa sconfitta, che non fece Firenze a quella di Monte Aperti, e lasciarvi tutto il loro arnese. Per la qual cosa, poco tempo appresso, i Fiorentini rimisono in Siena i Guelfi usciti, e cacciarne i Ghibellini, e pacificarsi l'uno Comune coll'altro, rimagnendo poi sempre amici e compagni. E in questo modo ebbe fine la guerra tra' Fiorentini e' Sanesi, che tanto tempo era durata.
<B>XXXII</B>
<I>Come i Fiorentini presono il castello d'Ostina in Valdarno.</I>
Nel detto anno, del mese di settembre, essendo rubellato il castello d'Ostina in Valdarno, e entrativi i Ghibellini usciti di Firenze co' Pazzi di Valdarno, i Fiorentini v'andarono ad oste, e stettonvi infino a l'ottobre, e per difalta di vittuaglia non potendosi più tenere, e quegli d'entro uscendone una notte, furono quasi tutti morti e presi, e' Fiorentini ebbono il castello e disfeciollo.
<B>XXXIII</B>
<I>Come i Fiorentini in servigio de' Lucchesi andarono a oste sopra Pisa.</I>
Partita l'oste de' Fiorentini da Ostina, i Fiorentini con messer Giambertaldo maliscalco del re Carlo, in servigio de' Lucchesi andarono ad oste a Castiglione di Valdiserchio, e poi infino alle mura di Pisa, e presono il castello d'Asciano per forza; e' Lucchesi, per ricordanza e vergogna de' Pisani, presso alla città di Pisa feciono battere loro moneta e tornarono sani e salvi.
<B>XXXIV</B>
<I>Come fu grande diluvio d'acqua, e rovinarono il ponte a Santa Trinita e quello dalla Carraia.</I>
Nel detto anno MCCLXVIIII, la notte di calen di ottobre fu sì grande diluvio di pioggia d'acqua da cielo col continuo piovere due notti e uno dì, che tutti i fiumi d'Italia crebbono più che crescessono mai; e 'l fiume Arno uscì de' suoi termini sì disordinatamente, che gran parte della città di Firenze allagò, e ciò fu la cagione per più legname che 'l fiume menava, il quale ristette e s'atraversò al piè del ponte a Santa Trinita per modo che l'acqua del fiume ringorgava sì adietro che si spandea per la città, onde molte persone annegarono e molte case rovinarono. Alla fine fu sì forte l'empito del corso del fiume, che fece rovinare il detto ponte di Santa Trinita, e ancora per lo sgorgare di quello l'empito dell'acqua e del legname percosse e fece rovinare quello dalla Carraia: e come furono rovinati e caduti, l'altezza del corso del fiume, ch'era per lo detto ringorgamento e rattenuta, rabassò, e cessò la piena dell'acqua ch'era sparta per la cittade.
<B>XXXV</B>
<I>Come a certi nobili ribelli di Firenze furono tagliate le teste.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXX, fatto l'accordo e pace tra 'l Comune di Firenze e quello di Siena, e rimessivi i Guelfi, e cacciatine i Ghibellini, messer Azzolino e Neracozzo e Conticino della casa degli Uberti, e messer Bindo de' Grifoni da Fegghine rubelli di Firenze, co·lloro compagnia partendosi da Siena per andarsene in Casentino, furono presi e menati in Firenze, e scritto in Puglia al re Carlo quello ch'a·llui piacesse se ne facesse; il quale per sua lettera mandò a messer Bernardo d'Ariano, podestà per lo re in Firenze, che sì come traditori della corona fossono giudicati: a' quali fue loro tagliate le teste il dì di santo Michele di maggio. E la mattina, quando s'andavano a giudicare, Neracozzo domandò messer Azzolino: "Ove andiamo noi?". Rispuose il cavaliere: "A pagare uno debito che·cci lasciarono i nostri padri"; salvo che Conticino, il quale, perch'era giovane, fu mandato nel Regno preso, e morì in pregione nelle torri di Capova.
<B>XXXVI</B>
<I>Come i Fiorentini presono il castello di Piano di Mezzo in Valdarno, e come disfeciono Poggibonizzi.</I>
Nel detto anno, del mese di giugno, i Fiorentini andarono ad assedio al castello di Piano di Mezzo, ch'era de' Pazzi di Valdarno, rubellato per loro e per gli usciti di Firenze contra il Comune di Firenze, il quale per assedio s'arrendé a patti, salve le persone, i quali se n'uscirono fuori; e' Fiorentini ebbono il castello, e feciollo abattere e disfare; e simile il castello di Ristuccioli de' Pazzi, ch'era molto forte castello. E ciò fatto, e tornato l'oste de' Fiorentini in Firenze, i Fiorentini cavalcarono a Poggibonizzi, e feciono abattere e disfare tutto il castello, e recare a borgo al piano con licenza del re Carlo; però che nulla convenenza, che promisono per gli patti al re Carlo e Comune di Firenze, non voleano attenere, e sempre riteneano i ribelli di Firenze, e aveano lega colle terre ghibelline di Toscana. Questo Poggibonizzi fu il più bello castello, e de' più forti d'Italia, e posto quasi nel bilico di Toscana, e era con belle mura e torri, e con molte belle chiese, e pieve, e ricca badia, e con bellissime fontane di marmo, e acasato e abitato di genti com'una buona città; ma per la loro superbia, però che·ssi voleano essere per loro sì come castello d'imperio, e contastare il Comune di Firenze, fue abattuto e toltogli ogni giurisdizione.
<B>XXXVII</B>
<I>Come lo re Luis di Francia fece il passaggio a Tunisi nel quale morìo.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXX il buono Luis re di Francia, il quale era cristianissimo e di santa vita e opere, non tanto quanto s'appartiene a secolare, essendo re di sì grande reame e potenzia, ma come religioso, sempre operando in favore di santa Chiesa e della Cristianitade, e nonn ispaventandosi delle grandi fatiche e spendio, il quale fece al passaggio d'oltremare, quando egli e' frategli furono presi alla Monsura de' Saracini, come addietro facemmo menzione, come piacque a·dDio si puose in cuore d'andare ancora sopra i Saracini e nimici de' Cristiani; e così con grande effetto e opera mise a seguizione, prendendo la croce, e raunando tesoro, e sommovendo tutta la baronia, e cavalieri, e buona gente di suo reame. E ciò fatto, si mosse di Parigi, e andonne in Proenza, e di là con grande navilio si partì del suo porto dell'Agua Morta in Proenza con tre suoi figliuoli, Filippo, Gianni, e Luis, e col re di Navarra suo genero, e con tutti caporali suoi, conti, duchi, e baroni del reame di Francia, e fuori del reame suoi amici. E per la sua andata il seguì poi Adoardo figliuolo del re d'Inghilterra con molti Inghilesi, e Scotti, e Fresoni, e Alamanni, di più di XVm cavalieri, il quale stuolo, e croceria fu quasi d'inumerabile gente a cavallo e a piede, e stimarsi CCm d'uomini da battaglia. E credendo prendere il migliore, si diliberarono d'andare sopra il regno di Tunisi, avisandosi se quello si prendesse per gli Cristiani, era in parte molto mediata da potere più leggermente prendere poi il regno d'Egitto, e da tagliare, e al tutto impedire la forza de' Saracini del reame di Setta, e eziandio quello di Granata. E passò il detto stuolo sani e salvi co·lloro navilio, e arrivarono al porto dell'antica città di Cartagine, ch'è di lungi da Tunisi da XV miglia, e quella Cartagine, ch'alcuna parte n'era rifatta e afforzata per gli Saracini per la guardia del porto, per gli Cristiani fu assai tosto presa per forza. E volendo andare la detta oste alla città di Tunisi, come piacque a Dio, per le peccata de' Cristiani si cominciò una grande corruzzione d'aria in quelle marine, e massimamente nell'oste de' Cristiani non costumati all'aria, e per gli disagi, e per lo soperchio di gente, e delle bestie; per la qual cosa prima vi morì Gianni figliuolo del detto re Luis, e poi il cardinale d'Albano, che v'era per lo papa, e poi infermò e morì il detto buono re Luis con grandissima quantità di conti e di baroni, e infinita gente di popolo vi morirono. Onde la Cristianità ricevette grandissimo danno, e la detta oste fu quasi tutta scerrata, e venuta quasi al niente, sanza colpo de' nimici. E come il detto re Luis non bene aventurato fosse nelle dette imprese sopra i Saracini, ma per la sua anima bene aventuroso morisse, lo re di Navarra ch'era presente al cardinale Toscolano per sue lettere lo scrisse, che nella sua infermità non cessava di lodare Idio, e ispesso dicendo questa orazione: "Fa' noi, Signore, le cose prosperevoli del mondo avere in odio, e nessuna aversità temere". Ancora adorava per lo popolo il quale ave' menato seco, dicendo: "Sia, Signore, del popolo tuo santificatore e guardiano"; e l'altre parole che seguitano alla detta orazione. E alla fine quando venne a morte, levò gli occhi a cielo, e disse: "Introibo in domum tuam, adorabo ad templum santum tuum, et confitebor nomini tuo"; e ciò detto, morì in Cristo. E sentendo la sua morte la sua oste fu molto turbata, e' Saracini molto rallegrati; ma in questo dolore fu fatto Filippo suo figliuolo re di Francia; e lo re Carlo fratello del detto re Luis, il quale egli vivendo ave' mandato per lui, venne di Cicilia, e arrivò a Cartagine con grande navilio e con molta gente e rinfrescamento, onde l'oste de' Cristiani riprese grande vigore, e' Saracini paura. E con tutto che·ll'oste de' Saracini fosse cresciuta d'inumerabile gente, che di tutte parti erano venuti gli Arabi a·lloro soccorso, e fossono troppi più che' Cristiani, mai non s'ardirono di venire a battaglia affrontata co' Cristiani; ma con aguati e ingegni venieno, e faceano loro molto molesto. Intra gli altri fu questo l'uno, che la detta contrada è molto sabbionosa, e quando è secco fa molta polvere: onde i Saracini quando traeva vento contra l'oste de' Cristiani, in grandissimo numero di loro genti stavano in su' monti ov'era il detto sabbione, calpitandolo co' cavalli e co' piedi il facevano muovere, onde facea all'oste molta molestia e affanno; ma piovendo acqua da cielo cessò la detta pestilenzia, e lo re Carlo co' Cristiani, apparecchiati difici di diverse maniere per mare e per terra, si strinse per combattere la città di Tunisi; e di certo si disse, s'avessono seguito, in brieve tempo avrebbono avuta la terra per forza, o il re di Tunisi co' suoi Turchi e Arabi l'avrebbe abandonata.
<B>XXXVIII</B>
<I>Come il re Carlo patteggio accordo col re di Tunisi e partissi lo stuolo.</I>
Lo re di Tunisi co' suoi Saracini veggendo in mal punto, e temendo di perdere la città e 'l paese d'intorno, si feciono cercare pace col re Carlo, e cogli altri signori con grandi e larghi patti, a la qual pace il re Carlo intese e diede compimento per lo 'nfrascritto modo: prima, che tutti i Cristiani ch'erano pregioni in Tunisi, o in tutto quello reame, fossono liberi, e che monisteri e chiese per gli Cristiani si potessono edificare, e in quelle l'oficio sacro si potesse celebrare; e che per gli frati minori e predicatori e per altre persone eclesiastiche si potesse liberamente predicare il Vangelio di Cristo; e qual Saracino si volesse battezzare e tornare alla fede di Cristo, liberamente il potesse fare; e tutte le spese che i detti re avessono fatte pienamente fossono loro rendute; e oltre a·cciò il re di Tunisi fosse tributario di dare ogni anno a Carlo re di Cicilia XXm dobble d'oro, e molti altri patti, che sarebbono lunghi a dire. Di questa pace alcuni dissono che 'l re Carlo e gli altri signori la faceano per lo migliore, e considerando il loro male stato della corruzzione dell'aria e mortalità de' Cristiani, che il re di Navarra, morto il re Luis, si partì malato dell'oste e morì in Cicilia, e morì il legato del papa cardinale, e la Chiesa di Roma in quelli tempi vacava di pastore, che dovea provedere a tutto, e Filippo novello re di Francia si voleva partire dell'oste e tornare in Francia col corpo del padre. Altri dierono colpa al re Carlo, che 'l fece per avarizia, per avere innanzi per la detta pace sempre a tributario il re di Tunisi in sua spezialtà; che 'l regno di Tunisi fosse conquistato per lo stuolo de' Cristiani, ch'era poi a parte del re di Francia, e di quello d'Inghilterra, e di quello di Navarra, e di quello di Cicilia, e della Chiesa di Roma, e di più altri signori ch'erano al conquisto. E potrebbe essere stata l'una cagione e l'altra; ma quale si fosse, compiuto il detto accordo, si partì la detta oste da Tunisi, e arrivati col loro navilio nel porto di Trapali in Cicilia, come piacque a·dDio, sì grande fortuna avenne, essendo il navilio nel detto porto, che sanza nulla redenzione la maggiore parte perirono, e ruppe l'uno legno l'altro, ove tutto l'arnese di quello oste si perdé, ch'era d'inumerabile valuta, e molte genti vi perirono. E per molti si disse che ciò avenne per gli peccati de' Cristiani, e perché aveano fatto accordo co' Saracini per cuvidigia di moneta, potendo vincete e conquistare Tunisi e 'l paese.
<B>XXXIX</B>
<I>Come fu fatto papa Ghirigoro X a Viterbo, e come vi fu morto Arrigo figliuolo del re d'Inghilterra.</I>
Arrivato lo detto stuolo de' Cristiani in Cicilia, sì vi soggiornarono alquanto per guerire i malati, e prendere rinfrescamento, e rifare loro navilio; e quelli re e signori furono assai onorati da Carlo re di Cicilia; e poi si partirono di Cicilia, e lo re Carlo co·lloro ne vennero per lo regno di Puglia, e per Calavra a Viterbo, ov'era la corte della Chiesa in vacazione, e a Viterbo soggiornarono i detti re Filippo di Francia, e Carlo di Cicilia, e Adoardo e Arrigo suo fratello e figliuoli del re d'Inghilterra, per fare che' cardinali ch'erano in discordia eleggessono buono pastore per riformare l'apostolica sedia. E non potendo avere concordia di niuno di loro ch'erano presenti, elessono papa Gregorio X di Piagenza, il quale era cardinale e legato in Soria alla Terrasanta, e lui eletto, tornato d'oltremare fu consecrato papa gli anni di Cristo MCCLXXII. Essendo i sopradetti signori in Viterbo, avenne una laida e abominevole cosa sotto la guardia del re Carlo: che essendo Arrigo fratello d'Adoardo figliuolo del re Ricciardo d'Inghilterra in una chiesa alla messa, celebrandosi a quell'ora il sacrificio del corpo di Cristo, Guido conte di Monforte, il quale era per lo re Carlo vicario in Toscana, non guardando reverenza di Dio né del re Carlo suo signore, uccise di sua mano con uno stocco il detto Arrigo, per vendetta del conte Simone di Monforte suo padre, morto a sua colpa per lo re d'Inghilterra. E di ciò è bene da farne notevole memoria. Regnando inn-Inghilterra Arrigo padre del buono Adoardo, fu uomo di semplice vita, sicché i baroni l'aveano per niente, perch'egli mandò per lo detto conte Simone suo parente che gli guidasse il reame, ch'Adoardo era giovane. Questi era molto temuto e ridottato; e come si vide il reggimento del reame in mano, come fellone e traditore, gli oppuose falsamente che il re avesse fatte certe inique leggi contra il popolo, e mise lui e Adoardo in pregione, nella torre di Dovero, e teneasi il reame. La reina... zia per madre d'Adoardo, per volerlo scampare, sappiendo che per ogni Pasqua il conte Simone venia a Dovero, e traeva Adoardo della torre e facealo cavalcare seco, e come si partia il facea rimettere in pregione con grande e stretta guardia, eziandio di lettere, la savia reina mandò a Dovero una savia e bella damigella che sapea operare di gioelli, borse, e carnieri. Adoardo veggendola si prese di lei, e tanto adoperò colle guardie, che gli menarono la detta damigella, e volendola toccare, gli disse: "Io ci sono per altro"; e trasse fuori lettere gli mandava la reina, avisandolo del suo scampo e salute; e per quelle l'avisò come gli mandava per uno nostro Fiorentino cozzone, ch'avea nome Persona Fulberti, con belli destrieri, e uno batto armato con molti remi, avisandolo come avesse a·ffare. Ora, com'era usato per la Pasqua, il conte Simone venne a Dovero, e tratto Adoardo della torre, e provando i destrieri del detto cozzone, Adoardo con licenza del conte salì in su il migliore, menandolo a grandi rote; alla fine prese campo, e dilungossi, e venne al porto, e trovò apparecchiato il batto. Lasciato il cavallo, su vi salìo, e arrivò in Francia, e poi coll'aiuto del re di Francia, di Fiandra, di Brabante, e della Magna, con grande stuolo passò in Inghilterra, e combatté col conte Simone, e sconfisselo, e prese una coppa, e fecelo tranare, e poi impiccare, e diliberò il padre; e quegli morto, fu Adoardo coronato re d'Inghilterra a grande onore. Tornando a nostra principale materia, come per la detta vendetta fu morto il conte Arrigo, conte di Cornovaglia, fratello del re Adoardo, come dicemmo dinanzi, onde la corte si turbò forte, dando di ciò grande riprensione al re Carlo, che ciò non dovea sofferire, se·ll'avesse saputo, e se no·ll'avesse saputo no·llo dovea lasciare scampare sanza vendetta. Ma il detto conte Guido proveduto di compagnia di gente d'arme a cavallo e a piè, non solamente gli bastò d'avere fatto il detto micidio; perché uno cavaliere il domandò che egli avea fatto, e egli rispuose: "Ie a fet ma vengianze"; e quello cavaliere disse: "Comant? Vostre pere fu trainé"; incontanente tornò nella chiesa, e prese Arrigo per gli capelli, e così morto il tranò infino fuori della chiesa villanamente; e fatto il detto sacrilegio, e omicidio, si partì di Viterbo, e andonne sano e salvo in Maremma nelle terre del conte Rosso suo suocero. Per la morte del detto Arrigo Adoardo suo fratello molto cruccioso e isdegnato contro a·re Carlo si partì di Viterbo, e vennesene con sua gente per Toscana, e soggiornò in Firenze, e fece cavalieri più cittadini, donando loro cavagli e tutti arredi di cavalieri nobilemente, e poi se n'andò inn-Inghilterra, e 'l cuore del detto suo fratello in una coppa d'oro fece porre in su una colonna in capo del ponte di Londra sopra 'l fiume di Tamisi, per memoria agl'Inghilesi del detto oltraggio ricevuto. Per la qual cosa Adoardo poi che fu re, mai non fu amico del re Carlo, né di sua gente. Per simile modo si partì Filippo re di Francia con sua gente, e passò, e albergò più giorni in Firenze; e giunto in Francia, soppellito il corpo del buono re Luis suo padre a grande onore, e' si fece coronare con grande solennità a Rens.
<B>XL</B>
<I>Come i Tartari scesono in Turchia, e come ne cacciarono i Saracini.</I>
Nel detto anno MCCLXX Banducdar soldano de' Saracini, dopo la presa ch'egli avea fatta della città d'Antioccia, gran parte del reame d'Erminia, passò con suo esercito in Turchia, la quale si tenea per gli Tartari, e per forza e per tradimento la raquistò, e' Tartari che·ll'abitavano ne cacciò; per la qual cosa lo re d'Erminia andò per soccorso alla grande città del Torigi ad Abaga Cane figliuolo che fu Aloon signore de' Tartari, onde adietro facemmo menzione. E fornita sua ambasciata, il detto Abaga Cane, il quale era molto amico de' Cristiani e nimico de' Saracini, il ricevette onorevolemente, e l'anno appresso venne con suo esercito di Tarteri col detto re d'Erminia in Turchia. E 'l detto soldano sentendo la venuta de' Tarteri, si partì, e abandonò la Turchia, per la qual cosa i Tarteri ebbono la signoria della Turchia e d'Erminia, e volle il detto Abaga Cane dare a' Cristiani e a·re d'Erminia la detta Turchia. Lo re d'Erminia non sentendosi poderoso, e la Chiesa e' signori di ponente per le loro guerre l'aiutavano male, riprese il suo reame d'Erminia, e lasciò a' Tartari la Turchia, la quale non molto tempo appresso per difetto de' Cristiani, e spezialmente de' Greci che vi sono vicini, i Saracini la ripresono.
<B>XLI</B>
<I>Come lo re Enzo figliuolo dello imperadore Federigo morì in pregione in Bologna.</I>
L'anno appresso MCCLXXI, del mese di marzo, il re Enzo, figliuolo che fu di Federigo imperadore, morì nella pregione de' Bolognesi, nella quale era stato lungo tempo, e fu soppellito da' Bolognesi onorevolemente a la chiesa di San Domenico in Bologna, e in lui finìo la progenia dello imperadore Federigo. Ben si dice ch'ancora n'era uno figliuolo che fu de·re Manfredi, il quale stette lungamente nella pregione del re Carlo nel castello dell'Uovo a Napoli, e in quello per vecchiezza e disagio accecato della vista miseramente finìo sua vita.
<B>XLII</B>
<I>Come papa Ghirigoro colla corte venne in Firenze, e fece fare pace tra' Guelfi e' Ghibellini.</I>
Negli anni MCLXXII Gregorio decimo di Piagenza, tornato lui della legazione d'oltremare, fu consegrato e coronato papa, e per lo grande affetto e volontà ch'egli avea del soccorso della Terrasanta, e che generale passaggio si facesse oltremare, incontanente che fu fatto papa, ordinò concilio generale a·lLeone sopra Rodano in Borgogna, e fece che per suo mandato gli elettori dello 'mperio d'Alamagna elessono re de' Romani Ridolfo conte di Furimborgo, il quale era valente uomo d'arme, tutto che fosse di piccola potenza; ma per sua prodezza conquistò Soavia e Osteric: e [in] Osteric che vacava per lo dogio che fu morto con Curradino dal re Carlo fece dogio Alberto suo figliuolo. Il sopradetto papa l'anno appresso la sua coronazione si partì colla corte da Roma per andare a Leone su Rodano al concilio per lui ordinato, e entrò in Firenze co' suoi cardinali, e collo re Carlo, e collo imperadore Baldovino di Gostantinopoli, il quale fu del legnaggio della casa prima di Fiandra. Questo Baldovino fu figliuolo d'Arrigo fratello del primo Baldovino, che conquistò Gostantinopoli co' Viniziani, come addietro facemmo menzione. E col papa e col re Carlo vennero in Firenze e più altri signori e baroni a dì di XVIII di giugno, gli anni di Cristo MCCLXXIII, e da' Fiorentini furono ricevuti onorevolemente. E piaccendogli la stanza di Firenze per l'agio dell'acqua, e per la sana aria, e che la corte avea ogni agiamento, sì ordinò di soggiornare e di fare la state in Firenze. E trovando lui che sì buona città, com'era Firenze, era guasta per cagione delle parti, che n'erano fuori i Ghibellini, volle che tornassono in Firenze, e facessono pace co' Guelfi, e così fu fatta; e a dì II di luglio nel detto anno il detto papa co' suoi cardinali, e col re Carlo, e col detto imperadore Baldovino, e con tutta la baronia e gente della corte, e congregato il popolo di Firenze nel greto d'Arno a piè del capo del ponte Rubaconte, fatti in quello luogo grandi pergami di legname ove stavano i detti signori, in presenzia di tutto il popolo diede sentenzia, sotto pena di scomunicazione chi la rompesse, e sopra la differenzia ch'era tra la parte guelfa e la ghibellina, faccendo basciare in bocca i sindachi di ciascuna parte, e fare pace, e dare mallevadori e stadichi; e tutte le castella che' Ghibellini teneano renderono in mano del re Carlo, e gli stadichi ghibellini andarono in Maremma a la guardia del conte Rosso. La qual pace poco durò, sì come appresso faremo menzione. E quello dì il detto papa fondò la chiesa di Santo Gregorio, e per lo suo nome così la titolòe, la qual feciono fare quegli della casa de' Mozzi, i quali erano mercatanti del papa e della Chiesa, e in picciolo tempo venuti in grande ricchezza e stato, e ne' loro palagi in capo del ponte Rubaconte di là da Arno abitò il detto papa, mentre soggiornò in Firenze; e lo re Carlo abitò al giardino de' Frescobaldi, e lo 'mperadore Baldovino al vescovado. Ma al quarto dì appresso il papa si partì di Firenze, e andonne a soggiornare in Mugello col cardinale Attaviano ch'era della casa degli Ubaldini, da' quali fu ricevuto, e fatto grande onore. Alla fine della state si partì il papa, e' suo' cardinali, e il re Carlo, e andarne oltremonti a Leone sopra Rodano in Borgogna. E la cagione perché il papa si partì così tosto di Firenze si fu che avendo fatti venire in Firenze i sindachi della parte ghibellina, e fattigli basciare in bocca pace faccendo, come detto avemo, co' sindachi de' Guelfi, e rimasi in Firenze per dare compimento a' contratti della pace, e tornando ad albergo a casa i Tebalducci in Orto Sammichele, o vero o non vero che fosse, a·lloro fu detto che 'l maliscalco del re Carlo a petizione de' grandi Guelfi di Firenze gli farebbe tagliare per pezzi, se non si partissono di Firenze. Alla quale cagione diamo fede per la iniquità delle parti; e incontanente si partirono di Firenze, e andarsene, e fu rotta la detta pace; onde il papa si turbò forte, e partissi di Firenze lasciando la città interdetta, e andonne, come detto avemo, in Mugello; e col re Carlo per questa cagione rimase in grande isdegno.
<B>XLIII</B>
<I>Come papa Ghirigoro fece concilio a Leone sopra Rodano.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXIIII papa Gregorio celebrò concilio a Leone sopra Rodano del mese di maggio infino a dì IIII d'agosto, nel quale concilio Paglialoco imperadore de' Greci e il patriarca di Gostantinopoli si riconciliarono colla Chiesa di Roma, promettendo di correggersi di certi errori che i detti Greci hanno tenuti, e seguire per innanzi secondo la nostra fede e ordini della santa Chiesa romana, tutto che poi no·llo attenessono come promisono. E tutto questo riconciliamento fece il papa co' Greci per acconcio del passaggio d'oltremare, ordinato per lui al detto concilio, ond'egli ave' grande affezzione e studio. Ma per lo riconciliamento col Paglialoco e co' Greci lo re Carlo fu molto contrario e cruccioso, per amore dello 'mperadore Baldovino, suo genero della figliuola, al quale di ragione di conquisto sucedea il detto imperio; e lo re Carlo ch'avea già impreso ad atargliele racquistare, onde crebbe lo sdegno tra lui e 'l papa cominciato in Firenze, come di sopra facemmo menzione. Per lo quale riconciliamento de' Greci il detto papa confermò il detto Paglialoco imperadore dello 'mperio di Gostantinopoli, e confermò Ridolfo conte di Furimborgo eletto re de' Romani, signore di gran valore, tutto fosse di piccolo lignaggio, e ch'egli era degno dello 'mperio di Roma, e acciò ch'egli venisse per la corona a Roma, e fosse capitano e imperadore del passaggio d'oltremare, e ch'egli venisse più tosto, il papa gli promise e dipuose de' danari della Chiesa apo le compagnie di Firenze e di Pistoia, i quali erano mercatanti del papa e della Chiesa, CCm di fiorini d'oro nella città di Melano; e il detto Ridolfo promise sotto pena di scomunicazione d'essere in Melano infra certo tempo; la quale promessione per sue imprese e guerre d'Alamagna non venne, e non passò i monti, e mai nonn-ebbe la corona, né·lla benedizione dello 'mperio, ma rimase scomunicato; e per avere poi sua pace col papa e colla Chiesa, e esser ricomunicato, sì privileggiò la contea di Romagna, come potea di ragione, alla Chiesa di Roma, e da indi innanzi la possedette la Chiesa per sua. E nel detto concilio il detto papa ordinò il passaggio generale d'oltremare a ricovero della Terrasanta, e che·lle decime si ricogliessono per tutta la Cristianità sei anni in susidio del detto passaggio, e diede la croce, e ordinò si desse la croce per tutta Cristianità per lo detto passaggio, perdonando colpa e pena chi·lla prendesse, o v'andasse, o mandasse; e vietò l'usura, e scomunicò chi·lla facesse piuvica, e vietò tutte l'ordini de' frati mendicanti, salvo che'll'ordine de' frati minori e predicatori; confermò i romitani, e' carmellini si riservò sospesi. E molte altre costituzioni e decreti utili per la Chiesa vi si feciono, e vietò i soperchi ornamenti delle donne per tutta la Cristianità.
<B>XLIV</B>
<I>Come la parte ghibellina fu cacciata di Bologna.</I>
Nel detto anno MCCLXXIIII, a dì II del mese di giugno, la parte ghibellina di Bologna, detti Lambertacci per uno casato che n'era capo così chiamato, furono cacciati di Bologna; e ciò fu per cagione e sospetto che·lla parte ghibellina era molto cresciuta in Romagna, e poco innanzi cacciata la parte guelfa di Faenza; alla quale cacciata de' Ghibellini di Bologna i Fiorentini vi mandarono in servigio de' Guelfi gente d'arme a cavallo; ma il popolo di Bologna non gli lasciarono entrare nella terra, ma si feciono loro incontro in su il Reno; e fuvi morto il cavaliere della podestà di Firenze ch'era capitano de' detti cavalieri, dicendo i Bolognesi che non voleano che i Fiorentini guastassono la loro città, siccom'eglino aveano guasta Firenze. La quale sopradetta parte ghibellina di Bologna si ridusse in Faenza; per la qual cosa i Bolognesi il settembre vegnente andarono ad oste alla città di Faenza, e guastarla intorno, onde i Ghibellini di Romagna colli usciti di Bologna feciono loro capitano di guerra Guido conte di Montefeltro, savio e sottile d'ingegno di guerra più che niuno che fosse al suo tempo.
<B>XLV</B>
<I>Come giudice di Gallura con certi Guelfi fu cacciato di Pisa.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXIIII Giovanni giudice del giudicato di Gallura, grande e possente cittadino di Pisa, con suo séguito d'alquanti Guelfi di Pisa, per oltraggio di sua signoria, e perché il popolo di Pisa si tenea a parte d'imperio, fue cacciato di Pisa. Per la qual cosa il detto giudice si legò co' Fiorentini, e co' Lucchesi, e cogli altri Guelfi della taglia di Toscana; e co·lloro insieme del mese d'ottobre andarono ad oste sopra il castello di Montetopoli, il quale ebbono a patti, uscendone i forestieri sani e salvi, e 'l castello rimase al detto giudice di Gallura, il quale poco vivette, perché il maggio seguente, gli anni di Cristo MCCLXXV, morì nel castello di Samminiato.
<B>XLVI</B>
<I>D'uno grande miracolo ch'avenne in Baldacca e Mansul oltremare.</I>
Negli anni di Cristo MCLXXV avenne uno grande e bello miracolo, del quale è bene da farne menzione in questa nostra opera, in adificazione della nostra santa fede. Egli era in que' tempi uno califfo de' Saracini in Baldacca e 'n Mansul, molto savio e litterato, e nimico e persecutore de' Cristiani, che in quello paese n'avea assai; e trovando egli per lo Vangelo di santo Matteo, ove Cristo disse a' suoi discepoli che chi avesse tanta fede quant'uno granello di senape, e nel suo nome comandasse a uno monte si levasse di suo luogo e si ponesse altrove, sì il farebbe essere; trovando questo argomento, per confondere i Cristiani, sì richiese i vescovi e' caporali de' Cristiani, e mostrò loro il detto Vangelio, e se 'l volessono aprovare, tutti dissono di sì. Allora comandò loro che "infra X dì voi comandiate a uno grande monte ch'era in quello luogo si levasse e si riponesse in altra parte, e se ciò non farete, voi sete sanza fede al vostro Iddio, e falsi Cristiani, e voglio che rinneghiate Cristo e facciatevi Saracini, e se non, sì vi farò tutti morire di mala morte". Ricevuto l'aspro e crudele comandamento, non sapeano che·ssi dire né che·ssi fare, ma con grandi pianti e dolori, come gente giudicata a morte, ricorsono alla misericordia d'lddio, e alla penitenzia, digiuni, e orazioni di dì e di notte. Infra quegli giorni più volte venne in visione a uno santo vescovo che uno povero ciabattiere, che aveva pure uno occhio, gli doveva liberare: manifestollo al popolo, e cercossi del ciabattiere, e trovossi; il quale era uomo di santa vita, e ciò ch'egli avanzava di sua povera arte, fornita miseramente sua vita, dava per Dio a' poveri, e l'occhio ch'egli avea meno perdé, che calzando una bella Cristiana gli venne tentazione di carnalità, onde si scandalizzò molto, e ricordandosi del Vangelio di Cristo, ove disse: "Se 'l tuo occhio ti scandalizza, sì il ritrai", ed egli prendendo il semplice della lettera, con una lesina si punse l'occhio, onde il perdé. E venuto il termine del comandamento del calif, furono raunati tutti i Cristiani, uomini e femmine e fanciulli, colle croci innanzi, nel piano dov'era al di sopra il detto monte, i quali erano in quantità di più di Cm, co' Saracini e Turchi armati intorno a cavallo e a piè per distruggergli. Richiesto il ciabattiere di fare il priego a·dDio, si disdicea come indegno e peccatore; ma per la piatà e pianto del popolo s'inginocchiò, e disse in piagnendo: "Signore Idio onipotente. io ti priego che tu facci grazia e misericordia a questo tuo popolo, e mostri a questi miscredenti la virtù del tuo figliuolo Iesù Cristo, e dimostri visibile miracolo, acciò che sia glorificato il tuo santo nome"; e ciò detto, comandò al monte che per la virtù di Cristo si dovesse mutare, il quale con grandi tremuoti, e spaventevole tempo di tuoni e baleni e venti, si mosse, e si ripuose ove fu comandato; onde il detto popolo cristiano con grande letizia furono liberi, ringraziando e magnificando Iddio. Per lo quale visibile miracolo molti de' Saracini si feciono Cristiani, e 'l califfo medesimo al segreto; e quando venne a morte gli si trovò la santa croce a collo, e vivuto dopo il miracolo in santa vita.
Lasceremo de' fatti d'oltremare, e torneremo a quegli d'Italia.
<B>XLVII</B>
<I>Come il conte Ugolino con tutto il rimanente de' Guelfi fu cacciato di Pisa.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXV il conte Ugolino della casa de' Gherardeschi di Pisa, col rimanente de' possenti Guelfi di Pisa, fu cacciato di Pisa del mese di maggio; per la qual cosa s'allegò co' Fiorentini, e Lucchesi, e l'altra taglia de' Guelfi di Toscana, e andarono ad oste sopra la città di Pisa del mese di luglio prossimo, e guastarono Vicopisano, e ebbono più castella de' Pisani; e la detta oste fu fatta contra il comandamento del papa, per la qual cosa fece contra loro scomunicazione e interdetto.
<B>XLVIII</B>
<I>Come i Bolognesi furono sconfitti al ponte a San Brocolo dal conte da Montefeltro e da' Romagnuoli.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXV, del mese di giugno, i Bolognesi per comune andarono ad oste in Romagna sopra la città di Forlì e quella di Faenza, perché riteneano i loro usciti ghibellini; e di loro era capitano messer Malatesta da Rimine; dalla parte de' Romagnuoli era capitano il conte Guido da Montefeltro, il quale col podere de' Ghibellini di Romagna, e cogli usciti di Bologna, e cogli usciti ghibellini di Firenze, ond'era capitano messer Guiglielmino de' Pazzi di Valdarno, si feciono loro incontro al ponte a San Brocolo aboccandosi a battaglia; nel quale aboccamento la cavalleria de' Bolognesi non resse, ma quasi sanza dare colpo si misono alla fugga, chi dice per loro viltà, e chi dice perché il popolo di Bologna, il quale trattava male i nobili, furono contenti i nobili di lasciargli al detto pericolo; e 'l conte da Panago, ch'era co' nobili di Bologna, quando si partì dal popolo di Bologna, disse per rimproccio: "Leggi gli statuti, popolo marcio". Il quale popolo abandonato da·lloro cavalleria, si tennero amassati in su il campo grande pezza del giorno, difendendosi francamente. Alla perfine il conte da Montefeltro fece venire le balestra grosse, le quali il conte Guido Novello, ch'era podestà di Faenza, aveva tratte della camera del Comune di Firenze quando ne fu signore, e con quelle balestra saettando alle loro schiere, le partì, e le ruppe, e sconfisse, onde molti cittadini di Bologna ch'erano a piè in quella oste furono morti e presi.
<B>XLIX</B>
<I>Come i Pisani furono sconfitti da' Lucchesi al castello d'Asciano.</I>
Nel detto anno, a dì II di settembre, i Lucchesi col conte Ugolino e cogli altri usciti guelfi di Pisa, e con soldati di Firenze, e col vicaro del re Carlo in Toscana, ch'avea nome..., andarono ad oste sopra la città di Pisa contra il comandamento del papa, e sconfissono i Pisani al castello d'Asciano presso Pisa a III miglia, onde molti Pisani vi furono morti e presi, e 'l detto castello rimase a' Lucchesi.
<B>L</B>
<I>Della morte di papa Ghirigoro e di tre altri papi appresso.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXV, a dì XVIII di dicembre, papa Ghirigoro X tornando dal concilio da Leone sopra Rodano, arrivò nel contado di Firenze, e per cagione che·lla città di Firenze era interdetta, e gli uomini di quella scomunicati, perché nonn-aveano oservata la sentenzia della pace ch'avea fatta tra' Guelfi e' Ghibellini, come dicemmo adietro, sì non volle entrare in Firenze, ma per ingegno fu guidato di fuori delle vecchie mura; e chi disse che non potéo fare altro, perché 'l fiume d'Arno era per piogge sì grosso ch'egli no·llo poté guadare, ma di nicessità gli convenne passare per lo ponte Rubaconte, sicché non aveggendosi, e non potendo altro fare, entrò in Firenze; mentre passò per lo ponte e per lo borgo di San Niccolò, ricomunicò la terra, e andò segnando la gente, e come ne fu fuori, lasciò lo 'nterdetto, e scomunicò da capo la città, con malo animo dicendo il verso del Saltero che dice: "In camo et freno maxillas eorum constringe etc."; onde i Guelfi che reggeano Firenze ebbono grande sospetto e paura. E partitosi il detto papa di Firenze, n'andò ad albergare a la badia a Ripole, e di là sanza soggiorno se n'andò ad Arezzo; e giunto lui in Arezzo, cadde malato, e come piacque a·dDio, passò di questa vita a dì X del seguente mese di gennaio, e in Arezzo fu soppellito a grande onore; della cui morte i Guelfi di Firenze furono molto allegri, per la mala volontà che 'l detto papa avea contra loro. Morto il papa, incontanente i cardinali furono rinchiusi, e a dì XX del detto mese di gennaio chiamarono papa Innocenzio quinto nato di Borgogna, il quale era stato frate predicatore, e allora era cardinale; e vivette papa infino al giugno vegnente, sì che poco fece, e morì alla città di Viterbo, e in quella fu soppellito onorevolemente. E appresso lui, a dì XII di luglio, fu chiamato messere Ottobuono cardinale dal Fiesco della città di Genova, il quale non vivette che XXXVIIII dì nel papato, e fu chiamato papa Adriano quinto, e fu soppellito in Roma. E appresso lui, del presente mese di settembre, fu eletto papa maestro Piero Spagnuolo cardinale, il quale fu chiamato papa Giovanni XXI, e non vivette papa che VIII mesi e dì; che dormendo in sua camera in Viterbo gli cadde la volta di sopra adosso, e morìo, e fu soppellito in Viterbo a dì XX di maggio MCCLXXVII; e vacò la Chiesa VI mesi. E nel presente anno fu grandissimo caro di tutte vittuaglie, e valse lo staio del grano soldi XV da soldi XXX il fiorino. E nota una grande e vera visione che avenne della morte del detto papa a uno nostro Fiorentino mercatante della compagnia degli speziali, ch'avea nome Berto Forzetti, della quale è bene da fare menzione. Il detto mercatante avea uno vizio naturale di diversa fantasia, che sovente fra sonno dormendo si levava in su il letto a sedere, e parlava diverse maraviglie; e più ancora, che essendo da' desti ch'erano co·llui domandato di quello ch'egli parlava, rispondea a proposito, e tuttavia dormia. Avenne che·lla notte che morìo il detto papa, essendo il detto in nave in alto pelago, e andava in Acri, si levò e gridò: "Omè! Omè!". E' compagni si destarono, e domandarlo ch'egli avesse. Rispuose: "Io veggio uno grandissimo uomo nero con una grande mazza in mano, e vuole abattere una colonna in su ched è una volta". E poco stante rigridò, e disse: "Egli l'hae abattuta, ed è morto"; fu domandato: "Chi?", rispuose: "Il papa". I detti suoi compagni misono in iscritta le parole, e la notte; e giunti loro in Acri, poco tempo appresso vi vennono novelle della morte del detto papa, che apunto in quella notte avenne. E io scrittore ebbi di ciò testimonianza da quegli mercatanti ch'erano presenti col detto in su la detta nave, e udirono il detto Berto, i quali erano uomini di grande autorità e degni di fede, e la fama di ciò fu per tutta la città nostra. Poi fu eletto papa Niccola III di casa gli Orsini di Roma, ch'avea nome propio messer Gianni Guatani cardinale, il quale vivette papa II anni e VIIII mesi e mezzo. Avemo detto de' sopradetti papi, perché in XVI mesi morirono IIII papi. Lasceremo di dire alquanto de' detti papi, e diremo delle cose che furono a·lloro tempo in Firenze e per l'universo mondo.
<B>LI</B>
<I>Come i Fiorentini e' Lucchesi sconfissono i Pisani al fosso Arnonico.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXVI, del mese di giugno, i Fiorentini e' Lucchesi, a sommossa del conte Ugolino e degli altri usciti guelfi di Pisa, col maliscalco del re Carlo ch'avea nome..., in quantità di MD cavalieri e popolo assai, andarono ad oste sopra Pisa verso il Ponte ad Era, e i Pisani, per tema de' Fiorentini, aveano fatto di nuovo uno grande fosso poco di là dal Ponte ad Era, presso di Pisa a VIII miglia, il quale era lungo più di X miglia, e mettea in Arno, e chiamavasi il fosso Arnonico; e a quello aveano fatti ponti e fortezze di steccati e bertesche, e di là da quello i Pisani stavano co·lloro oste alla difensione. E giuntavi l'oste de' Fiorentini, combattendo il detto fosso, alcuna parte di loro gente a piè e poi a cavallo di lungi all'oste valicarono per punga il detto fosso lungo l'Arno. I Pisani incontanente che sentirono che' nemici aveano valicato il fosso, si misono alla fugga e inn-isconfitta, onde l'oste tutta valicò cacciando i Pisani infino a Pisa; onde molti ne furono morti e in grande quantità presi; per la quale sconfitta i Pisani feciono le comandamenta de' Fiorentini e pace, e rimisono i Pisani il detto conte Ugolino e tutti i loro usciti guelfi.
<B>LII</B>
<I>Come furono sconfitti i signori della Torre di Melano.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXVI, a dì XX del mese di gennaio, furono sconfitti i signori della Torre di Milano a Cortenuova dal marchese di Monferrato e da' nobili cattani, e varvassori, e dagli altri loro seguaci e usciti di Milano, e furono morti due di quegli della Torre in quella battaglia, e presi VI, e eglino e tutta loro parte, i quali teneano a parte guelfa, furono cacciati di Milano, e tornovvi l'arcivescovo, ch'era de' Visconti, e suoi consorti, e gli altri nobili, e ogni altro uscito; e fu fatto capitano del popolo di Milano messer Maffeo Visconti fratello dell'arcivescovo in questo modo: che tornati i nobili in Milano, furono eletti IIII capitani, i capi delle maggiori case di Milano, messer Maffeo Visconti, messer Otto da Mandello figliuolo di messer Rubaconte, uno di quegli da Posterla, e uno di quegli da Castiglione, e ciascuno dovea essere uno anno; ma il primo fu messer Maffeo per riverenzia dell'arcivescovo, ch'era suo fratello. Poi infra l'anno l'arcivescovo adoperò che Otto fu fatto capitano di Piagenza, e l'altro da Postierla di Pavia, e quello da Castiglione di Lodi: e così in capo del termine rimase signore e capitano messer Maffeo Visconti colla forza e senno dell'arcivescovo; e poi durò molto tempo in signoria, e di fuori quelli della Torre. E nota che' signori della Torre erano la maggiore e la più possente casa d'avere e di persone che fosse in Italia o in nulla cittade, e di loro era il patriarca Ramondo d'Aquilea, il quale regnò XXVI anni patriarca, e colla sua forza e per loro medesimi metteano MD cavalieri in campo sanza il podere del Comune di Milano, ond'erano al tutto signori, e spezialmente del popolo. E cacciatine i nobili cattani e varvassori, e in quella signoria regnarono uno buono tempo, onde prima fu capitano del popolo di Milano messer Alamanno della Torre, figliuolo che fu di messer Martino e fratello del patriarca, e fu buono uomo e giusto, e amato da tutti; poi fu capitano messer Nappo, overo Nepoleon, suo fratello, e cominciò a tirannezzare; e poi fu capitano messer Francesco loro fratello, il quale fu pessimo in tutte cose, e per lo suo soperchio e oltraggi alla sua signoria furono sconfitti e perderono lo stato, come detto è di sopra.
<B>LIII</B>
<I>Come il re Filippo di Francia fece pigliare tutti i prestatori italiani.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXVII, a dì XXIIII d'aprile, in uno giorno il re Filippo di Francia fece pigliare tutti i prestatori italici di suo reame, e eziandio de' mercatanti, sotto colore che usura non s'usasse in suo paese, accomiatandogli del reame per lo divieto ch'avea fatto papa Ghirigoro al concilio di Leone; ma ciò mostra che facesse più per covidigia di moneta che per altra onestade, però che gli fece finire per libbre LXm di parigini, di soldi X il fiorino d'oro, e poi la maggiore parte si rimasono al paese come di prima a prestare.
<B>LIV</B>
<I>Come fu fatto papa Niccola terzo degli Orsini, e quello che fece al suo tempo.</I>
Nel detto anno, come alcuna cosa ricordammo adietro, fu fatto papa messer Gianni Guatani, cardinale di casa degli Orsini di Roma, il quale mentre fu giovane cherico e poi cardinale fu onestissimo e di buona vita, e dicesi ch'era di suo corpo vergine; ma poi che fue chiamato papa Niccola III, fu magnanimo, e per lo caldo de' suoi consorti imprese molte cose per fargli grandi, e fu de' primi, o il primo papa, nella cui corte s'usasse palese simonia per gli suoi parenti; per la qual cosa gli agrandì molto di possessioni e di castella e di moneta sopra tutti i Romani in poco tempo ch'egli vivette. Questo papa fece VII cardinali romani, i più suoi parenti, intra gli altri, a priego di messer Gianni capo della casa della Colonna suo cugino, fece cardinale messer Jacopo della Colonna, acciò che' Colonnesi non s'apprendessono all'aiuto degli Anibaldeschi loro nemici, ma fossono in loro aiuto; e fu tenuta gran cosa, però che·lla Chiesa avea privati tutti i Colonnesi, e chi di loro progenia fosse, d'ogni benificio eclesiastico infino al tempo di papa Allessandro terzo, però ch'aveano tenuto collo imperadore Federigo primo contra a la Chiesa. Appresso il detto papa fece fare i nobili e grandi palazzi papali di Santo Piero; ancora prese tenza col re Carlo per cagione che 'l detto papa fece richiedere lo re Carlo d'imparentarsi co·llui, volendo dare una sua nipote per moglie a uno nipote del re, il quale parentado il re non volle asentire, dicendo: "Perch'egli abbia il calzamento rosso, suo lignaggio nonn-è degno di mischiarsi col nostro, e sua signoria nonn-era retaggio"; per la qual cosa il papa contro a·llui isdegnato, e poi non fu suo amico, ma in tutte cose al sagreto gli fu contrario, e del palese gli fece rifiutare il sanato di Roma e il vicariato dello imperio, il quale avea dalla Chiesa <I>vacante imperio</I>; e fugli molto contra in tutte sue imprese, e per moneta che·ssi disse ch'ebbe dal Paglialoco aconsentì e diede aiuto a favore al trattato e rubellazione ch'al re Carlo fu fatta dell'isola di Cicilia, come innanzi faremo menzione; e tolse alla Chiesa Castello Santo Angelo, e diello a messer Orso suo nipote. Ancora il detto papa si fece privileggiare per la Chiesa la contea di Romagna e la città di Bologna a Ridolfo re de' Romani, per cagione ch'egli era caduto in amenda alla Chiesa della promessa ch'egli aveva fatta a papa Ghirigoro al concilio da·lLeone su Rodano quando il confermò, cioè di passare in Italia per fornire il passaggio d'oltremare, come adietro facemmo menzione; la qual cosa nonn-avea fatta per altre sue imprese e guerre d'Alamagna. Né questa dazione e brivilegiare alla Chiesa il contado di Romagna e la città di Bologna né potea né dovea fare di ragione; intra l'altre, perché il detto Ridolfo non era pervenuto alla benedizione imperiale: ma quello che' cherici prendono, tardi sanno tendere. Incontanente che 'l detto papa ebbe privilegio di Romagna, sì-nne fece conte per la Chiesa messer Bertoldo degli Orsini suo nipote, e con forza di cavalieri e di gente d'arme il mandò in Romagna, e co·llui per legato messer fra Latino di Roma cardinale ostiense suo nipote, figliuolo della suora, nato de' Brancaleoni, ond'era il cancelliere di Roma per retaggio; e ciò fece per trarre la signoria di mano al conte Guido di Montefeltro, il quale tirannescamente la si tenea e signoreggiava; e così fu fatto, per modo che in poco tempo quasi tutta Romagna fu alla signoria della Chiesa, ma non sanza guerra e grande spendio della Chiesa, come innanzi diremo a·lluogo e a tempo.
<B>LV</B>
<I>Come lo re Ridolfo de la Magna sconfisse e uccise lo re di Buem.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXVII, essendo grande guerra tra·re Ridolfo della Magna e lo re di Buemme per cagione che nol volea ubbidire né fare omaggio, per la qual cosa il re Ridolfo eletto imperadore con grandissimo oste andò sopra il detto re di Buem, il quale gli si fece incontro con grandissima cavalleria, e dopo la dura e aspra battaglia che fu tra così aspre genti d'arme, come piacque a·dDio il detto re di Buem nella detta battaglia fu morto, e la sua gente sconfitta, nella quale innumerabile cavalleria furono morti e presi, e quasi tutto il reame di Buem Ridolfo ebbe a sua signoria. E ciò fatto, col figliuolo del detto re di Buem fece pace, faccendolsi prima venire a misericordia; e stando il re Ridolfo in sedia in uno grande fango, e quello di Buem stava dinanzi a·llui ginocchione innanzi a tutti i suoi baroni; ma poi lui riconciliato, il re Ridolfo gli diede la figliuola per moglie, e rendégli il reame; e ciò fu a dì XXVI d'agosto del detto anno. Questo re Ridolfo fu di grande affare, e magnanimo, e pro' in arme, e bene aventuroso in battaglie, molto ridottato dagli Alamanni e dagli Italiani; e se avesse voluto passare in Italia, sanza contasto n'era signore. E mandocci suoi ambasciadori l'arcivescovo di Trievi, e fu in Firenze negli anni MCCLXXX, significando sua venuta, onde i Fiorentini non sapeano che si fare; e se fosse passato, di certo l'avrebbono ubbidito. E lo re Carlo, ch'era così possente signore, il temette forte; e per essere bene di lui, diede a Carlo Martello, figliuolo del figliuolo, la figliuola del detto re Ridolfo per moglie.
<B>LVI</B>
<I>Come il cardinale Latino per mandato del papa fece la pace tra' Guelfi e' Ghibellini di Firenze, e tutte l'altre della città.</I>
In questi tempi i grandi Guelfi di Firenze riposati delle guerre di fuori con vittorie e onori, e ingrassati sopra i beni de' Ghibellini usciti, e per altri loro procacci, per superbia e invidia cominciarono a riottare tra·lloro, onde nacquero in Firenze più brighe e nimistadi tra' cittadini, mortali, e di fedite. Intra l'altre maggiori era la briga tra·lla casa degli Adimari dall'una parte, ch'erano molto grandi e possenti, e dall'altra parte i Tosinghi, e la casa de' Donati, e quella de' Pazzi legati insieme contro agli Adimari, per modo che quasi tutta la città n'era partita, e chi tenea coll'una parte e chi coll'altra; onde la città e parte guelfa n'era in grande pericolo. Per la qual cosa il Comune e' capitani della parte guelfa mandarono loro ambasciadori solenni a corte a papa Niccola, che mettesse consiglio e 'l suo aiuto a pacificare i Guelfi di Firenze insieme; se non, parte guelfa si dovidea, e cacciava l'uno l'altro. E per simile modo gli usciti ghibellini di Firenze mandarono loro ambasciadori al detto papa e pregarlo e richiederlo ch'egli mettesse a seguizione la sentenzia della pace data per papa Ghirigoro nono tra·lloro e' Guelfi di Firenze. Per le sopradette cagioni il detto papa provide e confermò la detta sentenzia, e ordinò paciato e legato e commise le dette questioni a frate Latino cardinale, ch'era in Romagna per la Chiesa, uomo di grande autorità e scienza, e grande apo il papa, il quale per lo mandamento del papa si partì di Romagna, e giunse in Firenze con CCC cavalieri della Chiesa a dì VIII del mese d'ottobre, gli anni di Cristo MCCLXXVIIII, e da' i Fiorentini e dal chericato fu ricevuto a grande onore e processione, andandogli incontro il carroccio, e molti armeggiatori; e poi il detto legato il dì di santo Luca Vangelista, nel detto anno e mese, fondò e benedisse la prima pietra della nuova chiesa di Santa Maria Novella de' frati predicatori, ond'egli era frate; e in quello luogo de' frati trattò e ordinò generalmente le paci tra tutti i cittadini, Guelfi con Guelfi, e poi da' Guelfi a' Ghibellini. E la prima fu tra gli Uberti e' Bondelmonti (e fu la terza pace), salvo che' figliuoli di messer Rinieri Zingane de' Bondelmonti no·llo assentiro, e furono scomunicati per lo legato, e isbanditi per lo Comune. Ma per loro non si lasciò la pace; che poi il legato bene aventurosamente del mese di febbraio vegnente, congregato il popolo di Firenze a parlamento nella piazza vecchia della detta chiesa, tutta coperta di pezze, e con grandi pergami di legname, in su' quali era il detto cardinale, e più vescovi, e prelati, e cherici, e religiosi, e podestà, e capitano, e tutti i consiglieri, e gli ordini di Firenze, e in quello per lo detto legato sermonato nobilemente e con grandi e molte belle autoritadi, come alla materia si convenia, sì come quegli ch'era savio e bello predicatore; e ciò fatto, sì fece basciare in bocca i sindachi ordinati per gli Guelfi e per gli Ghibellini, pace faccendo con grande allegrezza per tutti i cittadini; e furono CL per parte. E in quello luogo presentemente diede sentenzia de' modi, e de' patti, e condizioni che si dovessono oservare intra l'una parte e l'altra, fermando la detta pace con solenni e vallate carte, e con molti idonei mallevadori. E d'allora innanzi poterono tornare e tornarono i Ghibellini in Firenze e le loro famiglie, e furono cancellati d'ogni bando e condannagione; e furono arsi tutti i libri delle condannagioni e bandi ch'erano in camera; e detti Ghibellini riebbono i loro beni e possessioni, salvo che alquanti de' più principali fu ordinato per più sicurtà della terra che certo tempo stessono a confini. E ciò fatto per lo legato cardinale, fece fare le singulari paci de' cittadini; e la prima fu quella ond'era la maggiore discordia, cioè tra gli Adimari e' Tosinghi, e' Pazzi e' Donati, faccendo più parentadi insieme; e per simile modo si feciono tutte quelle di Firenze e del contado, quali per volontà e quali per la forza del Comune, datane sentenzia per lo cardinale con buoni sodamenti e mallevadori; delle quali paci il detto legato ebbe grande onore, e quasi tutte s'osservarono, e la città di Firenze ne dimorò buono tempo in pacifico e buono e tranquillo stato. E fece e ordinò il detto legato al governamento comune della città XIIII buoni uomini grandi e popolani, che gli VIII erano Guelfi e VI Ghibellini, e durava il loro uficio di due in due mesi con certo ordine di loro elezione; e raunavansi in su la casa della Badia di Firenze sopra la porta che va a Santa Margherita, e tornavansi a dormire e a desinare alle loro case. E ciò fatto, il detto cardinale Latino con grande onore si tornò in Romagna alla sua legazione. Lasceremo alquanto de' fatti di Firenze, e diremo d'altre novità ch'avennero in questi tempi, e spezialmente della rubellazione dell'isola di Cicilia al re Carlo, la quale fu notabile e grande, onde poi seguì molto male, e fu quasi cosa maravigliosa e impossibile, e però la tratteremo più distesamente.
<B>LVII</B>
<I>Come fu il trattato e tradimento che l'isola di Cicilia fosse rubellata al re Carlo.</I>
Ne' detti tempi, cioè negli anni di Cristo MCCLXXVIIII, lo re Carlo re di Gerusalem e di Cicilia era il più possente re e il più ridottato in mare e in terra, che nullo re de' Cristiani; e per lo suo grande stato e signoria imprese (a petizione dello imperadore Baldovino suo genero, il quale era stato scacciato dello 'mperio di Gostantinopoli per Paglialoco imperadore de' Greci) di fare uno grande passaggio e maraviglioso per prendere e conquistare il detto imperio, con intendimento ch'avendo lo 'mperio di Gostantinopoli assai gli era appresso di raquistare Gerusalem e la Terrasanta; e ordinò e mise in concio d'armare più di C galee sottili di corso, e XX navi grosse; e fece fare CC uscieri da portare cavagli, e più altri legni passaggeri grande numero. E coll'aiuto e moneta della Chiesa di Roma, e col tesoro, che·ll'avea grandissimo, e coll'aiuto del re di Francia, invitò alla detta impresa tutta la buona gente di Francia e d'Italia; e' Viniziani col loro isforzo vi doveano venire; e lo re col detto navilio, e con XL conti, e con Xm cavalieri dovea e s'apparecchiava di fare il detto passaggio il seguente anno avenire. E di certo gli venia fatto sanza riparo o contasto niuno, che 'l Paglialoco nonn-avea podere, né in mare né in terra, di risistere alla potenzia e apparecchiamento del re Carlo, e già grande parte della Grecia era sollevata a rubellazione. Avenne, come piacque a·dDio, che fu sturbata la detta impresa per abattere la superbia de' Franceschi, ch'era già tanto montata in Italia per le vittorie del re Carlo, che' Franceschi teneano i Ciciliani e' Pugliesi per peggio che servi, isforzando e villaneggiando le loro donne e figlie; per la qual cosa molta di buona gente del Regno e di Cicilia s'erano partiti e rubellati, intra' quali fu per la sudetta cagione di sua mogliera e figlia a·llui tolte, e morto il figliuolo che·lle difendea, uno savio e ingegnoso cavaliere e signore stato dell'isola di Procita, il qual si chiamava messer Gianni di Procita. Questi per suo senno e industria si pensò di sturbare il detto passaggio, e di recare la forza del re Carlo in basso stato, e in parte gli venne fatto; ch'egli segretamente andò in Gostantinopoli al Paglialoco imperadore per due volte, e mostrogli il pericolo che gli venia adosso per la forza del re Carlo e dello imperadore Baldovino coll'aiuto della Chiesa di Roma, e s'egli volesse credere e dispendere del suo avere e tesoro, disturberebbe i·detto passaggio, faccendo rubellare l'isola di Cicilia al re Carlo coll'aiuto de' rubelli di Cicilia, e cogli altri signori dell'isola, i quali nonn-amavano il re Carlo né·lla signoria de' Franceschi, e collo aiuto e forza del re d'Araona, mostrandogli ch'egli imprenderebbe la bisogna per lo retaggio di sua mogliera, figliuola ch'era stata dello re Manfredi. Il Paglialoco, tutto che ciò gli paresse impossibile, conoscendo la potenzia del re Carlo, e com'era ridottato più ch'altro signore, quasi come disperato d'ogni salute e soccorso, seguì il consiglio del detto messer Gianni, e fecegli lettere come gli ordinò il detto messer Gianni, e mandò co·llui in ponente suoi ambasciadori con molti ricchi gioelli, e di moneta gran tesoro. E arrivando messer Gianni cogli ambasciadori del Paglialoco sagretamente in Cicilia, e' scoperse il detto trattato a messere Alamo da Lentino, e a messere Palmieri Abate, e a messer Gualtieri di Catalagirona, i maggiori baroni dell'isola, gli quali non amavano lo re Carlo né sua signoria; e da' detti prese lettere a lo re di Raona, raccomandandosi che per Dio gli traesse di servaggio, e promettendo di volerlo per loro signore. E ciò fatto, il detto messer Gianni venne in corte di Roma sconosciuto a guisa di frate minore, e tanto adoperò, ch'egli parlò a papa Niccola III degli Orsini al segreto a uno suo castello che si chiamava Soriana, e manifestogli il suo trattato; e da parte del Paglialoco, raccomandandolo alla sua signoria, e presentò a·llui e a messer Orso del suo tesoro riccamente, secondo che per gli più si disse e si trovò la verità, commovendolo segretamente colla detta moneta contro al re Carlo. E con questo agiunse cagione, perché lo re Carlo non s'era voluto imparentare co·llui, come adietro facemmo menzione; onde il detto papa in segreto e palese sempre adoperò contro al re Carlo, mentre visse in sul papato, e sturbò quello anno il detto passaggio di Gostantinopoli, non ategnendo al re Carlo l'aiuto e promessa di moneta e d'altro che gli avea fatta la Chiesa. E ciò fatto, il detto messer Gianni avute le lettere del detto papa con segreto suggello al re di Raona, promettendogli la signoria di Cicilia, vegnendola a conquistare, si partì messer Gianni di corte e andonne in Catalogna allo re di Raona; e ciò fu l'anno MCCLXXX. E giunto messer Gianni al re Piero di Raona colle lettere del papa ove gli promettea il suo aiuto, e le lettere de' baroni di Cicilia ove prometteano di rubellare l'isola, e le promesse di Paglialoco, sì accettò sagretamente di fare la 'mpresa; e rimandò adietro messer Gianni e gli altri ambasciadori, che sollecitassono di dare ordine alle cose, e di fare venire la moneta per fornire sua armata. Ma in questo mezzo isturbò molto l'opera la morte di papa Niccola, che morì l'agosto vegnente, come apresso faremo menzione.
<B>LVIII</B>
<I>Come morì papa Niccola degli Orsini, e fu fatto papa Martino dal Torso di Francia.</I>
Nell'anno MCCLXXXI, del mese d'agosto, papa Niccola III degli Orsini passò di questa vita nella città di Viterbo, onde lo re Carlo fu molto allegro, non perch'egli sapesse né avesse iscoperto il tradimento che messer Gianni di Procita avea menato col Paglialoco e col detto papa, ma sapea e avedeasi bene ch'egli in tutte cose gli era contrario, e grande sturbo avea messo nella sua impresa e passaggio di Gostantinopoli. Per la qual cosa trovandosi in Toscana quando morì il detto papa, incontanente fu a Viterbo per procacciare d'avere papa che fosse suo amico, e trovò il collegio de' cardinali in grande disensione e partiti; che l'una parte erano i cardinali Orsini e loro seguaci, e voleano papa a·lloro volontà, e tutti gli altri cardinali erano col re Carlo contrarii; e durò la tira e vacazione più di V mesi. Essendo i cardinali rinchiusi e distretti per gli Viterbesi, alla fine nonn-avendo concordia, i Viterbesi, a petizione si disse del re Carlo, trassono tra 'l collegio de' cardinali messere Matteo Rosso e messere Giordano cardinali degli Orsini, i quali erano capo della loro setta, e villanamente furono messi in pregione; per la quale cosa gli altri cardinali s'accordarono d'eleggere e elessono papa messer Simone dal Torso di Francia cardinale, e fu chiamato papa Martino quarto; il quale fu di vile nazione, ma molto fu magnanimo e di grande cuore ne' fatti della Chiesa, ma per sé propio e per suoi parenti nulla cuvidigia ebbe; e quando il fratello il venne a vedere papa, incontanente il rimandò in Francia con piccoli doni e colle spese, dicendo che' beni erano della Chiesa e non suoi. Questi fu molto amico del re Carlo, e sedette papa tre anni, e uno mese, e XXVII dì. Questi come fu fatto papa, fece conte di Romagna messer Gianni di Epa di Francia per trarne il conte Bertoldo degli Orsini, e scomunicò Paglialoco imperadore di Gostantinopoli e tutti i Greci, perché non ubbidieno la Chiesa di Roma. Questo papa fece fare la rocca e' grandi palagi di Montefiascone, e là fece molto sua stanzia mentre fu papa; e più altre cose furono al suo tempo, come innanzi faremo menzione. Per la sopradetta presura e villania che' Viterbesi feciono a' cardinali degli Orsini, mai la casa degli Orsini furono loro amici, ma corporali nimici; e vennonvi poi ad oste gli Orsini alle loro spese, ove consumarono molto del tesoro male aquistato per loro al tempo di papa Niccola terzo; sì che ogni diritto alla fine Iddio rende per diversi modi. Lasceremo de' fatti della corte di Roma, e torneremo a nostra materia sopra il trattato di Cicilia.
<B>LIX</B>
<I>Come il re Piero d'Aragona giurò e promise al Paglialoco e a' Ciciliani di venire in Cicilia e prendere la signoria.</I>
Nel detto anno MCCLXXXI il sopradetto messer Gianni di Procita cogli ambasciadori di Paglialoco arrivati in Catalogna la seconda volta, si richiesono il re Piero d'Araona, ch'egli s'allegasse col Paglialoco, e prendesse la signoria dell'isola di Cicilia, e cominciasse la guerra contra lo re Carlo, recandogli grande quantità di moneta perché cominciasse l'armata e impresa promessa di fare; e apresentategli nuove lettere del Paglialoco e quelle de' baroni di Cicilia, i quali aveano promesso, come ordinato era, di rubellare l'isola, e di dargli la signoria; della qual cosa il detto re Piero stette assai, innanzi che·ssi volesse diliberare di seguire e fare la 'mpresa promessa che prima avea fatta, dubitando e temendo della potenza del re Carlo e della Chiesa di Roma, e maggiormente per la morte di papa Niccola degli Orsini, del quale vivendo si rendea molto sicuro, sappiendo ch'egli nonn-era amico del re Carlo, e quasi per la detta cagione era tutto ismosso di fare la 'mpresa la quale avea promessa. Alla fine per le savie parole e indottive di messer Gianni, e rimproverandogli come quegli della casa di Francia aveano morto il suo avolo, e lo re Carlo il suo suocero re Manfredi, e Curradino nipote del detto Manfredi, e come di ragione di retaggio gli succedea il reame di Cicilia per la reina Gostanza sua moglie, e reda e figliuola del detto re Manfredi, e mostrandogli ancora come i Ciciliani il disideravano a signore, e prometteano di rubellare l'isola al re Carlo, e veggendo la molta moneta che gli mandava Paglialoco, il detto re Piero covidoso d'aquistare signoria e terra, come ardito e franco signore, giurò da capo, e promise di seguire la detta impresa segretamente nelle mani degli ambasciadori del Paglialoco e di messere Gianni di Procita, comandando la credenza, e che tornassono in Cicilia a dare ordine alla rubellazione, quando fosse tempo e luogo, e egli avesse in mare la sua armata; e così fu fatto.
<B>LX</B>
<I>Come il detto re d'Araona s'apparecchiò di fare sua armata, e come il papa gliele mandò difendendo.</I>
Lo re Piero di Raona com'ebbe fatto il saramento della sopradetta impresa, e ricevuta la moneta, la quale fu XXXm once d'oro, sanza maggiore quantità che gli promise il Paglialoco, venuto lui in Cicilia, fece di presente apparecchiare galee e navilio, e dando soldo a' cavalieri e marinari largamente; e diede boce e levò stendale d'andare sopra i Saracini. Divolgata la boce e la fama di suo apparecchiamento, il re Filippo di Francia, il quale avea avuto per moglie la serocchia del detto re d'Araona, mandò a·llui suoi ambasciadori per sapere in che paese e sopra quali Saracini andasse, promettendoli aiuto di gente e di moneta; il quale re Piero non gli volle manifestare sua impresa, ma ch'egli di certo andava sopra i Saracini, il luogo e dove non volea manifestare, ma tosto si saprebbe per tutto il mondo; ma domandogli aiuto di libbre XLm di buoni tornesi, e lo re di Francia gliele mandò incontanente. E conoscendo il re di Francia che il re Piero d'Araona era ardito e di gran cuore, ma, come Catalano, di natura fellone, e per la coperta risposta, mandò a·ddire incontanente, e per suoi ambasciadori il fece assapere al suo zio lo re Carlo in Puglia, ch'egli si prendesse guardia di sue terre. Lo re Carlo incontanente venne a corte a papa Martino, e fecegli assapere della 'mpresa del re d'Araona, e quello che il re Filippo di Francia gli aveva mandato a·ddire; per la qual cosa il papa incontanente mandò al re d'Araona suo ambasciadore uno savio uomo, frate Jacopo de' predicatori, per volere sapere in qual parte sopra i Saracini andasse, che volea pur sapere, però che·lla Chiesa gli volea dare aiuto e favore, e era impresa che molto toccava alla Chiesa; e oltre a·cciò mandandogli comandando che non andasse sopra niuno fedele Cristiano. Il quale ambasciadore giunto in Catalogna, e disposta sua ambasciata, lo re ringraziò molto il papa della larga proferta, raccomandandosi a·llui; ma di sapere in qual parte andasse, al presente in nulla guisa il potea sapere; e sopra ciò disse uno motto molto sospetto, che se·ll'una delle sue mani il manifestasse all'altra, ch'egli la taglierebbe. Non potendo l'ambasciadore del papa avere altra risposta, si tornò in corte, e dispuose al papa e al re Carlo la risposta del re di Raona, la quale ispiacque assai a papa Martino. Lo re Carlo, ch'era di sì grande cuore e teneasi sì possente, poco o niente ne curò, ma per dispetto disse a papa Martino: "Non vi diss'io che Piero d'Araona era uno fellone briccone?". Ma non si ricordò lo re Carlo del proverbio del comune popolo che dice: "Se t'è detto "Tu hai meno il naso', ponviti la mano"; anzi si diede a non calere, e non si mise a sentire i trattati e tradimenti che si faceano in Cicilia per messer Gianni di Procita, e per gli altri baroni ciciliani; ma cui Idio vuole giudicare, è apparecchiato chi fa tosto l'esecuzione.
<B>LXI</B>
<I>Come e per che modo si rubellò l'isola di Cicilia al re Carlo.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXII, i·llunedì di Pasqua di Risoresso, che fu a dì XXX di marzo, sì come per messer Gianni di Procita era ordinato, tutti i baroni e' caporali che teneano mano al tradimento furono nella città di Palermo a pasquare. E andandosi per gli Palermitani, uomini e femmine, per comune a cavallo e a piè alla festa di Monreale fuori della città per tre miglia (e come v'andavano quelli di Palermo, così v'andavano i Franceschi, e il capitano del re Carlo a diletto), avenne, come s'adoperò per lo nimico di Dio, ch'uno Francesco per suo orgoglio prese una donna di Palermo per farle villania: ella cominciando a gridare, e la gente era tenera, e già tutto il popolo commosso contra i Franceschi, per famigliari de' baroni dell'isola si cominciò a difendere la donna, onde nacque grande battaglia tra' Franceschi e' Ciciliani, e furonne morti e fediti assai d'una parte e d'altra; ma il peggiore n'ebbono quegli di Palermo. Incontanente tutta la gente si ritrassono fuggendo alla città, e gli uomini ad armarsi, gridando: "Muoiano i Franceschi!". Si raunavano in su la piazza, com'era ordinato per gli caporali del tradimento, e combattendo al castello il giustiziere che v'era per lo re, e lui preso e ucciso, e quanti Franceschi furono trovati nella città furono morti per le case e nelle chiese, sanza misericordia niuna. E ciò fatto, i detti baroni si partirono di Palermo, e ciascuno in sua terra e contrada feciono il somigliante, d'uccidere tutti i Franceschi ch'erano nell'isola, salvo che in Messina s'indugiarono alquanti dì a ribellarsi; ma per mandato di quegli di Palermo, contando le loro miserie per una bella pistola, e ch'egli doveano amare libertà e franchigia e fraternità co·lloro, sì·ssi mossono i Missinesi a ribellazione, e poi feciono quello e peggio che' Palermitani contra' Franceschi. E trovarsene morti in Cicilia più di IIIIm, e nullo non potea nullo scampare, tanto gli fosse amico, come amasse di perdere sua vita; e se l'avesse nascoso, convenia che 'l rassegnasse o uccidesse. Questa pestilenzia andò per tutta l'isola, onde lo re Carlo e sua gente ricevettono grande dammaggio di persone e d'avere. Queste contrarie e ree novelle l'arcivescovo di Monreale incontanente le fece assapere al papa e al re Carlo per suoi messi.
<B>LXII</B>
<I>Come lo re Carlo si compianse alla Chiesa e al re di Francia e a tutti suoi amici e l'aiuto ch'ebbe da·lloro.</I>
Nel detto tempo lo re Carlo era in corte col papa: com'ebbe la dolorosa novella della rubellazione di Cicilia, cruccioso molto nell'animo e ne' sembianti, e' disse: "Sire Iddio, dapoi t'è piaciuto di farmi aversa la mia fortuna, piacciati che 'l mio calare sia a petitti passi". E incontanente fu a papa Martino e a' suoi cardinali, domandando loro aiuto e consiglio, i quali si dolfono assai co·llui insieme, e confortarono lo re che sanza indugio intendesse a raquisto, prima per via di pace, se potesse, e se non, per via di guerra, promettendogli ogni aiuto che·lla Chiesa potesse fare, spirituale e temporale, sì come a figliuolo e campione di santa Chiesa. E fece il papa legato per andare in Cicilia a trattare l'accordo, e con molte lettere e processi, messer Gherardo da Parma cardinale, uomo di gran senno e bontà, il quale si partì di corte col re Carlo insieme, e andarne in Puglia. Per simile modo si pianse lo re Carlo per lettere e ambasciadori al re di Francia suo nipote, e mandò a Carlo suo figliuolo prenze di Salerno, ch'era in Proenza, che 'ncontanente dovesse andare in Francia al re, e al conte d'Artese, e agli altri baroni a pregargli che 'l dovessono aiutare. Il quale prenze dal re di Francia fu ricevuto graziosamente, dogliendosi lo re co·llui della perdita del re Carlo, dicendo: "Io temo forte che questa ribellazione di Cicilia non sia fatta a sommossa del re d'Araona, però che quand'egli facea sua armata, e ch'io gli prestai libbre XLm di tornesi, e mandalo pregando mi facesse assapere ove e in che parte dovesse andare, nol mi volle manifestare; ma non port'io mai corona, s'egli avrà fatta questa tradigione alla casa di Francia, s'io non ne fo alta vendetta". E ciò attenne bene, ch'assai ne fece innanzi, sì ch'egli ne morì con molta di sua baronia, come innanzi a·lluogo e a tempo ne faremo menzione. E di presente disse lo re al prenze, che ne tornasse in Puglia, e appresso di lui mandò il conte di Lanzone della casa di Francia con più altri conti e baroni e grande cavalleria alle spese del re di Francia per aiuto del re Carlo.
<B>LXIII</B>
<I>Come quegli di Palermo e gli altri Ciciliani mandarono a papa Martino loro ambasciadori.</I>
In questo tempo, parendo a quegli di Palermo e agli altri Ciciliani avere mal fatto, e sentendo l'apparecchiamento che il re Carlo facea per venire sopra loro, sì mandarono loro ambasciadori frati e religiosi a papa Martino, dimandandogli misericordia, proponendo in loro ambasciata solamente: "Agnus Dei qui tollis peccata mundi, miserere nobis; Agnus Dei qui tollis peccata mundi, miserere nobis; Agnus Dei qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem". E il papa in pieno concestoro fece loro questa risposta, sanza altre parole, che questo è scritto nel <I>Passio Domini</I>: "Ave rex Iudeorum, et dabant ei alapam. Ave rex Iudearum, et dabant ei alapam. Ave rex Iudeorum, et dabant ei alapam". Onde si partirono molto sconsolati.
<B>LXIV</B>
<I>Dell'aiuto che 'l Comune di Firenze mandò al re Carlo.</I>
Il Comune di Firenze mandò in aiuto del re Carlo cinquanta cavalieri di corredo, e cinquanta donzelli gentili uomini di tutte le case di Firenze per farli cavalieri, e con loro compagnia furono Vc bene a cavallo e in arme, e loro capitano fu per lo Comune il conte Guido da Battifolle della casa de' conti Guidi, e giunsono a la Catona in Calavra, quando lo re v'era con sua oste e stuolo per valicare a Messina, onde lo re si tenne dal Comune di Firenze riccamente servito, e ricevette la detta cavalleria graziosamente; e molti di loro fece cavalieri, e servirlo mentre dimorò a Messina alle spese del detto Comune. E portovvi il detto conte e capitano il padiglione grande del Comune di Firenze, il quale rimase alla partita da Messina, e' Missinesi il misono per ricordanza nella loro grande chiesa. E per simile modo molte città di Toscana e di Lombardia mandarono aiuto di genti a lo re, ciascuno secondo suo podere.
<B>LXV</B>
<I>Come lo re Carlo si puose a oste a Messina per mare e per terra.</I>
Lo re Carlo ordinata sua oste a Napoli per andare in Cicilia, tutta sua cavalleria e gente a piè mandò per terra in Calavra alla Catona incontra a Messina, il Faro in mezzo, e lo re n'andò a Brandizio, ov'era in concio il suo navilio, il quale avea apparecchiato più tempo dinanzi per passare in Gostantinopoli, e furono CXXX tra galee, e uscieri, e legni grossi, sanza gli altri legni di servigio, che furono in grande quantità; e di Brandizio sì partirono col detto navilio, e giunse incontra Messina a dì VI di luglio, gli anni di Cristo MCCLXXXII, e puosesi a campo da la parte di Tavermena a Santa Maria di Rocca Maiore; e poi ne venne a le Paliare, assai presso alla città di Messina, e il navilio nel Fare incontro al porto. E fu lo re con più di Vm uomini a cavallo tra Franceschi, e Provenzali, e Italiani, e popolo sanza numero. E ciò veggendo i Missinesi impaurirono forte, veggendosi abandonati d'ogni salute, e la speranza del soccorso del re d'Araona pareva loro lunga e vana, sì mandarono incontanente loro ambasciadori nel campo al re Carlo e al legato, pregandogli per Dio che perdonasse il loro misfatto, e avesse di loro misericordia, e mandasse per la terra. Lo re insuperbito no·lli volle torre a misericordia, che di certo a queto avea la terra e poi tutta l'isola, però ch'erano i Missinesi e Ciciliani isproveduti, e non ordinati a difensione, né con nullo capitano; ma fellonescamente gli disfidò lo re a morte loro e' loro figliuoli, siccome traditori della Chiesa di Roma e della corona, ch'elli si difendessono, s'avessono podere, e mai con patti gli venissono innanzi; onde lo re fallò troppo apo Idio, e in suo danno; ma a cui Iddio vuole male gli toglie il senno. I Missinesi udendo la crudele risposta del re, non sapeano che·ssi fare, e per IIII dì istettono in contesa tra·lloro d'arrendersi o di difendersi con grande paura.
<B>LXVI</B>
<I>Come la gente del re ebbono Melazzo, e come i Missinesi mandarono per lo legato per trattare accordo col re Carlo.</I>
Avenne in questa stanzia che lo re fece passare co suo' uscieri per lo Fare dinanzi a Messina il conte di Brenna e quello di Monforte con VIIIc cavalieri e più pedoni, dall'altra parte di Messina verso Melazzo, guastando il paese d'intorno. Per la qual cosa certi di quegli di Messina venendo al soccorso di Melazzo, e per non lasciargli prendere terra, con que' di Melazzo insieme furono sconfitti dalla gente del re Carlo, e furonne morti presso di mille, tra di Messina e di Melazzo, chi alla battaglia, e molti traffelando, fuggendo verso Messina; e fu presa la terra e castello di Melazzo per la gente del re. E come i Missinesi ebbono la detta novella, incontanente mandarono nel campo al legato cardinale, che per Dio venisse in Messina per acconciargli col re Carlo. Il legato venuto, v'entrò incontanente con grande buono volere per accordargli, e appresentò le lettere del papa al Comune di Messina, per le quali gli mandava molto riprendendo della follia fatta per loro contro allo re Carlo e sua gente; e questa fu la forma: "A' perfidi e crudeli dell'isola di Cicilia, Martino papa terzo quelle salute che voi sete degni, siccome corrompitori di pace, e de' Cristiani ucciditori, e spargitori del sangue de' nostri fratelli. A voi comandiamo che vedute le nostre lettere, dobbiate rendere la terra al nostro figliuolo e campione Carlo re di Gerusalem e Cicilia per autorità di santa Chiesa, e che dobbiate lui e noi ubbidire, siccome vostro legittimo signore; e se ciò non faceste, mettiamo voi scomunicati e interdetti secondo la divina ragione, anunziandovi giustizia spirituale". E lette le dette lettere per lo legato cardinale, sì comandò che sotto pena di scomunicazione, e d'esser privati d'ogni benificio di santa Chiesa si dovessono accordare col re, e rendergli la terra, e ubbidirlo come loro signore e campione di santa Chiesa; e 'l detto legato con savie parole amonendogli e consigliandogli che ciò dovessono fare per lo loro migliore; per la qual cosa i Missinesi elessono XXX buoni uomini della città a trattare l'accordo col legato, e vennero a volere questi patti, cioè: "Che·llo re ci perdoni ogni misfatto, e noi gli renderemo la terra dandogli per anno quello che' nostri antichi davano al re Guiglielmo; e volemo signoria latina, e non Franceschi né Provenzali, e sarello obbedienti e buoni fedeli". I quali patti il legato mandò dicendo al re per lo suo camerlingo, pregandolo per Dio dovesse loro perdonare e prendere i detti patti, però che da poi saranno indurati e messisi alla difensione, ogni dì peggiorrebbe patti; ma avendo egli la terra con volontà de' cittadini medesimi, ogni dì gli potrebbe allargare: ed era sano e buono consiglio. Come lo re ebbe la detta risposta s'adirò forte, e disse fellonosamente: "I nostri suditi che contro a noi hanno servita morte domandano patti, e voglionne torre la signoria, e vogliommi rendere censo all'uso del re Guiglielmo, che quasi nonn-avea niente; non ne farei nulla; ma dapoi che al legato piacce, io perdonerò loro in questo modo, ch'io voglio di loro VIIIc stadichi quali io vorrò, e farne mia volontà, e tenendo da me quella signoria che a·mme piacerà, sì come loro signore, pagando quelle colte e dogane che sono usati; e se questo vogliono fare, sì 'l prendano, e se non, sì·ssi difendano". La qual risposta fu molto biasimata da' savi; che se·llo re non gli avea voluti prendere a' primi patti, quando si puose all'asedio, ch'erano per lui più larghi e onorevoli, a' secondi fece fallo del doppio, e non considerò gli avenimenti e casi fortunosi ch'agli assedi delle terre possono avenire, e che avennero a·llui, come innanzi faremo menzione: onde fu esemplo, e sarà sempre a quegli che saranno, di prendere i patti che·ssi possono avere da' nemici, potendo avere la terra assediata. Ma cui vince il peccato universale della superbia e dell'ira in nullo caso può prendere buono consiglio.
<B>LXVII</B>
<I>Come si ruppe il trattato dell'acordo ch'avea menato il legato dal re Carlo a' Messinesi.</I>
Come i lettori di Messina ebbono l'acerba risposta dal legato, che lo re avea fatta al suo camerlingo, i detti XXX buoni uomini raunarono il popolo, e feciolla loro manifesta, onde tutti come disperati gridando: "In prima mangiamo i nostri figliuoli, che a questi patti ci arendiamo; che ciascuno di noi sarebbe di quegli VIIIc ch'egli domanda: innanzi volemo tutti morire dentro alla città nostra, colle mogli nostre e co' figliuoli, ch'andare morendo per tormenti e pregioni in istrani paesi". Come il legato vide i Missinesi così male disposti a rendersi a lo re Carlo, fu molto cruccioso, e innanzi si partisse gli pronunziò scomunicati e interdetti, e comandò a tutti i cherici che infra 'l terzo dì si dovessono partire della terra, e protestò al Comune che infra i XL dì dovessono mandare per sofficiente sindaco a comparire dinanzi al papa, e ubbidire e udire sentenzia, e partissi della terra molto turbato.
<B>LXVIII</B>
<I>Come Messina fu combattuta dalla gente del re Carlo, e come si difesono.</I>
Come il cardinale fu tornato nell'oste, i più de' maggiori dell'oste ne furono molto crucciosi, perché parea loro il migliore e il più senno ad avere presa la terra ad ogni patto; ma lo re Carlo era sì temuto, che nullo gli ardiva a dire nulla più ch'a·llui piacesse. Ma tegnendo lo re consiglio di quello ch'avesse a·ffare, i più de' conti e baroni consigliaro che dapoi ch'egli nonn-avea voluta la terra a patti, ch'ella si combattesse aspramente da più parti, e spezialmente dall'una parte che·lla terra nonn-avea muro, ma eravi barrata di botti e altro legname; e assai era possibile di poterla vincere per battaglia, che cominciandovisi uno badalucco, i nostri Fiorentini aveano già vinte le sbarre e entrati dentro alquanti; e se que' dell'oste avessono seguito, s'avea la terra per forza. Ma sappiendolo il re Carlo, fece suonare le trombe alla ritratta, e disse che non volea guastare sua villa, onde avea grande rendita, né uccidere i fantini, ch'erano innocenti, ma che la voleva per affanno d'edificii, e per assedio aseccargli di vivanda, vincere. Ma non fece ragione di quello che potea avenire nel lungo assedio, e bene gli avenne. Ma al fallo della guerra incontanente v'è la disciplina e penitenzia apparecchiata. Per lo detto modo stette lo re con sua oste intorno a Messina da due mesi, e dando la sua gente alcuna battaglia dalla parte ove nonn-era murata, i Missinesi colle loro donne, le migliori e maggiori della terra, e con loro figliuoli piccioli e grandi, subitamente in tre dì feciono il detto muro, e ripararono francamente agli asalti de' Franceschi. E allora si fece una canzonetta che disse:
Deh, com'egli è gran pietade
Delle donne di Messina,
Veggendole scapigliate
Portando pietre e calcina.
Iddio gli dea briga e travaglia,
A chi Messina vuole guastare etc.
Lasceremo alquanto dell'asedio di Messina, e diremo quello che fece Piero d'Araona con sua armata.
<B>LXIX</B>
<I>Come lo re Piero d'Araona si partì di Catalogna e venne in Cicilia, e come fu fatto e coronato re da' Ciciliani.</I>
Nel detto anno MCCLXXXII, del mese di luglio, lo re Piero d'Araona colla sua armata si partì di Catalogna, e furono L galee e con VIIIc cavalieri e altri legni di carico assai, della quale armata fece suo amiraglio uno valente cavaliere di Calavra, ribello del re Carlo, il quale avea nome messer Ruggieri di Loria, e arrivò in Barberia nel reame di Tunisi, e a la infinta si puose ad assedio ad una terra che·ssi chiamava Ancalle per attendere novelle di Cicilia, e a quella diede alcuna battaglia, e stettonvi XV giorni. E in quella stanza, sì come era ordinato, vennero a·llui con messer Gianni di Procita ambasciadori di Messina e sindachi con pieno mandato di tutte le terre di Cicilia, a pregarlo ch'egli prendesse la signoria, e s'avacciasse di venire nell'isola per soccorrere la città di Messina, la quale dal re Carlo e da sua oste era molto stretta. Lo re Piero udendo la gente e la potenza del re Carlo, e che la sua a comparazione era niente, alquanto temette; ma per lo conforto e consiglio di messer Gianni, e veggendo che tutta l'isola era per fare le sue comandamenta, e aveano tanto misfatto al re Carlo, che di loro si potea bene sicurare, sì rispuose ch'egli era apparecchiato del venire e del soccorrere Messina. E incontanente si levò da oste da Ancolle, e ricolsesi a galee, e misesi in mare, e arrivò alla città di Trapali all'entrante d'agosto. E come giunse a Trapali, per messere Gianni di Procita e per gli altri baroni di Cicilia fu consigliato che sanza soggiorno cavalcasse a Palermo, e 'l navilio mandasse per mare; e a Palermo saputo novelle dell'oste del re Carlo e dello stato di Messina, prenderebbono consiglio. E così fu fatto, che a dì X d'agosto lo re Piero giunse nella città di Palermo, e da' Palermitani fu ricevuto a grande onore e processione sì come loro signore, e credendo scampare da morte per lo suo aiuto; e a grido di popolo il feciono loro re, salvo che non fu coronato per l'arcivescovo di Monreale, come si costumava per gli altri re, però che s'era partito e itosene al papa; ma coronollo il vescovo di Cefalù d'una picciola terra di Cicilia, ch'era rubello del re Carlo.
<B>LXX</B>
<I>Del parlamento che 'l re d'Araona tenne in Palermo per soccorrere la città di Messina.</I>
Quando il re Piero fu coronato in Palermo, fece grande parlamento sopra ciò ch'avesse a·ffare, ove furono tutti i baroni dell'isola. I baroni veggendo il picciolo podere del re d'Araona apo la grande potenzia del re Carlo, sì furono molto isbigottiti, e feciono di loro parlatore messer Palmieri Abati, il quale ringraziò molto lo re di sua venuta, e che·lla sua promessa era venuta bene fornita, se fosse venuto con più gente d'arme, però che·llo re Carlo avea più di Vm cavalieri e popolo infinito, e temiamo che Messina non sia già renduta, sì era stretta di vivanda; e consigliava che·ssi raunasse gente, e si richiedessono gli amici di tutte parti, sicché l'altre città e terre dell'isola si potessono difendere. Come il re Piero intese il consiglio de' baroni di Cicilia, ebbe grande dottanza, e parvegli esser in mal luogo, e pensò di partirsi dell'isola, se il re Carlo o sua gente venisse verso Palermo. Avenne che stando quello parlamento, al re d'Araona venne da Messina una saettia armata con lettere, nelle quali si contenea che Messina era sì stretta di vivanda, che non si potea tenere più di VIII giorni, e che gli piacesse di soccorrergli; se non, sì·lli convenia di necessità arendere al re Carlo. Come lo re Piero ebbe le dette novelle, le mostrò a' baroni, e domandò consiglio. Levossi messer Gualtieri di Catalagirona, e disse che per Dio si soccorresse Messina, che s'ella si perdesse, tutta l'isola e eglino tutti erano in grande pericolo e aventura; e pareali che 'l re Piero con tutta sua gente cavalcasse verso Messina pressovi a L miglia, per avventura lo re Carlo si leverà da oste. Messer Gianni di Procita si levò, e poi disse che·llo re Carlo nonn-era garzone che·ssi movesse per lieva lieva, "ma colla buona e grande cavalleria ch'ha seco ci verrebbe incontro per la battaglia; ma parmi che il nostro re gli mandi suoi messaggi a dirgli ch'egli si parta di sua terra, la quale gli scade per retaggio di sua mogliera, e fugli confermata per la Chiesa di Roma per papa Niccola terzo degli Orsini; e se ciò non vuole fare, il disfidi. Ciò fatto, incontanente si mettessono in concio tutte le galee sottili, e che l'amiraglio andasse su per lo Fare, prendendo trite e ogni legno di carico ch'a l'oste portasse vittuaglia, e per questo modo con poco rischio e fatica asseccheremo il re Carlo, e sua oste converrà si parta dall'asedio; e se rimane in terra, egli e sua gente morranno di fame". Incontanente per lo re e per tutti i baroni fu preso il consiglio di messere Gianni, e furono mandati due cavalieri catalani con lettere e coll'ambasciata assai oltraggiosa e villana, e questa fu la forma della lettera.
<B>LXXI</B>
<I>La lettera che 'l re d'Araona mandò al re Carlo.</I>
"Piero d'Araona e di Cicilia re, a te Carlo re di Gerusalem e di Proenza conte.
Significhiamo a te il nostro avenimento nell'isola di Cicilia, siccome nostro giudicato reame per l'autorità di santa Chiesa, e di messer lo papa, e de' venerabili cardinali, e però comandiamo a te che, veduta questa lettera, ti debbi levare dell'isola di Cicilia con tutto tuo podere e gente, sappiendo che se nol facessi, i nostri cavalieri e fedeli vedresti di presente in vostro dammaggio, offendendo voi e vostra gente".
<B>LXXII</B>
<I>Come lo re Carlo tenne suo consiglio, e rispuose al re d'Araona per sua lettera.</I>
Come i detti ambasciadori furono nel campo e oste del re Carlo, e date loro lettere, e sposta l'ambasciata al re Carlo e a tutti suoi baroni, tennero sopra ciò consiglio, e parve uno grande orgoglio e dispetto quello che 'l re d'Aragona avea mandato a dire al maggiore o de' maggiori re de' Cristiani, e egli era di sì piccolo affare; e queste parole furono del conte di Monforte, dicendo che contro a·llui si volea fare gran vendetta. Il conte di Brettagna consigliò che il re Carlo gli rispondesse per sua lettera, comandandogli che sgombrasse l'isola, appellandolo come traditore, e disfidandolo; e così fu preso di fare. E la somma della lettera la quale mandò il re Carlo fu in questa forma.
<B>LXXIII</B>
<I>Come lo re Carlo rispuose per sua lettera al re d'Araona.</I>
"Carlo per la Dio grazia di Gerusalem e di Cicilia re, prenze di Capova, d'Angiò e di Folcalchieri e di Proenza conte, a te Piero d'Aragona re, e di Valenza conte.
Maravigliamo molto come fosti ardito di venire in su il reame di Cicilia, giudicato nostro per l'autorità di santa Chiesa di Roma; e però ti comandiamo che, veduta questa lettera, ti debbi partire del reame nostro di Cicilia, sì come malvagio traditore d'Iddio e di santa Chiesa; e se ciò non facessi, disfidianti siccome nostro nemico e traditore, e di presente ci vedrete venire in vostro dammaggio, però che disideriamo di vedere voi e vostra gente colle nostre forze".
<B>LXXIV</B>
<I>Come il re d'Araona mandò il suo amiraglio per prendere il navilio del re Carlo.</I>
Come al re d'Aragona furono per gli suoi ambasciadori apresentate le dette lettere, e disposta l'ambasciata e risposta del re Carlo, incontanente fu a consiglio per prendere partito di quello ch'avesse a·ffare. Allora si levò messer Gianni di Procita, e disse: "Signore nostro, com'io t'ho detto altra volta, per Dio, manda l'amiraglio tosto colle tue galee a la bocca del Fare, e fa' prendere il navilio che porta la vivanda all'oste, e avrai vinta la guerra; e se il re Carlo si mette a stare, rimarrà preso e morto con tutta sua gente". Il consiglio di messer Gianni fu preso, e messer Ruggieri di Loria amiraglio, uomo di grande ardire e valore, e il più bene aventuroso in battaglie in terra e in mare che fosse mai di suo essere, come innanzi faremo menzione in più parti, s'apparecchiò con LX galee sottili armate di Catalani e Ciciliani. Queste cose sentì una spia di messer Aringhino da Mare di Genova amiraglio del re Carlo, e incontanente con una saettia armata venne a Messina, e anunziò al detto amiraglio la venuta dell'armata del re d'Araona. Incontanente messer Aringhino fu al re Carlo e al suo consiglio, e disse: "Per Dio, sanza indugio pensiamo di passare colla nostra gente in Calavra, ch'i' ho novelle vere come l'amiraglio del re d'Araona viene qua di presente con sue galee armate; e io nonn-ho galee armate da battaglia, ma legni di mestieri, e disarmati; se non ci partiano, egli prenderà e arderà tutto nostro navilio sanza nullo riparo, e tu re con tutta tua gente perirai per difalta di vittuaglia; e ciò fia intra tre giorni, secondo m'aporta la mia vera spia: e però non si vuole punto di dimoro, però che ancora ci viene adosso il verno, e in Calavra nonn-ha porti vernerecci, tutti i legni con tua gente potrebbono perire a le piagge, s'avessono uno tempo contrario".
<B>LXXV</B>
<I>Come allo re Carlo convenne per necessità partire dall'asedio di Messina, e tornossene nel Regno.</I>
Quando il re Carlo udì questo, isbigottì forte, che mai per pericolo di battaglia né per altra aversità non avea avuto paura, e sospirando disse: "Volesse Idio ch'io fossi morto, dapoi che·lla fortuna m'è così contraria, ch'ho perduta mia terra avendo tanta potenzia di gente in mare e in terra; e non so perché m'è tolta da gente ch'io mai non diservì; e molto mi doglio, ch'io non presi Messina con patti ch'io la potei avere. Ma da che altro non posso", con grande dolore disse, "levisi l'oste, e passiamo; e chi m'avrà colpa di questo tradimento, o cherico o laico, ne farò grande vendetta". E il primo giorno fece passare la reina con ogni gente di mestiere e con parte degli arnesi dell'oste; il secondo dì passò il re con tutta sua gente, salvo ch'a cautela di guerra lasciò in aguato di fuori da Messina due capitani con MM cavalieri, a·ffine che levata l'oste, se quegli di Messina uscissono fuori per guadagnare della roba del campo, venissono loro adosso e entrassono nella terra; e se fatto venisse, ritornerebbe il re con sua gente incontanente. L'ordine fu bene fatto, e così fu bene contrapensato, che' Missinesi iscopersono il guato, e comandarono sotto pena della vita che nullo uscisse fuori della città; e così fu fatto. I Franceschi ch'erano rimasi in aguato, veggendosi scoperti, procacciarono di passare, e vennorne il terzo dì a lo re in Calavra, e dissono come il suo aviso era loro fallito; onde al re Carlo radoppiò il dolore, perché alcuna speranza n'avea. E così fu partita tutta l'oste da Messina, e diliberata la città ch'era in ultima stremità di vivanda, che non avea che vivere tre giorni, a dì XXVII di settembre, gli anni di Cristo MCCLXXXII. Il seguente dì giunse l'amiraglio del re d'Araona con sua armata su per lo Fare di Messina menando grande gazzarra e trionfo, e prese XXVIIII tra galee grosse e trite, intra·lle quali furono V galee del Comune di Pisa, ch'erano al servigio del re Carlo. E poi vegnendo alla Catona e a Reggio in Calavra, il detto amiraglio fece mettere fuoco e ardere da LXXX uscieri del re Carlo, ch'erano alle piagge disarmati, e questo vide il re Carlo e sua gente sanza potergli soccorrere, onde gli radoppiò il dolore. E avendo il re Carlo una bacchetta in mano, com'era sua usanza di portare, per cruccio la cominciò a rodere, e disse: "Ai Dius, molt m'aves sofert a sormonter; gie t'en pri che l'avallee soit tut bellamant". E così si mostra che senno umano né forza di gente non ha riparo al giudicio d'Iddio. Come lo re Carlo fu passato in Calavra, diede commiato a tutti gli suoi baroni e amici, e molto doloroso si ritornò a Napoli. Lo re Piero d'Araona avuta la novella della partita del re Carlo e di sua oste da Messina, e come il suo amiraglio avea operato, fu molto allegro; e di presente si partì da Palermo con tutti i baroni e cavalieri, e venne a Messina a dì X d'ottobre della detta indizione, e da' Missinesi, uomini e donne, fu ricevuto a grande processione e festa, siccome loro novello signore, e che gli avea liberati delle mani del re Carlo e de' suoi Franceschi. Lasceremo alquanto dello stato in che rimase l'isola di Cicilia, e lo Regno di qua dal Fare, e direno della progenia del detto re di Raona, perché séguita materia grande de' suoi fatti e de' suoi figliuoli.
<B>LXXVI</B>
<I>Chi fu il primo re d'Araona cristiano.</I>
Quelli della casa d'Araona non furono anticamente di legnaggio reale, ma grandi conti furono, cioè conte di Barzellona e di Valenza; e come dicemmo addietro, l'antico loro, ciò fu il conte Anfuso, fu sconfitto e morto da' Franceschi a l'oste a Carcasciona al tempo del re Filippo il Bornio re di Francia. E dicesi ch'anticamente quelli d'Araona furono d'uno legnaggio col conte di Tolosa e del buono conte Ramondo di Proenza; ma poi il buono conte Giammo figliuolo del detto Anfus e padre che fu del re Piero che prese Cicilia, onde tanto avemo parlato, per sua prodezza e valore prese sopra i Saracini di Spagna il reame d'Araona, e uccise il loro re, e del loro reame si coronò, e popolò de' suoi Catalani, e fecelo uno colla Catalogna, e fu egli e sue rede confermato re d'Araona per la Chiesa di Roma. E poi appresso per simile modo conquistò sopra i Saracini il reame e l'isola di Maiolica e di Minorica, e per avere pace co' Franceschi diede la figliuola per moglie al re Filippo, figliuolo che fu del buono re Luis di Francia, e in dote parte della signoria di Perpignano e di Monpulieri. E quando venne a morte, lo 'nfante Piero suo primo figliuolo fece e lasciò re d'Araona, e Giammo il secondo figliuolo re di Maiolica, onde poi sono discesi valenti re e signori, come innanzi faremo menzione. E la loro arme principale è oro e fiamma, cioè addogata per lungo ad oro e vermiglia, le bande di fuori ad oro. Lasceremo di quegli d'Araona e della rubellazione di Cicilia infino che luogo e tempo verrà di ciò parlare, e torneremo a nostra materia de' fatti di Firenze, e raccontando in brieve dell'altre novità notevoli per l'universo mondo avenute in questi tempi.
<B>LXXVII</B>
<I>Come i Lucchesi arsono e guastarono la terra di Pescia.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXI i Lucchesi arsono e guastarono tutto il castello e terra di Pescia in Valdinievole, perché teneano parte d'imperio e ghibellina, e non voleano ubbidire né stare sotto la signoria della città di Lucca; e alla detta oste vi furono i Fiorentini molto grossi in servigio de' Lucchesi. E perché i Fiorentini s'intramisono nella detta oste d'accordo da' Lucchesi a que' di Pescia, quando l'oste tornò in Lucca, a' Fiorentini fu fatta e detta villania dal popolo di Lucca.
<B>LXXVIII</B>
<I>Come Ridolfo eletto imperadore mandò suo vicario in Toscana.</I>
Nel detto anno MCCLXXXI Ridolfo re de' Romani essendo in Alamagna a richiesta e priego de' Ghibellini di Toscana, mandò nella detta Toscana per suo vicario messer..... conte di..... d'Alamagna con IIIc cavalieri, acciò che' Toscani facessono la sua fedeltà e comandamenti; ma non trovò nulla terra che 'l volesse ubbidire, se non la città di Pisa e Samminiato del Tedesco. E nel detto Samminiato colle sue masnade, e col favore de' Pisani cominciò guerra a' Fiorentini, e a' Lucchesi, e ad altre terre guelfe d'intorno; ma alla fine per poco podere e séguito s'aconciò co' Fiorentini e cogli altri Guelfi di Toscana, e tornossi in Alamagna.
<B>LXXIX</B>
<I>Come di prima si criò l'uficio de' priori in Firenze.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXII, essendo la città di Firenze al governamento dell'ordine di XIIII buoni uomini, come avea lasciato il cardinale Latino, ciò erano VIII Guelfi e VI Ghibellini, come addietro facemmo menzione, parendo a' cittadini il detto uficio de' XIIII uno grande volume e confusione, ad accordare tanti divisati animi a uno, e massimamente perché a' Guelfi non piacea la consorteria nell'uficio co' Ghibellini per le novitadi ch'erano già nate, siccome della perdita che 'l re Carlo avea già fatta dell'isola di Cicilia, e della venuta in Toscana del vicario dello 'mperio, e sì per guerre cominciate in Romagna per lo conte di Montefeltro per gli Ghibellini, per iscampo e salute della città di Firenze sì annullarono il detto uficio de' XIIII, e si creò e fece nuovo uficio e signoria al governo della detta città di Firenze, il quale si chiamarono priori dell'arti; il quale nome priori dell'arti viene a dire i primi eletti sopra gli altri; e fu tratto del santo Vangelio, ove Cristo disse a' suoi discepoli: "Vos estis prior". E questo trovato e movimento si cominciò per li consoli e consiglio dell'arte di Calimala, de la quale erano i più savi e possenti cittadini di Firenze, e del maggiore séguito, grandi e popolani, i quali intendeano a procaccio di mercatantia ispezialmente, che i più amavano parte guelfa e di santa Chiesa. E' primi priori dell'arti furono tre, i nomi de' quali furono questi: Bartolo di messer Jacopo de' Bardi per lo sesto d'Oltrarno e per l'arte di Calimala; Rosso Bacherelli per lo sesto di San Piero Scheraggio per l'arte de' cambiatori; Salvi del Chiaro Girolami per lo sesto di San Brancazio e per l'arte della lana. E cominciarono il loro officio in mezzo giugno del detto anno, e durò per due mesi infino a mezzo agosto, e così doveano seguire di due in due mesi per le dette tre maggiori arti tre priori. E furono rinchiusi per dare audienza, e a dormire e a mangiare alle spese del Comune nella casa della Badia, dove anticamente, come avemo detto addietro, si raunavano gli anziani al tempo del popolo vecchio, e poi i XIIII. E fu ordinato a' detti priori VI berrovieri e VI messi per richiedere i cittadini; e questi priori col capitano del popolo aveano a governare le grandi e gravi cose del Comune, e raunare e fare i consigli e le provisioni. E stando i detti due mesi, a' cittadini piacque l'uficio; e per gli altri due mesi seguenti ne chiamarono VI, uno per sesto, e agiunsono alle dette tre maggiori arti l'arte de' medici e speziali, e l'arte di porte Sante Marie, e quella de' vaiai e pillicciai. Poi di tempo in tempo vi furono aggiunte tutte l'altre infino alle XII maggiori arti; ed eranvi de' grandi come de' popolani uomini grandi di buona fama e opere, e che fossono artefici o mercatanti. E così seguì infino che·ssi fece il secondo popolo in Firenze, siccome innanzi al tempo debito fairemo menzione. D'allora innanzi non vi fu niuno grande; ma fuvi arroto il gonfaloniere della giustizia, e talora furono XII priori secondo le mutazioni dello stato della città e opportuni bisogni che occorressono, e del numero di tutte e XXI arti, e di quegli che non erano artefici, essendo stati artefici i loro anticessori. La lezione del detto uficio si facea per gli priori vecchi colle capitudini delle XII arti maggiori, e con certi arroti ch'alleggiano i priori per ciascuno sesto, andando a squittino segreto, e quale più boci avea, quegli era fatto priore; e questa elezione si facea nella chiesa di San Piero Scheraggio, e 'l capitano del popolo stava allo 'ncontro della detta chiesa nelle case che furono de' Tizzoni. Avenne tanto detto del cominciamento di questo officio de' priori, perché molte e grandi mutazioni ne seguirono alla città di Firenze, come innanzi per gli tempi faremo menzione. Lasceremo di dire al presente alquanto de' fatti di Firenze, e diremo d'altre novitadi che furono in questi tempi.
<B>LXXX</B>
<I>Come papa Martino mandò messer Gianni d'Epa conte in Romagna, e come prese la città di Faenza, e assedio Forlì.</I>
Nel detto anno MCCLXXXII, essendo il conte Guido da Montefeltro colla forza de' Ghibellini entrato in Romagna, e' gran parte delle terre fece ribellare alla Chiesa, sì come quegli ch'era il più sagace e il più sottile uomo di guerra che al suo tempo fosse in Italia. Per la qual cosa papa Martino rimosse messer Bertoldo Orsini che n'era conte e rettore per la Chiesa, e mandòvi messer Gianni d'Epa, gentile uomo di Francia, e molto provato cavaliere in arme, e tenuto uno de' migliori battaglieri di Francia; e portava in sue arme il campo verde e gli aguglini ad oro. Il quale messer Gianni d'Epa il detto papa per la Chiesa il fece conte, e con grande cavalleria di soldati per la Chiesa, Franceschi e Italiani, entrò in Romagna; e i Perugini vi mandarono al loro soldo C cavalieri; al quale fu data per tradimento e moneta la città di Faenza per Tribaldello de' Manfredi de' maggiori di quella terra. Poi il detto messer Gianni d'Epa colle masnade della Chiesa, e coll'aiuto de' Bolognesi, e con CC cavalieri che vi mandò il Comune di Firenze in servigio della Chiesa, e colla forza de' Malatesti da Rimino e di quegli da Polenta di Ravenna assediarono la città di Forlì, ma no·lla poterono avere.
<B>LXXXI</B>
<I>Come messere Gianni d'Epa conte di Romagna fu sconfitto a Forlì dal conte da Montefeltro.</I>
Nel detto tempo, stando il detto messer Gianni d'Epa conte di Romagna in Faenza, e facea guerra alla città di Forlì, cercò trattato d'avere per tradimento la detta terra; il qual trattato il conte Guido da Montefeltro, che n'era signore, fece muovere e cercare, come quegli che n'era mastro di guerra e de' trattati, e conosceva la follia de' Franceschi. Alla fine, il dì di calen di maggio, gli anni di Cristo MCCLXXXII, il detto messer Gianni con sua gente la mattina per tempo anzi giorno venne alla città di Forlì, credendolasi avere; e come per lo conte da Montefeltro era ordinato, gli fu data l'entrata d'una porta, il quale v'entrò con parte di sua gente, e parte ne lasciò di fuori con ordine, che a ogni bisogno soccorressono a que' d'entro, e se caso contrario avenisse, si ramassassono tutta sua gente in uno campo sotto una grande quercia. I Franceschi ch'entrarono in Forlì corsono la terra sanza contasto niuno; e 'l conte da Montefeltro, che sapea tutto il trattato, con sue genti se n'uscì fuori della terra; e dissesi per agurio e consiglio d'uno Guido Bonatti ricopritore di tetti, che·ssi facea astrolago, overo per altra arte, il conte da Montefeltro si reggea e davagli le mosse; e alla detta impresa gli diede il gonfalone, e disse: "In tale punto l'hai che, mentre se ne terrà pezzo, ove il porterai sarai vittorioso"; ma più tosto credo che·lle sue vittorie fossero per lo suo senno e maestria di guerra; e come avea ordinato, e' percosse a quelli di fuori ch'erano rimasi all'albero, e miseli in rotta. Quelli ch'entrarono dentro, credendosi avere la terra, aveano fatta la ruberia e prese le case; come ordinato fu per lo conte da Montefeltro, fu alla maggiore parte di loro tolti i freni e·lle selle de' cavagli da' cittadini; e incontanente il detto conte con parte di sua gente da una delle porte rientrò in Forlì e corse la terra, e parte di sua cavalleria e genti a piè lasciò sotto la quercia schierati, com'era l'ordine e postura de' Franceschi. Messer Gianni d'Epa e' suoi veggendosi così guidati, credendosi avere vinta la terra, si tennero morti e traditi, e chi potéo ricoverare a suo cavallo si fuggì della terra, e andonne all'albero di fuori credendovi trovare la loro gente; e là andando, erano da' loro nimici o presi o morti, e simile quegli ch'erano rimasi nella terra, onde i Franceschi e la gente della Chiesa ricevettono grande sconfitta e dannaggio, e morirvi molti buoni cavalieri franceschi e de' Latini caporali, intra gli altri il conte Taddeo da Montefeltro cugino del conte Guido, il quale per quistioni de' suoi eretaggi tenea colla Chiesa contro al detto conte Guido; e morivvi Tribaldello de' Manfredi ch'avea tradita Faenza, e più altri; ma il conte di Romagna, messer Gianni d'Epa, pure scampò con certi della detta sconfitta, e tornossi in Faenza.
<B>LXXXII</B>
<I>Come Forlì s'arrendé alla Chiesa, e fu accordo in Romagna.</I>
Come papa Martino seppe la detta sconfitta di Forlì, sì mandò al conte di Romagna gente assai a cavallo e a piè al soldo della Chiesa, faccendo guerra a Forlì; e in questa istanzia, a mezzo marzo vegnente MCCLXXXII, il detto conte ebbe per tradimento la città di Cervia in Romagna, per XVIm fiorini d'oro che se ne spesono per la Chiesa. Per la qual cosa per trattato d'accordo quegli di Forlì s'arrenderono alla Chiesa del mese di maggio MCCLXXXIII a patti, salvi l'avere e le persone, mandandone fuori il conte Guido da Montefeltro, e disfaccendosi le fortezze della terra; e quasi tutta Romagna fu all'ubidienza della Chiesa. E poi il detto conte da Montefeltro con sue masnade partito da Forlì, si ridusse nel castello di Meldola, faccendo grande guerra; per la qual cosa il conte di Romagna con tutte le masnade della Chiesa v'andò ad oste del mese di luglio, e stettervi V mesi, e no·lla potero avere. In quella stanzia dell'asedio di Meldola venne fatta a messer Gianni d'Epa una presta e notabile cavalleria, ch'egli avea in usanza ogni giorno in sulla terza, egli con poca compagnia e quasi disarmato, andava intorno al castello proveggendo; uno valente uomo uscito di Firenze, il quale era dentro, ch'avea nome Baldo da Montespertoli, sì pensò d'uccidere messer Gianni d'Epa, e armossi di tutte armi a cavallo, e a corsa coll'elmo in capo e colla lancia abassata si mosse per fedire messer Gianni, il quale s'avide della venuta del cavaliere, ma però non si mosse, ma attese; e come s'apressò, diede del bastone che portava in mano nella lancia del giostratore e levollasi da dosso, e passando oltre, il prese a braccia, e levollo della sella del cavallo in terra, e di sua mano col suo spuntone l'uccise; e così quegli che credea uccidere, da colui medesimo fu morto. Lasceremo de' fatti di Romagna, e direno d'altre novitadi che furono per l'universo mondo ne' detti tempi, che nel detto anno ne furono assai.
<B>LXXXIII</B>
<I>Come il re d'Erminia con grande gente di Tarteri fu sconfitto alla Cammella in Soria dal soldano d'Egitto.</I>
Nel detto anno MCCLXXXII, lo re d'Erminia essendo andato al grande Cane de' Tartari per soccorso e aiuto contro a' Saracini loro nemici, li diede uno suo nipote, ch'ave' nome Mangodamor, con XXXm Tarteri a cavallo, il quale venne in Soria col detto re d'Erminia, ove s'accozzarono co' Cristiani dinanzi alla città de Hames, detta oggi la Camelle, ov'era ad assedio il soldano d'Egitto con grandissimo esercito di Saracini. E congiunte le dette osti, grande e pericolosa battaglia fu tra l'una parte e l'altra; ed avendo a la prima i Cristiani co' Tartari insieme quasi la vittoria sopra i Saracini, il detto Mangodamor, corrotto per danari da' Saracini, usò tradimento contro a' Cristiani in questo modo: che quand'elli vide che' Saracini erano messi in isconfitta, Mangodamor capitano de' Tartari ismontò da cavallo, onde tutti i suoi Tartari, com'è loro usanza, ismontarono quando vidono ismontato loro signore; per la qual cosa il soldano, com'era ordinato, raccolse sue genti, e ricoverò il campo, e sconfisse i Cristiani con grandissimo danno di loro, e tutte le terre della Soria ch'avea perdute si riprese. Ma tornando i Tartari che scamparono di quella sconfitta ad Abaga gran Cane, tutti i caporali fece uccidere, e agli altri comandò che sempre andassono vestiti come femmine per loro dirisione, e così feciono a sua vita.
<B>LXXXIV</B>
<I>Come si cominciò la guerra da' Genovesi a' Pisani.</I>
In questi tempi la città di Pisa era in grande e nobile stato de' grandi e possenti cittadini più d'Italia, e erano in accordo e unità, e manteneano grande stato, che v'era cittadino il giudice di Gallura, il conte Ugolino, il conte Fazio, il conte Nieri, il conte Anselmo; il giudice d'Alborea n'era cittadino; e ciascuno per sé tenea gran corte. E con molti cittadini e cavalieri affiati cavalcavano ciascuno per la terra; e per la loro grandezza erano signori di Sardigna, e di Corsica, e d'Elba, onde aveano grandissime rendite in propio e per lo Comune; e quasi dominavano il mare co·lloro legni e mercatantie; e oltremare nella città d'Acri erano molto grandi, e con molti parentadi con grandi borgesi d'Acri. Per la qual cosa avendo per più tempo dinanzi avuta gara co·lloro vicini Genovesi per la signoria di Sardigna, e quasi in mare gli aveano come femmine, e in ogni parte gli soperchiavano, e in Acri gli oltraggiarono molto i Pisani, e colla forza de' loro parenti borgesi d'Acri disfeciono per battaglia e per fuoco la ruga de' Genovesi d'Acri, e cacciargli della terra. Per la qual cosa i Genovesi veggendosi soperchiati, e di loro natura erano molto orgogliosi, per vendicarsi de' Pisani, feciono una armata di LXX galee, e del mese d'agosto, gli anni di Cristo MCCLXXXII, vennero sopra Porto Pisano a due miglia. I Pisani colla loro armata di LXXV galee uscirono di Porto per combattere co' Genovesi, i quali veggendo ch'erano più di loro, e la loro armata era il più de' Lombardi e Piemontani a soldo, non si vollono mettere alla fortuna della battaglia, ma si tornarono a Genova. I Pisani ne montarono in superbia, e del mese di settembre vegnente colla detta armata andarono infino nel porto di Genova per la condotta di messer Natta Grimaldi rubello di Genova, e saettarono nella città quadrella d'ariento, poi tornarono a Portovenero, e puosonsi all'isola del Tiro, e guastarono intorno a Portoveneri, e al golfo della Spezia; e partendosi di là per tornare a Pisa, essendo in alto mare, come piacque a·dDio, si levò una fortuna con vento a gherbino sì forte e impetuoso, che tutta isciarrò la detta armata, e parte di loro galee, intorno di XXIII, percosse, e ruppono alla piaggia del Viereggio e alla foce di Serchio, ma poche genti vi perirono, ma tornarono in Pisa chi ignudo e chi in camicia, a modo di sconfitta. E per tema che s'ebbe in Pisa della detta rotta, si commosse tutta la città, e le donne scapigliate a pianto e dolore, e ciascuna si credea avere meno chi il marito, e chi il padre, o figliuolo, o fratello. E questo fu grande segno del futuro danno de' Pisani, come innanzi per gli tempi faremo menzione. I Genovesi per l'oltraggio ricevuto da' Pisani si dispuosono di vendicarsi, e come valenti uomini feciono ordine di non navicare in legni grossi né in navi, se non in galee sottili, e di non armarle di niuno soldato forestiere, com'erano usati di fare, ma de' migliori e maggiori cittadini che vi fossono compartite per soprasaglienti per galee, e studiare alle balestra e galeotti di loro riviera; e per questo modo divennero prodi e sperti in mare, e ricoverarono loro stato, e ebbono vittoria sopra i Pisani, come innanzi al tempo faremo menzione. Lasceremo alquanto della incominciata guerra de' Pisani e Genovesi, e torneremo a la materia cominciata per lo re d'Araona al re Carlo, e parte delle seguenti di quella.
<B>LXXXV</B>
<I>Come il prenze figliuolo del re Carlo con molta baronia di Francia e di Proenza passarono per Firenze per andare sopra i Ciciliani.</I>
Nel detto anno MCCLXXXII, del mese d'ottobre, venne in Firenze Carlo prenze di Salerno e figliuolo primogenito del grande re Carlo con VIc cavalieri, il quale veniva di Proenza e di Francia per mandato del suo padre per essere all'assedio di Messina colla sua oste, e venuto a corte di Roma al papa, siccome addietro facemmo menzione. In Firenze fu ricevuto il detto prenze a grande onore, e fece tre cavalieri della casa de' Bondelmonti; e incontanente se n'andò a corte di Roma, ov'era il re Carlo con sua baronia. Per simile modo passarono e vennero in Firenze, a dì XXIIII di novembre vegnente, il conte di Lanzone fratello del re di Francia con molti baroni e cavalieri, i quali il re Filippo di Francia mandava in soccorso al re Carlo. E soggiornati alquanti dì in Firenze, e da' Fiorentini veduti onorevolemente, se n'andaro a corte di Roma al re Carlo.
<B>LXXXVI</B>
<I>Come lo re Carlo e lo re Piero d'Araona s'ingaggiarono di combattere insieme a Bordello in Guascogna per la tenza di Cicilia.</I>
In questi tempi essendo lo re Carlo con tutta la sua baronia a corte di Roma nella città di Roma, e dinanzi a papa Martino e a tutti i suoi cardinali avea fatto appello di tradigione contro a Piero re d'Araona, il quale gli avea tolta l'isola di Cicilia, e che il detto re Carlo era apparecchiato di provarlo per battaglia, il detto re Piero mandati suo' ambasciadori alla detta corte a contastare al detto appello, e a scusarsi di tradigione, e che ciò ch'avea fatto era a·llui con giusto titolo, e che di ciò era apparecchiato di combattere corpo a corpo col re Carlo in luogo comune; onde si prese concordia sotto saramento in presenza del papa di fare la detta battaglia, ciascuno de' detti re con C cavalieri, i migliori che sapessono scegliere, a Bordello in Guascogna, sotto la guardia del balio, overo siniscalco, del re d'Inghilterra, di cui era la terra; con patti, che quale de' detti re vincesse la detta battaglia avesse di queto l'isola di Cicilia con volontà della Chiesa, e quelli che fosse vinto s'intendesse per ricreduto e traditore per tutti i Cristiani, e mai non s'apalesasse re, dispognendosi d'ogni onore. Per la qual cosa il detto re Carlo si tenne molto per contento, disiderando la battaglia, e parendogli avere ragione; e invitarsi a·llui de' migliori cavalieri del mondo d'arme per essere alla detta battaglia, per parte più di Vc, e feciono apparecchio, la maggiore parte Franceschi e Provenzali, e alcuno altro baccelliere d'arme nominato, d'Alamagna, e d'Italia, e di Firenze se ne profersono assai. E simile al re Piero d'Araona s'invitarono molti cavalieri, i più di suo paese, e alquanti Spagnuoli, e alcuno Italiano di parte ghibellina, e alcuno Tedesco del legnaggio di Soave; e il figliuolo del re di Morrocco saracino si proferse al re d'Araona, e promise, se 'l volesse, di farsi Cristiano quello giorno. E partissi di Cicilia, e lasciòvi don Giacomo suo secondo figliuolo per re, e egli n'andò in Catalogna per essere a Bordello alla detta giornata. E 'l detto re Carlo lasciò Carlo prenze suo figliuolo alla guardia del Regno, e partissi di corte per andare a Bordello, e passò per Firenze a dì XIIII di marzo, nel detto anno MCCLXXXII, e da' Fiorentini fu ricevuto con grande onore, e fece in Firenze VIII cavalieri tra Fiorentini, e Lucchesi, e Pistolesi. E ciò fatto, se n'andò a Lucca, e alla piaggia di Mutrone si ricolse in XVI galee armate venute di Proenza, e andonne a Marsilia, e di là in Francia per esser a la detta battaglia ordinata a Bordello. E dissesi, e fu manifesto, che·lla maggiore cagione perché lo re d'Araona ingaggiò la detta battaglia, fu fatto per lui con grande senno e per grande sagacità di guerra, per fare partire lo re Carlo d'Italia, acciò che non andasse più con armata e sua oste sopra i Ciciliani, però ch'egli era povero di moneta, e non poderoso al soccorso e riparo de' Ciciliani contro a re Carlo e della Chiesa di Roma, e temea de' Ciciliani che non si volgessono per paura o per altra cagione, però che non gli sentiva costanti, e egli e sua gente Catalani erano ancora co·lloro salvatichi, come nuovo signore e nuova gente. E così il savio provedimento gli venne fatto.
<B>LXXXVII</B>
<I>Come lo re Piero d'Araona fallì la giornata promessa a Bordello, onde per lo papa fu scomunicato e privato.</I>
Come lo re Carlo fu in Francia, sì apparecchiò sé e' suoi cavalieri d'arme e di cavagli, come a così alta e grande impresa si convenia, e partissi di Parigi, e co·llui lo re Filippo di Francia suo nipote con molta baronia, e bene con IIIm cavalieri d'arme, per andare a Bordella. E quando furono presso a Bordella a una giornata, lo re di Francia rimase colla sua gente e baronia, e lo re Carlo con suoi C cavalieri andò a Bordella alla giornata promessa, la quale fu a dì XXV di giugno MCCLXXXIII, e in quello luogo il detto re Carlo con suoi C cavalieri comparirono alla giornata armati e a cavallo per fare la promessa e giurata battaglia, e tutto il giorno dimorarono armati in sul campo, attendendo lo re Piero d'Araona co' suoi cavalieri, il quale non vi venne né comparì. Ben si disse che·lla sera della giornata al tardi comparì sconosciuto dinanzi al siniscalco del re d'Inghilterra, per non rompere il saramento, e protestò com'era venuto e apparecchiato di combattere, quando il re di Francia con sua gente, il quale v'era presso a una giornata, ond'elli avea tema e sospetto, si partisse; e ciò fatto, sanza soggiornare si tornò in Araona, e il primo dì che·ssi partì cavalcò bene LXXXX miglia. Per la qual cosa il re Carlo si tenne forte ingannato, e lo re Filippo di Francia molto adontato, e tornaronsi a Parigi. E saputa la novella papa Martino della difalta del re Piero d'Araona, col suo collegio de' cardinali diede sentenzia contro al detto Piero d'Araona, sì come scomunicato, e pergiuro, e ribello, e occupatore delle possessioni di santa Chiesa, e sì 'l privò e dispuose del reame d'Araona e d'ogni altro onore, e scomunicò chiunque l'obedisse o chiamasse re. Ma il detto re d'Araona per leggiadria si fece intitolare "Piero d'Araona cavaliere, e padre di due re, e signore del mare". E il detto papa Martino fatto il detto processo, sì brivileggiò del detto reame d'Araona Carlo conte di Valos, secondo figliuolo del detto re Filippo re di Francia, e mandò in Francia uno legato cardinale a confermare il detto Carlo della detta elezione, e predicare croce e indulgenzia contro al detto Piero d'Araona e sue terre. E lo re Carlo con dispensagione del papa diede per moglie al detto messer Carlo di Valos la sua nipote, figliuola del prenze Carlo suo figliuolo, e in dota la contea d'Angiò, acciò ch'egli col padre re di Francia fossero più ferventi alla guerra del re d'Araona. Lasceremo alquanto de' fatti del re Carlo e di quello d'Araona, e torneremo a quelli di Firenze.
<B>LXXXVIII</B>
<I>Come in Firenze fu diluvio d'acque e grande caro di vittuaglia.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXII, a dì XV di dicembre, per soperchie pioggie fu grandissimo diluvio d'acque, e crebbono i fiumi disordinatamente, e in Firenze crebbe sì il fiume d'Arno, che uscito de' termini suoi allagò grande parte del sesto di San Piero Scheraggio, e più altre contrade della città che sono nella riva d'Arno. E in questo anno fu grande caro d'ogni vittuaglia, e valse lo staio del grano alla misura rasa soldi XIIII di soldi XXXIII il fiorino d'oro; che, acomputando la moneta e la misura, fu grandissimo caro.
<B>LXXXIX</B>
<I>Come ne la città di Firenze si fece una nobile corte e festa, vestiti tutti di robe bianche.</I>
Nell'anno appresso MCCLXXXIII, del mese di giugno, per la festa di santo Giovanni, essendo la città di Firenze in felice e buono stato di riposo, e tranquillo e pacifico stato, e utile per li mercatanti e artefici, e massimamente per gli Guelfi che signoreggiavano la terra, si fece nella contrada di Santa Felicita Oltrarno, onde furono capo e cominciatori quegli della casa de' Rossi co·lloro vicinanze, una compagnia e brigata di M uomini o più, tutti vestiti di robe bianche, con uno signore detto dell'Amore. Per la qual brigata non s'intendea se non in giuochi, e in sollazzi, e in balli di donne e di cavalieri e d'altri popolani, andando per la terra con trombe e diversi stormenti in gioia e allegrezza, e stando in conviti insieme, in desinari e in cene. La qual corte durò presso a due mesi, e fu la più nobile e nominata che mai fosse nella città di Firenze o in Toscana; alla quale vennero di diverse parti molti gentili uomini di corte e giocolari, e tutti furono ricevuti e proveduti onorevolemente. E nota che ne' detti tempi la città di Firenze e' suoi cittadini fu nel più felice stato che mai fosse, e durò insino agli anni MCCLXXXIIII, che si cominciò la divisione tra 'l popolo e' grandi, appresso tra' Bianchi e' Neri. E ne' detti tempi avea in Firenze da CCC cavalieri di corredo e molte brigate di cavalieri e di donzelli, che sera e mattina metteano tavola con molti uomini di corte, donando per le pasque molte robe vaie; onde di Lombardia e di tutta Italia traeano a·fFirenze i buffoni e uomini di corte, e erano bene veduti, e non passava per Firenze niuno forestiere, persona nominato o d'onore, che a gara erano fatti invitare dalle dette brigate, e accompagnati a cavallo per la città e di fuori, come avesse bisogno.
<B>XC</B>
<I>Come i Genovesi feciono gran danno a' Pisani che tornavano di Sardigna.</I>
Nel detto anno e mese di giugno, vegnendo dell'isola di Sardigna V navi grosse e V galee armate de' Pisani, cariche di mercatantia e d'argento sardesco, i Genovesi avendone novelle, armarono XXV galee, onde fu amiraglio messer... di Genova. E andando incontro alle dette navi e galee, le scontrò sopra capo Corso, e combattendo co·lloro, dopo la fiera battaglia i Genovesi gli sconfissono, e presono, e menarono in Genova, che v'avea su più di MD Pisani, che tutti furono pregioni con altra buona gente, e tanta mercatantia e argento, che fu stimato di valuta di Cm libbre di genovini, ch'erano più di CXXm di fiorini d'oro, onde i Pisani ricevettono una grande perdita e sconfitta.
<B>XCI</B>
<I>Ancora de' fatti de' Pisani co' Genovesi.</I>
Apresso acrebbe a' Pisani, come piacque a·dDio, giudicio sopra la loro infortuna, che del mese d'aprile appresso, l'anno MCCLXXXIIII, mandando in Sardigna il conte Fazio loro grande cittadino con armata di XXX galee e una nave grossa, i Genovesi si scontrarono co·lloro sopra... con XXXV galee, ond'era amiraglio messer..., e combatterono con loro in mare, e fu aspra e dura battaglia, e molti ne furono morti e d'una parte e d'altra. Alla fine i Genovesi isconfissono i Pisani, e presono il detto conte Fazio con molti buoni cittadini di Pisa, e presono bene la metà delle dette galee, e menargli pregioni in Genova, onde i Pisani ricevettono grande perdita e dannaggio.
<B>XCII</B>
<I>Come i Genovesi sconfissono i Pisani a la Meloria.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXIIII, del mese di luglio, i Pisani non istanchi delle sconfitte avute da' Genovesi, come di sopra avemo fatta menzione, feciono loro isforzo per vendicarsi delle 'ngiurie ricevute da' Genovesi, e armarono, tra di loro genti e di soldati toscani e altri, da LXX galee, onde fu amiraglio messer Benedetto Buzacherini, e andarono insino nel porto di Genova, e in quello stettero, e balestrarono, com'altra volta aveano fatto, quadrella d'argento, e feciono grande onta e soperchio a' Genovesi, e presono più barche e altri legni, e rubarono e guastarono in più parti della riviera, e con grande pompa e romore, essendo nel porto di Genova, richiesono i Genovesi di battaglia. I Genovesi non ordinati né disposti alla battaglia, però ch'aveano disarmate le loro galee, con leggiadra e signorile risposta feciono loro iscusa, e dissono che perch'eglino combattessono co·lloro, e vincessongli nel loro porto e contrada, non avrebbono fatta loro vendetta né sarebbe loro onore, ma ch'eglino si tornassono al loro porto, e eglino si metterebbono in concio, e sanza indugio gli verrebbono a vedere, e sarebbono signori della battaglia. E così fu fatto, che' Pisani si partirono faccendo grandi grida, di rimprocci e schernie de' Genovesi, e tornaronsi in Pisa. I Genovesi sanza indugio niuno armarono CXXX tra galee e legni, e suso vi montarono tutta la buona gente di Genova e della riviera, ond'era amiraglio messer Uberto Doria, e del mese d'agosto vegnente vennero colla detta armata nel mare di Pisa. I Pisani sentendo ciò, a grido e a romore entrarono in galee, chi a Porto Pisano, e la podestà, e il loro amiraglio, e tutta la buona gente montarono in galee tra' due ponti di Pisa in Arno. E levando il loro istendale con grande festa, e essendo l'arcivescovo di Pisa in sul ponte parato con tutta la chericia per fare all'armata la sua benedizione, la mela e la croce ch'era in su l'antenna dello stendale cadde; onde per molti savi si recòe per mala agura del futuro danno. Ma però non lasciarono, ma con grande orgoglio, gridando: "Battaglia, battaglia!", uscirono della foce d'Arno, e accozzarsi colle galee del porto, e furono da LXXX tra galee e legni armati; e' Genovesi colla loro armata aspettando in alto mare, s'affrontarono alla battaglia co' Pisani all'isoletta, overo scoglio, il quale è sopra Porto Pisano, che si chiama la Meloria, e ivi fu grande e aspra battaglia, e morìvi molta buona gente d'una parte e d'altra di fedite, e d'anegati in mare. Alla fine, come piacque a·dDio, i Genovesi furono vincitori, e' Pisani furono sconfitti, e ricevettono infinito dammaggio di perdita di buone genti, che morti e che presi, bene XVIm uomini, e rimasono prese XL galee de' Pisani, sanza l'altre galee rotte e profondate in mare; le quali galee co' pregioni menarono in Genova, e sanza altra pompa, se non di fare dire messe e processioni rendendo grazie a·dDio; onde furono molto commendati. In Pisa ebbe grande dolore e pianto, che non v'ebbe casa né famiglia che non vi rimanessero più uomini o morti o presi; e d'allora innanzi Pisa non ricoverò mai suo stato né podere. E nota come il giudicio d'Iddio rende giusti e debiti meriti e pene, e tutto che talora s'indugino e sieno occulti a noi. Ma in quello luogo propio ove i Pisani sursono e anegarono in mare i prelati e' cherici che venieno d'oltremonti a Roma al concilio l'anno MCCXXXVII, come addietro facemmo menzione, ivi furono sconfitti e morti e gittati in mare i Pisani da' Genovesi, come detto avemo. Lasceremo a·ddire alquanto de' Pisani, e torneremo a quello che fu ne' detti tempi della guerra di Cicilia dal re Carlo a quello d'Araona, ch'ancora ne surge materia.
<B>XCIII</B>
<I>Come Carlo prenze di Salerno fu sconfitto e preso in mare da Ruggieri di Loria coll'armata de' Ciciliani.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXIIII, a dì V del mese di giugno, messer Ruggieri di Loria amiraglio del re d'Araona venne di Cicilia con XLV tra galee e legni armati di Ciciliani e Catalani nelle parti di Principato, facendo guerra e grande danno alla gente del re Carlo; e il sopradetto dì venne nel porto di Napoli colla detta armata gridando e dicendo grandi spregi del re Carlo e di sue genti, e domandando battaglia, e saettando nella terra. E ciò facie il detto Ruggieri di Loria per trarre il prenze e sue genti a battaglia, come quegli ch'era il più savio amiraglio di guerra di mare ch'allora fosse al mondo, e sapea per sue saettie che il re Carlo colla sua grande armata venia di Proenza, e già era nel mare di Pisa, sicché s'affrettava o di trarreli a battaglia, o di partirsi e tornare in Cicilia, acciò che il re Carlo nol sopraprendesse. Avenne, come piacque a·dDio, che 'l prenze figliuolo del re Carlo ch'era in Napoli con tutta la sua baronia, Franceschi, e Provenzali, e del Regno, veggendosi così oltraggiare da' Ciciliani e Catalani, a furia sanza ordine o provedimento montarono in galee, così i cavalieri come le genti di mare in compagnia del prenze, eziandio contro al comandamento spresso che il re Carlo avea fatto al figliuolo, che per niuno caso che incorresse si mettesse a battaglia infino alla sua venuta. E così disubidiente e male ordinato si mise con XXXV galee e più altri legni con tutta la sua cavalleria alla battaglia fuori del porto di sopra a Napoli. Ruggieri di Loria maestro di guerra percosse colle sue galee vigorosamente, amonendo i suoi che non intendessono a niuna caccia, ma lasciassono fuggire chi volesse, ma solamente attendessono alla galea dello stendale, ov'era la persona del prenze con molti baroni, e così fu fatto; ché come le dette armate galee si percossono insieme, più galee di quegli di Principato, e spezialmente quelle di Surrenti, sì diedono la volta e tornaronsi a Surrenti, e per simile modo feciono grande parte delle galee di Principato. Il prenze rimaso alla battaglia colla metà delle sue galee, ov'erano i baroni e' cavalieri, che di battaglia di mare s'intendeano poco, tosto furono isconfitti e presi con VIIII delle loro galee; e il prenze Carlo in persona con molta baronia furono presi e menati in Cicilia, e furono messi in pregione in Messina nel castello di Mattagrifone. E avenne, come fu fatta la detta sconfitta e preso il prenze, che quelli di Surrenti mandarono una loro galea co·lloro ambasciadori a Ruggieri di Loria con IIII cofani pieni di fichi fiori, i quali egli chiamavano palombole, e con CC agostari d'oro per presentare al detto amiraglio; e giugnendo a la galea ov'era preso il prenze, veggendolo riccamente armato e con molta gente intorno, credettono che fosse messer Ruggieri di Loria, sì gli si inginocchiarono a' piedi, e feciongli il detto presente, dicendo: "Messer l'amiraglio, come ti piace, da parte del tuo Comune da Sorrenti ilocati quissi palombola, e stipati quissi agostari per uno taglio di calze: e plazesse a·dDeo com'hai preso lo figlio avessi lo patre; e sacci che fuimo li primi che boltaimo". Il prenze Carlo con tutto il suo dammaggio cominciò a ridere, e disse all'amiraglio: "Per le san Dio, che sont bien fetable a monsignor le roi!". Questo avemo messo in nota per la poca fede ch'hanno quegli del Regno al loro signore.
<B>XCIV</B>
<I>Come il re Carlo arrivò a Napoli colla sua armata, e poi s'apparecchiò per passare in Cicilia.</I>
Il giorno seguente che fu la detta sconfitta lo re Carlo arrivò a Gaeta con LV galee armate e con tre navi grosse cariche di baroni e cavalli e arnesi; e come intese la novella della sconfitta e presa del prenza suo figliuolo, fu molto cruccioso e disse: "Or fost il mort, por se qu'il a falli nostre mandamant!". Ma sentendo la poca fede degli uomini del Regno, e che quegli di Napoli già ciancellavano, e certi corsa la terra e gridando: "Muoia il re Carlo, e viva Ruggieri di Loria!", incontanente si partì da Gaeta e giunse in Napoli a dì VIII di giugno; e come fu sopra Napoli non volle ismontare nel porto, ma di sopra al Carmino, con intendimento di fare mettere fuoco nella città e arderla, per lo fallo che' Napoletani aveano fatto di levare a romore la terra contro al re. Ma messer Gherardo da Parma legato cardinale con certi buoni uomini di Napoli gli vennero incontro per domandargli perdono e misericordia, dicendo: "Furono folli". Lo re riprese: "I savi come ciò aveano sofferto a' folli?". Ma per gli prieghi del legato, fatta fare giustizia di farne impiccare più di CL, sì perdonò alla cittade, e riformata la terra, si fece lo re compiere d'armare colle galee, ch'egli avea menate infino in LXXV galee, e partissi di Napoli a dì XXIII di giugno; l'armata mandò verso Messina, e il re Carlo n'andò per terra a Brandizio per accozzare l'armata ch'avea fatta apparecchiare in Puglia con quella di Principato per andare in Cicilia. E di Brandizio si partì lo re coll'altra armata a dì VII di luglio del detto anno, e acozzossi coll'armata di Principato a Controne in Calavra, e furono CX tra galee e uscieri armati, e con cavalieri, con molti altri legni grossi e sottili di carico. In questa stanzia avea in Cicilia due legati cardinali, messer Gherardo da Parma e messer..., i quali aveva mandati il papa a trattare pace, e per riavere il prenze Carlo; e stando il detto stuolo in bistento in attendere novelle de' detti legati, come avessero adoperato, i quali maestrevolemente dal re d'Araona furono tenuti in parole sanza potere fare nullo accordo acciò che 'l detto stuolo non ponesse in Cicilia, sì·ssi trovò la detta armata del re Carlo male proveduta, e con difalta di vittuaglia. Per la qual cosa lo re fu consigliato che convenia di necessità che tornasse a Brandizio, perché s'appressava l'autunno, e gli tempi contrarii a sostenere in mare sì grande armata; e ch'egli facesse disarmare, e riposasse sé e sue genti infino al primo tempo; e così fu fatto, onde lo re Carlo si diede grande dolore sì per la presura del figliuolo, e che la fortuna gli era fatta così aversa e contraria, e per gli più si disse che ciò fu cagione dell'avacciamento di sua morte, come diremo appresso.
<B>XCV</B>
<I>Come lo buono re Carlo passò di questa vita alla città di Foggia in Puglia.</I>
Lo re Carlo tornato con suo stuolo a Brandizio, sì 'l fece disarmare, e tornossi a Napoli per dare ordine, e fornirsi di moneta e di gente per ritornare in Cicilia al primo tempo. E come quegli che·lla sua sollecita mente non posava, come fu passato il mezzo dicembre, ritornò in Puglia per essere a Brandizio per fare avacciare il suo navilio. Com'egli fu a Foggia in Puglia, e come piacque a·dDio, amalò di forte malatia, e passò di questa vita il seguente giorno della Bifania, dì VII di gennaio, gli anni di Cristo MCCLXXXIIII. Ma innanzi che morisse, con grande contrizione prendendo il corpo di Cristo, disse con grande reverenza "Sire Idius, con ie croi vraimant che vos est mon salveur, ensi vos pri que vos aies mersi de ma arme, ensi con ie fis l'amproise de roiame de Sesilia plus por servir sante Egrise que per mon profit o altre covidise, ensi me perdones mes pecces"; e passò poco appresso di questa vita; e fu recato il suo corpo a Napoli, e dopo il grande lamento fatto di sua morte fu soppellito all'arcivescovado di Napoli con grande onore. Di questa morte del re Carlo fu grande maraviglia, che il dì medesimo ch'elli passò fu piuvicato in Parigi per uno frate Arlotto ministro de' minori e per maestro Giandino da Carmignanola maestro allo Studio, e vegnendo ciò in notizia del re di Francia, mandò per loro per sapere onde l'aveano. Dissono che sapeano la sua natività, ch'era sotto la signoria di Saturno, e per gli suoi effetti erano procedute le sue esultazioni e le sue aversità: e alcuno disse che 'l sapeano per revelazione di spirito, che ciascuno di loro erano grandi astrolagi e negromanti. Quello Carlo fu il più temuto e ridottato signore, e il più valente d'arme e con più alti intendimenti, che niuno re che fosse nella casa di Francia da Carlo Magno infino a·llui, e quegli che più esaltò la Chiesa di Roma; e più avrebbe fatto, se non che alla fine del suo tempo la fortuna gli tornò contraria. Venne poi per guardiano e difenditore del Regno Ruberto conte d'Artese cugino del detto re, con molti cavalieri franceschi, e colla prenzessa e col figliuolo del prenze nipote del re Carlo, il quale per lui ebbe nome Carlo Martello, e era d'età di XII in XIII anni. Del re Carlo non rimase altra reda che Carlo secondo prenze di Salerno, di cui avemo fatta menzione. E questo Carlo era bello uomo del corpo, e grazioso, e largo, e vivendo il re Carlo suo padre, e poi, ebbe più figliuoli della prenzessa sua moglie figliuola e reda del re d'Ungaria. Il primo fu il detto Carlo Martello, che poi fu re d'Ungaria; il secondo fu Lois, che si rendé frate minore, e poi fu vescovo di Tolosa; il terzo fu Ruberto duca di Calavra; il quarto fu Filippo prenze di Taranto; il quinto fu Ramondo Berlinghieri conte (dovea essere) di Proenza; il sesto fu messer Gianni prenze della Morea; il settimo fu messer Piero conte d'Eboli.
<B>XCVI</B>
<I>Come il prenze figliuolo del re Carlo fu condannato a morte da' Ciciliani, e poi per la reina Gostanza mandato in Catalogna preso.</I>
Nel detto anno partiti i detti cardinali legati di Cicilia, e perché nonn-aveano potuto fare accordo, fortemente agravarono di scomuniche, e di torre ogni benificio e grazie spirituali, a·re d'Araona e a' Ciciliani. Per questa cagione e per la morte de·re Carlo que' di Messina si mossono a·ffurore, e corsono alle pregioni dov'erano i Franceschi per uccidergli, e egli difendendosi, i Missinesi misono fuoco nelle pregioni, e a grande dolore e stento gli feciono morire. E fu bene giudicio di Dio, che l'orgoglio e superbia de' Franceschi usata in Cicilia fosse pulita per così disordinata e furiosa sentenzia de' Ciciliani, come fu a questa volta, e era suta alla rubellazione, come addietro facemmo menzione. Dopo questo fatto tutte le terre di Cicilia feciono sindaco con ordine, e congregati insieme di concordia, condannarono a morte il prenze Carlo, il quale aveano in pregione, e che gli fosse tagliata la testa, siccome lo re Carlo suo padre avea fatto a Curradino. Ma come piacque a·dDio, la reina Gostanza moglie del re Piero d'Araona, la quale allora era in Cicilia, considerando il periglio ch'al suo marito e a' suoi figliuoli poteva avenire della morte del prenze Carlo, prese più sano consiglio, e disse a' sindachi delle dette terre che nonn-era convenevole che·lla loro sentenzia procedesse sanza la volontà del re Piero loro signore, ma le parea che 'l prenze si mandasse a·llui in Catalogna, e egli come signore ne facesse a·ssua volontà; e così fu preso, e poi fatto. Lasceremo di questa materia, e torneremo a' fatti di Firenze.
<B>XCVII</B>
<I>Come in Firenze fu grande diluvio d'acqua, e rovinò parte del poggio de' Magnoli.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXIIII, il dì di domenica d'ulivo a dì II d'aprile, in Firenze ebbe grandissimo diluvio d'acque e di piova sì disordinatamente, che 'l fiume d'Arno crebbe sì disordinatamente, ch'allagò molta della città presso alle sue rive; e per la detta acquazzone il poggio che·ssi chiamava de' Magnoli di sotto a San Giorgio e di sopra a Santa Lucia si commosse a ruina, e venne rovinando infino in Arno, e fece cadere e guastare più di L case ch'erano sopra il detto poggio, e in su la via di Santa Lucia lungo l'Arno, e morìvi gente assai.
<B>XCVIII</B>
<I>Come i Fiorentini con Genovesi e con Toscani feciono lega sopra i Pisani, onde i Ghibellini furono cacciati di Pisa.</I>
Nel detto anno, del mese di settembre, i Fiorentini feciono lega e compagnia con saramento co' Lucchesi, e' Sanesi, e' Pistolesi, e' Pratesi, e' Volterrani, e San Gimignano, e Colle, insieme co' Genovesi, sopra la città di Pisa a·ffare guerra; i Fiorentini co' detti Toscani per terra, e' Genovesi per mare. E' Fiorentini ch'erano in Pisa se ne partirono a dì X di novembre, per comandamento del Comune di Firenze; e mandarono i Fiorentini dalla parte di Volterra VIc cavalieri a·ffare guerra a' Pisani, e così mandarono tutte l'altre terre della lega secondo la loro taglia. E in Valdera feciono grande guerra, e presono molte castella di quelle de' Pisani, e ordinarono d'assediare Pisa alla primavera vegnente per mare e per terra. Per la qual cagione il conte Ugolino de' Gherardeschi, ch'era il maggiore cittadino di Pisa, cercò trattato d'accordo co' Fiorentini e' Sanesi e gli altri Toscani di cacciare i Ghibellini di Pisa, e farne signori i Guelfi, acciò che·ll'oste ordinata della taglia detta che si dovea fare sopra Pisa non procedesse; e così fu fatto. E dissesi in Firenze che 'l detto conte Ugolino presentando a certi caporali cittadini di Firenze vino di vernaccia in certi fiaschi, che vi mandò dentro col vino fiorini d'oro, acciò che assentissono al detto accordo sanza la richiesta de' Genovesi e de' Lucchesi; e ciò ordinato, del mese di gennaio vegnente il detto conte Ugolino cacciò di Pisa i Ghibellini, e fecene signore sé co' Guelfi. Ma al detto accordo non furono richiesti i Genovesi, e' Lucchesi nol vollono assentire, onde i Genovesi e' Lucchesi si tennero gravati e ingannati da' Fiorentini e dagli altri Toscani della taglia; e non lasciarono però di venire sopra Pisa, com'era ordinato, i Genovesi per mare con LXX galee armate, e' Lucchesi ad oste per terra, e guastarono e disfeciono Porto Pisano; e' Lucchesi dalla loro parte presono più castella. E di certo se' Fiorentini avessono attenuta la 'mpromessa, la città di Pisa sarebbe stata presa, e disfatta, e recata a borghi, com'era ordinato. Ma i Fiorentini ordinarono che' Sanesi mandassono i loro cavalieri alla guardia de' Guelfi di Pisa, e perciò fu difesa; onde i Fiorentini furono molto ripresi da' Genovesi e Lucchesi per lo rompere che feciono di loro promessa e saramento per scampare Pisa; ma ebbonne il merito e il guidardone da' Pisani ch'a·cciò si convenia, siccome innanzi per gli tempi faremo menzione; onde i Fiorentini n'ebbono poi più volte pentimento per la 'ngratitudine e superbia de' Pisani.
<B>XCIX</B>
<I>Come i Fiorentini cominciarono a fondare le porte per fare le nuove mura alla cittade.</I>
Nel detto anno, del mese di febbraio, essendo i Fiorentini in buono e pacefico stato, e la città cresciuta di popolo e di grandi borghi, sì ordinarono di crescere il circuito della città, e cominciarsi a fondare le nuove porte, ove poi conseguirono le nuove mura, cioè quella di Santa Candida di là di Santo Ambruogio, e quella di San Gallo in sul Mugnone e quella del Prato d'Ognisanti, e quella d'incontro a le Donne che·ssi dicono di Faenza ancora in sul Mugnone; il quale fiumicello di Mugnone alquanto dinanzi era adirizzato, che prima correa avolto per Cafaggio e presso alle seconde cerchie della città, faccendo molesto assai alla città quando crescea, e fecionvi su i ponti dinanzi alle dette porte, e rimase il lavoro di quelle innanzi che fossono a l'arcora, per la novella che venne in Firenze che 'l prenze Carlo era stato sconfitto in mare da Ruggieri di Loria e da' Ciciliani. E in questi tempi si fece per lo Comune di Firenze la loggia sopra la piazza d'Orto Sammichele, ove si vende il grano, e lastricossi e amattonossi intorno, la quale allora fu molto ricca e bella opera e utile. E nel detto anno si cominciò a rinnovare la Badia di Firenze, e fecesi il coro e le cappelle che vengono in su la via del palagio e 'l tetto; che prima era la Badia più addietro, piccola, e disorrevole in sì fatto luogo della cittade.
<B>C</B>
<I>Delle grandi novitadi che furono tra' Tarteri dal Turigi.</I>
Nel detto anno MCCLXXXIIII Tangodar fratello d'Abaga Cane signore de' Tarteri dal Torigi e di Persia, il quale da giovane fu Cristiano battezzato e chiamato Niccola, com'egli ebbe la signoria, si fece Saracino e rinnegato, e fecesi chiamare Mahomet, e grande persecuzione fece a' Cristiani in due anni ch'egli regnò in signoria. Alla fine Argon suo nipote e padre che fu di Casano, onde innanzi faremo al suo tempo menzione, si rubellò da·llui, e gli tolse il regno e la vita. Questo Argon fu figliuolo d'Abaga Cane, e fu grande amico de' Cristiani e nimico de' Saracini, e fece rifare tutte le chiese de' Cristiani che Maomet suo zio avea fatte distruggere in suo regno, e gli Cristiani rimise in istato, e gli tempii de' Saracini fece distruggere e abbattere, e tutti i Saracini cacciare di suo paese, e fu uno savio e valoroso signore in arme.
<B>CI</B>
<I>Come i Saracini presono e distrussono Margatto in Soria.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXV, del mese di maggio, i Saracini col soldano d'Egitto vennono ad oste a la terra di Margatto in Soria, la quale era della magione dello Spedale di Santo Giovanni, e era molto fortissimo, e quello con cave misono grande parte in puntelli, e sicurarono i capitani d'entro che venissono a vedere com'era puntellato; per la qual cosa i Cristiani che v'erano dentro, veggendo che non si poteano tenere, s'arrenderono, salve le persone; e il castello rimase a' Saracini. Lascereno delle novità d'oltremare, e torneremo a dire della grande impresa che·llo re di Francia fece sopra lo re d'Araona.
<B>CII</B>
<I>Come il re Filippo di Francia andòe con grande esercito sopra lo re Piero d'Araona.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXIIII, a mezza quaresima, vegnente l'ottantacinque, lo re Filippo di Francia figliuolo di san Luis, avendo grande animo contro a Piero d'Araona per la nimistà presa contro a·llui per lo re Carlo, e a·ppetizione del papa e della Chiesa di Roma, abbiendo raunata grande oste in tolosana di più di XXm cavalieri e più di LXXXm di pedoni di croce segnati, che Franceschi, Provenzali, e della Magna, e altre genti, e raunato infinito tesoro, si partì di Francia con Filippo e Carlo suoi figliuoli, e con messer Cervagio, detto Gian Coletto, cardinale e legato del papa, e andonne a Nerbona per passare in Catalogna per prendere il reame d'Araona, onde Carlo suo secondo figliuolo era privileggiato dalla Chiesa di Roma, e per mare avea armate in Proenza CXX tra galee e altri legni; e trovossi con Giacomo re di Maiolica fratello e nimico del re Piero d'Araona, però ch'egli gli avea fatta torre l'isola di Maiolica ad Anfus suo primogenito figliuolo, e coronatolne re il detto Anfus; e del mese di maggio MCCLXXXV si partì il detto esercito di nerbonese, e andarne a Perpignano per le terre del detto re di Maiolica; e trovando nella contea di Rossiglione la città di Ianne, la qual s'era rubellata al re di Maiolica e teneasi per lo re d'Araona, il re di Francia vi puose l'assedio; e per forza combattendo l'ebbe, e uccisono uomini, femmine, e fanciulli, che non ne rimase altro che 'l bastardo di Rossiglione con pochi, il quale s'arrendé in uno campanile; e poi che 'l re l'ebbe presa, la fece tutta distruggere; e ciò fatto, si partì del paese e andonne co l'oste infino a piè delle montagne dette Pirre altissime molto, le quali sono alle confini della Catalogna. Lo re Piero d'Araona sentendosi venire adosso sì fatto esercito, si provide di non mettersi a battaglia campale, però che·lla sua forza era niente apo quella del re di Francia; ma di stare alle difese, e guardare i passi; e aveva fornito e afforzato il passo delle Schiuse, onde si valicavano le dette montagne di gente d'arme; e egli in persona v'era alla guardia a tende e a padiglioni per non lasciare passare l'oste del re di Francia. E a quella contesa stette l'oste de' Franceschi più dì, che in nulla guisa poteano passare; alla fine il re di Francia per consiglio del bastardo di Rossiglione fece armare tutta la sua gente, e fece vista di combattere il detto passo. E una mattina molto per tempo il detto re con parte di sua gente, alla guida del detto bastardo, tennero per altro camino su per le montagne, lasciando il più di sua oste e tutti i suoi arnesi incontro al passo delle Schiuse, e tennero per aspre e diverse vie piene di spine e di pietre, le quali erano impossibili a potersi fare per gente umana, e onde Piero d'Araona non si prendea guardia; ma alla fine con grande affanno, e perdendo e guastando molti di loro cavagli, furono di sopra alla detta montagna. Piero d'Araona veggendo che 'l re di Francia gli era al di sopra del passo, abbandonò la speranza di quello, e partissi con tutta sua gente, lasciando le tende e gli arnesi, e tornossi adietro in sue terre, e lasciò il detto passo. Allora tutta la gente ch'era rimasa a piè del passo nel campo del re di Francia con loro somieri e arnesi e bestiame passarono per lo detto passo sanza contrario niuno, e vennero là dov'era il re di Francia, la quale oste stette in su le montagne tre giorni con grande difalta di vittuaglia. Poi lo re con tutta sua oste scese delle montagne nel piano di Catalogna, e prese e ebbe al suo comandamento Pietralata, e Fighiera, e molte terre del contado d'Ampuri; e 'l navilio e l'armata sua, ch'era a l'Agua Morta in Proenza carichi di vittuaglia e d'arnesi da oste, fece venire per mare al porto di Roses. E lo re con sua oste si puose ad assedio alla città di Girona, la quale era molto forte e ben guernita, e eravi dentro per guardia e capitano messer Ramondo signore di Cardona con buona compagnia. E vegnendo l'oste de' Franceschi, misono fuoco nel borgo acciò che·lla terra fosse più forte, e molto danneggiavano l'oste de' Franceschi e difendeano la terra. Ma lo re di Francia giurò di mai non partirsi, ch'egli avrebbe la terra. Ma stando al detto assedio, l'oste del re di Francia cominciò molto a scemare per cagione del lungo dimoro del campo in uno luogo fermo; per la molta ordura e carogna di bestie morte, per lo grande caldo v'apparìo diversa quantità di mosche e di tafani, i quali pareano avelenati, e pugnendo, e uomini e bestie ne morivano; e crebbe tanto la pestilenzia, che·ssi corruppe l'aria, e molta gente morieno nell'oste, onde al re di Francia, e al suo consiglio, e a tutta l'oste molto era grave, e volentieri vorrebbe lo re essere sofferto del suo saramento.
<B>CIII</B>
<I>Come lo re d'Araona fu sconfitto e fedito da' Franceschi, della quale fedita poi morìo.</I>
Istando lo re di Francia all'assedio di Gironda, la vittuaglia e fornimento dell'oste gli venia dal suo navilio dal porto di Roses, presso all'oste a IIII miglia. Lo re Piero d'Araona con sua gente impediva quanto potea la scorta che conducea la vittuaglia, e convenia che e' Franceschi la guidassono con molta gente e con grande fatica. Avenne che·lla vilia di santa Maria d'agosto lo re d'Araona s'era messo in aguato con Vc de' migliori de' suoi cavalieri e con MM mugaveri a piè per impedire la scorta del re di Francia, e ancora si dicea che in quella scorta venia la paga della gente del re di Francia, e però lo re d'Araona in persona si mise nell'aguato: fu rapportato per una spia a messer Raul di Rasi e a messer Gian d'Ericorte conastabole e maliscalco dell'oste del re di Francia. I detti ebboro loro consiglio, e co' migliori cavalieri dell'oste, per andare a combattere col detto aguato, e ragionando d'andarvi grossi di gente, erano certi che 'l re d'Araona né sua gente non uscirebbono a battaglia, com'altre volte non avea fatto se non a suo vantaggio. Ma disse messer Raul di Rois valente cavaliere: "Se noi volemo essere valenti uomini, e trarrelo a battaglia, andianvi con poca gente, sì che gli paia avere buono mercato di noi". E così fu fatto; ch'eglino presono il conte della Marcia e de' più eletti baroni e baccellieri d'arme che fossono in tutta l'oste, infino in quantità di IIIc cavalieri sanza più, e misonsi contro l'aguato. Lo re d'Araona veggendo che non erano maggior quantità, e egli avea gente troppa più di loro, lasciando i pedoni s'affrettò di fedire co' suoi cavalieri, e si mise alla battaglia, la quale fu dura e aspra, sì come di tanti eletti e provati cavalieri. Alla fine, come piacque a·dDio, i Franceschi sconfissono il re d'Araona, e egli fu fedito duramente nel viso d'una lancia, e fu ritenuto e preso per le redine di suo cavallo. Il detto re con tutta la fedita ch'avea, fu accorto, e colla spada tagliò le redine al suo cavallo, e diegli degli sproni, e uscì della pressa, e fuggì con sua gente; alla quale battaglia rimasono morti da C buoni cavalieri araonesi e catalani, e molti fediti. Lo re Piero tornato a Villafranca, non abbiendo buona cura della sua fedita, e per alcuno si disse ch'egli giacque carnalmente con una donna non essendo salda né guerita la piaga, onde poco appresso ne morìo, a dì VIIII del mese di novembre, gli anni di Cristo MCCLXXXV, e fu soppellito in Barzellona nobilemente. Ma innanzi ch'egli morisse raquistò Gironda, come appresso faremo menzione, e fece suo testamento, e lasciò che l'isola di Maiolica fosse renduta al re Giamo suo fratello, e lasciò re d'Araona Nanfus suo primogenito figliuolo, e Giacomo suo secondo figliuolo re di Cicilia, con tutto che 'l detto Nanfus vivette poco, e succedette il reame al suo fratello re Giamo. Il sopradetto Piero re d'Araona fu valente signore e pro' in arme, e bene aventuroso e savio, e ridottalo da' Cristiani, e da' Saracini altrettanto o più, come nullo che regnasse al suo tempo.
<B>CIV</B>
<I>Come lo re di Francia ebbe la città di Gironda, e come la sua armata fu sconfitta in mare.</I>
Come lo re d'Araona fu sconfitto per lo modo detto di sopra, il re di Francia ebbe grande allegrezza, e misesi forte a strignere la città di Gironda, la quale sentendo come lo re d'Araona loro signore era stato sconfitto e fedito a morte, e essendo in grande stretta di vittuaglia, che non era loro rimaso a vivere che per tre giorni, sì s'arrenderono al re di Francia, salve le persone e ciò che nne potessono trarre, e così fu fatto; e lo re fece fornire Gironda di vittuaglia e di sua gente. In questa stanzia lo re di Francia prese suo consiglio di tornare a vernare in tolosana, e parte di suo navilio s'era partito dal porto di Roses in Catalogna e tornato in Proenza. Avenne che in quegli giorni era venuto di Cicilia in Catalogna Ruggieri di Loria ammiraglio del re d'Araona con XLV galee armate in aiuto di suo signore; sentendo che 'l navilio del re di Francia era nel porto di Roses, e assai scemato e straccato, sì l'asaliro colle sue galee e coll'aiuto di quegli della terra che·ssi rubellarono al re di Francia e tennono co' Ciciliani, sì furono sconfitti e presi i Franceschi, e fu arso gran parte del navilio del re di Francia, e fu preso l'amiraglio, ch'avea nome messer Inghirramo di Baliuolo. E alla detta battaglia del porto di Roses venne al soccorso dell'oste del re di Francia il suo maliscalco con grande gente a piede e a cavallo; ma poco e niente poterono adoperare alla difensione del loro navilio ch'era in mare, ma veggendolo preso, misono fuoco nella terra del porto di Roses, e si tornarono all'oste del re di Francia.
<B>CV</B>
<I>Come il re di Francia si partì d'Araona, e morì a Perpignano.</I>
Lo re Filippo di Francia veggendosi la fortuna così mutata e contraria, e preso e arso il suo navilio che gli portava la vittuaglia a l'oste, sì si diede molta maninconia e dolore, per la quale amalò forte di febbre e di flusso, onde i suoi baroni presono per consiglio di partirsi e tornare in tolosana, e per nicessità il conveniva loro fare per la difalta della vittuaglia, e del tempo contrario dell'autunno, e per la malatia del loro re. E così si partirono intorno le calen di ottobre, recandone lo re malato in bara, e con poca ordine sciarrati, e chi meglio e più tosto potea camminare; onde passando il forte passo delle Schiuse delle grandi montagne Phyris, i Raonesi e' Catalani ch'erano al passo vollono impedire la bara dove il re di Francia era malato. Veggendo ciò i Franceschi, come disperati si misono alla battaglia contro a quegli ch'erano al passo, per non lasciare prendere il corpo del re, e per forza d'arme gli ruppono e sconfissono, e cacciarono del passo; ma molta gente minuta a piè de' Franceschi furono presi e morti, e molti somieri, arnesi, e cavagli straccati e presi per gli Catalani e Raonesi. E poco appresso la partita del re di Francia e di sua oste il re d'Araona riebbe Gironda a patti. E giunta l'oste del re di Francia a modo di sconfitta a Perpignano, come piacque a·dDio, il re Filippo di Francia passò di questa vita a dì VI d'ottobre, gli anni di Cristo MCCLXXXV, ed in Perpignano la reina Maria sua moglie con sua compagnia feciono grande corrotto e dolore. E poi Filippo e Carlo suoi figliuoli feciono recare il corpo a Parigi, e fu soppellito a San Donis co' suoi anticessori a grande onore. Questa impresa d'Araona fue colla maggiore perdita di gente, e consumazione di cavagli e di tesoro, che quasi mai per gli tempi passati avesse avuto il reame di Francia; che poi lo re appresso il detto Filippo e gli più de' baroni sempre furono in debito e male agiati di moneta. E appresso la morte del re Filippo di Francia fu fatto re di Francia il re Filippo il Bello suo maggiore figliuolo, e coronato a re alla città di Riens colla reina Giovanna di Navarra sua moglie il giorno della Pifania appresso. E nota che in uno anno o poco più, come piacque a·dDio, morirono IIII così grandi signori de' Cristiani, come fu papa Martino, e il buono Carlo re di Cicilia e di Puglia, e il valente Piero re d'Araona, e il possente Filippo re di Francia, di cui avemo fatta menzione. Questo re Filippo fu signore di gran cuore, e in sua vita fece grandi imprese, prima quando andò sopra lo re di Spagna, e poi sopra lo conte di Fusci, e poi sopra il re d'Araona, con più potenzia che mai suo anticessoro avesse fatto. Lasceremo a dire de' fatti d'oltremonti, ch'assai ne avemo detto a questa volta, e torneremo a dire de' fatti della nostra Italia avenuti ne' detti tempi.
<B>CVI</B>
<I>Della morte di papa Martino quarto, e come fu fatto papa Onorio de' Savelli di Roma.</I>
Negli anni di Cristo passati MCCLXXXV, a dì XXIIII di marzo, morì papa Martino in Perugia, e là fu soppellito onorevolemente. Questi fu buono uomo e molto favorevole per santa Chiesa a quelli della casa di Francia, perché era natio dal Torso in Torena di Francia. E poi la domenica appresso, primo dì d'aprile, gli anni di Cristo MCCLXXXVI, fu eletto e fatto papa Onorio quarto della casa de' Savelli gentili uomini di Roma, e vivette nel papato II anni e II dì, e quello che fu al suo papato ne faremo menzione appresso per gli tempi.
<B>CVII</B>
<I>Come certo navilio de Genovesi furono presi da' Pisani.</I>
Nel detto anno MCCLXXXV, del mese di novembre, i Pisani presono V navi grosse de' Genovesi e più altri legni di Catalani e Ciciliani, i quali veniano di Romania e di Cicilia, e per fortuna di tempo, per forza del vento a scilocco, fuggirono in Porto Pisano, non possendolo schifare, e parte ne ruppono, e' Pisani vi trassono da Pisa a cavallo e a piè, e presono il detto navilio; onde i Genovesi ricevettono danno di valuta di Lm fiorini d'oro, e gli uomini rimasono pregioni, e' legni de' Catalani e Ciciliani furono mendi per li Pisani.
<B>CVIII</B>
<I>Come il conte Guido da Montefeltro signore in Romagna s'arrendé alla Chiesa di Roma.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXV, essendo papa Onorio quarto de' Savelli di Roma, il conte Guido da Montefeltro, il quale più tempo avea tenuta occupata la provincia di Romagna, sì come tiranno contro alla Chiesa di Roma in parte ghibellina, ove grandissimo spargimento di sangue era fatto, come in parte è fatta menzione adietro, e innumerabile spoglio di moneta per la Chiesa di Roma, e per gli Fiorentini e Bolognesi in servigio della Chiesa, e già perduta per lo detto conte da Montefeltro la città di Faenza e quella di Cervia, e rendute alle comandamenta della Chiesa, il detto conte Guido con patti ordinati venne a' comandamenti del detto papa, il quale gli perdonò, e mandollo a' confini in Piemonte, e tenne due suoi figliuoli per stadichi, e riformò tutta Romagna alla ubbidienza di santa Chiesa, e mandovvi il papa per conte messer Guiglielmo Durante di Proenza.
<B>CIX</B>
<I>Come papa Onorio mutò l'abito a' frati carmelliti.</I>
Al tempo del detto papa Onorio de' Savelli, portando i frati del Carmino uno abito, il quale secondo religiosi pareva molto disonesto, ciò era la cappa di sopra acerchiata con larghe doghe bianche e bigie, dicendo che quello era l'abito di santo Elia profeta, il quale stava nel Monte Carmelio in Soria, il detto papa Onorio il fece per più onestà mutare, e fare la cappa tutta bigia. Per la quale mutazione si dice che 'l soldano de' Saracini che allora era, il quale (tutto che quelli frati eremita ch'erano di quello ordine, che stavano nel Monte Carmelio, fossono Cristiani) gli aveva in reverenzia per onore di santo Elia profeta, ch'era stato capo di quello luogo e di quello ordine, dapoi che mutarono l'abito, per dispetto del papa e de' cristiani gli fece cacciare del Monte Carmelio, e abitarlo per Saracini.
<B>CX</B>
<I>Come il vescovo d'Arezzo fece rubellare il Poggio a Santa Cecilia nel contado di Siena, e come si racquistò.</I>
Nel detto anno, all'uscita del mese d'ottobre, messer Guiglielmino degli Ubertini di Valdarno, che allora era vescovo d'Arezzo, e era più uomo d'arme che a onestà di chericia, per suo inducimento mandando Vc fanti ghibellini del contado di Firenze e d'Arezzo e di Siena, fece rubellare incontro a' Sanesi uno forte castello del contado di Siena, che si chiamava Poggio Santa Cecilia, per fare guerra a' Sanesi, onde grande turbazione fu a tutta parte guelfa di Toscana, però ch'era in parte da fare molta guerra. Per la qual cosa il Comune di Siena colla forza de' Fiorentini, che vi cavalcò molta buona gente cittadini di Firenze, e la taglia de' Guelfi di Toscana, ond'era capitano il conte Guido di Monforte, v'andarono ad oste, faccendovi gittare dentro molti difici, e durovvi l'assedio più di V mesi. E raunando il detto vescovo sua oste di tutta parte ghibellina di Toscana per levare il detto assedio, non ebbe podere, però che·lla parte de' Guelfi erano più possenti; per la qual cosa quegli del castello avendo perduta la speranza del soccorso, n'uscirono la notte di sabato d'ulivo del mese d'aprile, e molti ne furono morti e presi, e quegli che furono menati in Siena, furono chi impiccato e chi tagliato il capo, e 'l castello fu tutto disfatto insino alle fondamenta.
<B>CXI</B>
<I>Come in Italia ebbe grande carestia di vittuaglia.</I>
Nell'anno MCCLXXXVI, spezialmente del mese d'aprile e di maggio, fu grande caro di vittuaglia in tutta Italia, e valse in Firenze lo staio del grano alla misura rasa soldi XVIII di soldi XXXV il fiorino dell'oro.
<B>CXII</B>
<I>Come messer Prezzivalle dal Fiesco venne in Toscana per vicario d'imperio.</I>
Nel detto anno aconsentìo papa Onorio che messer Prezzivalle dal Fiesco de' conti da·lLavagna di Genova fosse vicario d'imperio, e andò in Alamagna, e fecesi confermare al re Ridolfo, il quale era eletto re de' Romani, e venne il detto vicario in Toscana per raquistare le ragioni dello 'mperio. Fu in Firenze in casa i Mozzi, e richiese i Fiorentini, e' Sanesi, e' Lucchesi, e' Pistolesi, e l'altre terre e baroni di parte guelfa di Toscana che giurassono le comandamenta dello 'mperio, i quali non vollono ubbidire né giurare; per la qual cosa il detto vicario si partì di Firenze in discordia, e condannòe i Fiorentini in LXm marchi d'ariento, e consequente per rata tutte le terre guelfe che nol vollono ubbidire, e poi n'andò in Arezzo, e fece isbandire i Fiorentini in avere e in persona, e per simile modo tutte l'altre terre disubidienti. Ma istando in Arezzo, e non avendo séguito, però che i Guelfi nol voleano ubbidire per non rassultare lo 'mperio, e' Ghibellini l'aveano a sospetto perch'era di progenia e nazione stati Guelfi, e però si tornò al re Ridolfo in Alamagna con suo poco onore.
<B>CXIII</B>
<I>Come morìo papa Onorio de' Savelli.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXVII, a dì III d'aprile, morìo papa Onorio in Roma, e là fu soppellito a grande onore nella chiesa di Santo... Questi sostenne anzi parte ghibellina che guelfa, e poco aiuto o niente diede all'erede del re Carlo alla guerra di Cicilia, onde montò molto lo stato e podere del re Giamo d'Araona, che se ne avea fatto coronare re, e tutta parte ghibellina d'Italia, come innanzi faremo menzione.
<B>CXIV</B>
<I>Come in Firenze ebbe certa novitade in questo tempo.</I>
Nel detto anno, essendo podestà di Firenze messer Matteo da Fogliano di Reggio, avendo preso e condannato nella testa per micidio fatto uno grande guerriere e caporale, ch'avea nome Totto de' Mazzinghi da Campi, e andando alla giustizia, messer Corso de' Donati con suo seguito il volle torre alla famiglia per forza; per la qual cosa la detta podestà fece sonare la campana a martello; onde s'armarono e trassono al palagio tutta la buona gente di Firenze, chi a cavallo e chi a piè, gridando: "Iustizia, iustizia!". Per la qual cosa la detta podestà aseguì il suo processo, e dove al detto Totto dovea essere tagliata la testa, il fece strascinare per la terra, e poi impiccare per la gola, e condannò in moneta coloro ch'aveano cominciato il romore e impedita la giustizia.
<B>CXV</B>
<I>Come furono cacciati i Guelfi d'Arezzo, onde si cominciò la guerra tra' Fiorentini e gli Aretini.</I>
Nel detto anno, del mese di giugno, vacante la Chiesa, e la parte ghibellina presa molta baldanza in Toscana perché non v'era papa, essendo nella città d'Arezzo alquanto tempo dinanzi creato popolo, e fatto uno caporale che chiamavano il priore del popolo, il quale perseguitava molto i grandi e possenti, per la qual cosa messer Rinaldo de' Bostoli cogli altri Guelfi si legarono con messer Tarlato e cogli altri grandi Ghibellini per abbattere il detto popolo. E così feciono, e presono il detto priore, e feciongli cavare gli occhi; per la qual cosa rimasono signori i grandi guelfi e ghibellini; ma i Ghibellini tradirono i Guelfi e gl'ingannarono per rimanere signori, e ordinarono col vescovo d'Arezzo che facesse sua raunata di gente ghibellina di fuori d'Arezzo, e così fece col podere di Bonconte da Montefeltro, e de' Pazzi di Valdarno, e Ubertini; e usciti' Ghibellini di Firenze, una notte vennero ad Arezzo, non prendendosi guardia i Guelfi, e per tradimento essendoli data una porta d'Arezzo, entrarono nella città, e cacciaronne fuori la parte guelfa, e fecesene fare signore. Per la quale mutazione e novità in Firenze n'ebbe grande paura e gelosia. Gli usciti guelfi cacciati d'Arezzo presono il castello di Rondine e il Monte San Savino, e feciono lega co' Fiorentini e coll'altre terre guelfe di Toscana, i quali dierono loro i cavalieri della taglia, ch'erano Vc, perché facessono guerra agli Aretini, e per la detta cagione si cominciò la guerra tra gli Aretini e' Fiorentini. E in questo tempo, com'era ordinato per gli Ghibellini, tornò messere Prezzivalle del Fiesco, vicario dello imperio d'Alamagna, in Arezzo con alquanta gente ch'ebbe dal re Ridolfo, e là fece capo con tutti i Ghibellini di Toscana, faccendo guerra a' Fiorentini e a' Sanesi. E del mese di febbraio vegnente cavalcò la gente ch'era in Arezzo, intorno di cinquecento cavalieri e pedoni assai, in sul contado di Firenze, e intorno a Monteguarchi arsono case e capanne, e levarono preda, né già per loro cavalcata non uscirono le masnade de' Fiorentini di Monteguarchi né di San Savino, onde gli Aretini si tornarono in Arezzo sani e salvi; ma poco appresso, faccendo i Ghibellini d'Arezzo loro cavalcata alla città di Chiusi, ne cacciarono la parte guelfa, e feciono i Chiusini lega co·lloro contro a' Sanesi e Montepulciano.
<B>CXVI</B>
<I>D'uno grande fuoco che s'accese in Firenze.</I>
Nel detto anno MCCLXXXVII, del mese di..., di notte s'apprese il fuoco in Firenze nel palagio de' Cerretani dalla porta del vescovo, e arse il detto palagio, e più case d'intorno, con grande danno di loro e de' vicini, e morivi una balia con uno fanciullo; che poi ch'ella ne fu fuori si ricordò di suoi danari ch'avea lasciati in una cassetta, e per covidigia vi tornò, onde rimase nel fuoco. Di questa vile ricordanza avemo fatta memoria per esemplo della folle avarizia delle femmine. Lasceremo de' fatti di Firenze, e torneremo alquanto a contare della guerra di Cicilia.
<B>CXVII</B>
<I>Come l'armata di Carlo Martello presono la città d'Agosta in Cicilia, e come la loro armata fu sconfitta in mare da Ruggieri di Loria.</I>
Nel detto anno MCCLXXXVII, a dì XXII d'aprile, si partirono da Napoli L tra galee e uscieri armate con Vc cavalieri, le quali avea fatte apparecchiare il conte d'Artese, il quale era balio e governatore di Carlo Martello giovane figliuolo di Carlo secondo, e di tutto il Regno, e di quelle fece amiraglio e capitano messer Rinaldo da Velli. E passò in Cicilia, e prese per forza per lo sùbito e improviso avenimento la città d'Agosta, e rimandò il navilio a Brandizio in Puglia per guernigione, e quella Agosta afforzò molto per difenderla e tenerla per l'erede del re Carlo, come valoroso e savio cavaliere. Come don Giamo d'Araona signore di Cicilia seppe ciò, sì andò con tutto suo isforzo all'assedio della detta città d'Agosta ribellata, e fece armare al suo amiraglio messer Ruggieri di Loria XLV galee, acciò che guardasse le marine, che vittuaglia non potesse venire alla guernigione dell'Agosta, e che se armata si facesse a Napoli, non si potesse agiugnere con quella di Brandizio. Come il conte Artese ebbe la novella della presa dell'Agosta, ordinò d'armare a Brandizio il navilio e galee ch'erano tornate con molta vittuaglia e guernigione, e a Napoli poi fece armare LX galee per soccorrere l'Agosta, e passare in Cicilia con grande oste, e con molti baroni e cavalieri franceschi e provenzali e italiani, e della detta armata era amiraglio messer Arrighino da Mare di Genova. Come Ruggieri di Loria seppe la novella, incontanente, come savio amiraglio e maestro di guerra, si diliberò di venire adosso all'armata di Napoli, e per sottrarreli alla battaglia innanzi che s'accozzassero coll'armata di Puglia che dovea partire da Brandizio; e così gli venne fatto, che il dì di santo Giovanni, del mese di giugno del detto anno, Ruggieri di Loria colla sua armata venne insino nel porto di Napoli, faccendo saettare nella terra, e con grida e villane parole e a isvergognare il conte Artese e' suoi Franceschi, i quali come gente poco savi di guerra di mare, vedendosi dispregiare a' Catalani e a' Ciciliani, presono isdegno, e con furia e sanza ordine montarono in galee, e ciò fu il conte Guido di Monforte, e il conte di Brenna, e messer Filippo figliuolo del conte di Fiandra, e più altri baroni e cavalieri, e colle dette LX galee armate di molta buona gente uscirono del porto di Napoli seguendo l'armata de' Ciciliani. Ruggieri di Loria amiraglio di Cicilia, avendosi dilungato da Napoli intorno di VI miglia, veggendo venire la detta armata isparta e non ordinata, come valente amiraglio prese suo vantaggio, non guardando perché fossono più galee che le sue: sì fece vogliere le sue galee e fedire a la detta armata, spezialmente alle galee ov'erano i signori franceschi, i quali conoscea per mali maestri di mare. La battaglia fu aspra e dura, che con tutto che' baroni e' cavalieri franceschi e provenzali non fossono usi di battaglia di mare, pure erano valenti e virtudiosi in arme; ma alla fine abandonati dal loro amiraglio messer Arrighino da Mare (non piaccendogli la battaglia non volle fedire colle sue galee genovesi), le galee de' baroni furono sconfitte e prese gran parte, e menati in Cicilia; ma poi per danari la maggiore parte de' baroni e cavalieri si ricomperarono, salvo il conte di Monforte che morì in pregione. La detta sconfitta fu grande abbassamento della parte di Carlo Martello e del conte d'Artese, che teneano il Regno, e grande esultamento de' Ciciliani e de' Catalani; per la qual cosa, del mese di luglio presente, s'arendé la città d'Agosta a don Giamo, salve le persone, e fecesi triegua tra·lle dette parti dalla san Michele vegnente a uno anno. Lasceremo alquanto della detta materia, e diremo d'altre novitadi di Firenze e di Toscana ne' detti tempi.
<B>CXVIII</B>
<I>Come s'apprese uno grande fuoco in Firenze in casa Cerchi.</I>
Nel detto anno, a dì VIIII di febbraio, la notte di carnasciale s'apprese il fuoco in Firenze nelle case e palagi de' Cerchi neri da porte San Piero, e arse dalla volta ch'era in su l'antica porta insino a la 'ncontra di Santa Maria in Campo, i quali erano molto belli e ricchi palagi e casamenti; e arsevi molta roba e ricchi arnesi, ma non v'ebbe danno di persona. Ma poco tempo appresso i detti Cerchi, ch'erano di grande ricchezza e podere, le feciono rifare più belle che prima.
<B>CXIX</B>
<I>Della chiamata di papa Niccola IIII d'Ascoli.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXVII, in mezzo febbraio, il dì di caffera san Piero fu eletto papa Niccola IIII della città d'Ascoli della Marca. Questi avea nome Girolamo, e fu frate minore, e per sua bontà e scienzia fu fatto ministro generale dell'ordine, e poi cardinale, e poi papa; e sedette anni IIII, e mesi I, e dì VIII; e vacò la Chiesa dopo la sua morte anni II, e mesi III, e dì VIII. Quello che fu fatto per lui, e al suo tempo, faremo menzione per gli tempi ordinatamente. Questi favorò molto parte ghibellina occultamente, e tutta sua famiglia erano Ghibellini, e quegli della casa della Colonna agrandì molto, e fece cardinale messer Piero della Colonna, nonostante ch'avesse moglie, la quale dispensò e fece fare monaca; e per partire gli Orsini, a petizione de' Colonnesi fece cardinale messer Nepoleone Orsini di que' dal Monte, loro parente e nemico degli altri; per la qual cosa molto montò lo stato de' Ghibellini, e abbassò lo stato del re Carlo e de' Guelfi.
<B>CXX</B>
<I>D'una grande oste che 'l Comune di Firenze fece sopra la città d'Arezzo, e alla partita i Sanesi furono sconfitti alla pieve al Toppo.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXVIII, i Fiorentini coll'altre terre guelfe della taglia di Toscana, veggendo che 'l vescovo d'Arezzo col suo séguito de' Ghibellini di Toscana, e del Ducato, e di Romagna, e della Marca aveano fatto capo in Arezzo, e raunata di gente a cavallo e a piè, e faceano guerra in sul contado di Firenze e in su quello di Siena, i Fiorentini si dispuosono di contastare all'orgoglio degli Aretini, e impuosono tra·lloro VIIIc cavallate con ricchi e grossi cavalli, e bandirono oste sopra Arezzo, e date loro insegne, a dì XXIII di maggio del detto anno, alla signoria di messer Antonio da Fosseraco di Lodi, mandarono le dette bandiere e insegne alla badia a Ripole, e là stettono VIII giorni spiegate. E ciò usavano i Fiorentini in quello tempo per grandigia e signoria, che voleano che·lla loro uscita ad oste fosse palese e nota a' nemici e a·ttutta gente. Poi si mosse l'oste il primo dì di giugno, e furono XXVIc di cavalieri e XIIm pedoni; che VIIIc furono cavallate di propii cittadini di Firenze grandi e popolani, e IIIc soldati propii de' Fiorentini, e Vc della taglia della compagnia de' Guelfi di Toscana e IIIc di Lucca, e CL di Pistoia, e L di Prato, e L di Volterra, e L di Samminiato, e L di San Gimignano, e XXX di Colle, e da CCL d'altra amistà, e de' conti Guidi guelfi, Maghinardo da Susinana, messer Iacopo da·fFano, Filippuccio da Iegi, e' marchesi Malispini, e giudice di Gallura, e' conti Alberti, e altri baroncelli di Toscana; e fu la più grande e ricca oste che facessono i Fiorentini dapoi che' Guelfi tornarono in Firenze. E stettono a oste in sul contado d'Arezzo XXII dì, e presono il castello di Leona e disfeciollo, e presono Castiglione degli Ubertini, e le Conie, e più di XL altre castella e fortezze della Valle d'Ambra e del contado intorno ad Arezzo. E puosonsi ad oste al castello di Laterino, e stettonvi VIII dì, ed ebbollo a patti, che v'era dentro per capitano Lupo degli Uberti, veggendosi chiudere e steccare d'intorno; onde molto fu biasimato da' Ghibellini, però che si potea tenere, e era fornito per più di III mesi. Ma Lupo si scusava per motti, che nullo lupo nonn-era costumato di stare rinchiuso. E renduto Laterino a' Fiorentini, guernirlo; e in questa stanza vi vennero i Sanesi con loro isforzo di IIIIc cavalieri e di IIIm pedoni molto bella gente, e guastarono tutte le vigne e giardini intorno alle mura d'Arezzo, e tagliarono l'olmo. Ma istando a campo, la vilia di santo Giovanni Batista fu maggiore turbico di vento e d'acqua che·ssi ricordi, e abbatté trabacche e padiglioni, ispezialmente nel campo de' Sanesi, che tutte le stracciò e portò il vento in aria, e fu segno del loro futuro danno. E poi il dì di san Giovanni Batista vennero i Fiorentini schierati in sul prato d'Arezzo, e in quello dinanzi alla porta della città feciono correre il palio, siccome per loro costuma si facea per la detta festa in Firenze, e fecionvisi XII cavalieri di corredo. E ciò fatto, l'oste de' Fiorentini si partì il dì appresso, e lasciando in Laterino in guernigione C cavalieri per guerreggiare Arezzo; e tornò l'oste in Firenze co·lloro amistà bene aventurosamente, sanza contasto o vista di niuna forza de' nimici. E vollono che' Sanesi per loro sicurtà ne venissono colla loro oste insieme infino a Montevarchi, e di là se n'andassero a Siena per la via di Montegrossoli; onde i Sanesi tenendosi possenti e leggiadri, isdegnarono, e non vollono fare quella via, né vollono compagnia de' Fiorentini, e feciono la via diritta per guastare il castello di Licignano di Valdichiane, salvo che co·lloro andò il conte Allessandro da Romena, allora capitano della taglia, con certi di sua gente. I capitani di guerra della città d'Arezzo, che ve n'avea assai e buoni, il caporale Bonconte da Montefeltro e messer Guiglielmino Pazzo, sentendo la partita che doveano fare i Sanesi, misono uno guato con IIIc cavalieri e IIm pedoni al valico della pieve al Toppo, onde valicavano i Sanesi male ordinati, per troppa baldanza isproveduti, e giugnendo al detto valico, assaliti dagli Aretini, per la poca loro ordine e sproveduto assalto furono assai tosto sconfitti, e furonne tra morti e presi più di IIIc pur de' migliori cittadini di Siena, e de' migliori e gentili uomini di Maremma ch'erano in loro compagnia, intra' quali vi morìo Rinuccio di Pepo di Maremma, molto nomato capitano; della quale sconfitta i Sanesi n'ebbono grande abbassamento, e' Fiorentini e tutti i Guelfi di Toscana ne sbigottirono assai, e gli Aretini ne montarono in grande orgoglio, come innanzi faremo menzione.
<B>CXXI</B>
<I>Come furono cacciati di Pisa il giudice di Gallura e la parte guelfa, e preso il conte Ugolino.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXVIII, del mese di luglio, essendo criata in Pisa grande divisione e sette per cagione della signoria, che dell'una era capo il giudice Nino di Gallura di Visconti con certi Guelfi e l'altro era il conte Ugolino de' Gherardeschi coll'altra parte de' Guelfi, e l'altro era l'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini co' Lanfranchi, e Gualandi, e Sismondi, con altre case ghibelline, il detto conte Ugolino per essere signore s'accostò coll'arcivescovo e sua parte, e tradì il giudice Nino, non guardando che fosse suo nipote figliuolo della figliuola, e ordinarono che fosse cacciato di Pisa co' suoi seguaci, o preso in persona. Giudice Nino sentendo ciò, e non veggendosi forte al riparo, si partì della terra, e andossene a Calci suo castello, e allegossi co' Fiorentini e' Lucchesi per fare guerra a' Pisani. Il conte Ugolino innanzi che giudice Nino si partisse, per coprire meglio suo tradimento, ordinata la cacciata di giudice, se n'andò fuori di Pisa a uno suo maniero che·ssi chiamava Settimo. Come seppe la partita di giudice Nino, tornò in Pisa con grande allegrezza, e da' Pisani fu fatto signore con grande allegrezza e festa; ma poco stette in su la signoria, che·lla fortuna gli si rivolse al contrario, come piacque a·dDio, per gli suoi tradimenti e peccati; che di vero si disse ch'egli fece avelenare il conte Anselmo da Capraia suo nipote, figliuolo della serocchia, per invidia, e perché era in Pisa grazioso, e temendo non gli togliesse suo stato. E avenne al conte Ugolino quello che di poco dinanzi gli avea profetato uno savio e valente uomo di corte, chiamato Marco Lombardo; che quando il conte fu al tutto chiamato signore di Pisa, e quando era in maggiore stato e felicità, fece per lo giorno di sua natività una ricca festa, ov'ebbe i figliuoli, e' nipoti, e tutto suo lignaggio e parenti, uomini e donne, con grande pompa di vestimenti e d'arredi, e apparecchiamento di ricca festa. Il conte prese il detto Marco, e vennegli mostrando tutta sua grandezza e potenzia, e apparecchiamento della detta festa; e ciò fatto, il domandò: "Marco, che te ne pare?". Il savio gli rispuose subito, e disse: "Voi siete meglio apparecchiato a ricevere la mala meccianza, che barone d'Italia". E il conte temendo della parola di Marco, disse: "Perché?". E Marco rispuose: "Perché non vi falla altro che·ll'ira d'Iddio". E certo l'ira d'Iddio tosto gli sopravenne, come piacque a·dDio, per gli suoi tradimenti e peccati, ché come era conceputo per l'arcivescovo di Pisa e' suoi seguaci di cacciare di Pisa giudice Nino e' suoi, col tradimento e trattato dal conte Ugolino, scemata la forza de' Guelfi, ordinò l'arcivescovo di tradire il conte Ugolino; e subitamente a furore di popolo il fece assalire e combattere al palagio, faccendo intendere al popolo ch'egli avea tradito Pisa, e rendute le loro castella a' Fiorentini e a' Lucchesi; e sanza nullo riparo rivoltoglisi il popolo adosso, s'arrendéo preso, e al detto assalto fu morto uno suo figliuolo bastardo e uno suo nipote, e preso il conte Ugolino, e due suoi figliuoli, e tre nipoti figliuoli del figliuolo, e misorgli in pregione, e cacciarono di Pisa la sua famiglia e suoi seguaci, e Visconti, e Ubizzinghi, Guatani, e tutte l'altre case guelfe. E così fu il traditore dal traditore tradito; onde a parte guelfa di Toscana fu grande abassamento, e esultazione de' Ghibellini per la detta revoluzione di Pisa, e per la forza de' Ghibellini d'Arezzo, e per la potenzia e vittorie di don Giamo di Raona e de' Ciciliani contra l'erede del re Carlo.
<B>CXXII</B>
<I>Come i Lucchesi presono sopra i Pisani il castello d'Asciano.</I>
Nel detto anno, del mese d'agosto, i Lucchesi con giudice di Gallura e cogli usciti guelfi di Pisa (e di Firenze v'andarono XII cavalieri di corredo con CC cavalieri soldati) andarono ad oste in sul contado di Pisa, e puosonsi al castello d'Asciano presso di Pisa a tre miglia, e ebbollo a patti, salve le persone, e tornarono in Lucca sani e salvi sanza nullo contasto de' Pisani. E per loro dispetto i Lucchesi, preso il castello, nella maggiore torre feciono mettere più specchi, perché i Pisani vi si specchiassono.
<B>CXXIII</B>
<I>Come' soldati de' Pisani che venieno di Campagna furono sconfitti in Maremma da' soldati de' Fiorentini.</I>
Nel detto anno, del mese di settembre, vegnendo di terra di Roma e di Campagna CC cavalieri soldati per lo Comune di Pisa, i quali guidava il conticino da Ilci di Maremma, sentendo la loro venuta il giudice di Gallura ch'era in Samminiato, con ordine de' Fiorentini, mandarono loro incontro IIIc cavalieri di quegli della taglia con certi Fiorentini, onde fu capitano messer Guelfo de' Cavalcanti e Berardo da Rieti conastabole per condotta di Minuccio da Biserno; e scontrandosi co' detti soldati de' Pisani in Maremma, gli ruppono e sconfissono, e molti ne furono morti e presi, che pochi ne scamparono col conticino da Ilci; e le loro insegne recate in Firenze con grande festa, e il detto Berardo da Rieti conastabole fu fatto cavaliere per lo Comune di Firenze, e feciongli ricchi doni e grande onore.
<B>CXXIV</B>
<I>Della cavalcata che' Fiorentini feciono a Laterina per andare sopra ad Arezzo.</I>
Nel detto tempo, a dì XV di settembre, essendo gli Aretini ad oste sopra uno loro castello rubellato per gli Guelfi, ch'avea nome Corciano, i Fiorentini, per farne levare da oste gli Aretini, cavalcarono subitamente a Laterino per andare verso Arezzo, e furono le cavallate di Firenze, e da CCL loro soldati; sicché furono intorno di M uomini a cavallo e da IIIIm pedoni, e in quella oste e cavalcata si diede di prima la 'nsegna reale dell'arme del re Carlo, e ebbela messer Berto Frescobaldi, e poi sempre l'usarono i Fiorentini in loro oste per la mastra insegna. E sentendo gli Aretini la detta cavalcata, per tema della terra, di notte si levarono dal detto castello, quasi a modo di sconfitta, non aspettando l'uno l'altro, e tornarono in Arezzo; e ciò fatto, per rinvigorire loro parte mandarono a' Fiorentini che gli atendessono, che voleano la battaglia; i quali avuta la novella, allegramente gli attesono al castello di Laterino: gli Aretini co·lloro amistà di Marchigiani, e Romagnuoli, e usciti ghibellini di Firenze e delle terre di Toscana, in quantità di VIIc cavalieri e di VIIIm pedoni, vennero schierati alla ripa di là dall'Arno che si chiama Ca della Riccia, incontro a Laterino. I Fiorentini veggendo i nimici, francamente s'armaro, e usciro di Laterino, e schierarsi in su la riva d'Arno, il quale fiume d'Arno in quello tempo era molto sottile d'acqua, e agevole a passare a quegli da piè, non che a quegli da cavallo. E ciò fatto, i Fiorentini richiesono gli Aretini che scendessono al piano in su l'Arno, o dessono campo a·lloro di passare in su il loro piano per venire alla battaglia; ma gli Aretini a·cciò non feciono risposta, ma guardavano di prendere loro vantaggio della battaglia al passare dell'Arno; e così stette ciascuna parte alla gara. Alla fine gli Aretini, schifando la battaglia, si partirono sconciamente e tornaronsi in Arezzo, e' Fiorentini rimasono schierati in su la riva d'Arno infino al vespro, e poi si tornarono in Laterino; e vegnendone poi verso Firenze, disfeciono Montemarciano, e Poggio Tazi, e Montefortino, castella de' Pazzi di Valdarno. Ma partiti i Fiorentini di Laterino, la masnada d'Arezzo con certi Ghibellini essendo in Bibbiena in Casentino, per condotta di certi isbanditi e rubelli ghibellini di Valdisieve, cavalcarono infino al Ponte a Sieve presso a·fFirenze a X miglia, levando preda, e ardendo, e guastando per quelle contrade, e faccendo danno assai, si tornarono sanza contasto in Bibbiena; e ciò fu a dì XIII d'ottobre del detto anno.
<B>CXXV</B>
<I>Come il prenze Carlo uscì dalla pregione del re d'Araona.</I>
Nel detto anno, del mese di novembre, il prenze Carlo uscì della pregione del re d'Araona per procaccio del re Adoardo re d'Inghilterra, con patti, che promise a don Anfus re d'Araona ch'a suo podere procaccerebbe che messer Carlo di Valos fratello de·re di Francia rinunzierebbe con volontà del papa il privilegio del reame d'Araona, che gli avea dato la Chiesa al tempo di papa Martino, come addietro facemmo menzione; e se ciò non facesse, promise e giurò di ritornare in sua pregione dal giorno a tre anni. E per fermezza della detta promessa lasciò per istadichi III suoi figliuoli, Ruberto, e Ramondo, e Giovanni, e L de' migliori cavalieri di Proenza. E costogli il detto accordo XXXm marchi di sterlini. E ciò fatto, il detto prenze Carlo n'andò in Francia al re per fare rinunziare a messer Carlo, ma niente ne poté fare.
<B>CXXVI</B>
<I>D'uno grande diluvio d'acqua che fu in Firenze.</I>
Nel detto anno, a dì V di dicembre, fu in Firenze e nel contado uno grande diluvio di piova, onde il fiume d'Arno crebbe sì disordinatamente, e durò col detto empito fuori d'ogni termine usato dalla mattina alla sera, e fece ruvinare palazzi e case degli Spini e de' Gianfigliazzi, ch'erano di costa al ponte a Santa Trinita, e grande danno fece nel contado di Firenze e in quello di Pisa.
<B>CXXVII</B>
<I>Come gli Aretini vennero guastando per lo contado di Firenze insino a San Donato in Collina.</I>
Nel detto anno, a dì XII del mese di marzo, la masnada d'Arezzo, intorno di IIIc uomini a cavallo e ben IIIm a piè, vennero infino a Montevarchi, ardendo e guastandolo intorno; e arsono il borgo del castello, e tutto dì combatterono la terra. E stando l'oste degli Aretini a Montevarchi, certi usciti di Firenze con alquanti scorridori a cavallo e a piè corsono insino a San Donato in Collina presso a·fFirenze a VII miglia, ardendo e guastando, sicché i fummi delle case e dell'arsione si vedea della città di Firenze, e cominciarono a tagliare l'olmo da San Donato per dispetto de' Fiorentini. E ciò fatto, si tornarono nel borgo di Fegghine, e stettonvi uno dì e una notte; né già per la detta cavalcata non si mosse uomo di Firenze, anzi ebbe nella terra grande gelosia, temendo che·lla detta cavalcata non fosse fatta per tradimento della terra, perché in Firenze erano rimasi molti Ghibellini grandi e popolani, de' quali per quello sospetto molti ne furono mandati a' confini, e la città rimase sanza sospetto.
<B>CXXVIII</B>
<I>Come i Pisani feciono loro capitano il conte da Montefeltro, e come feciono morire di fame il conte Ugolino e' figliuoli e' nipoti.</I>
Nel detto anno MCCLXXXVIII, del detto mese di marzo, riscaldandosi le guerre di Toscana tra' Guelfi e' Ghibellini, per la guerra cominciata de' Fiorentini e Sanesi agli Aretini, e de' Fiorentini e Lucchesi a' Pisani, i Pisani elessono per loro capitano di guerra il conte Guido di Montefeltro, dandogli grande giuridizione e signoria; il quale ruppe i confini ch'avea per la Chiesa, e partissi di Piemonte, e venne in Pisa; per la qual cosa egli e' suoi figliuoli e famiglia, e tutto il Comune di Pisa, dalla Chiesa di Roma furono scomunicati, siccome ribelli e nimici di santa Chiesa. E giunto il detto conte in Pisa del detto mese di marzo, i Pisani, i quali aveano messo in pregione il conte Ugolino e due suoi figliuoli, e due figliuoli del conte Guelfo suo figliuolo, siccome addietro facemmo menzione, in una torre in su la piazza degli anziani, feciono chiavare la porta della detta torre, e le chiavi gittare in Arno, e vietare a' detti pregioni ogni vivanda, gli quali in pochi giorni vi morirono di fame. Ma prima domandando con grida il detto conte penitenzia, non gli concedettono frate o prete che 'l confessasse. E tratti tutti e cinque insieme morti della detta torre, vilmente furono sotterrati; e d'allora innanzi la detta carcere fu chiamata la torre della fame, e sarà sempre. Di questa crudeltà furono i Pisani per l'universo mondo, ove si seppe, forte biasimati, non tanto per lo conte, che per gli suoi difetti e tradimenti era per aventura degno di sì fatta morte, ma per gli figliuoli e nipoti, ch'erano giovani garzoni e innocenti; e questo peccato commesso per gli Pisani non rimase impunito, siccome per gli tempi innanzi si potrà trovare. Lasceremo alquanto de' fatti di Firenze e di Toscana, e diremo d'altre novità ch'a' detti tempi apparirono, e furono per l'universo mondo.
<B>CXXIX</B>
<I>Come i Saracini presono Tripoli di Soria.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXVIIII, del mese di maggio, il soldano di Babbillonia d'Egitto con grandissimo esercito di Saracini a cavallo e a piè venne in Soria, e puosesi ad oste alla città di Tripoli, la quale si tenea per gli Cristiani, e quella per dificii e cave ebbe per forza; e molti Cristiani che v'avea dentro furono morti; e li giovani garzoni, e le donne e pulcelle furono violate villanamente da' Saracini, e menate in servaggio; alquanti ne scamparono in galee e legni ch'erano nel porto, e fuggirsi ad Acri. E entrativi i Saracini, la rubarono e spogliarono d'ogni sustanzia, la quale era piena di molte gioie e mercatantie e cose. E ciò fatto, la feciono abattere e disfare insino alla fondamenta, salvo il castello chiamato Nelisino, il quale era di fuori alla città ad una balestrata, e guernitollo di Saracini alla guardia, perché la città di Tripoli non si rifacesse per gli Cristiani.
<B>CXXX</B>
<I>Della coronazione del re Carlo secondo, e come passò per Firenze, e lasciò messer Amerigo di Nerbona per capitano di guerra de' Fiorentini.</I>
Nel detto anno, a dì II di maggio, venne in Firenze il prenze Carlo figliuolo del grande re Carlo, il quale tornava di Francia poi ch'era uscito di pregione, e andavane a corte a Rieti dov'era il papa, e da' Fiorentini fu ricevuto con grande festa, e fugli fatto grande onore e presenti da' Fiorentini; e dimorato III giorni in Firenze, si partì per fare suo cammino verso Siena. E lui partito, venne in Firenze novella che·lle masnade d'Arezzo s'apparecchiavano d'andare in sul contado di Siena per impedire o fare vergogna al detto prenze Carlo, il quale ave' piccola compagnia di gente d'arme. Incontanente i Fiorentini feciono cavalcare i cavalieri delle cavallate, ove furono tutto il fiore della buona gente di Firenze e' soldati ch'erano in Firenze, e furono in quantità di VIIIc cavalieri e IIIm pedoni per accompagnare il detto prenze; onde il prenze l'ebbe molto per bene di sì onorato servigio, e sùbito e non richesto soccorso di tanta buona gente, e con tutto che non facesse bisogno; ché sentito per gli Aretini la cavalcata de' Fiorentini, non s'ardirono d'andarvi; ma però i Fiorentini accompagnarono il detto prenze infino di là da la Bricola a' confini del contado di Siena e d'Orbivieto. E adomandato per lo Comune di Firenze al prenze uno capitano di guerra, e che confermasse loro di portare in oste la 'nsegna reale, dal prenze fu accettato, e fece cavaliere Amerigo di Nerbona grande gentile uomo, e prode e savio in guerra, e diello loro per capitano; il quale messer Amerigo con sua compagnia, intorno di C uomini a cavallo, venne in Firenze colla detta cavalleria, e il prenze n'andò a corte, e dal papa Niccola IIII e da' suoi cardinali onorevolemente fu ricevuto; e il dì della Pentecosta vegnente, a dì XXVIIII di maggio MCCLXXXVIIII, nella città di Roma fu dal detto papa coronato il detto Carlo re di Cicilia e di Puglia con grande onore, solennità e festa, e dalla Chiesa fattegli molte grazie e grandi presenti di gioielli e di moneta, e susidii di decime per aiuto della guerra di Cicilia. E ciò fatto si partì lo re Carlo di corte, e andonne nel Regno.
<B>CXXXI</B>
<I>Come i Fiorentini sconfissono gli Aretini a Certomondo in Casentino.</I>
Nel detto anno e mese di maggio, tornata la cavalleria di Firenze da accompagnare il prenze Carlo, e col loro capitano messer Amerigo di Nerbona, per soperchi ricevuti dagli Aretini incontanente feciono bandire oste sopra la città d'Arezzo, e diedono loro insegne di guerra a dì XIII di maggio, e la 'nsegna reale ebbe messer Gherardo Ventraia de' Tornaquinci, e incontanente che furono date le portarono alla badia a Ripole, com'era usato, e là le lasciarono con guardia, faccendo vista d'andare per quella via sopra la città d'Arezzo. E venuta l'amistà e fornita l'ordine, con segreto consiglio presono ordine e partito d'andare per la via di Casentino, e subitamente a dì II di giugno, sonate le campane a martello, si mosse la bene aventurosa oste de' Fiorentini, e le bandiere ch'erano a Ripole feciono passare Arno, e tennono la via del Ponte a Sieve, e accamparsi per attendere tutta gente in su Monte al Pruno, e là si trovarono da MVIc cavalieri e da Xm pedoni, de' quali v'ebbe VIc cittadini con cavallate, i meglio armati e montati ch'uscissono anche di Firenze, e IIIIc soldati colla gente del capitano messer Amerigo al soldo de' Fiorentini; e di Lucca v'ebbe CL cavalieri, e di Pistoia LX cavalieri e pedoni, di Prato XL cavalieri e pedoni, e di Siena CXX cavalieri, e di Volterra XL cavalieri, e di Bologna loro ambasciadori co·lloro compagnia, e di Samminiato, e di San Gimignano, e di Colle, di ciascuna terra v'ebbe gente a cavallo e a piè; e Maghinardo da Susinana buono capitano e savio di guerra con suoi Romagnuoli. E raunata la detta oste, scesono nel piano di Casentino guastando le terre del conte Guido Novello, ch'era podestà d'Arezzo. Sentendo ciò il vescovo d'Arezzo, cogli altri capitani di parte ghibellina, che assai v'aveva de' nominati, presono partito di venire con tutta loro oste a Bibbiena, perché non ricevesse il guasto, e furono VIIIc cavalieri e VIIIm pedoni, molto bella gente, e di molti savi capitani di guerra ch'avea tra·lloro, che v'era il fiore de' Ghibellini di Toscana, della Marca, e del Ducato, e di Romagna, e tutta gente costumati in arme e in guerra; sì richiesono di battaglia i Fiorentini, non temendo perché i Fiorentini fossono due cotanti cavalieri di loro, ma dispregiandogli, dicendo che·ssi lisciavano come donne, e pettinavano le zazzere, e gli aveano a schifo e per niente. Bene ci fu anche cagione perché gli Aretini si misono a battaglia co' Fiorentini, essendo due cotanti cavalieri di loro, per tema d'uno trattato che 'l vescovo d'Arezzo avea tenuto co' Fiorentini, menato per messer Marsilio de' Vecchietti, di dare in guardia a' Fiorentini Bibbiena, Civitella, e tutte le castella del suo vescovado, avendo ogn'anno a sua vita Vm fiorini d'oro, sicuro in su la compagnia de' Cerchi. il quale trattato messer Guiglielmino Pazzo suo nipote isturbò, perché il vescovo non fosse morto da' caporali ghibellini; e però avacciarono la battaglia, e menarvi il detto vescovo, ov'egli rimase morto cogli altri insieme; e così fu pulito del suo tradimento il vescovo, ch'a un'ora trattava di tradire i Fiorentini e' suoi Aretini. E ricevuto per gli Fiorentini allegramente il gaggio della battaglia, di concordia si schierarono e affrontarono le due osti più ordinatamente per l'una parte e per l'altra, che mai s'affrontasse battaglia in Italia, nel piano a piè di Poppio nella contrada detta Certomondo, che così si chiama il luogo, e una chiesa de' frati minori che v'è presso, e in uno piano che·ssi chiama Campaldino; e ciò fu un sabato mattina, a dì XI del mese di giugno, il dì di santo Barnaba appostolo. Messer Amerigo e gli altri capitani de' Fiorentini si schierarono bene e ordinatamente, faccendo CL feditori de' migliori dell'oste, de' quali furono XX cavalieri novelli, che si feciono allora; e essendo messer Vieti de' Cerchi de' capitani, e malato di sua gamba, non lasciò perciò di volere essere de' feditori; e convenendoli eleggere per lo suo sesto, nullo volle di ciò gravare più che·ssi volesse di volontà, ma elesse sé e 'l figliuolo e' nipoti; la qual cosa gli fu messa in grande pregio, e per suo buono esemplo e per vergogna molti altri nobili cittadini si misono tra' feditori. E ciò fatto, fasciandogli di costa da ciascuna ala della schiera de' pavesari, e balestrieri, e di pedoni a lance lunghe, e la schiera grossa di dietro a' feditori ancora fasciata di pedoni, e dietro tutta la salmeria raunata per ritenere la schiera grossa, e di fuori della detta schiera misono CC cavalieri e pedoni Lucchesi e Pistolesi e altri forestieri, onde fu capitano messer Corso Donati, ch'allora era podestà de' Pistolesi, e ordinaro, che se bisognasse, fedisse per costa sopra i nemici. Gli Aretini dalla loro parte ordinarono saviamente loro schiere, però che v'avea, come detto avemo, buoni capitani di guerra, e feciono molti feditori in quantità di IIIc, intra' quali avea eletti XII de' maggiori caporali che si faceano chiamare i XII paladini. E dato il nome ciascuna parte alla sua oste, i Fiorentini: "Nerbona cavaliere", e gli Aretini: "San Donato cavaliere", i feditori degli Aretini si mossono con grande baldanza a sproni battuti a fedire sopra l'oste de' Fiorentini, e l'altra loro schiera conseguente appresso, salvo che 'l conte Guido Novello, ch'era con una schiera di CL cavalieri per fedire di costa, non s'ardì di mettere alla battaglia, ma rimase, e poi si fuggì a sue castella. E la mossa e assalire che feciono gli Aretini sopra i Fiorentini fu, stimandosi come valente gente d'arme, che per loro buona pugna di rompere alla prima affrontata i Fiorentini e mettergli in volta; e fu sì forte la percossa, che i più de' feditori de' Fiorentini furono scavallati, e la schiera grossa rinculò buon pezzo del campo, ma però non si smagarono né ruppono, ma costanti e forti ricevettono i nemici; e coll'ale ordinate da ciascuna parte de' pedoni rinchiusono tra·lloro i nemici, combattendo aspramente buona pezza. E messer Corso Donati, ch'era di parte co' Lucchesi e Pistolesi, e avea comandamento di stare fermo, e non fedire, sotto pena della testa, quando vide cominciata la battaglia, disse come valente uomo: "Se noi perdiamo, io voglio morire nella battaglia co' miei cittadini; e se noi vinciamo, chi vuole vegna a noi a Pistoia per la condannagione"; e francamente mosse sua schiera, e fedì i nemici per costa, e fu grande cagione della loro rotta. E ciò fatto, come piacque a·dDio, i Fiorentini ebbono la vittoria, e gli Aretini furono rotti e sconfitti, e furonne morti più di MDCC tra a cavallo e a piè, e presi più di MM, onde molti ne furono trabaldati pur de' migliori, chi per amistà, e chi per ricomperarsi per danari; ma in Firenze ne vennero legati VIIcXL. Intra' morti rimase messer Guiglielmino degli Ubertini vescovo d'Arezzo, il quale fu uno grande guerriere, e messer Guiglielmino de' Pazzi di Valdarno e' suoi nipoti, il quale fu il migliore e 'l più avisato capitano di guerra che fosse in Italia al suo tempo, e morivvi Bonconte figliuolo del conte Guido da Montefeltro, e tre degli Uberti, e uno degli Abati, e due de' Griffoni da Fegghine, e più altri usciti di Firenze, e Guiderello d'Allessandro d'Orbivieto, nominato capitano, che portava la 'nsegna imperiale, e più altri. Dalla parte de' Fiorentini non vi rimase uomo morto di rinnomea, se non messer Guiglielmo Berardi balio di messer Amerigo di Nerbona, e messer Bindo del Baschiera de' Tosinghi, e Tici de' Visdomini; ma molti altri cittadini e forestieri furono fediti. La novella della detta vittoria venne in Firenze il giomo medesimo, a quella medesima ora ch'ella fu; che dopo mangiare essendo i signori priori iti a dormire e a riposarsi, per la sollecitudine e vegghiare della notte passata, subitamente fu percosso l'uscio della camera con grida: "Levate suso, che gli Aretini sono sconfitti!"; e levati, e aperto, non trovarono persona, e i loro famigliari di fuori non ne sentirono nulla; onde fu grande maraviglia e notabile tenuta, che innanzi che persona venisse dell'oste colla novella, fu ad ora di vespro. E questo fu il vero, ch'io l'udì e vidi, e tutti i Fiorentini s'amirarono onde ciò fosse venuto, e istavano in sentore. Ma quando giunsono coloro che venieno dell'oste, e raportarono la novella in Firenze, si fece grande festa e allegrezza; e poteasi fare per ragione, che alla detta sconfitta rimasono molti capitani e valenti uomini di parte ghibellina, e nemici del Comune di Firenze, e funne abbattuto l'orgoglio e superbia non solamente degli Aretini, ma di tutta parte ghibellina e d'imperio.
<B>CXXXII</B>
<I>Come i Fiorentini assediarono e guastarono intorno la città d'Arezzo.</I>
Avuta la detta vittoria il Comune di Firenze sopra quello d'Arezzo, sonata colle trombe la ritratta della caccia dietro a' fuggiti, si schierò l'oste de' Fiorentini in su il campo, e ciò fatto, se n'andarono a Bibbiena, e quella ebbono sanza nullo contasto; e rubata e spogliata d'ogni sustanzia e di molta preda, le feciono disfare le mura e le case forti infino alle fondamenta, e più altre castelletta intorno, soggiornatovi VIII dì. Che se lo seguente dì fosse l'oste de' Fiorentini cavalcata ad Arezzo, sanza niuno dubbio s'avea la terra; ma in quello soggiorno gli scampati della battaglia vi ritornarono, e de' contadini d'intorno vi fuggirono, e presono ordine al riparo e guardia della terra. L'oste de' Fiorentini vi venne alquanti giorni appresso, e puosono l'assedio intorno alla città, faccendo il guasto al continuo, e prendendo le loro castella, che quasi tutte s'ebbono, quali per forza, e quali s'arrenderono a patti; e molte ne feciono disfare i Fiorentini, e ritennero Castiglione Aretino, e Montecchio, e Rondine, e Civitella, e Laterino, e Monte Sansavino. E andarono in quella oste due de' priori di Firenze a provedere; e' Sanesi vennero per comune molto isforzatamente, popolo e cavalieri, dopo la sconfitta fatta, per racquistare loro terre prese per gli Aretini; e ebbono Licignano d'Arezzo e Chiusura di Valdichiane a patti. E stando la detta oste de' Fiorentini ad Arezzo, in sul vescovado vecchio, per XX dì, la guastarono tutta intorno, e fecionvi correre il palio per la festa di san Giovanni, e rizzarvisi più dificii, e manganarvisi asini colla mitra in capo, per dispetto e rimproccio del loro vescovo; e ordinarvisi molte torri di legname e altri ingegni per combattere la terra, e dandovisi aspra battaglia, grande pezza dello steccato, che non v'avea allora altro muro da quella parte, fu arso e abbattuto; e se i capitani dell'oste avessono ben fatto pugnare a' combattitori, per forza s'avea la terra, ma quando doveano combattere, feciono sonare la ritratta, onde furono abominati, che ciò fu fatto per guadagneria; per la qual cosa il popolo e' combattitori amollati si ritrassono da' badalucchi e dalle guardie; onde la notte vegnente quegli d'Arezzo uscirono fuori, e misero fuoco in più torri di legname, e arsolle con molti altri dificii. E ciò fatto, i Fiorentini perduta la speranza d'avere la terra per battaglia, per lo migliore si partì l'oste, lasciando fornite le sopradette castella forti, perché guerreggiassono al continuo la terra; e tornò l'oste in Firenze a dì XXIII di luglio con grande allegrezza e triunfo, andando loro incontro il chericato a processione, e' gentili uomini armeggiando, e 'l popolo colle insegne e gonfaloni di ciascuna arte con sua compagnia, e recossi palio di drappo ad oro sopra capo di messer Amerigo di Nerbona, portato sopra bigordi per più cavalieri, e simile sopra messer Ugolino de' Rossi da Parma, ch'allora era podestà di Firenze. E nota che tutta la spesa della detta oste si fornì per lo nostro Comune per una libbra di libbre VI e soldi V il centinaio, che montò più di XXXVIm di fiorini d'oro, sì era allora bene ordinato l'estimo della città e del contado, con altre cose e rendite del Comune simiglianti bene ordinate. Bene avenne che tornata la detta oste, i popolani ebbono sospetto de' grandi, che per orgoglio della detta vittoria non gli gravassono oltre al modo usato; e per questa cagione le VII arti maggiori si rallegarono con loro le V arti consequenti, e feciono tra·lloro imporre arme, e pavesi, e certe insegne, e fu quasi uno cominciamento di popolo, onde poi si prese la forma del popolo che·ssi cominciò nel MCCLXXXXII, come innanzi fareno memoria. Della sopradetta vittoria la città di Firenze esaltò molto, e venne in felice e buono stato, il migliore ch'ella avesse avuto infino a quelli tempi; e crebbe molto di genti e di ricchezze, ch'ognuno guadagnava d'ogni mercatantia, arte, o mestieri; e durò in pacefico e tranquillo stato più anni appresso, ogni dì montando. E per allegrezza e buono stato ogni anno per calen di maggio si faceano le brigate e compagnie di genti giovani vestiti di nuovo, e faccendo corti coperte di zendadi e di drappi, e chiuse di legname in più parti della città; e simile di donne e di pulcelle, andando per la terra ballando con ordine, e signore accoppiati, cogli stormenti e colle ghirlande di fiori in capo, stando in giuochi e in allegrezze, e in desinari e cene.
<B>CXXXIII</B>
<I>D'una fiera e aspra battaglia la quale fu tra 'l duca di Brabante e 'l conte di Luzzimborgo</I>
Nel detto tempo e mese di giugno, essendo nata una grande discordia tra 'l duca di Brabante e il conte di Luzzimborgo per cagione del ducato di Lamborgo il quale era vacato, e ciascuno de' detti signori vi cusava ragione; il conte di Luzzimborgo, perch'era stato di genti di suo lignaggio, e co·llui tenea l'arcivescovo di Cologna e più altri signori, e 'l duca di Brabante vi cusava ragione per retaggio di donna. E per questa tenza sì nacque tra·lloro gaggio di battaglia, e ciascheduno fece sua raunata, la quale fu per la parte del duca di Brabante di MD cavalieri, de' migliori che fossono in Brabante, in Fiandra, e in Analdo, e di Francia. E d'altra parte il conte di Luzzimborgo fu con MCCC cavalieri, de' migliori e de' più rinnomati di Valdelreno e d'Alamagna. E raccozzate le due osti tra il fiume del Reno e quello della Mosa nel luogo detto Avurone, sanza niuno pedone d'arme ch'a piè fosse, si cominciò la detta battaglia, e fu sì aspra e sì crudele, che durò dalla mattina al sole levante infino al coricare del sole; però che a modo di torniamento si ruppono e si rallegarono più volte il giorno, non possendosi giudicare chi avesse il peggiore. Alla fine fu sconfitto il conte di Luzzimborgo per la buona cavalleria che messer Gottifredi di Brabante fratello del duca avea menata di Francia, che vi fu il conastabole, e 'l maliscalco, e altri grandi baroni di Francia, con tutto il fiore de' baccellieri d'arme del reame, i quali v'erano venuti co·llui a priego della reina Maria, moglie che fu del re Filippo di Francia, e serocchia del detto duca e di messer Gottifredi di Brabante. E rimasono in sul campo morti, che d'una parte e che d'altra, Vc e più de' migliori cavalieri del mondo; ma i più della parte del conte di Luzzimborgo; ch'egli con tre suoi fratelli carnali vi rimasono morti, e il conte di Ghelleri, e quello di Les, e più altri baroni del Reno e d'Alamagna, e in grande quantità presi, che per la fierezza de' buoni cavalieri nullo quasi fuggì di campo, onde bene n'è da·ffare notevole memoria, però che appena si truova di tanta poca gente, a comparazione, sì aspra battaglia come fu quella. Per la quale vittoria il duca di Brabante e suo paese montò in grande fama di buona cavalleria e di grande stato, e conquistò il ducato di Lamborgo ond'era la quistione; e d'allora innanzi il duca di Brabante acrebbe la sua arme, e fecela a quartieri: l'uno il campo nero e leone ad oro, cioè l'arme del duca di Brabante; l'altro il campo ad argento e leone vermiglio per la ducea di Lamborgo. Ma poi pace faccendo, e per non esser disertato, Arrigo, giovane fanciullo rimaso del conte di Luzzimborgo, per consiglio de' parenti e amici tolse per moglie la figliuola del duca di Brabante. Questo Arrigo crebbe poi in tante virtù e valore, che fu imperadore di Roma, come innanzi al suo tempo la nostra cronica farà menzione.
<B>CXXXIV</B>
<I>Come don Giamo venne di Cicilia in Calavra con sua armata, e ricevettevi alcuno danno, e poi si puose ad assedio a Gaeta.</I>
Nel detto anno e mese di giugno, essendo il conte d'Artese maliscalco della gente del re Carlo in Calavra ad oste al castello di Catarzano ch'era rubellato al re Carlo, e s'era arrenduto a don Giamo d'Araona, il quale si facea chiamare re di Cicilia, il detto don Giamo col suo amiraglio Ruggieri di Loria, per soccorrere e levare l'assedio dal detto castello, vennero di Cicilia con loro armata da L tra galee e uscieri, e con gente d'arme e cavagli puosono in terra. E messer Ruggieri di Loria scese, e ne fu capitano di Vc cavalieri catalani, ov'ebbe una battaglia tra' Franceschi e' Catalani, ma per la buona cavalleria de' Franceschi ch'avea seco, il conte d'Artese ne fu vincitore, e rimasorvi tra morti e presi intorno di CC Catalani a cavallo. Messer Ruggieri si ricolse a galee col rimanente. E nota che 'l detto messer Ruggieri non fu vinto mai né prima né poscia in battaglia di terra o di mare, se non in quella, ma fue il più bene aventuroso che amiraglio che mai si ricordi, come le sue memorie hanno fatto e faranno per innanzi menzione. Come don Giamo vide che non potea niente avanzare in Calavra, si partì per mare con sua armata, lasciando là l'oste e gente del re Carlo, e sì s'avvisò d'assalire e prendere la città di Gaeta, e per fare levare l'oste di Catarzano in Calavra, e puosesi del mese di luglio ad assedio della detta città di Gaeta in sul monte che v'è d'incontro, assai forte luogo e sicuro, con VIc cavalieri e con popolo e balestrieri assai, e rizzòvi difici, gittandovi dentro. I Gaetani si tennero francamente, e mandarono per soccorso al re Carlo, il quale si mosse da Napoli con tutto suo podere di gente d'arme a cavallo e a piè; il conte d'Artese vi venne di Calavra colla cavalleria, lasciando fornito l'assedio, e di Campagna e di terra di Roma vi venne molta gente a cavallo e a piè al soldo della Chiesa. Don Giamo sentendo venire il re Carlo sopra lui con tanta potenzia, e temendo che per fortuna di mare non gli fallisse vivanda, fece domandare triegue al re Carlo, promettendo di partirsi da Gaeta; le quali il re accettò dal dì insino a la Tusanti vegnente a due anni, salvo che in Calavra. La qual triegua al conte d'Artese e agli altri baroni franceschi non piacque, però che per la loro potenzia parea loro avere preso don Giamo e vinta la guerra; ma lo re Carlo conoscendo che non si potea levare l'assedio sanza pericolo, non avendo armata in mare, prese le triegue, e però fu cagione di tornarsi in Francia il conte d'Artese e più baroni. E fatte le dette triegue, don Giamo con sua armata si ricolse, e partissi a dì XXV d'agosto MCCLXXXVIIII, e tornarsi sani e salvi in Cicilia. E perché i Gaetani si portarono all'assedio francamente, e come franchi uomini, lo re gli fece franchi d'ogni gravezza X anni.
<B>CXXXV</B>
<I>Come Carlo Martello fu coronato del reame d'Ungaria.</I>
Compiute e ferme le dette triegue, le quali furono molto utoli al regno di Puglia per dare alquanto silenzio alla guerra ond'erano molto agravati, il re Carlo si tornò a Napoli; e 'l giorno di nostra Donna di settembre prossimo il detto re fece in Napoli grande corte e festa, e fece cavaliere Carlo Martello suo primogenito figliuolo, e fecelo coronare del reame d'Ungaria per uno cardinale legato del papa, e per più vescovi e arcivescovi. E per la detta coronazione e festa più altri cavalieri novelli si feciono il giorno, Franceschi, e Provenzali, e del Regno, e spezialmente Napoletani, per lo re e per lo figliuolo; e fu grande corte e onorevole, e ciò fece lo re Carlo, però ch'era morto il re d'Ungheria in quello anno, del quale non rimase niuno figliuolo maschio né altra reda, che·lla reina Maria moglie del detto re Carlo, e madre del detto Carlo Martello, a·ccui succedeva per ereditaggio il detto reame d'Ungheria. Ma morto il detto re d'Ungheria, Andreasso, disceso per legnaggio della casa d'Ungaria, entrò nel reame, e la maggiore parte tra per forza e per amore ne conquistò, e fecesene fare signore e re. Lasceremo alquanto de' fatti del regno di Cicilia e d'Ungheria, e tornereno a' fatti che in que' tempi furono in Toscana.
<B>CXXXVI</B>
<I>Come que' di Chiusi furono sconfitti, e rimisono i Guelfi in Chiusi.</I>
Nel detto anno, a dì XVI d'agosto, i Ghibellini ch'erano in Chiusi, ond'era capitano messer Lapo Farinata degli Uberti, uscirono fuori popolo e cavalieri, e con difici e scale per combattere il ponte e torri di Santa Mosteruola a piè di Chiusi in su le Chiane, il quale si tenea per gli Guelfi usciti di Chiusi. E sentendo la detta ordine, mandarono per soccorso a Siena e a Montepulciano, onde subitamente vi mandarono i Sanesi messer Berardo da Rieti con C cavalieri, e di Montepulciano vi trasse messer Benghi Bondelmonti che n'era podestà, con gente a cavallo e a piè assai; e trovando la detta oste de' Chiusini, gli asalirono francamente, e gli misono inn-isconfitta, e rimasonne morti da CXX, e presi più di CC; per la quale sconfitta e per riavere i loro pregioni, quegli di Chiusi rimisono il settembre vegnente i Guelfi in Chiusi, e mandarne messer Lapo Farinata e la masnada de' Ghibellini d'Arezzo.
<B>CXXXVII</B>
<I>Come i Lucchesi colla forza de' Fiorentini feciono oste sopra la città di Pisa.</I>
Nel detto anno MCCLXXXVIIII, del mese d'agosto, i Lucchesi feciono oste sopra la città di Pisa colla forza de' Fiorentini, che v'andarono IIIIc cavalieri di cavallate, e IIm pedoni di Firenze, e la taglia di loro e dell'altre terre di parte guelfa di Toscana, e andarono insino alle porte di Pisa, e fecionvi i Lucchesi correre il palio per la loro festa di san Regolo, e guastarla intorno in XXV dì che vi stettono ad oste, e presono il castello di Caprona, e guastarlo, e tutta la valle di Calci, e quella di Buti, e guastarono intorno Vicopisano, e dieronvi più battaglie, ma no·llo ebbono, e tornarsi a casa sani e salvi, e di Pisa nonn-uscì persona d'arme a·lloro contrario.
<B>CXXXVIII</B>
<I>D'una cavalcata che feciono i Fiorentini, che dovea loro esser dato Arezzo.</I>
Nel detto anno, del mese di novembre, essendo menato uno segreto trattato per gli Fiorentini d'avere la città d'Arezzo per tradimento, subitamente in su l'ora di vespro sonando la campana a martello, e ponendo la candela alla porta accesa, pena grandissima chi non fosse cavalcato innanzi ch'ella fosse consumata, i cittadini ch'aveano le cavallate incontanente cavalcaro e con loro soldati, e tutta la notte infino a Montevarchi, e la mattina a Civitella; e venia fornito il trattato, se non che uno che 'l menava cadde d'uno sporto, e veggendosi a la morte, in confessione il manifestò al suo confessoro frate, e quegli il rivelò a messer Tarlato, onde prese di coloro che sentirono il tradimento, e fecene giustizia, e fue discoperto, onde i Fiorentini, ch'erano però cavalcati a Civitella, riposati alquanti dì, si tornarono in Firenze.
<B>CXXXIX</B>
<I>D'uno grande fuoco che s'apprese in Firenze in casa i Pegolotti.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXX, a dì XXVIIII di maggio, s'apprese il fuoco a casa de' Pegolotti Oltrarno di là dal ponte Vecchio, e arsono le loro case e la torre e case de' loro vicini d'incontro, e arsevi messer Neri Pegolotti con uno suo figliuolo, e una donna di loro con III suoi figliuoli, e una fante; onde fu allora una grande pietà e dammaggio di persone e d'avere, che poi fu quasi spento quello legnaggio, ch'erano antichi e orrevoli cittadini.
<B>CXL</B>
<I>Come i Fiorentini co·lloro amistà feciono la terza oste sopra la città d'Arezzo.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXX i Fiorentini uscirono fuori il primo dì di giugno, e feciono oste sopra la città d'Arezzo coll'aiuto della taglia e dell'amistà delle terra guelfe di Toscana: furono MD cavalieri e VIm pedoni. E al dare delle 'nsegne della detta oste si diede di prima il pennone de' feditori, mezzo l'arme del re, e mezzo il campo d'argento e giglio rosso; e stettono ad oste XXVIIII dì, e guastarlo da capo: intorno intorno ad Arezzo VI miglia non vi rimase né vigna, né albero, né biada; e corsonvi il palio il dì di santo Giovanni alle porte d'Arezzo. E era allora podestà di Firenze messer Rosso Gabrielli d'Agobbio, e fu il primo che fosse per VI mesi, che innanzi erano le podestadi per uno anno; per lo meglio del Comune si fece allora quello decreto, che poi seguì sempre. E tornando la detta oste, feciono la via di Casentino guastando le terre del conte Guido Novello, e disfeciongli la rocca, e palazzi di Poppio, ch'erano forti e maravigliosi, e Castello Santo Angelo, e quello di Ghiazzuolo, e Cetica, e Monte Aguto di Valdarno. E in questo venne l'esecuzione della profezia che 'l conte Tegrimo il vecchio disse al conte Guido Novello dopo la sconfitta de' Fiorentini a Monte Aperti, essendo in grande stato e prosperità il detto conte Guido, e per proverbio si dicea in Firenze: "Tu stai più ad agio che 'l conte in Poppi"; e mostrandogli il cassero di Poppi, nella cui camera dell'arme avea tutte le buone balestra, e altri arnesi d'arme e d'oste che' Fiorentini aveano perduti alla detta sconfitta, e ancora quello che trovò in Firenze quando fu vicario; e domandando il conte Guido il conte Tegrimo che gliene parea, il detto conte Tegrimo rispuose improviso e sùbito al conte Guido uno bello motto e notabile, e disse: "Parmene bene, se non ch'io intendo che' Fiorentini sono grandi prestatori ad usura".
<B>CXLI</B>
<I>Come fu preso e guasto Porto Pisano per gli Fiorentini, e Genovesi, e Lucchesi.</I>
Nel detto anno, a dì II di settembre, i Fiorentini uscirono ad oste sopra la città di Pisa, lasciando fornito il Valdarno di sopra di CCC cavalieri, tra cittadini e soldati e pedoni assai, acciò che gli Aretini non potessono per la detta oste correre in Valdarno; e ciò fatto, con ordine de' Genovesi, che vi vennono per mare con XL galee armate (e' Lucchesi vi furono con tutto loro podere), e presono per forza Porto Pisano e Livorno, e guastarlo tutto, e guastarono le IIII torri ch'erano in mare alla guardia del porto, e il fanale della Meloria, e feciolle cadere e rovesciare in mare cogli uomini che su v'erano a guardia. E' Genovesi sursono a la bocca e entrata del porto più legni grossi carichi di pietre, e ruppono i palizzi, perché il detto porto non si potesse usare. E partita la detta oste di Porto, i Genovesi si tornarono a Genova, e Lucchesi a Lucca sani e salvi, e' Fiorentini tornarono per la Valdera, e presono e disfeciono più castella, e lasciarono uno capitano in Valdera. Ma tornati i Fiorentini in Firenze, il conte Guido da Montefeltro colle masnade di Pisa cavalcarono in Valdera, e ripresono il castello di Montefoscoli e quello di Montecchio, e presono il capitano che v'aveano lasciato i Fiorentini; e ciò sentendosi in Firenze, cavalcarono i Fiorentini a Volterra, popolo e cavalieri; e sentendolo i Pisani, si tornarono a Pisa.
<B>CXLII</B>
<I>Come fu preso il marchese di Monferrato da quegli d'Allessandra.</I>
Nel detto tempo il marchese di Monferrato, il quale essendo venuto nella città d'Allessandra in Lombardia, ch'egli tenea sotto sua signoria, i cittadini di quella, a petizione e sommossa degli Astigiani, di cui egli era nimico (e ciò fu per gli molti danari ch'egli spesono ne' traditori d'Allessandra), i quali per tradimento presono il detto marchese e misollo in pregione, per la cui presura i Melanesi presono...
<B>CXLIII</B>
<I>D'uno grande miracolo ch'avenne in Parigi del corpo di Cristo.</I>
Nel detto anno, essendo in Parigi uno Giudeo ch'avea prestato ad usura a una Cristiana sopra sua roba, e quella volendola ricogliere per averla indosso il dì di Pasqua, il Giudeo le disse: "Se tu mi rechi il corpo del vostro Cristo, io ti renderò i tuoi panni sanza danari". La semplice femmina e covidosa il promise, e la mattina di Pasqua, andandosi a comunicare, ritenne il sagramento e recollo al Giudeo; il quale messo una padella a fuoco con acqua bogliente, gittò il corpo di Cristo dentro, e no·llo potea consumare; e ciò veggendo, il fedì più volte col coltello, il quale fece abondevolemente sangue, sì che tutta l'acqua divenne vermiglia; e di quella il trasse, e miselo in acqua fredda, e simile divenne vermiglia. E sopravegnendovi Cristiani per improntare danari, s'accorsono del sacrilegio del Giudeo, e il santo corpo per sé medesimo saltò in su una tavola. E ciò sentito, il Giudeo fu preso e arso, e il santo corpo ricolto per lo prete a grande reverenzia, e di quella casa dove avenne il miracolo si fece una chiesa che si chiama il Salvatore del Bogliente.
<B>CXLIV</B>
<I>Come i Ravignani presono il conte di Romagna che v'era per la Chiesa.</I>
Nel detto anno, a dì XVI di novembre, gli cittadini di Ravenna presono messer Stefano da Ginazzano di casa i Colonnesi di Roma, il quale era conte di Romagna per lo papa e per la Chiesa di Roma, e uccisono e rubarono e presono tutta sua masnada e famiglia. Per la quale rubellazione tutte le terre di Romagna si commossono a guerra e rubellazione, salvo la città di Forlì; e Maghinardo da Susinana prese la città di Faenza. Per la quale cosa i Bolognesi cavalcarono a Imola, e disfeciono gli steccati, e rappianarono i fossi d'intorno a la terra. Dopo queste novità surte in Romagna il papa vi mandò per conte messer Bandino de' conti Guidi da Romena vescovo d'Arezzo, il quale in poco tempo appresso tutte le terre di Romagna recò per pace e accordo a sua obbedienza, e della Chiesa.
<B>CXLV</B>
<I>Come il soldano di Babbillonia vinse per forza la città d'Acri con grande danno de' Cristiani.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXXI, del mese d'aprile, il soldano di Babbillonia d'Egitto, avendo prima fatto sua guernigione e fornimento in Soria, sì passò il diserto, e venne nella detta Soria con sua oste, e puosesi ad assedio alla città d'Acri, la quale anticamente la Scrittura chiamava Tolomadia, e oggi in latino si chiama Acon, e fu con sì grande gente a piè e a cavallo il soldano, che·lla sua oste tenea più di XII miglia. Ma inanzi che più diciamo della perdita d'Acri, sì diremo la cagione perché il soldano vi venne ad assedio e la prese, avutane relazione da uomini degni di fede nostri cittadini e mercatanti che in quegli tempi erano in Acri. Egli è vero che, perché i Saracini aveano ne' tempi dinanzi tolte a' Cristiani la città d'Antioccia, e quella di Tripoli, e quella di Suri, e più altre terre che' Cristiani teneano alla marina, la città d'Acri era molto cresciuta di genti e di podere, però ch'altra terra non si tenea in Soria per gli Cristiani, sì che per lo re di Gerusalem, e per quello di Cipri, e il prenze d'Antioccia, e quello di Suri, e di Tripoli, e la magione del Tempio e dello Spedale, e l'altre magioni, e' legati del papa, e quegli ch'erano oltremare per lo re di Francia e per quello d'Inghilterra, tutti faceano capo in Acri e aveavi XVII signorie di sangue, la quale era una grande confusione. E in quegli tempi triegue erano state prese tra' Cristiani e' Saracini, e avevavi più di XVIIIm d'uomini pellegrini crociati; e falliti i loro soldi, e non potendoli avere da' signori e Comuni per cui v'erano, parte di loro, uomeni dileggiati e sanza ragione, si misero a rompere le triegue, e rubare, e uccidere tutti i Saracini che veniano in Acri sotto la sicurtà della triegua co·lloro mercatantie e vittuaglie; e corsono per simile modo rubando e uccidendo i Saracini di più casali d'intorno ad Acri. Per la qual cosa il soldano tegnendosi molto gravato, mandò suoi ambasciadori in Acri a que' signori, richeggendo l'amenda de' danni dati e per suo onore e soddisfacimento di sue genti, gli fossono mandati alquanti de' cominciatori e caporali di quelli ch'aveano rotte le triegue per farne giustizia: le quali richeste gli furono dinegate; per la qual cosa vi venne ad oste, come detto avemo, e per moltitudine di gente ch'avea, per forza riempié parte de' fossi ch'erano dalla faccia di terra molto profondi, e presono il primo giro delle mura, e l'altro girone con cave e difici feciono in parte cadere; e presono la grande torre che·ssi chiamava la Maladetta, che per alcuna profezia si dicie che per quella si dovea perdere Acri. Ma per tutto questo non si potea perdere la città, che perché i Saracini rompessono le mura il dì, la notte erano riparate e stoppate o con tavole o con sacca di lana e di cotono, e difese il dì appresso vigorosamente per lo valente e savio uomo frate Guiglielmo di Belgiù maestro del Tempio, il quale era capitano generale della guerra, e della guardia della terra, e con molta prodezza e provedenza e sollecitudine avea vigorosamente guardata la terra. Ma come piacque a·dDio, e per pulire le peccata degli abitanti d'Acri, il detto maestro del Tempio levando il braccio ritto combattendo, gli fu per alcuno Saracino saettata una saetta avelenata, la quale gli entrò nella giuntura delle corazze, per la qual fedita poco appresso morìo, per la cui morte tutta la terra fu iscommossa e impaurita, e per la loro confusione delle tante signorie e capitani, come dicemmo dinanzi, si disordinò, e furono in discordia della guardia e difensione della terra; e ciascuno, chi potéo, intese a sua salvazione, e ricogliendosi in navi e altri legni ch'erano nel porto. Per la qual cagione i Saracini continuando di dì e di notte le battaglie, entrarono per forza nella terra, e quella corsono e rubarono tutta, e uccisono chiunque si parò loro innanzi, e giovani uomini e femmine menarono in servaggio per ischiavi, i quali furono tra morti e presi, uomini e femmine e fanciugli, più di LXm; e 'l dammaggio d'avere e di preda fu infinito. E raccolte le prede e' tesori, e tratte le genti prese della terra, si abbatterono le mura e le fortezze della terra, e misorvi fuoco, e guastarla tutta, onde la Cristianità ricevette uno grandissimo dammaggio, che per la perdita d'Acri non rimase nella Terrasanta neuna terra per gli Cristiani; e tutte le buone terre di mercatantia che sono alle nostre marine e frontiere mai poi non valsono la metà a profitto di mercatantia e d'arti per lo buono sito dov'era la città d'Acri, però ch'ell'era nella fronte del nostro mare e in mezzo di Soria, e quasi nel mezzo del mondo abitato, presso a Gerusalem LXX miglia, e fontana e porto d'ogni mercatantia sì del levante come del ponente; e di tutte le generazioni delle genti del mondo v'usavano per fare mercatantia, e turcimanni v'avea di tutte le lingue del mondo sì ch'ell'era quasi com'uno alimento al mondo. E questo pericolo non fu sanza grande e giusto giudizio d'Iddio, che quella città era piena di più peccatori, uomini e femmine, d'ogni dissoluto peccato, che terra che fosse tra' Cristiani. Venuta la dolorosa novella in ponente, e il papa ordinò grandi indulgenzie e perdoni a chi facesse aiuto e soccorso alla Terrasanta, mandando a tutti i signori de' Cristiani che volea ordinare passaggio generale, e difese con grandi processi e scomuniche quale Cristiano andasse in Allessandria o in terra d'Egitto con mercatantia, o vittuaglia, o legname, o ferro, o desse per alcuno modo aiuto o favore.
<B>CXLVI</B>
<I>Della morte del re Ridolfo d'Alamagna.</I>
Nel detto anno MCCLXXXXI morìo il re Ridolfo d'Alamagna, ma non pervenne alla benedizione imperiale, perché sempre intese a crescere suo stato e signoria in Alamagna, lasciando le 'mprese d'Italia per acrescere terra e podere a' figliuoli, che per suo procaccio e valore di piccolo conte divenne imperadore, e aquistò in propio il ducato d'Ostaricchi, e grande parte di quello di Soavia.
<B>CXLVII</B>
<I>Come il re Filippo di Francia fece prendere e ricomperare tutti gl'Italiani.</I>
Nel detto anno, la notte di calen di maggio, il re Filippo il Bello di Francia, per consiglio di Biccio e Musciatto Franzesi, fece prendere tutti gl'Italiani ch'erano in suo reame, sotto protesto di prendere i prestatori; ma così fece prendere e rimedire i buoni mercatanti come i prestatori; onde molto fu ripreso e in grande abbominazione, e d'allora innanzi il reame di Francia sempre andò abassando e peggiorando. E nota che tra la perdita d'Acri e questa presura di Francia i mercatanti di Firenze ricevettono grande danno e ruina di loro avere.
<B>CXLVIII</B>
<I>Come i Pisani ripresono il castello del Ponte ad Era.</I>
Nel detto anno, la notte di domenica, a dì XXIII di dicembre, il conte Guido da Montefeltro signore in Pisa, sentendo che 'l castello del Ponte ad Era era male guardato, e molti de' fanti venutisene a·fFirenze a pasquare, e per trattato del conte, con certi terrazzani del detto castello del Ponte ad Era, il quale teneano i Fiorentini, venne con suo isforzo a quello, il quale era molto forte di mura e di spesse torri, e con larghi fossi pieni d'acqua, e datali la salita d'una delle torri, con navicelle per loro recate passati i gran fossi, e con iscale di funi salirono in su le mura, e per difalta di mala guardia, e dissesi per alcuni per baratteria de' castellani, che non vi teneano la gente ond'erano pagati, il detto castello male difeso fu preso per gli Pisani, e morti i castellani e tutta loro compagnia, che v'erano da L fanti, che doveano esser CL. E' castellani, l'uno era di casa i Rossi, messere Guido Bigherelli che fu preso, e 'l Bingota suo nipote morto, e Nerino de' Tizzoni; e così la loro avarizia, se in ciò peccarono, gli fece morire con vergogna del Comune di Firenze ch'era il più forte castello d'Italia che fosse in piano. E in quello tempo i Pisani feciono rubellare a' Samminiatesi il castello di Vignale in Camporena, onde v'andarono ad oste le tre sestora de' cavalieri di Firenze, con molto popolo, gittandovi difici. Alla fine non potendosi più tenere, e non avendo soccorso da' Pisani, una notte ch'era una grande fortuna di tempo, se n'uscirono quegli del castello sani e salvi per mezza l'oste de' Fiorentini, onde a quegli che v'erano fu recato a grande vergogna. Per la qual cosa s'ordinò in Firenze generale oste sopra Pisa, e diedonsi le 'nsegne, e messer Corso Donati ebbe la reale; ma qual si fosse la cagione, non seguì, onde in Firenze n'ebbe grande ripitio, dicendosi che certi grandi n'aveano avuti danari da' Pisani; per la qual cosa, e sollecitudine di messer Vieri de' Cerchi allora capitano di parte, si rifece la detta oste, e andossi insino a Castello del Bosco, e là attendati, venne in VIII dì continui tanta pioggia, che per necessità si ritornò la della oste addietro, e appena si poterono ricogliere e stendere.
<B>CXLIX</B>
<I>Come la città di Forlì in Romagna fu presa per Maghinardo da Susinana.</I>
Nel detto anno, essendo tutta la contea di Romagna all'obedienza di santa Chiesa sotto la guardia del vescovo d'Arezzo che n'era conte per lo papa, Maghinardo da Susinana con certi gentili e grandi uomini di Romagna per furto presono la città di Forlì, e in quella presono il conte Aghinolfo da Romena co' figliuoli, il quale era fratello del detto conte e vescovo d'Arezzo, e assediò il detto conte e vescovo in Cesena, onde surse grande guerra in Romagna. Il detto Maghinardo fu uno grande e savio tiranno, e dalla contrada tra Casentino e Romagna grande castellano, e con molti fedeli; savio fu di guerra e bene aventuroso in più battaglie, e al suo tempo fece grandi cose. Ghibellino era di sua nazione e in sue opere, ma co' Fiorentini era Guelfo e nimico di tutti i loro nimici, o Guelfi o Ghibellini che fossono; e in ogni oste e battaglia che' Fiorentini facessono, mentre fu in vita, fu con sua gente a·lloro servigio, e capitano; e ciò fu, che morto il padre, che Piero Pagano avea nome, grande gentile uomo, rimanendo il detto Maghinardo piccolo fanciullo e con molti nimici, conti Guidi, e Ubaldini, e altri signori di Romagna, il detto suo padre il lasciò alla guardia e tuteria del popolo e Comune di Firenze, lui e le sue terre; dal qual Comune benignamente fu cresciuto, e guardato, e migliorato suo patrimonio, e per questa cagione era grato e fedelissimo al Comune di Firenze in ogni sua bisogna.
<B>CL</B>
<I>Come i Fiorentini ebbono il castello d'Ampinana.</I>
Nel detto anno, essendo rubellato e riposto per lo conte Manfredi figliuolo del conte Guido Novello il castello d'Ampinana in Mugello, ch'era di loro giuridizione, e molto forte, per contrario de' Fiorentini e del conte a Battifolle che tenea Gattaia, sì vi si puose l'oste, e per più tempo assediato, gittandovi più difici, sì·ss'arrendé a patti al Comune di Firenze, avendone il detto conte IIIm fiorini d'oro; e partendosi co' suoi masnadieri, il detto castello per gli Fiorentini fu fatto disfare insino a' fondamenti; e d'allora innanzi il Comune di Firenze cusò ragione ne' popoli e villate del detto castello, e recò sotto sua signoria, faccendo loro pagare libbre e fazioni.
<B>CLI</B>
<I>Come morì papa Niccola d'Ascoli.</I>
Nell'anno MCCLXXXXII morì papa Niccola d'Ascoli nella città di Roma, e là fu soppellito a Santo... Questi fu buono uomo e di santa vita, dell'ordine de' frati minori, ma molto favorò i Ghibellini. E dopo la sua morte vacò la Chiesa di papa, per discordia de' cardinali, XXVII mesi, che l'una parte volea papa a petizione del re Carlo, ond'era capo messer Matteo Rosso degli Orsini, e l'altra parte il contrario, ed era messer Jacopo della Colonna capo.
<B>CLII</B>
<I>Sì come arse tutta la città di Noione in Francia.</I>
Nel detto anno MCCLXXXXII s'apprese il fuoco nella città di Noione in Francia, cioè nella terra onde fu il beato santo Loi di Noione, e fu sì impetuoso fuoco, che non rimase quasi casa né chiesa nella città che non ardesse, e eziandio la mastra chiesa di nostra Donna, ove fu la casa e fabbrica di santo Loi, e dov'è il corpo suo; la qual città è della grandezza della terra di Prato o più, nella quale si ricevette grandissimo dammaggio di case, arnesi, e tesori, e di persone che vi morirono.
<B>CLIII</B>
<I>Come fue eletto Attaulfo a re de' Romani.</I>
Nel detto anno MCCLXXXXII fue eletto per gli prencipi della Magna a re de' Romani Attaulfo, detto in latino Andeulfo, conte da Nassi della Magna; ma non pervenne a dignità imperiale, anzi fu morto per Alberto dogio di Starlichi, figliuolo del re Ridolfo in battaglia.
<B>CLIV</B>
<I>Come i Fiorentini feciono oste sopra la città di Pisa.</I>
Nel detto anno, del mese di giugno, i Fiorentini co·lloro amistà, che furono XXVc di cavalieri e VIIIm pedoni, per vendetta della perdita del Ponte ad Era feciono oste sopra la città di Pisa, della quale oste fu capitano messer Gentile degli Orsini di Roma, che venne con CC cavalieri tra Romani e Campagnini; e la 'nsegna reale ebbe messer Geri Spini, e il pennone de' feditori messer Vanni de' Mozzi. E fu una ricca e una magna oste, delle più ch'avesse a que' tempi fatta il Comune di Firenze; e stettonvi ad oste XXXIII dì, e andarono di là dalla badia a San Savino, e a quella badia disfeciono il campanile, e tagliarono uno grandissimo e bello albero di savina per dispetto de' Pisani, e per la festa di santo Giovanni feciono correre il palio presso alle porte di Pisa. E fatto intorno a Pisa grande guasto, e arso il borgo dal fosso Arnonico a Pisa, il quale era nobilemente acasato e ingiardinato, si tornarono in Firenze sani e salvi, sanza contasto o riparo de' nimici; e sì era in Pisa il conte da Montefeltro con VIIIc cavalieri, e non s'ardì a mostrare per la viltà che sentiva ne' Pisani, e stette pure alla guardia della cittade.
<B>CLV</B>
<I>De' miracoli che apparirono in Firenze per santa Maria d'Orto Sammichele.</I>
Nel detto anno, a dì III del mese di luglio, si cominciarono a mostrare grandi e aperti miracoli nella città di Firenze per una figura dipinta di santa Maria in uno pilastro della loggia d'Orto Sammichele, ove si vende il grano, sanando infermi, e rizzando attratti, e isgombrare imperversati visibilemente in grande quantità. Ma i frati predicatori e ancora i minori per invidia o per altra cagione non vi davano fede, onde caddono in grande infamia de' Fiorentini. In quello luogo d'Orto Sammichele si truova che fu anticamente la chiesa di Sammichele in Orto, la quale era sotto la badia di Nonantola in Lombardia, e fu disfatta per farvi piazza; ma per usanza e devozione alla detta figura ogni sera per laici si cantavano laude; e crebbe tanto la fama de' detti miracoli e meriti di nostra Donna, che di tutta Toscana vi venia la gente in peregrinaggio per le feste di santa Maria, recando diverse 'magine di cera per miracoli fatti, onde grande parte della loggia dinanzi e intorno alla detta figura s'empié, e crebbe tanto lo stato di quella compagnia, ov'erano buona parte della migliore gente di Firenze, che molti benificii e limosine, per offerere e lasci fatti, ne seguirono a' poveri, l'anno più di libbre VIm; e seguissi a' dì nostri, sanza aquistare nulla possessione, con troppa maggiore entrata, distribuendosi tutta a' poveri.
<B>NUOVA CRONICA</B>
<I>Giovanni Villani</I>
<I>tomo secondo</I>
<B>LIBRO NONO</B>
<B>I</B>
<I>Qui comincia il VIIII libro: conta come nella città di Firenze fu fatto il secondo popolo, e più grandi mutazioni che per cagione di quello furono poi in Firenze, seguendo dell'altre novitadi universali che furono in que' tempi.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXXII, in calen di febbraio, essendo la città di Firenze in grande e possente stato e felice in tutte cose, e' cittadini di quella grassi e ricchi, e per soperchio tranquillo, il quale naturalmente genera superbia e novità, sì erano i cittadini tra·lloro invidiosi e insuperbiti, e molti micidii e fedite e oltraggi facea l'uno cittadino all'altro, e massimamente i nobili detti grandi e possenti, contra i popolani e impotenti, così in contado come in città faceano forze e violenze nelle persone e ne' beni altrui, occupando. Per la qual cosa certi buoni uomini mercatanti e artefici di Firenze che voleano bene vivere si pensarono di mettere rimedio e riparo alla detta pestilenzia; e di ciò fu de' caporali intra gli altri uno valente uomo, antico e nobile popolano, e ricco e possente, ch'avea nome Giano della Bella, del popolo di Sa·Martino, con séguito e consiglio d'altri savi e possenti popolani. E faccendosi in Firenze ordine d'arbitrato in correggere gli statuti e le nostre leggi, sì come per gli nostri ordini consueto era di fare per antico, sì ordinarono certe leggi e statuti molto forti e gravi contro a' grandi e possenti che facessono forze o violenze contro a' popolari, radoppiando le pene comuni diversamente, e che fosse tenuto l'uno consorto de' grandi per l'altro, e si potessono provare i malificii per due testimoni di pubblica voce e fama, e che·ssi ritrovassono le ragioni del Comune: e quelle leggi chiamarono gli ordinamenti della giustizia. E acciò che fossono conservati e messi ad esecuzione, sì ordinarono che oltre al novero de' VI priori i quali governavano la città fosse uno gonfaloniere di giustizia di sesto in sesto, mutando di II in II mesi, come si fanno i priori, e sonando le campane a martello, e congregandosi il popolo a dare il gonfalone della giustizia nella chiesa di San Piero Scheraggio, che prima non s'usava. E ordinarono che niuno de' priori potesse essere di casa de' nobili detti grandi, che 'mprima ve n'avea sovente de' buoni uomini mercatanti, tutto fossono de' potenti. E la 'nsegna del detto popolo e gonfalone fu ordinato il campo bianco e la croce vermiglia. E furono eletti M cittadini partiti per sesti con certi banderai per contrade, con L pedoni per bandiera, i quali dovessono essere armati, e ciascuno con soprasberga e scudo della 'nsegna della croce, e trarre ad ogni romore e richesta del gonfaloniere a casa, o a palazzo, de' priori, e per fare esecuzione contro a' grandi; e poi crebbe il numero de' pedoni eletti in MM, e poi in IIIIm. E simile ordine di gente d'arme per lo popolo e colla detta insegna s'ordinò in contado e distretto di Firenze, che·ssi chiamavano le leghe del popolo. E 'l primo de' detti gonfalonieri fu uno Baldo de' Ruffoli di porte del Duomo; e al suo tempo uscì fuori gonfalone con arme a disfare i beni d'uno casato detti Galli di porte Sante Marie, per uno micidio che uno di loro avea fatto nel reame di Francia nella persona d'uno popolano. Questa novità di popolo e mutazione di stato fu molto grande alla città di Firenze, e ebbe poi molte e diverse sequele in male e in bene del nostro Comune, come innanzi per gli tempi faremo menzione. E questa novità e cominciamento del popolo non sarebbe venuta fatta a' popolani per la potenzia de' grandi, se non fosse che in que' tempi i grandi di Firenze non furono tra·lloro in tante brighe e discordie, poi che' Guelfi tornarono in Firenze, com'erano allora ch'egli avea grande guerra tra gli Adimari e' Tosinghi, e tra i Rossi e' Tornaquinci, e tra i Bardi e' Mozzi, e tra i Gherardini e' Manieri, e tra i Cavalcanti e' Bondelmonti, e tra certi de' Bondelmonti e' Giandonati, e tra' Visdomini e' Falconieri, e tra i Bostichi e' Foraboschi, e tra' Foraboschi e' Malispini, e tra' Frescobaldi insieme, e tra la casa de' Donati insieme, e più altri casati.
<B>II</B>
<I>Come il popolo di Firenze feciono pace co' Pisani, e molte altre notabili cose.</I>
L'anno seguente MCCLXXXXIII quegli che reggeano il popolo di Firenze per fortificare loro stato di popolo e affiebolire il podere de' grandi e de' possenti, i quali molte volte acrescono e vivono delle guerre, richesti da' Pisani di pace, i quali per le guerre erano molto affieboliti e abbassati, il popolo di Firenze non guardando a·cciò, alla detta pace assentirono, mandandone i Pisani il conte Guido da Montefeltro loro capitano, e disfaccendo il castello del Ponte ad Era, e avendo i Fiorentini libera franchigia in Pisa sanza pagare niente di loro mercatantie. E alla detta pace furono i Lucchesi, e' Sanesi, e tutte le terre della lega di parte guelfa di Toscana. E nota che infino a questo tempo, e più addietro, era tanto il tranquillo stato di Firenze, che di notte non si serravano porte alla città, né avea gabelle in Firenze; e per bisogno di moneta, per non fare libbra, si venderono le mura vecchie, e' terreni d'entro e di fuori a chi v'era acostato. E per l'ordine del popolo molte giuridizioni si raquistarono per lo Comune, che Poggibonizzi si recò tutto all'obedienza del Comune, ch'avea giuridizione per sé, e Certaldo, e Gambassi, e Catignano; e tolsesi a' Conti la giuridizione di Viesca e del Terraio, e Ganghereta, e Moncione, e Barbischio, e 'l castello di Lori, e casa Guicciardi; e in Mugello molte possesioni le quali aveano occupate i Conti, e gli Ubaldini, e altri gentili uomini; e raquistossi lo spedale di San Sebbio, ch'era del Comune, occupato per grandi uomini. E sopra queste cose fu caporale uno valente e leale popolano d'Oltrarno chiamato Caruccio del Verre. Sì che nel cominciamento del popolo si fece molto di bene comune, e a ciascuno a cui fosse per addietro occupata possesione per gli potenti, di fatto fu renduta. In questo tempo che 'l popolo di Firenze era fiero e in caldo e signoria, essendo fatto in Firenze uno eccesso e malificio, e quello cotale che 'l fece si fuggì e stava nella terra di Prato, per lo Comune di Firenze fu mandato a quello Comune che rimandasse lo sbandito. Eglino per mantenere loro libertà nol vollono fare; per la quale cosa il Comune di Prato fu condannato per lo Comune di Firenze in libbre Xm, e rendessono il malifattore, mandandovi uno messo solamente con una lettera. I Pratesi disubbidienti, si bandì l'oste per guastare Prato; e già mossa la camera dell'arme del Comune, e le masnade a cavallo e a piè, i Pratesi recarono i danari, e menarono il malfattore, e pagarono la condannagione; e così di fatto facea le cose l'acceso popolo di Firenze.
<B>III</B>
<I>D'uno grande fuoco che fu in Firenze nella contrada di Torcicoda.</I>
Nel detto anno del MCCLXXXXIII s'apprese uno grande fuoco in Firenze nella contrada detta Torcicoda, tra San Piero Maggiore e San Simone, e arsonvi più di XXX case con grande dammaggio, ma non vi morì persona. E nel detto tempo si feciono intorno a San Giovanni i pilastri de' gheroni di marmi bianchi e neri per l'arte di Calimala, che prima erano di macigni, e levarsi tutti i monumenti e sepolture e arche di marmo ch'erano intorno a San Giovanni per più bellezza della chiesa.
<B>IV</B>
<I>Come si cominciò la guerra intra il re di Francia e quello d'Inghilterra.</I>
Nel detto anno MCCLXXXXIII, avendo avuta battaglia e ruberia in mare tra' Guasconi ch'erano uomini del re d'Inghilterra e' Normandi che sono sotto il re di Francia, della quale i Normandi ebbono il peggiore, e vegnendosi a dolere della ingiuria e dammaggio ricevuto da' Guasconi al loro re di Francia, lo re fece richiedere il re Adoardo d'Inghilterra, il quale per risorto tenea la Guascogna dovendone fare omaggio al re di Francia, che dovesse fare fare l'amenda alle sue genti, e venire personalmente a·ffare omaggio della detta Guascogna al re di Francia, e se ciò non facesse a certo termine a·llui dato, il re di Francia col suo consiglio de' XII peri il privava del ducato di Guascogna. Per la qual cosa il re Adoardo, il quale era di grande cuore e prodezza, e per suo senno e valore fatte di grandi cose oltremare e di qua, isdegnò di non volere fare personalmente il detto omaggio, ma mandò in Francia messer Amondo suo fratello, che facesse per lui, e soddisfacesse il dammaggio ricevuto per la gente del re di Francia. Ma per l'orgoglio e covidigia de' Franceschi, il re Filippo di Francia nol volle accettare, per avere cagione di torre al re d'Inghilterra la Guascogna lungamente conceputa e disiderata. Per la qual cosa si cominciò aspra e dura guerra tra' Franceschi e gl'Inghilesi in terra e in mare, onde molta gente morirono, e furono presi e diserti dall'una parte e dall'altra, come innanzi per gli tempi faremo menzione. E 'l seguente anno il re Filippo di Francia mandò in Guascogna messere Carlo di Valos suo fratello con grande cavalleria, e prese Bordello e molte terre e castella sopra il re d'Inghilterra, e in mare mise grande navilio in corso sopra gl'Inghilesi.
<B>V</B>
<I>Come fu eletto e fatto papa Cilestino quinto, e come rifiutò il papato.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXXIIII, del mese di luglio, essendo stata vacata la Chiesa di Roma dopo la morte di papa Niccola d'Ascoli più di due anni, per discordia de' cardinali ch'erano partiti, e ciascuna setta volea papa uno di loro, essendo i cardinali in Perugia, e costretti aspramente da' Perugini perché eleggessono papa, come piacque a·dDio, furono in concordia di non chiamare niuno di loro collegio, e elessono uno santo uomo ch'avea nome frate Piero dal Morrone d'Abruzzi. Questi era romito e d'aspra vita e penitenzia, e per lasciare la vanità de·mondo, ordinati più santi monisterii di suo ordine, sì se n'andò a·ffare penitenzia nella montagna del Morrone, la quale è sopra Sermona. Questi eletto e fatto venire e coronato papa, per riformare la Chiesa fece di settembre vegnente XII cardinali, grande parte oltramontani, a·ppetizione e per consiglio del re Carlo re di Cicilia e di Puglia; e ciò fatto, n'andò colla corte a Napoli, il quale dal re Carlo fu ricevuto graziosamente e con grande onore; ma perch'egli era semplice e non litterato, e delle pompe del mondo non si travagliava volentieri, i cardinali il pregiavano poco, e parea loro che a utile e stato della Chiesa avere fatta mala elezione. Il detto santo padre aveggendosi di ciò, e non sentendosi sofficiente al governamento della Chiesa, come quegli che più amava di servire a·dDio e l'utile di sua anima che l'onore mondano, cercava ogni via come potesse rinunziare il papato. Intra gli altri cardinali della corte era uno messer Benedetto Guatani d'Alagna molto savio di scrittura, e delle cose del mondo molto pratico e sagace, il quale aveva grande volontà di pervenire alla dignità papale, e quello con ordine avea cercato e procacciato col re Carlo e co' cardinali, e già da·lloro la promessa, la quale poi gli venne fatta. Questi si mise dinanzi al santo padre, sentendo ch'egli avea voglia di rinunziare il papato, ch'egli facesse una nuova decretale, che per utilità della sua anima ciascuno papa potesse il papato rinunziare, mostrandoli assemplo di santo Clemente, che quando santo Pietro venne a morte lasciò ch'apresso a·llui fosse papa; e quegli per utile di sua anima non volle essere, e fu in luogo di lui in prima santo Lino, e poi santo Cleto papa; e così come il consigliò il detto cardinale, fece papa Cilestino il detto decreto; e ciò fatto, il dì di santa Lucia di dicembre vegnente, fatto concestoro di tutti i cardinali, in loro presenza si trasse la corona e il manto papale, e rinunziò il papato, e partissi della corte, e tornossi ad essere eremita, e a·ffare sua penitenzia. E così regnò nel papato V mesi e VIIII dì papa Cilestino. Ma poi il suo successore messer Benedetto Guatani detto di sopra, il quale fu poi papa Bonifazio, si dice, e fu vero, il fece prendere a la montagna di Santo Angiolo in Puglia di sopra a Bestia, ove s'era ridotto a·ffare penitenzia, e chi dice ne voleva ire in Ischiavonia, e privatamente nella rocca di Fummone in Campagna il fece tenere in cortese pregione, acciò che·llui vivendo non si potesse apporre alla sua lezione, però che molti Cristiani teneano Cilestino per diritto e vero papa, nonostante la sua rinunziazione, opponendo che sì fatta dignità come il papato per niuno decreto non si potea rinunziare, e perché santo Clemente rifiutasse la prima volta il papato, i fedeli il pur teneano per padre, e convenne poi che pur fosse papa dopo santo Cleto. Ma ritenuto preso Cilestino, come avemo detto, in Fummone, nel detto luogo poco vivette; e quivi morto, fu soppellito in una piccola chiesa di fuori di Fummone dell'ordine di suoi frati poveramente, e messo sotterra più di X braccia, acciò che 'l suo corpo non si ritrovasse. Ma alla sua vita, e dopo la sua morte, fece Iddio molti miracoli per lui, onde molta gente aveano in lui grande devozione; e poi a·ccerto tempo appresso dalla Chiesa di Roma e da papa Giovanni XXII fu canonizzato, e chiamato santo Piero di Morrone, come innanzi al detto tempo fareno menzione.
<B>VI</B>
<I>Come fu eletto e fatto papa Bonifazio ottavo.</I>
Nel detto anno MCCLXXXXIIII messer Benedetto Guatani cardinale, avendo per suo senno e segacità adoperato che papa Celestino avea rifiutato il papato, come adietro nel passato capitolo avemo fatta menzione, seguì la sua impresa, e tanto adoperò co' cardinali e col procaccio del re Carlo, il quale avea l'amistà di molti cardinali, spezialmente di XII nuovi eletti per Celestino, e istando in questa cerca, una sera di notte isconosciuto con poca compagnia andòe al re Carlo, e dissegli: "Re, il tuo papa Celestino t'ha voluto e potuto servire nella tua guerra di Cicilia, ma nonn-ha saputo; ma se tu adoperi co' tuoi amici cardinali ch'io sia eletto papa, io saprò, e vorrò, e potrò"; promettendogli per sua fede e saramento di mettervi tutto il podere della Chiesa. Allora lo re fidandosi in lui, gli promise e ordinò co' suoi XII cardinali che gli dessero le loro boci. E essendo alla lezione messer Matteo Rosso e messer Iacopo della Colonna, ch'erano capo delle sette de' cardinali, s'accorsono di ciò, incontanente gli diedono le loro, ma prima messer Matteo Rosso Orsini; e per questo modo fu eletto papa nella città di Napoli la vilia della Natività di Cristo del detto anno; e incontanente che fue eletto si volle partire di Napoli colla corte, e venne a Roma, e là si fece coronare con grande solennità e onore in mezzo gennaio. E ciò fatto, la prima provisione che fece, sentendo che grande guerra era cominciata tra 'l re Filippo di Francia e·re Adoardo d'Inghilterra per la quistione di Guascogna, sì mandò oltre i monti due legati cardinali, perché gli pacificassono insieme; ma poco v'adoperarono, che' detti signori rimasono in maggiore guerra che di prima. Questo papa Bonifazio fue della città d'Alagna, assai gentile uomo di sua terra, figliuolo di messer Lifredi Guatani, e di sua nazione Ghibellino; e mentre fu cardinale, protettore di loro, spezialmente de' Todini; ma poi che fu fatto papa molto si fece Guelfo, e molto fece per lo re Carlo nella guerra di Cicilia, con tutto che per molti savi si disse ch'egli fu partitore della parte guelfa, sotto l'ombra di mostrarsi molto Guelfo, come innanzi ne' suoi processi manifestamente si potrà comprendere per chi fia buono intenditore. Molto fu magnanimo e signorile, e volle molto onore, e seppe bene mantenere e avanzare le ragioni della Chiesa, e per lo suo savere e podere molto fu ridottato e temuto; pecunioso fu molto per agrandire la Chiesa e' suoi parenti, non faccendo coscienza di guadagno, che tutto dicea gli era licito quello ch'era della Chiesa. E come fu fatto papa anullò tutte le grazie de' vacanti fatte per papa Celestino, chi non avesse la possesione; fece fare il nipote al re Carlo conte di Caserta, e due figliuoli del detto suo nipote, l'uno conte di Fondi e l'altro conte di Palazzo. Comperò il castello delle Milizie di Roma, che fu il palazzo d'Attaviano imperadore, e quello crescere e reedificare con grande spendio, e più altre forti e belle castella in Campagna e in Maremma. E sempre la sua stanza fue il verno in Roma, e la state a la prima in Rieti e Orbivieto, ma poi il più in Alagna per agrandire la sua cittade. Lasceremo alquanto di dire del detto papa, seguendo di tempo in tempo delle novità dell'altre parti del mondo, e massimamente di quelle di Firenze, onde molto ne cresce materia.
<B>VII</B>
<I>Quando si cominciò a fondare la nuova chiesa di Santa Croce di Firenze.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXXIIII, il dì di santa Croce di maggio, si fondò la grande chiesa nuova de' frati minori di Firenze detta Santa Croce, e a la consegrazione della prima pietra che si mise ne' fondamenti, vi furono molti vescovi e parlati e cherici e religiosi, e la podestà, e 'l capitano, e' priori, e tutta la buona gente di Firenze, uomini e donne, con grande festa e solennitade. E cominciarsi i fondamenti prima da la parte di dietro ove sono le cappelle, però che prima v'era la chiesa vecchia, e rimase all'oficio de' frati infino che furono murate le cappelle nuove.
<B>VIII</B>
<I>Come fu cacciato di Firenze il grande popolare Giano della Bella.</I>
Nel detto anno MCCLXXXXIIII, del mese di gennaio, essendo di nuovo entrato in signoria de la podesteria di Firenze messer Giovanni da Luccino da Commo, avendo dinanzi uno processo d'una accusa contro a messer Corso de' Donati, nobile e possente cittadino de' più di Firenze, per cagione che 'l detto messer Corso dovea avere morto uno popolano, famigliare di messer Simone Galastrone suo consorto, a una mischia e fedite le quali aveano avute insieme, e quello famigliare era stato morto; onde messer Corso Donati era andato dinanzi con sicurtà della detta podestà, a' prieghi d'amici e signori, onde il popolo di Firenze attendea che la detta podestà il condannasse. E già era tratto fuori il gonfalone della giustizia per fare l'esecuzione, e egli l'asolvette; per la qual cosa in sul palagio della podestà letta la detta prosciogligione, e condannato messer Simone Galastrone delle fedite, il popolo minuto gridò: "Muoia la podestà!"; e uscendo a corsa di palagio, gridando: "A l'arme a l'arme, e viva il popolo!", gran parte del popolo fu in arme, e spezialmente il popolo minuto; e trassono a casa Giano de la Bella loro caporale; e elli, si dice, gli mandò col suo fratello al palagio de' priori a seguire il gonfaloniere della giustizia; ma ciò non feciono, anzi vennero pure al palagio della podestà, il quale popolo a furore con arme e balestra assaliro il detto palagio, e con fuoco misono nelle porte, e arsolle, e entrarono dentro, e presono e rubarono la detta podestà e sua famiglia vituperosamente. Ma messer Corso per tema di sua persona si fuggì di palagio di tetto in tetto, ch'allora non era così murato; de la quale furia i priori, ch'erano assai vicini al palagio della podestà, dispiacque, ma per lo isfrenato popolo nol poterono riparare. Ma racquetato il romore, alquanti dì appresso i grandi uomini che non dormivano in pensare d'abattere Giano de la Bella, imperciò ch'egli era stato de' caporali e cominciatori degli ordini della giustizia, e oltre a·cciò, per abassare i grandi, volle torre a' capitani di parte guelfa il suggello e 'l mobile della parte, ch'era assai, e recarlo in Comune, non perch'egli non fosse Guelfo e di nazione Guelfo, ma per abassare la potenzia de' grandi; i quali grandi vedendosi così trattare, s'acostarono in setta col consiglio del collegio de' giudici e de' notari, i quali si teneano gravati da·llui, come addietro facemmo menzione, e con altri popolani grassi, amici e parenti de' grandi, che non amavano che Giano de la Bella fosse in Comune maggiore di loro, ordinarono di fare uno gagliardo uficio de' priori; e venne loro fatto, e trassesi fuori prima che 'l tempo usato. E ciò fatto, come furono all'uficio, sì ordinarono col capitano del popolo, e feciono formare una notificagione e inquisizione contro al detto Giano de la Bella e altri suoi consorti e seguaci, e di quegli che furono caporali a mettere fuoco nel palagio, opponendo com'egli aveano messa la terra a romore, e turbato il pacifico stato, e assalita la podestà contro agli ordini della giustizia; per la qual cosa il popolo minuto molto sì conturbò, e andavano a casa Giano della Bella, e proffereagli d'esser co·llui in arme a difenderlo, o combattere la terra. E il suo fratello trasse in Orto Sammichele uno gonfalone dell'arme del popolo; ma Giano ch'era uno savio uomo, se non ch'era alquanto presuntuoso, veggendosi tradito e ingannato da coloro medesimi ch'erano stati co·llui affare il popolo, e veggendo che·lla loro forza con quella de' grandi era molto possente, e già raunati a casa i priori armati, non si volle mettere alla ventura della battaglia cittadinesca, e per non guastare la terra, e per tema di sua persona non volle ire dinanzi, ma cessossi, e partì di Firenze a dì V di marzo, isperando che 'l popolo i·rimetterebbe ancora in istato; onde per la detta accusa, overo notificagione, fu per contumace condannato nella persona e isbandito, e in esilio morì in Francia (ch'avea a·ffare di là, ed era compagno de' Pazzi), e tutti i suoi beni disfatti, e certi altri popolani accusati co·llui; onde di lui fu grande danno alla nostra cittade, e massimamente al popolo, però ch'egli era il più leale e diritto popolano e amatore del bene comune che uomo di Firenze, e quegli che mettea in Comune e non ne traeva. Era presuntuoso e volea le sue vendette fare, e fecene alcuna contra gli Abati suoi vicini col braccio del Comune, e forse per gli detti peccati fu, per le sue medesime leggi fatte, a torto e sanza colpa da' non giusti giudicato. E nota che questo è grande esemplo a que' cittadini che sono a venire, di guardarsi di non volere essere signori di loro cittadini né troppo presuntuosi, ma istare contenti a la comune cittadinanza, che quegli medesimi che·ll'aveano aiutato a farlo grande per invidia il tradiranno e penseranno d'abattere; esse n'è veduta isperienza vera in Firenze per antico e per novello, che chiunque s'è fatto caporale di popolo o d'università è stato abattuto, però che·llo 'ngrato popolo mai non rende altri meriti. Di questa novitade ebbe grande turbazione e mutazione il popolo e la cittade di Firenze, e d'allora innanzi gli artefici e' popolani minuti poco podere ebbono in Comune, ma rimase al governo de' popolani grassi e possenti.
<B>IX</B>
<I>Quando si cominciò a fondare la chiesa maggiore di Santa Reparata.</I>
Nel detto anno MCCLXXXXIIII, essendo la città di Firenze in assai tranquillo stato, essendo passate le fortune del popolo per le novità di Giano della Bella, i cittadini s'accordarono di rinnovare la chiesa maggiore di Firenze, la quale era molto di grossa forma e piccola a comparazione di sì fatta cittade, e ordinaro di crescerla, e di trarla addietro, e di farla tutta di marmi e con figure intagliate. E fondossi con grande solennitade il dì di santa Maria di settembre per lo legato del papa cardinale e più vescovi, e fuvi la podestà e capitano e' priori, e tutte l'ordini delle signorie di Firenze, e consagrossi ad onore d'Iddio e di santa Maria, nominandola Santa Maria del Fiore, con tutto che mai no·lle si mutò il primo nome per l'universo popolo, Santa Reparata. E ordinossi per lo Comune a la fabbrica e lavorio de la detta chiesa una gabella di danari IIII per libbra di ciò che usciva della camera del Comune, e soldi II per capo d'uomo; e il legato e' vescovi vi lasciarono grandi indulgenzie e perdonanze a chi vi facesse aiuto e limosina.
<B>X</B>
<I>Come messer Gianni di Celona venne in Toscana vicario d'imperio.</I>
Nel detto anno MCCLXXXXIIII uno valente e gentile uomo della casa del conte di Borgogna, che·ssi chiamava messer Gianni di Celona, a sommossa della parte ghibellina di Toscana e col loro favore, impetrò da Alberto d'Osteric re de' Romani d'essere vicario d'imperio in Toscana; e ciò fatto, passò in Italia con Vc Borgognoni e Tedeschi a cavallo, e arrivò nella città d'Arezzo; e in quella cogli Aretini, e' Romagnuoli, e' ribelli di Firenze, cominciò a·ffare guerra a' Fiorentini e Sanesi, e stette bene uno anno. A la fine non piaccendo a' Ghibellini perch'era di lingua francesca, furono in sospetto di lui; per la qual cosa poi per procaccio di papa Bonifazio, a petizione del Comune di Firenze e de' Guelfi di Toscana, per accordo si partì con sua gente, e tornossi in Borgogna l'anno MCCLXXXXV, ed ebbe dal Comune di Firenze XXXm fiorini d'oro, e simile per rata da l'altre terre guelfe di Toscana, per mandarlo via. Nel detto anno MCCLXXXXIIII morì in Firenze uno valente cittadino il quale ebbe nome ser Brunetto Latini, il quale fu gran filosafo, e fue sommo maestro in rettorica, tanto in bene sapere dire come in bene dittare. E fu quegli che spuose la Rettorica di Tulio, e fece il buono e utile libro detto Tesoro, e il Tesoretto, e la Chiave del Tesoro, e più altri libri in filosofia, e de' vizi e di virtù, e fu dittatore del nostro Comune. Fu mondano uomo, ma di lui avemo fatta menzione però ch'egli fue cominciatore e maestro in digrossare i Fiorentini, e farli scorti in bene parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la Politica.
<B>XI</B>
<I>Come fu canonizzato santo Luis re che fu di Francia.</I>
Nel detto anno MCCLXXXXIIII papa Bonifazio co' suoi frati cardinali nella città d'Orbivieto canonizzò la memoria del buono Luis re di Francia, il quale morì per la Cristianitade sopra la città di Tunisi, trovando per vere testimonianze di lui sante opere a la sua vita e a la sua fine, e avendo Iddio mostrati di lui aperti miracoli.
<B>XII</B>
<I>Come i grandi di Firenze misono la città a romore per rompere il popolo.</I>
A dì VI del mese di luglio, l'anno MCCLXXXXV, i grandi e possenti della città di Firenze veggendosi forte gravati di nuovi ordini de la giustizia fatti per lo popolo, e massimamente di quello ordine che dice che l'uno consorto sia tenuto per l'altro, e che·lla pruova della piuvica fama fosse per due testimoni; e avendo in sul priorato di loro amici, sì procacciarono di rompere gli ordini del popolo. E prima sì·ssi pacificarono insieme de' grandi nimistà tra·lloro, spezialmente tra gli Adimari e' Tosinghi, e tra' Bardi e' Mozzi; e ciò fatto, feciono a certo dì ordinato raunata di gente, e richiesono i priori che' detti capitoli fossono corretti; onde della città di Firenze fu tutta gente a romore e a l'arme, i grandi per sé a cavalli coverti, e co·lloro séguito di contadini e d'altri masnadieri a piè in grande quantità; e schierarsi parte di loro nella piazza di Santo Giovanni, ond'ebbe la 'nsegna reale messer Forese degli Adimari; parte di loro a la piazza a Ponte, ond'ebbe la 'nsegna messer Vanni Mozzi; e parte in Mercato Nuovo, ond'ebbe la 'nsegna messer Geri Spini, per volere correre la terra. I popolani s'armarono tutti co' loro ordini e insegne e bandiere, e furono in grande numero, e asserragliarono le vie della città in più parti, perché i cavalieri non potessono correre la terra, e raunarsi al palagio della podestà e a casa de' priori, che stavano allora nella casa de' Cerchi dietro a San Brocolo; e trovossi il popolo sì possente, e ordinati di forza e d'arme e di gente, e diedono compagnia a' priori, perch'erano sospetti, de' maggiori e de' più possenti e savi popolani di Firenze, uno per sesto. Per la qual cosa i grandi non ebbono niuna forza né podere contra loro, ma il popolo avrebbe potuto vincere i grandi, ma per lo migliore e per non fare battaglia cittadinesca, avendo alcuno mezzo di frati di buona gente dall'una parte a l'altra, ciascuna parte si disarmò, e la cittade si racquetò sanza altra novità, rimagnendo il popolo in suo stato e signoria, salvo che, dove la pruova de la piuvica fama era per II testimoni, si mise fossono per III; e ciò feciono i priori contra volontà de' popolani, ma poco appresso si rivocò e tornò al primo stato. Ma pur questa novitate fue la radice e cominciamento dello sconcio e male istato della città di Firenze che ne seguì apresso, che da indi innanzi i grandi mai non finarono di cercare modo d'abattere il popolo a·lloro podere; e' caporali del popolo cercarono ogni via di fortificare il popolo e d'abassare i grandi, fortificando gli ordini della giustizia; e feciono torre a' grandi le loro balestra grosse, e comperate per lo Comune; e molti casati che nonn erano tiranni e di non grande podere trassono del numero de' grandi e misono nel popolo, per iscemare il podere de' grandi e crescere quello del popolo. E quando i detti priori uscirono dell'uficio, fu loro picchiate le caviglie dietro, e gittati de' sassi, perch'erano stati consenzienti a favorare i grandi; e per questo romore e novitadi si mutò nuovo stato di popolo in Firenze, onde furono capo Mancini, e Magalotti, Altoviti, Peruzzi, Acciaiuoli, e Cerretani, e più altri.
<B>XIII</B>
<I>Come lo re Carlo fece pace col re Giamo d'Araona.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXXV morì il re Anfus d'Araona, per la cui morte don Giamo suo fratello, il quale s'avea fatto coronare e tenea l'isola di Cicilia, cercò sua pace colla Chiesa e col re Carlo, e per mano di papa Bonifazio si fece in questo modo; che 'l detto don Giamo togliesse per moglie la figliuola del re Carlo, e rifiutasse la signoria di Cicilia, e lasciasse gli stadichi che 'l re Carlo avea lasciati in Aragona, ciò erano Ruberto e Ramondo e Giovanni suoi figliuoli con altri baroni e cavalieri provenzali; e 'l papa col re Carlo promise di fare rinunziare Carlo di Valos, fratello del re di Francia, il privilegio che papa Martino quarto gli avea fatto del reame d'Araona; e perché a·cciò consentisse, gli diè il re Carlo la contea d'Angiò e la figliuola per moglie. E per ciò fornire andò il re Carlo in Francia in persona, e lui tornando coll'accordo fatto e co' suoi figliuoli, i quali avea diliberi di pregione, sì passò per la città di Firenze, ne la quale era già venuto da Napoli per farglisi incontro Carlo Martello re d'Ungheria suo figliuolo, e con sua compagnia CC cavalieri a sproni d'oro, Franceschi, e Provenzali, e del Regno, tutti giovani, vestiti col re d'una partita di scarlatto e verde bruno, e tutti con selle d'una assisa a palafreno rilevate d'ariento e d'oro, co l'arme a quartieri a gigli ad oro, e acerchiata rosso e d'argento, cioè l'arme d'Ungaria, che parea la più nobile e ricca compagnia che anche avesse uno giovane re con seco. E in Firenze stette più di XX dì, attendendo il re suo padre e' frategli, e da' Fiorentini gli fu fatto grande onore, e egli mostrò grande amore a' Fiorentini, onde ebbe molto la grazia di tutti. E venuto il re Carlo, e Ruberto, e Ramondo, e Giovanni suoi figliuoli in Firenze col marchese di Monferrato, che dovea avere per moglie la figliuola del re, fatti in Firenze più cavalieri, e ricevuto molto onore e presenti da' Fiorentini, il re con tutti i figliuoli si tornò a corte di papa e poi a Napoli. E ciò fatto, e messo a seguizione per lo papa e per lo re Carlo tutto il contratto della pace, don Giamo si partì di Cicilia e andossene in Araona, e del reame si fece coronare; ma di cui si fosse la colpa, o del papa o di don Giamo, il re Carlo si trovò ingannato, che dove lo re Carlo si credette riavere l'isola di Cicilia a queto, partitosene don Giamo, Federigo sequente suo fratello vi rimase signore, e a' Ciciliani se ne fece coronare contra volontà della Chiesa dal vescovo di Cefalona, onde il papa mostrò grande turbazione contro al re d'Araona e Federigo suo fratello, e fecelo citare a corte, il quale re Giamo vi venne l'anno appresso, come innanzi faremo menzione.
<B>XIV</B>
<I>Come la parte guelfa furono per forza cacciati di Genova.</I>
Nel detto anno si cominciò grande guerra tra' cittadini di Genova, tra la parte guelfa, ond'erano capo i Grimaldi, e la parte ghibellina, ond'eran capo gli Ori e Spinoli; e ciò parve che si scoprisse per invidia tra·lloro, e per la signoria della terra: ché la state medesima aveano fatta la più grande e la più ricca armata in mare sopra i Viniziani che mai facesse Comune, che più di CLX galee furono, sanza gli altri legni grossi e sottili, che furono più di C, e ciascuna parte e casato armando a gara l'uno dell'altro si sforzaro; e allora fu Genova e il suo podere nel maggiore colmo ch'ella fosse mai, che poi sempre vennono calando. E parve che in quello stuolo si cominciasse la discordia, che non passarono più innanzi che Messina, ch'aveano ordinato d'andare infino a Vinegia; e tornati a Genova, cominciarono tra·lloro battaglia cittadinesca, la quale durò da L dì, saettandosi e combattendosi di dì e di notte, onde molti ne moriro d'una parte e d'altra, e in più parti de la città misono fuoco, e arse la Riva quasi tutta, e la chiesa maggiore di Santo Lorenzo, e più case e palazzi. A la fine quegli di casa d'Oria, e gli Spinoli, e' loro seguaci, sotto trattato di triegua si fornirono di molta gente nuova di Lombardia e della riviera, e trovarsi sì forti, che per forza ne cacciarono i Grimaldi e' loro seguaci guelfi; e ciò fu di gennaio nel MCCLXXXXV.
<B>XV</B>
<I>De' fatti de' Tarteri di Persia.</I>
Nel detto anno essendo imperadore de' Tarteri di Persia e del Turigi Baido Cane, fratello che fu d'Argon Cane, onde addietro in alcuna parte facemmo menzione; e se Argon amò i Cristiani, questo Baido fu cristianissimo e nimico de' Saracini; per la qual cosa i Saracini di suo paese con certi signori di Tarteri feciono con ispendio e gran promesse che Casano suo nipote e figliuolo che fu d'Argon si rubellò da·llui, e venne in campo con grande oste de' Tarteri e Saracini contro a·llui per combattere. Baido veggendosi da gran parte de' suoi tradito, si mise a fuggire, il quale da Casano fue seguito, e sconfitto, e morto. E 'l detto Casano fatto signore colla forza de' Saracini, come detto avemo, incontanente mutò condizione, e come prima avea amati i Saracini e odiati i Cristiani, così apresso fu amico de' Cristiani e nimico de' Saracini, e distrusse tutti coloro che·ll'aveano consigliato di fare male a' Cristiani, e appresso fece molto di bene per la Cristianità per raquistare la Terrasanta, come innanzi al tempo faremo menzione.
<B>XVI</B>
<I>Come Maghinardo da Susinana isconfisse i Bolognesi, e prese la città d'Imola.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXXVI, in calen di aprile, Maghinardo da Susinana, onde addietro facemmo menzione, avendo guerra co' Bolognesi per cagione della presa di Forlì e d'altre terre di Romagna, onde i Bolognesi aveano la signoria, e fatta lega col marchese Azzo da Ferrara, il quale simigliante avea guerra co' Bolognesi, coll'aiuto di sua gente e de' Ghibellini di Romagna, vegnendo con oste sopra la città d'Imola ov'erano i Bolognesi co·lloro forza, combattendo co·lloro gli sconfisse con grande danno de' presi e de' morti, e prese la detta città d'Imola con molti Bolognesi che v'erano dentro.
<B>XVII</B>
<I>Come il popolo di Firenze fece fare la terra di Castello San Giovanni e Castello Franco in Valdarno.</I>
Nel detto anno essendo il Comune e popolo di Firenze in assai buono e felice stato, con tutto che i grandi avessono incominciato a contradiare il popolo, come detto avemo, il popolo per meglio fortificarsi in contado, e scemare la forza de' nobili e de' potenti del contado, e spezialmente quella de' Pazzi di Valdarno e degli Ubertini ch'erano Ghibellini, si ordinò che nel nostro Valdarno di sopra si facessono due grandi terre e castella; l'uno era tra Fegghine e Montevarchi, e puosesi nome Castello Santo Giovanni, e l'altro in casa Uberti a lo 'ncontro passato l'Arno, e puosongli nome Castello Franco, e francarono tutti gli abitanti de' detti castelli per X anni d'ogni fazzione e spese di Comune, onde molti fedeli de' Pazzi e Ubertini, e di quegli da Ricasoli, e de' Conti, e d'altri nobili, per esser franchi si feciono terrazzani de' detti castelli; per la qual cosa in poco tempo crebbono e multiplicaro assai, e fecionsi buone e grosse terre.
<B>XVIII</B>
<I>Come lo re Giamo d'Araona venne a Roma, e papa Bonifazio gli privileggiò l'isola di Sardigna.</I>
Nel detto anno alla richesta di papa Bonifazio il re Giamo d'Araona venne a Roma al detto papa, e menò seco la reina Gostanza sua madre e figliuola che fu del re Manfredi, e messer Ruggieri di Loria suo amiraglio, a' quali il papa fece grande onore e ricomunicogli; e 'l detto re Giamo si scusò della 'mpresa che don Federigo suo fratello avea fatta della signoria di Cicilia, come non era essuta di sua saputa né di suo consentimento, giurando in mano del papa in presenza del re Carlo che a richiesta del re Carlo e' sarebbe personalmente, e con sua gente e forza, contro a don Federigo suo fratello ad aiutare racquistare l'isola di Cicilia; e simile promessa e saramento fece fare a messer Ruggieri di Loria suo amiraglio. Per la quale cosa il papa fece il detto re Giamo ammiraglio e gonfaloniere della Chiesa in mare, quando si facesse il passaggio d'oltremare, e privileggiollo del reame dell'isola di Sardigna, conquistandolo sopra i Pisani o chi v'avesse signoria; e fece il detto papa che 'l re Carlo perdonò ogni offesa ricevuta da messere Ruggieri di Loria, e fecelo suo ammiraglio; per la qual cosa sappiendo don Federigo, gli tolse tutte sue rendite e onori ch'avea in Cicilia, e al nipote, opponendogli tradigione, fece tagliare la testa.
<B>XIX</B>
<I>Come il conte di Fiandra e quello di Bari si rubellarono al re di Francia.</I>
Nel detto anno il conte Guido di Fiandra e il conte di Bari genero del re d'Inghilterra si rubellarono dal re di Francia per oltraggi ricevuti dal re e da sua gente, e allegarsi col re Adoardo d'Inghilterra. E intr'altre principali cagioni della rubellazione del conte di Fiandra si fu perch'egli avea maritata la figliuola al figliuolo del re d'Inghilterra sanza consentimento del re; onde non piaccendo al re, mandò per lo conte e per la contessa di Fiandra, e poi per la figliuola; e quando furono a Parigi, lo re fece ritenere la detta donzella in cortese pregione, perché non fosse moglie del suo nimico, e poco tempo appresso ella morì; e dissesi che fu fatta morire di veleno. Il conte vedendo ritenuta sua figlia, e egli da·re in leggere guardia lasciato, si partì privatamente di Parigi e fuggìsi in Fiandra, e dolendosi a' figliuoli e a la sua gente del torto che gli facea il re di sua figlia, fece le sue terre rubellare al re; e in Lilla mise a guardia Ruberto suo primo figliuolo, e a Doai Guiglielmo secondo figliuolo, e a Coltrai messere Gianni di Namurro suo figliuolo; e il conte rimase a la guardia di Bruggia, e 'l duca di Brabante suo nipote a la guardia di Guanto. Per la qual cosa il re di Francia con grande oste andòe in Fiandra con la maggiore parte di sua baronia, e con più di Xm cavalieri e popolo innumerabile, e puosesi a oste a Lilla, ne la quale era messer Ruberto di Fiandra e 'l siri di Falcamonte de la Magna con più soldati tedeschi, i quali difendeano la terra francamente. In questa stanza il conte d'Artese isconfisse i Fiaminghi a Fornes, e lo re d'Inghilterra arrivò in Fiandra, come si tratterà nel seguente capitolo; per la qual cosa, e ancora perché la villa di Lilla non era bene proveduta né fornita di vittuaglia, s'arrendéo la terra al re di Francia, andandone sano e salvo messer Ruberto di Fiandra con tutti i soldati tedeschi. E avuta il re di Francia Lilla, prese la sua gente Bettona e più altre ville di Fiandra, e fece poi lo re di Francia cavalcare le terre del conte di Bari, e ardere e guastare.
<B>XX</B>
<I>Come il conte d'Artese isconfisse i Fiamminghi a Fornes, e come il re d'Inghilterra passò in Fiandra.</I>
Nel seguente anno MCCLXXXXVII, essendo cresciuta la guerra al re di Francia per lo re d'Inghilterra, e per la rubellazione del conte di Fiandra e di quello di Bari, come detto avemo di sopra, sì feciono lega ancora contro a·llui col re Attaulfo d'Alamagna, e mandogli il re d'Inghilterra XXXm marchi di sterlini, acciò che venisse con suo isforzo in Fiandra per assalire il reame di Francia; e così promise e giurò, e lo re d'Inghilterra promise di venirvi in persona; e vennero alquanti cavalieri tedeschi in Fiandra al soldo de' Fiamminghi, i quali volendo co' Fiamminghi insieme assalire la contea d'Artese, il conte d'Artese con grande cavalleria di Franceschi tornato di Guascogna in Artese per la detta guerra cominciata per gli Fiamminghi, essendo al conte d'Artese già renduta la villa di Berghe a la marina, si fece loro incontro a Fornes in Fiandra, e quivi combattendo insieme, onde i Fiamminghi e' Tedeschi furono sconfitti, e morìvi il conte Guiglielmo di Giulieri, e Arrigo conte dal Bemonte, e 'l siri di Gaura, e più altri baroni e cavalieri tedeschi e fiamminghi con più di IIIm tra a piè e a cavallo vi furono morti e presi. E dopo la detta sconfitta il conte d'Artese prese Fornes, e feciono le comandamenta tutte le terre della marina e la valle di Cassella. In questo il re Adoardo d'Inghilterra con grande navilio, e con M e più buoni cavalieri e con gente d'arme a piè assai, e arrivò in Fiandra al porto della Stuna, sì come avea promesso per la lega fatta col re d'Alamagna e col conte di Fiandra, e prese la villa di Bruggia, la quale fue abandonata da' Franceschi, però che non v'avea fortezza né di muro né di fossi; e poi n'andò a Guanto, però che Bruggia non era forte, e gli grandi borgesi di Bruggia eran tutti della parte del re, onde non si fidava di stare in Bruggia. A Guanto era il conte di Fiandra per attendere il re d'Alamagna, il quale per più moneta, si disse, ch'ebbe dal re di Francia, non venne, come avea promesso e giurato; e chi disse che il detto re d'Alamagna rimase per guerra che 'l re di Francia per suoi danari e promessa di parentado gli fece muovere al duca d'Osteric; e a questo diamo più fede. Onde il re Adoardo veggendosi ingannato e tradito, overo fallito dal re d'Alamagna, e sentendo il grande podere del re di Francia, e com'era già mosso con tutta sua baronia, avuta Lilla, per venire contro a·llui a Guanto, e già era a Coltrai in Fiandra; per la qual cosa il re d'Inghilterra non s'affidò di dimorare in Fiandra, però che venuto il re di Francia con sua oste, il convenia essere soppreso o assediato in Bruggia o in Guanto, o venire a battaglia co·llui; e dapoi che non era venuto il re d'Alamagna con sua gente, non avea podere d'uscire a campo contro al re di Francia, e però si partì di Fiandra in grande fretta, e tornossi con sua gente inn-Inghilterra, e lasciò il conte di Fiandra in Guanto in male stato e da tutti abandonato. Lo re di Francia perché s'appressava il verno, e avea novelle come il re Carlo di Puglia venia in Francia in servigio del re d'Inghilterra, e per commessione del papa, per mettere accordo intra·llui e·re Adoardo, suoi congiunti, parenti, e amici, sì·ssi tornò in Francia con tutta sua oste, lasciando grande guernigione di gente d'arme a cavallo e a piè ne le dette terre, e fece fare a Lilla e a Coltrai forti castelli. E tornato in Francia, il re Carlo ordinò dal re di Francia al re Adoardo d'Inghilterra e 'l conte di Fiandra triegue per due anni, rimanendo al re di Francia per patti Bruggia, e Lilla, e Coltrai, e altre ville, le quali terre di Fiandra erano già all'obedienzia e guadagnate per lo re di Francia; e per dispensagione del papa il re d'Inghilterra prese per moglie la serocchia del re di Francia, e accordogli di pace insieme.
<B>XXI</B>
<I>Come papa Bonifazio privò del cardinalato messer Iacopo e messer Piero della Colonna.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXXVII, a dì XIII del mese di maggio, tenendosi papa Bonifazio molto gravato da' signori Colonnesi di Roma, perché in più cose l'aveano contastato per isdegno di loro maggioranza, ma più si tenea il papa gravato, perché messer Iacopo e messer Piero de la Colonna cardinali gli erano stati contradi a la sua lezione, mai non pensò se non di mettergli al niente. E in questo avenne che Sciarra de la Colonna loro nipote, vegnendo al mutare della corte di... a le some degli arnesi e tesoro de la Chiesa, le rubò e prese, e menolle in... Per la qual cagione agiugnendovi la mala volontade conceputa per adietro, il detto papa contro a·lloro fece processo in questo modo: che' detti messer Iacopo e messer Piero de la Colonna diacani cardinali del cardinalato e di molti altri benifici ch'aveano da la Chiesa gli dispuose e privò; e per simile modo condannò e privò tutti quegli de la casa de' Colonnesi, cherici e laici, d'ogni beneficio ecclesiastico e secolare, e scomunicolli, che mai non potessono avere beneficio; e fece disfare le case e' palazzi loro di Roma, onde parve molto male a' loro amici romani; ma non poterono contradire per la forza del papa e degli Orsini loro contrari; per la quale cosa si rubellarono al tutto dal papa e cominciarono guerra, però ch'egli erano molto possenti, e aveano gran séguito in Roma, e era loro la forte città di Pilestrino, e quella di Nepi, e la Colonna, e più altre castella. Per la qual cosa il papa diede la indulgenza di colpa e pene chi prendesse la croce contro a·lloro, e fece fare oste sopra la città di Nepi, e il Comune di Firenze vi mandò in servigio del papa VIc tra balestrieri e pavesari crociati co le sopransegne del Comune di Firenze; e tanto stette l'oste a l'assedio, che la città s'arendé al papa a patti, ma molta gente vi morì e amalò per corruzzione d'aria ch'ebbe nella detta oste.
<B>XXII</B>
<I>Come Alberto d'Osteric sconfisse e uccise Ataulfo re d'Alamagna, e com'egli fue eletto re de' Romani.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXXVIII, del mese di giugno, avendo i prencipi d'Alamagna privato Ataulfo della lezione dello 'mperio per cagione della sua dislealtà, e perché s'era legato col re di Francia per sua moneta, e tradito il re d'Inghilterra e il conte di Fiandra, come addietro avemo fatta menzione, e ancora per procaccio d'Alberto dogio d'Osteric, figliuolo che fu del re Ridolfo, per avere la lezione con ordine e trattato del re Adoardo, e con molta sua moneta data al detto Alberto per fare vendetta del tradimento commesso per lo detto Ataulfo re d'Alamagna; e ciò fatto, il detto dogio Alberto con sua potenzia di gente d'arme venne contro al detto Ataulfo, e in campo combatté co·llui, e sconfisselo, e rimase il detto Ataulfo morto nella detta battaglia con molta di sua gente; e avuta Alberto la detta vittoria, si fece eleggere re de' Romani, e poi confermare a papa Bonifazio.
<B>XXIII</B>
<I>Come i Colonnesi vennero a la misericordia del papa, e poi si rubellarono un'altra volta.</I>
Nel detto anno, del mese di settembre, essendo trattato d'accordo da papa Bonifazio a' Colonnesi, i detti Colonnesi, cherici e laici, vennero a Rieti ov'era la corte, e gittarsi a piè del detto papa a la misericordia, il quale perdonò loro, e assolvetteli della scomunicazione, e volle gli rendessono la città di Penestrino; e così feciono, promettendo loro di ristituirgli in loro stato e dignità, la qual cosa non attenne loro, ma fece disfare la detta città di Penestrino del poggio e fortezze ov'era, e fecene rifare una terra al piano, a la quale puose nome Civita Papale; e tutto questo trattato falso e frodolente fece il papa per consiglio del conte da Montefeltro, allora frate minore, ove gli disse la mala parola: "Lunga promessa coll'attendere corto etc.". I detti Colonnesi trovandosi ingannati di ciò ch'era loro promesso, e disfatta sotto il detto inganno la nobile fortezza di Penestrino, innanzi che compiesse l'anno si rubellarono dal papa e da la Chiesa, e 'l papa gli scomunicò da capo con aspri processi; e per tema di nonn esser presi o morti, per la persecuzione del detto papa, si partirono di terra di Roma, e isparsonsi chi di loro in Cicilia, e chi in Francia, e in altre parti, nascondendosi di luogo in luogo per non esser conosciuti, e di non dare di loro posta ferma, spezialmente messer Iacopo e messer Piero ch'erano stati cardinali; e così stettono inn-esilio mentre vivette il detto papa.
<B>XXIV</B>
<I>Come i Genovesi sconfissono i Viniziani in mare.</I>
Nel detto anno, a dì VIII di settembre, essendo grande guerra in mare tra i Genovesi e' Viniziani, ciascuno fece armata, i Genovesi di CX galee, e' Viniziani di CXX galee; e' detti Genovesi, ond'era capitano e amiraglio messer Lamba d'Oria, passarono la Cicilia e misonsi nel golfo, con intendimento d'andare infino a la città di Vinegia, se in altro luogo non trovassono i Viniziani; ma come furono in Ischiavonia, trovarono l'armata de' detti Viniziani a l'isola de la Scolcola, ov'ebbe tra' due stuoli aspra e dura battaglia; a la fine furono sconfitti i Viniziani, e molti ne furono morti e presi, e LXX corpi di loro galee ne furono menate co' pregioni in Genova.
<B>XXV</B>
<I>De' grandi tremuoti che furono in certe città d'Italia.</I>
Nel detto anno furono molti tremuoti in Italia, spezialmente nella città di Rieti e in quella di Spuleto, e in Toscana nella città di Pistoia, ne le quali cittadi caddono molte case, e palazzi, e torri, e chiese, e fu segno del giudicio di Dio, del futuro pericolo, e aversitadi, che poco appresso si cominciò in più parti d'Italia, e spezialmente nelle dette nominate cittadi, come innanzi per gli tempi faremo menzione.
<B>XXVI</B>
<I>Quando si cominciò il palazzo del popolo di Firenze ove abitano i priori.</I>
Nel detto anno MCCLXXXXVIII si cominciò a fondare il palagio de' priori per lo Comune e popolo di Firenze, per le novità cominciate tra 'l popolo e' grandi, che ispesso era la terra in gelosia e in commozione, a la riformazione del priorato di due in due mesi, per le sette già cominciate, e i priori che reggeano il popolo e tutta la repubblica non parea loro essere sicuri ove abitavano innanzi, ch'era ne la casa de' Cerchi bianchi dietro a la chiesa di San Brocolo. E colà dove puosono il detto palazzo furono anticamente le case degli Uberti, ribelli di Firenze e Ghibellini; e di que' loro casolari feciono piazza, acciò che mai non si rifacessono. E perché il detto palazzo non si ponesse in sul terreno de' detti Uberti coloro che·ll'ebbono a far fare il puosono musso, che fu grande difalta a lasciare però di non farlo quadro, e più discostato da la chiesa di San Piero Scheraggio.
<B>XXVII</B>
<I>Come fu fatta pace tra 'l Comune di Genova e quello di Vinegia.</I>
Negli anni di Cristo MCCLXXXXVIIII, del mese di maggio, pace fu tra' Genovesi e' Viniziani, e ciascuno riebbe i suoi pregioni con que' patti che piacquero a' Genovesi. Intra gli altri vollono che infra XIII anni niuno Viniziano non navicasse nel mare Maggiore di là da Gostantinopoli e nella Soria con galee armate, onde i Genovesi ebbono grande onore, e rimasono in grande potenza e felice stato, e più che Comune o signore del mondo ridottati in mare.
<B>XXVIII</B>
<I>Come fu fatta pace tra 'l Comune di Bologna e 'l marchese da Esti e Maghinardo da Susinana per gli Fiorentini</I>
Nel detto tempo e anno essendo stata lunga e grande guerra tra 'l Comune di Bologna e' suoi usciti, e col marchese Azzo da Esti, il quale signoreggiava la città di Ferrara, e quella di Reggio, e quella di Modona, e con Maghinardo da Susinana grande signore in Romagna, i quali erano a una lega contro a' Bolognesi, per procaccio e industria de' Fiorentini, amici dell'una parte e dell'altra, pace fu fatta, e basciarsi insieme i sindachi de le parti ne la città di Firenze; e i Fiorentini furono promettitori e mallevadori a la detta pace per l'una parte e per l'altra, con solenni carte e promessioni.
<B>XXIX</B>
<I>Come il re Giamo d'Araona con Ruggieri di Loria e con l'armata del re Carlo sconfissono i Ciciliani a capo Orlando.</I>
Nel detto anno avendo lo re Carlo fatta sua armata per andare sopra l'isola di Cicilia di XL galee, ond'era ammiraglio messer Ruggieri di Loria, e richesto per papa Bonifazio e per lo re Carlo il re Giamo d'Araona che aseguisse la promessa per lui fatta per li patti della pace, come adietro facemmo menzione, venne di Catalogna con XXX galee armate, e accozzatosi a Napoli coll'armata del re Carlo, e con Ruggieri di Loria loro ammiraglio, tutti insieme n'andarono verso Cicilia. Don Federigo co' suoi Ciciliani sentendo il detto apparecchiamento, fece suo isforzo, e armò LX galee, e col suo ammiraglio messer Federigo d'Oria si misono in mare. E a capo Orlando in Cicilia s'accozzaro in mare le dette armate a dì IIII del mese di luglio, e dopo la grande e aspra battaglia l'armata de' Ciciliani fue sconfitta, e tra morti e presi più di VIm uomini e XXII corpi di galee; per la qual cosa si mostrò palesemente che 'l detto re Giamo e Ruggieri di Loria furono fedeli e leali a la promessa fatta al papa e al re Carlo. Bene si disse che se lo re Giamo avesse voluto, don Federigo suo fratello rimanea preso in quella battaglia, però che·lla sua galea fue nelle sue mani, e era finita la guerra di Cicilia; o che fosse di sua volontà o di sua gente catalana, il lasciarono fuggire e scampare.
<B>XXX</B>
<I>Come fu fatta pace tra' Genovesi e' Pisani.</I>
Nel detto anno, del mese d'agosto, fu fatta pace tra' Genovesi e' Pisani, la qual guerra era durata XVII anni e più, onde i Pisani molto erano abassati e venuti a piccolo podere; e quasi come gente ricreduta feciono a' Genovesi ogni patto che seppono domandare, dando loro parte in Sardigna, e la terra di Bonifazio in Corsica, e che' Pisani non dovessono navicare con galee armate infra XV anni, e de' pregioni che vennero in Genova de' Pisani, quando furono lasciati, non erano vivi che apena il X.
<B>XXXI</B>
<I>Quando di prima si cominciarono le nuove mura de la città di Firenze.</I>
Nel detto anno, a dì XXVIIII di novembre, si cominciarono a fondare le nuove e terze mura della città di Firenze nel Prato d'Ognesanti; e furono a benedire e fondare la prima pietra il vescovo di Firenze, e quello di Fiesole, e quello di Pistoia, e tutti i prelati e riligiosi, e tutte le signorie e ordini di Firenze con innumerabile popolo. E murarsi allora da la torre sopra la gora infino a la porta del Prato, la qual porta era prima cominciata insino l'anno MCCLXXXIIII, coll'altre porte mastre di qua da l'Arno, insieme, come adietro facemmo menzione; ma per molte averse novità che furono appresso stette buono tempo che non vi si murò più innanzi che quelle mura de la fronte del Prato.
<B>XXXII</B>
<I>Come il re di Francia ebbe a queto tutta Fiandra, e in pregione il conte e' figliuoli.</I>
Nel detto anno MCCLXXXXVIIII, fallite le triegue dal re di Francia e 'l conte di Fiandra, lo re mandò in Fiandra messer Carlo di Valos suo fratello con grande oste e cavalleria, il quale giunto a Bruggia cominciò guerra al conte ch'era in Guanto, e a tutte le terre della marina che teneano col conte, e con più battaglie in più parti vinte per la gente di messer Carlo contra i Fiamminghi s'arenderono a messer Carlo, salvo Guanto, ov'era il conte cogli suoi figliuoli messer Ruberto e messer Guiglielmo, abandonati dagli amici e da' signori, e eziandio da' loro borgesi. Per la qual cosa trattato ebbono con messer Carlo di fare onore al re di rendersi a·llui, promettendo messer Carlo sopra sé di guarentirgli e rimettergli in amore del re, e in loro stato e signoria. E compiuto il trattato, renderono Guanto, ch'è de le più forti terre del mondo, e le loro persone a messer Carlo; il quale entrato in Guanto, il conte Guido e messer Ruberto e messer Guiglielmo suoi figliuoli tradì, e gli mandò presi a Parigi. La qual cosa per l'universo mondo fu tenuta grande dislealtà a sì fatto signore. E ciò fatto per messere Carlo, e avuta tutta a queto la contea di Fiandra, lasciò messer Giache, fratello del conte di San Polo, al tutto signore in Fiandra per lo re con grande cavalleria, e messer Carlo si tornò in Francia. E il detto messer Giache cominciò in Fiandra aspra signoria, e radoppiare sopra il popolo assise, e gabelle, e male tolte, onde il popolo forte si tenea gravato. Avenne che per la Pasqua di Risoresso vegnente lo re di Francia andòe a suo diletto in Fiandra per provedere il suo conquisto e fare festa; e giunto in Bruggia, gli fu fatto grande onore, e simile a Guanto, e Ipro, e l'altre buone terre; e tutti si vestirono di nuovo ad arte e mestieri d'una assisa, faccendo più diversi giuochi e feste, e per lo re e sua baronia giostre; e la tavola ritonda si fece a Guidendalla, maniere del conte, onde d'Alamagna e d'Inghilterra vi vennono più baroni e cavalieri a giostrare. Ma questa festa fu fine di tutte quelle de' Franceschi a' nostri tempi, ché come la fortuna si mostrò al re di Francia e a' suoi allegra e felice, così poco tempo appresso volse sua ruota nel contrario, come innanzi al tempo faremo menzione. E l'originale cagione, oltre al peccato per lo re e suo consiglio commesso ne la presura e morte della innocente damigella di Fiandra, e poi il tradimento fatto contro al conte Guido e' suoi figliuoli presi, si fu che al partire che 'l re fece di Fiandra gli artefici e popolo minuto gli domandarono grazia, che fossono alleggiati delle importabili gravezze che messer Giache di San Polo e' suoi faceano loro, e oltre a·cciò i grandi borgesi delle ville, che tutti gli mangiavano; non furono uditi dal re, se non come il popolo d'Israel dal re Roboam, ma maggiormente tormentati da' borgesi e dagli uficiali del re, onde appresso seguì il giudicio di Dio quasi improviso, come al tempo intenderete.
<B>XXXIII</B>
<I>Come il re di Francia s'imparentò col re Alberto d'Alamagna.</I>
Nel detto anno MCCLXXXXVIIII dopo il conquisto che 'l re di Francia fece di Fiandra Alberto d'Osteric re de' Romani fece parentado col re Filippo di Francia, e diede per moglie al figliuolo primogenito la figliuola del detto re di Francia; e ciò fu per l'amistà cominciata, e servigio fatto al re di Francia per lo re Alberto contro Ataulfo re de' Romani, come adietro è fatta menzione.
<B>XXXIV</B>
<I>Come il prenze di Taranto fu sconfitto in Cicilia.</I>
Nel detto anno, in calen di dicembre, Filippo prenze di Taranto e figliuolo del re Carlo secondo, essendo passato in su l'isola di Cicilia con VIc cavalieri e con XL galee armate, la maggiore parte Napoletani e gente del Regno, per guerreggiare l'isola, ed era all'assedio a la città di Trapali; e don Federigo d'Araona che tenea Cicilia era con sua gente, de la quale era capitano don Brasco d'Araona, e stavano in su 'l monte di Trapali, veggendo il male reggimento del detto prenze e di sua gente, a loro posta scesono del detto monte, e co·lloro vantaggio presono la battaglia, ne la quale il detto prenze fu sconfitto, e preso egli e grande parte di sua gente.
<B>XXXV</B>
<I>Come Casano signore de' Tartari sconfisse il soldano de' Saracini, e prese la Terrasanta in Soria.</I>
Nel detto anno, del mese di gennaio, Casano imperadore de' Tartari venne in Soria sopra il soldano de' Saracini, e menò seco CCm tra Tarteri e Cristiani a cavallo e a piè per condotta del re d'Erminia e di quello di Giorgia, cristianissimi e nimici de' Saracini, per racquistare la Terrasanta. Il soldano sentendo loro venuta, venne d'Egitto in Soria con più di Cm Saracini a cavallo, sanza l'altra sua oste di Soria ch'era infinita; e scontrarsi insieme i detti eserciti, e la battaglia fu grande e terribile. A la fine per senno e valentia del detto Casano, il quale si tenne a piede con grande parte de la sua buona gente infino che' Saracini ebbono tanto saettato, ch'egli ebbono voti i loro turcassi di saette, e acciò che' Saracini non potessono risaettare sopra i suoi le loro saette, ordinò che tutte quelle di sua gente fossono sanza cocca, e le corde di suoi archi con pallottiera, che poteano saettare le loro e quelle de Saracini. E ciò fatto, con ordine, a certo suo segno fatto montarono a cavallo, e aspramente assalirono i Saracini per modo che assai tosto gli mise in isconfitta e in fugga; ma molti Saracini vi furono morti e presi, e lasciarono tutto il loro campo e arnesi di grande ricchezza. E ciò fatto, quasi tutte le terre di Soria e di Gerusalem si renderono al detto Casano, e divotamente andò a visitare il santo Sepolcro; e ciò fatto, non potendo guari dimorare in Soria, convenendogli tornare in Persia al Turigi, per guerra che gli era cominciata da altri signori de' Tartari, sì mandò suoi ambasciadori in ponente a papa Bonifazio VIII, e al re di Francia, e agli altri re cristiani, che mandassono de' signori e gente cristiana a ritenere le città e terre di Soria e della Terrasanta ch'egli avea conquistate; la quale ambasciata fue intesa, ma male messa a seguizione, perché per lo papa e per gli altri signori de' Cristiani s'intendea più alle singulari guerre e quistioni tra·lloro, ch'al bene comune della Cristianità; che con poca gente e piccola spesa si racquistava e tenea per gli Cristiani la Terrasanta conquistata per Casano, la quale con grande vergogna, e non sanza merito di pena, per gli Cristiani s'abandonò. Onde partito di Soria il detto Casano, poco tempo appresso i Saracini si ripresono Gerusalem e l'altre terre di Soria. Il detto Casano fue figliuolo d'Argon Cane, onde addietro in alcuna parte facemmo menzione. Questi fu piccolo e isparuto di sua persona, ma virtudioso fu molto, e savio, e pro' di sua persona, e aveduto in guerra, cortesissimo e largo donatore, amico grandissimo de' Cristiani, e elli e molti di sua buona gente si fece per la fede di Cristo battezzare. E la cagione perché Casano divenne Cristiano nonn-è da tacere, ma da farne notabile memoria in questo nostro trattato a deficazione della nostra fede, per lo bello miracolo ch'avenne. Quando Casano fu fatto imperadore, si fece cercare per avere moglie per la più bella femmina che si trovasse, non guardandosi per tesoro o per altro, e però mandò suoi ambasciadori per tutto levante; e trovandosi la più bella la figliuola del re d'Erminia, e quella adimandata, il padre l'acettò, in quanto piacesse a la pulcella. Quella molto savia rispuose ch'era contenta al piacere del padre, salvo ch'ella volea essere libera di potere adorare e coltivare il nostro signore Gesù Cristo, bene che 'l marito fosse pagano; e così fu promesso e accettato per gli ambasciadori di Casano. Il re d'Erminia mandò la figliuola con frate Aiton suo fratello, e con altri frati e religiosi, e con ricca compagnia di cavalieri, e donne, e damigelle; e venuta a Casano, molto gli piacque, e fu in sua grazia e amore, e assai tosto concepette di lui, e al tempo debito partorìo, come piacque a·dDio, la più orda e orribile creatura che mai fosse veduta, e quasi per poco nonn-avea forma umana. Casano contristato di ciò, tenne consiglio co' suoi savi, per gli quali fu diliberato che la donna avea commesso avolterio, e fu giudicata ch'ella colla sua creatura fosse arsa. E apparecchiato il fuoco in presenza di Casano, a cui molto ne doleva, e di tutto il popolo della città, la donna chiese grazia di volere sua confessione e comunione, sì come fedele Cristiana, e la creatura battezzare e fare Cristiano. Fu conceduta la grazia, e come la creatura fu battezzata nel nome del Padre, e del Filio, e del santo Spirito, in presenza del padre e di tutto il popolo, incontanente il fanciullo divenne il più bello e grazioso che mai fosse veduto. Del detto miracolo Casano fu molto allegro, e con gran festa la 'mperadrice e 'l figliuolo furono diliberi da morte; e Casano e tutto il popolo si battezzarono e feciono Cristiani. E non voglio che tu lettore ti maravigli perché scriviamo che Casano fosse quasi con CCm Tartari a cavallo, che il vero fu così, e ciò sapemmo da uno nostro Fiorentino e vicino di casa i Bastari, nudrito infino piccolo fanciullo in sua corte, e di qua per lui al papa e a' re de' Cristiani venne per ambasciadore con altri de' Tarteri, che ciò testimonò e a noi disse. E nonn-è da maravigliare però, però che quasi tutti i Tarteri vanno a cavallo e nonne a piè; e' loro cavagli sono piccoli, e mai non bisogna loro ferro in piè, né orzo né altra biada, ma vivono d'erbaggio e di fieno, lasciandogli pascere come pecore; e uno de' Tarteri ne mena seco X o XX o più de' detti cavagli, secondo ch'è possente; e va l'uno dietro a l'altro sanza altra guida; e sono con sottili briglie sanza freno, e povera sella d'una bardella e piccole scaglie incamutate. Armati sono di cuoio cotto e d'archi e saette; e vivonsi di carne cruda o poco cotta, e di pesce, e di sangue di bestie, e latte e burro con poco pane, e le più volte sanza pane; e quando hanno sete e non trovassono acqua, segnano l'uno de' loro cavagli e beonsi il sangue, e ispesso l'uccidono e 'l si mangiano; e giacciono e dormono sanza letto, se non il tappeto sopra la terra, e sempre stanno a campo, e molto sono obbedienti e fedeli al loro signore, e fieri e crudeli in arme, sì che al signore de' Tarteri è più leggere di menare seco in oste CCm de' Tarteri a cavallo, che non sarebbe al re di Francia Xm. Avemo sì lungo detto de' costumi de' Tarteri per trarre d'ignoranza coloro che di loro fatti non sanno; ma chi più ne vorrà sapere legga il trattato di frate Aiton d'Erminia e i·libro del Milione di Vinegia, come in altra parte in questo libro avemo detto.
<B>XXXVI</B>
<I>Come papa Bonifazio VIII diè perdono a tutti i Cristiani ch'andassono a Roma l'anno del giubileo MCCC.</I>
Negli anni di Cristo MCCC, secondo la Nativitade di Cristo, con ciò fosse cosa che si dicesse per molti che per adietro ogni centesimo d'anni della Natività di Cristo il papa ch'era in que' tempi facie grande indulgenza, papa Bonifazio VIII, che allora era appostolico, nel detto anno a reverenza della Natività di Cristo fece somma e grande indulgenza in questo modo: che qualunque Romano visitasse infra tutto il detto anno, continuando XXX dì, le chiese de' beati appostoli santo Pietro e santo Paolo, e per XV dì l'altra universale gente che non fossono Romani, a tutti fece piena e intera perdonanza di tutti gli suoi peccati, essendo confesso o si confessasse, di colpa e di pena. E per consolazione de' Cristiani pellegrini ogni venerdì o dì solenne di festa si mostrava in Santo Piero la Veronica del sudario di Cristo. Per la qual cosa gran parte de' Cristiani ch'allora viveano feciono il detto pellegrinaggio così femmine come uomini, di lontani e diversi paesi, e di lungi e d'apresso. E fue la più mirabile cosa che mai si vedesse, ch'al continuo in tutto l'anno durante avea in Roma oltre al popolo romano CCm pellegrini, sanza quegli ch'erano per gli cammini andando e tornando, e tutti erano forniti e contenti di vittuaglia giustamente, così i cavagli come le persone, e con molta pazienza, e sanza romori o zuffe: ed io il posso testimonare, che vi fui presente e vidi. E de la offerta fatta per gli pellegrini molto tesoro ne crebbe a la Chiesa e a' Romani: per le loro derrate furono tutti ricchi. E trovandomi io in quello benedetto pellegrinaggio ne la santa città di Roma, veggendo le grandi e antiche cose di quella, e leggendo le storie e' grandi fatti de' Romani, scritti per Virgilio, e per Salustio, e Lucano, e Paulo Orosio, e Valerio, e Tito Livio, e altri maestri d'istorie, li quali così le piccole cose come le grandi de le geste e fatti de' Romani scrissono, e eziandio degli strani dell'universo mondo, per dare memoria e esemplo a quelli che sono a venire presi lo stile e forma da·lloro, tutto sì come piccolo discepolo non fossi degno a tanta opera fare. Ma considerando che la nostra città di Firenze, figliuola e fattura di Roma, era nel suo montare e a seguire grandi cose, sì come Roma nel suo calare, mi parve convenevole di recare in questo volume e nuova cronica tutti i fatti e cominciamenti della città di Firenze, in quanto m'è istato possibile a ricogliere, e ritrovare, e seguire per innanzi istesamente in fatti de' Fiorentini e dell'altre notabili cose dell'universo in brieve, infino che fia piacere di Dio, a la cui speranza per la sua grazia feci la detta impresa, più che per la mia povera scienza. E così negli anni MCCC tornato da Roma, cominciai a compilare questo libro a reverenza di Dio e del beato Giovanni, e commendazione della nostra città di Firenze.
<B>XXXVII</B>
<I>Come il conte Guido di Fiandra con due suoi figliuoli s'arendeo al re di Francia. e come furono ingannati e messi in pregione.</I>
Nel detto anno, del mese di maggio, essendo ad oste sopra Fiandra messer Carlo di Valos, fratello del re Filippo di Francia, il conte Guido di Fiandra molto anziano e vecchio, fece trattato co·llui di venire con due suoi maggiori figliuoli a la misericordia del re di Francia, rendendoli paceficamente il rimanente della terra di Fiandra ch'egli tenea. Il detto messer Carlo promise che se ciò facesse di fargli fare grazia, e rendere la pace dal re, e ristituirlo in suo stato; il quale conte s'affidòe a·llui, e gli rendé Bruggia e Guanto e l'altre terre di Fiandra, e con Ruberto e Guiglielmo suoi figliuoli vennero col detto messer Carlo a Parigi, e gittarsi a la misericordia, e a' piè del re; il quale re per malvagio consiglio, non asseguendo cosa che a·lloro fosse promessa, sanza nulla grazia gli fece mettere in pregione. Per lo quale tradimento e dislealtà grande male ne venne a la casa di Francia e a' Franceschi in brieve tempo appresso, come Innanzi la nostra storia de' fatti di Fiandra farà menzione.
<B>XXXVIII</B>
<I>Come si cominciò parte nera e bianca prima nella città di Pistoia.</I>
In questi tempi essendo la città di Pistoia in felice e grande e buono stato secondo il suo essere, e intra gli altri cittadini v'avea uno lignaggio di nobili e possenti che si chiamavano i Cancellieri, non però di grande antichità, nati d'uno ser Cancelliere, il quale fu mercatante e guadagnò moneta assai, e di due mogli ebbe più figliuoli, i quali per la loro ricchezza tutti furono cavalieri, e uomini di valore e da bene; e di loro nacquero molti figliuoli e nipoti, sì che in questo tempo erano più di C uomini d'arme, ricchi e possenti e di grande affare, sicché non solamente i maggiori di Pistoia, ma de' più possenti legnaggi di Toscana. Nacque tra·lloro per la soperchia grassezza, e per susidio del diavolo, isdegno e nimistà tra 'l lato di quelli ch'erano nati d'una donna a quelli dell'altra; e l'una parte si puosono nome i Cancellieri neri, e l'altra i bianchi. E crebbe tanto che si fedirono insieme, non però di cosa innorma, e fedito uno di que' del lato de' cancellieri bianchi, que' del lato de' Cancellieri neri per avere pace e concordia co·lloro mandarono quegli ch'avea fatta l'offesa a la misericordia di coloro che·ll'aveano ricevuta, che ne prendessono l'amenda e vendetta a·lloro volontà; i quali del lato de' Cancellieri bianchi ingrati e superbi, non avendo in loro pietà né carità, la mano dal braccio tagliaro in su una mangiatoia a quegli ch'era venuto a la misericordia. Per lo quale cominciamento e peccato non solamente si divise la casa de' Cancellieri, ma più micidi ne nacquero tra·lloro, e tutta la città di Pistoia se ne divise, che l'uno tenea coll'una parte e l'altro coll'altra, e chiamavansi parte bianca e nera, dimenticata tra·lloro parte guelfa e ghibellina; e più battaglie cittadine, con molti pericoli e micidi, ne nacquero e furono in Pistoia; e non solamente in Pistoia, ma poi la città di Firenze e tutta Italia contaminaro le dette parti, come innanzi potrete intendere e sapere. I Fiorentini per tema che per le dette parti di Pistoia non surgesse rubellazione de la terra a sconcio di parte guelfa, s'intramisono d'aconciargli insieme, e presono la signoria della terra, e l'una parte e l'altra de' Cancellieri trassono di Pistoia, e mandarono a' confini in Firenze. La parte de' Neri si ridussono a casa de' Frescobaldi Oltrarno, e la parte de' Bianchi si ridussono a casa i Cerchi nel Garbo, per parentadi ch'aveano tra·lloro. Ma come l'una pecora malata corrompe tutta la greggia, così questo maladetto seme uscito di Pistoia, istando in Firenze corruppono tutti i Fiorentini e partiro, che prima tutte le schiatte e' casati de' nobili, l'una parte tenea e favorava l'una parte, e gli altri l'altra, e appresso tutti i popolari. Per la qual cosa e gara cominciata, non che i Cancellieri per gli Fiorentini si racconciassono insieme, ma i Fiorentini per loro furono divisi e partiti, multiplicando di male in peggio, come seguirà appresso il nostro trattato.
<B>XXXIX</B>
<I>Come la città di Firenze si partì e si sconciò per le dette parti bianca e nera.</I>
Nel detto tempo essendo la nostra città di Firenze nel maggiore stato e più felice che mai fosse stata dapoi ch'ella fu redificata, o prima, sì di grandezza e potenza, e sì di numero di genti, che più di XXXm cittadini avea nella cittade, e più di LXXm distrittuali d'arme avea in contado, e di nobilità di buona cavalleria e di franco popolo e di ricchezze grandi, signoreggiando quasi tutta Toscana; il peccato della ingratitudine, col susidio del nimico dell'umana generazione, de la detta grassezza fece partorire superba corruzzione, per la quale furono finite le feste e l'alegrezze de' Fiorentini, che infino a que' tempi stavano in molte delizie, e morbidezze, e tranquillo, e sempre in conviti, e ogn'anno quasi per tutta la città per lo calen di maggio si faceano le brigate e le compagnie d'uomini e di donne, di sollazzi e balli. Avenne che per le 'nvidie si cominciarono tra' cittadini le sette; e una principale e maggiore s'incominciò nel sesto dello scandalo di porte San Piero, tra quegli della casa de' Cerchi e quegli de' Donati, l'una parte per invidia, e l'altra per salvatica ingratitudine. De la casa de' Cerchi era capo messer Vieri de' Cerchi, e egli e quegli di sua casa erano di grande affare, e possenti, e di grandi parentadi, ricchissimi mercatanti, che la loro compagnia era de le maggiori del mondo; uomini erano morbidi e innocenti, salvatichi e ingrati, siccome genti venuti di piccolo tempo in grande stato e podere. Della casa de' Donati era capo messer Corso Donati, e egli e quelli di sua casa erano gentili uomini e guerrieri, e di non soperchia ricchezza, ma per motto erano chiamati Malefami. Vicini erano in Firenze e in contado, e per la conversazione de la loro invidia co la bizzarra salvatichezza nacque il superbio isdegno tra·lloro, e maggiormente si raccese per lo mal seme venuto di Pistoia di parte bianca e nera come nel lasciato capitolo facemmo menzione. E' detti Cerchi furono in Firenze capo della parte bianca, e co·lloro tennero della casa degli Adimari quasi tutti, se non se il lato de' Cavicciuli; tutta la casa degli Abati, la quale era allora molto possente, e parte di loro erano Guelfi e parte Ghibellini; grande parte de' Tosinghi, ispezialmente il lato del Baschiera; parte di casa i Bardi, e parte de' Rossi, e così de' Frescobaldi, e parte de' Nerli e de' Mannelli, e tutti i Mozzi, ch'allora erano molto possenti di ricchezza e di stato, tutti quegli della casa degli Scali, e la maggiore parte de' Gherardini, tutti i Malispini, e gran parte de' Bostichi, e Giandonati, de' Pigli, e de' Vecchietti, e Arrigucci, e quasi tutti i Cavalcanti, ch'erano una grande possente casa, e tutti i Falconieri, ch'erano una possente casa di popolo. E co·lloro s'accostarono molte case e schiatte di popolani e artefici minuti, e tutti i grandi e popolani ghibellini; e per lo séguito grande ch'aveano i Cerchi il reggimento della città era quasi tutto in loro podere. De la parte nera furono tutti quegli della casa de' Pazzi quasi principali co' Donati, e tutti i Visdomini, e tutti i Manieri, e' Bagnesi, e tutti i Tornaquinci, e gli Spini, e' Bondelmonti, e' Gianfigliazzi, Agli, e Brunelleschi, e Cavicciuoli, e l'altra parte de' Tosinghi, e tutto il rimanente; e parte di tutte le case guelfe nominate di sopra, ché quegli che non furono co' Bianchi per contrario furono co' Neri. E così de le dette due parti tutta la città di Firenze e 'l contado ne fu partita e contaminata. Per la qual cagione la parte guelfa, per tema che le dette parti non tornassono in favore de' Ghibellini, sì mandarono a corte a papa Bonifazio, che·cci mettesse rimedio. Per la qual cosa il detto papa mandò per messer Vieri de' Cerchi, e come fue dinanzi a·llui, sì 'l pregò che facesse pace con messer Corso Donati e colla sua parte, rimettendo in lui le differenze, e promettendoli di mettere lui e' suoi in grande e buono stato, e di fargli grazie spirituali come sapesse domandare. Messere Vieri tutto fosse nell'altre cose savio cavaliere, in questo fu poco savio, e troppo duro e bizzarro, che della richesta del papa nulla volse fare, dicendo che non avea guerra con niuno; onde si tornò in Firenze, e 'l papa rimase molto isdegnato contro a·llui e contro a sua parte. Avenne poco appresso che andando a cavallo dell'una setta e dell'altra per la città armati e in riguardo, che con parte de' giovani de' Cerchi era Baldinaccio degli Adimari, e Baschiera de' Tosinghi, e Naldo de' Gherardini, e Giovanni Giacotti Malispini co·lloro seguaci più di XXX a cavallo; e cogli giovani de' Donati erano de' Pazzi, e Spini, e altri loro masnadieri; la sera di calen di maggio, anno MCCC, veggendo uno ballo di donne che si facea nella piazza di Santa Trinita, l'una parte contra l'altra si cominciarono a sdegnare, e a pignere l'uno contro a l'altro i cavagli, onde si cominciò una grande zuffa e mislea, ov'ebbe più fedite, e a Ricoverino di messer Ricovero de' Cerchi per disaventura fu tagliato il naso dal volto; e per la detta zuffa la sera tutta la città fu per gelosia sotto l'arme. Questo fue il cominciamento dello scandalo e partimento della nostra città di Firenze e di parte guelfa, onde molti mali e pericoli ne seguiro appresso, come per gli tempi faremo menzione. E però avemo raccontato così stesamente l'origine di questo cominciamento de le maladette parti bianca e nera, per le grandi e male sequele che ne seguiro a parte guelfa e a' Ghibellini, e a tutta la città di Firenze, eziandio a tutta Italia: e come la morte di messer Bondelmonte il vecchio fu cominciamento di parte guelfa e ghibellina, così questo fue il cominciamento di grande rovina di parte guelfa e della nostra città. E nota che l'anno dinanzi a queste novitadi erano fatte le case del Comune, che cominciano a piè del ponte Vecchio sopra l'Arno verso il castello Altrafonte, e per ciò fare si fece il pilastro a piè del ponte, e convenne si rimovesse la statua di Marte; e dove guardava prima verso levante, fu rivolta verso tramontana, onde per l'agurio degli antichi fu detto: "Piaccia a·dDio che la nostra città non abbia grande mutazione".
<B>XL</B>
<I>Come il cardinale d'Acquasparta venne per legato del papa per racconciare Firenze, e non lo potéo fare.</I>
Per le sopradette novitadi e sette di parte bianca e nera, i capitani della parte guelfa e il loro consiglio, temendo che per le dette sette e brighe parte ghibellina non esaltasse in Firenze, che sotto titolo di buono reggimento già ne facea il sembiante, e molti Ghibellini tenuti buoni uomini erano cominciati a mettere in su gli ufici, e ancora quegli che teneano parte nera, per ricoverare loro stato, sì mandarono ambasciadori a corte a papa Bonifazio a pregarlo che per bene della cittade e di parte di Chiesa vi mettesse consiglio. Per la qual cosa incontanente il papa fece legato a·cciò seguire frate Matteo d'Acquasparta, suo cardinale Portuense, dell'ordine de' minori, e mandollo a Firenze, il quale giunse in Firenze del seguente mese di giugno del detto anno MCCC, e da' Fiorentini fu ricevuto a grande onore. E lui riposato in Firenze, richiese balìa al Comune di pacificare insieme i Fiorentini; e per levare via le dette parti bianca e nera volle riformare la terra, e raccomunare gli ufici, e quegli dell'una parte e dell'altra ch'erano degni d'essere priori mettere in sacchetti a sesto a sesto, e trargli di due in due mesi, come venisse la ventura; che per le gelosie de le parti e sette incominciate non si facea lezione de' priori per le capitudini dell'arti, che quasi la città non si commovesse a sobuglio, e talora con grande apparecchiamento d'arme. Quegli della parte bianca che guidavano la signoria de la terra, per tema di non perdere loro stato e d'essere ingannati dal papa e dal legato per la detta riformazione, presono il peggiore consiglio e non vollono ubbidire; per la qual cosa il detto legato prese isdegno, e tornossi a corte, e lasciò la città di Firenze scomunicata e interdetta.
<B>XLI</B>
<I>De' mali e de' pericoli che seguirono a la nostra città appresso.</I>
Partito il legato di Firenze, la città rimase in grande gelosia e in male stato. Avenne che del mese di dicembre seguente, andando messer Corso Donati e' suoi seguaci e que' della casa de' Cerchi e' loro seguaci armati a una morta di casa i Frescobaldi, isguardandosi insieme l'una parte e l'altra, si vollono assalire, onde tutta la gente ch'era a la morta si levarono a romore; e così fuggendo e tornando ciascuno a casa sua, tutta la città fu ad arme, faccendo l'una parte e l'altra grande raunata a casa loro; messer Gentile de' Cerchi, Guido Cavalcanti, Baldinaccio e Corso degli Adimari, Baschiera della Tosa, e Naldo de' Gherardini con loro consorti e seguaci a cavallo e a piè, corsono a porte San Piero a casa i Donati, e non trovandogli a porte San Piero, corsono a San Piero Maggiore, ov'era messer Corso co' suoi consorti e raunata, da' quali furono riparati, e rincacciati, e fediti con onta e vergogna de' Cerchi e de' loro seguaci; e di ciò furono condannati l'una parte e l'altra dal Comune. Poi poco appresso essendo certi de' Cerchi in contado a Nepozzano e Pugliano, e in quelle loro contrade e poderi, volendo tornare a Firenze, que' della casa de' Donati raunata loro amistà a Remole, contesono il passo, e ebbevi fedite e assalti d'una parte e d'altra; per la qual cosa l'una parte e l'altra furono accusati e condannati della raunata e assalti; e quegli di casa i Donati la maggior parte per non potere pagare andarono dinanzi, e furono messi in pregione. Que' de' Cerchi volendo fare a·lloro esemplo, dicendo messer Torrigiano di Cerchio: "Per questo non ci vinceranno, come feciono i Tedaldini, che gli consumarono per pagare le condannagioni"; sì fece andare gli suoi dinanzi, e sostenuti in pregione contra volere di messer Vieri de' Cerchi e degli altri savi della casa, che conosceano la complessione e morbidezza de' loro giovani; avenne che uno maladetto ser Neri degli Abati soprastante di quella pregione, mangiando co·lloro, fece venire uno presente d'uno migliaccio avelenato, del quale mangiarono, onde poco appresso in due dì morirono due de' Cerchi bianchi, e due de' Neri, e Piggello Portinari, e Ferraino de' Bronci, e di ciò non fue nulla vendetta.
<B>XLII</B>
<I>Di quello medesimo.</I>
Essendo la città di Firenze in tanto bollore e pericoli di sette e di nimistà, onde molto sovente la terra era a romore e ad arme, messer Corso Donati, Ispini, Pazzi, e parte de' Tosinghi, e Cavicciuli, e loro seguaci, grandi e popolani di loro setta di parte nera, co' capitani di parte guelfa ch'allora erano al loro senno e volere si raunarono nella chiesa di Santa Trinita, e ivi feciono consiglio e congiura di mandare ambasciadori a corte a papa Bonifazio, acciò che commovesse alcuno signore della casa di Francia, che gli rimettesse in istato, e abattesse il popolo e parte bianca, e in ciò spendere ciò che potessono fare; e così misono a seguizione; onde sappiendosi per la città per alcuna spirazione, il Comune e 'l popolo si turbò forte, e fune fatta inquisizione per la signoria, onde messer Corso Donati che n'era capo fu condannato nell'avere e persona, e gli altri caporali che furono a·cciò in più di XXm libbre, e pagarle. E ciò fatto, furono mandati a' confini Sinibaldo fratello di messer Corso, e de' suoi, e messer Rosso, e messer Rossellino della Tosa, e degli altri loro consorti; e messer Giachinotto e messer Pazzino de' Pazzi e di loro giovani, e messer Geri Spini e de' suoi al castello della Pieve. E per levare ogni sospetto il popolo mandò i caporali dell'altra parte a' confini a Serrezzano: ciò fu messer Gentile, e messer Torrigiano, e Carbone de' Cerchi, e di loro consorti, Baschiera de la Tosa e de' suoi, Baldinaccio degli Adimari e de' suoi, Naldo de' Gherardini e de' suoi, Guido Cavalcanti e de' suoi, e Giovanni Giacotti Malespini. Ma questa parte vi stette meno a' confini, che furono revocati per lo 'nfermo luogo, e tornonne malato Guido Cavalcanti, onde morìo, e di lui fue grande dammaggio, perciò ch'era come filosafo, virtudioso uomo in più cose, se non ch'era troppo tenero e stizzoso. In questo modo si guidava la nostra città fortuneggiando.
<B>XLIII</B>
<I>Come papa Bonifazio mandò in Francia per messer Carlo di Valos.</I>
Tornato a corte di papa il legato frate Matteo d'Acquasparta, e informato papa Bonifazio del male stato e dubitoso della città di Firenze, e poi per le novità seguite dopo la partita del legato, come detto avemo, e per infestagione e spendio de' capitani di parte guelfa e de' detti confinati, ch'erano al castello della Pieve presso a la corte, e di messer Geri Spini (ch'egli e la sua compagnia erano mercatanti di papa Bonifazio, e del tutto guidatori) co·lloro procaccio e studio, e di messer Corso Donati che seguiva la corte, sì prese per consiglio il detto papa Bonifazio di mandare per messer Carlo di Valos fratello del re di Francia, per doppio intendimento; principalmente per aiuto del re Carlo per la guerra di Cicilia, dando intendimento al re di Francia e al detto messer Carlo di farlo eleggere imperadore de' Romani, e di confermarlo, o almeno per autorità papale e di santa Chiesa di farlo luogotenente d'imperio per la Chiesa, per la ragione ch'ha la Chiesa vacante imperio; e oltre a questo gli diè titolo di paciario in Toscana, per recare co la sua forza la città di Firenze al suo intendimento. E mandato in Francia per lo detto messer Carlo suo legato, il detto messer Carlo con volontà del re suo fratello venne, come innanzi faremo menzione, colla speranza d'essere imperadore per le promesse del papa, come detto avemo.
<B>XLIV</B>
<I>Come i Guelfi furono cacciati d'Agobbio, e poi come ricoveraro la terra, e cacciarne i Ghibellini.</I>
Nel detto anno, del mese di maggio, la parte ghibellina d'Agobbio colla forza degli Aretini e de' Ghibellini de la Marca, per tradimento ordinato ne la terra, cacciarono i Guelfi d'Agobbio e uccisonne assai; ma poi, a dì XXIIII di giugno vegnente, i Guelfi usciti d'Agobbio colla forza de' Perugini entrarono in Agobbio, e ricoverarono loro stato, e cacciarne i Ghibellini con grande danno e uccisione di loro.
<B>XLV</B>
<I>Come la parte nera furono cacciati di Pistoia.</I>
Negli anni di Cristo MCCCI, del mese di maggio, la parte bianca di Pistoia coll'aiuto e favore de' Bianchi che governavano la città di Firenze ne cacciarono la parte nera, e disfeciono le loro case, palazzi, e possessioni, intra l'altre una forte e ricca possessione de' palazzi e torri ch'erano de' Cancellieri neri, che si chiamava Dammiata.
<B>XLVI</B>
<I>Come gl'Interminelli e' loro seguaci furono cacciati di Lucca.</I>
Nel detto anno, e in quello tempo, essendo la città di Lucca molto insollita per la mutazione di Pistoia, e per le parti bianca e nera, la casa degl'Interminelli di Lucca co·lloro seguaci Mordicastelli, e que' del Fondo, e altri di loro setta, i quali teneano parte bianca, e s'accostavano co' Ghibellini e' Pisani, credendo fare così in Lucca come i Cancellieri bianchi in Pistoia, sì uccisono messer Obizzo degli Obizzi giudice. Per la qual cosa la città di Lucca corse ad arme, e trovandosi la parte nera e' Guelfi di Lucca più possenti, sì ne cacciarono di Lucca combattendo gl'Interminelli e' loro seguaci, e disfeciono le loro possessioni, e misono fuoco nella contrada che si chiamava il fondo di porta San Cervagio, e arsonvi più di C case. E così si venne spandendo la maladetta parte per Toscana.
<B>XLVII</B>
<I>Come i Guelfi usciti di Genova per pace furono rimessi in Genova.</I>
Nel detto anno i Genovesi feciono pace co' Grimaldi e gli altri loro usciti guelfi e col re Carlo, e rimisorgli in Genova, e riebbono il castello di Monaco che 'l teneano gli usciti, e colla forza del re Carlo faceano grande guerra a' Genovesi. Nel detto anno fu guerra e battaglia tra i Veronesi e 'l vescovo di Trento, onde i Veronesi ebbono il peggiore e furono sconfitti. E nel detto anno poco appresso morì messer Alberto de la Scala capitano e signore di Verona, e grande tiranno in Lombardia, e appresso di lui rimasono signori messer Cane e gli altri figliuoli del detto messer Alberto, tutto fossono assai di piccola etade; ma innanzi che morisse fece cavalieri VII tra' suoi figliuoli e nipoti, ch'avea il maggiore meno di XII anni.
<B>XLVIII</B>
<I>Come aparve in cielo una stella commata.</I>
Nel detto anno, del mese di settembre, apparve in cielo una stella commata con grandi raggi di fummo dietro, apparendo la sera di verso il ponente, e durò infino al gennaio, de la quale i savi astrolagi dissono grandi significazioni di futuri pericoli e danni a la provincia d'Italia, e a la città di Firenze, e massimamente perché la pianeta di Saturno e quella di Marti in quello anno s'erano congiunte due volte insieme nel mese di gennaio e di maggio nel segno del Leone, e la luna scurata del detto mese di gennaio similemente nel segno del Leone, il quale s'atribuisce a la provincia d'Italia. E bene asseguì la significazione, come innanzi leggendo potrete comprendere; ma singularmente si disse che la detta commeta significò l'avento di messer Carlo di Valos, per la cui venuta molte rivolture ebbe la provincia d'Italia e la nostra città di Firenze.
<B>XLIX</B>
<I>Come messer Carlo di Valos di Francia venne a papa Bonifazio, e poi venne in Firenze e caccionne la parte bianca.</I>
Nel detto anno MCCCI, del mese di settembre, giunse ne la città d'Anagna in Campagna, ov'era papa Bonifazio co la sua corte, messer Carlo conte di Valos e fratello del re di Francia con più conti e baroni, e da Vc cavalieri franceschi in sua compagnia, avendo fatta la via da Lucca ad Anagna sanza entrare in Firenze, perché n'era sospetto; il quale messer Carlo dal papa e da' suoi cardinali fu ricevuto onorevolemente; e venne ad Anagna lo re Carlo e' suoi figliuoli a parlamentare co·llui e a onorarlo; e 'l papa il fece conte di Romagna. E trattato e messo in assetto col papa e co·re Carlo il passaggio di Cicilia a la primavera vegnente, per la principale cagione perch'era mosso di Francia, il papa non dimenticato lo sdegno preso contro a la parte bianca di Firenze, non volle che soggiornasse e vernasse invano, e per infestamento de' Guelfi di Firenze, sì gli diede il titolo di paciaro in Toscana, e ordinò che tornasse a la città di Firenze. E così fece, colla sua gente, e con molti altri Fiorentini e Toscani e Romagnuoli, usciti e confinati di loro terra per parte guelfa e nera. E venuto a Siena e poi a Staggia, que' che governavano la città di Firenze, avendo sospetto di sua venuta, tennero più consigli di lasciarlo entrare nella città o no. E mandandogli ambasciadori, e egli con belle e amichevoli parole rispondendo come venia per loro bene e stato, e per mettergli in pace insieme; per la qual cosa quegli che reggeano la terra, tutto fossono a parte bianca, si vocavano e voleansi tenere Guelfi, presono partito di lasciarlo venire. E così il dì d'Ognesanti MCCCI entrò messer Carlo in Firenze, disarmata sua gente, faccendogli i Fiorentini grande onore, vegnendogli incontro a processione, e con molti armeggiatori con bandiere, e coverti i cavagli di zendadi. E lui riposato e soggiornato in Firenze alquanti dì, sì richiese il Comune di volere la signoria e guardia de la cittade, e balìa di potere pacificare i Guelfi insieme. E ciò fu asentito per lo Comune, e a dì V di novembre nella chiesa di Santa Maria Novella, essendosi raunati podestà, e capitano, e' priori, e tutti i consiglieri, e il vescovo, e tutta la buona gente di Firenze, e della sua domanda fatta proposta e diliberata, e rimessa in lui la signoria e la guardia della città. E messer Carlo dopo la sposizione del suo aguzzetta di sua bocca accettò e giurò, e come figliuolo di re promise di conservare la città in pacifico e buono stato; e io scrittore a queste cose fui presente. Incontanente per lui e per sua gente fu fatto il contradio, che per consiglio di messer Musciatto Franzesi, il quale infino di Francia era venuto per suo pedoto, sì come era ordinato per gli Guelfi neri, fece armare sua gente, e innanzi che messer Carlo fosse tornato a casa, ch'albergava in casa i Frescobaldi Oltrarno; onde per la detta novitade di vedere i cittadini la sua gente a cavallo armata, la città fu tutta in gelosia e sospetto, e a l'arme grandi e popolani, ciascuno a casa de' suoi amici secondo suo podere, abarrandosi la città in più parti. Ma a casa i priori pochi si raunarono, e quasi il popolo fue sanza capo, veggendosi traditi e ingannati i priori e coloro che reggeano il Comune. In questo romore messer Corso de' Donati, il qual era isbandito e rubello, com'era ordinato, il dì medesimo venne in Firenze da Peretola con alquanto séguito di certi suoi amici e masnadieri a piè, e sentendo la sua venuta i priori e' Cerchi suoi nemici, vegnendo a·lloro messer Schiatta de' Cancellieri, ch'era in Firenze capitano per lo Comune di CCC cavalieri soldati, e volea andare contro al detto messer Corso per prenderlo e per offenderlo, messer Vieri caporale de' Cerchi non aconsentì, dicendo: "Lasciatelo venire", confidandosi nella vana speranza del popolo, che 'l punisse. Per la qual cosa il detto messer Corso entrò ne' borghi della cittade, e trovando le porte de le cerchie vecchie serrate, e non potendo entrare, sì se ne venne a la postierla da Pinti, ch'era di costa a San Piero Maggiore tra le sue case e quelle degli Uccellini, e quella trovando serrata cominciòe a tagliare, e dentro per gli suoi amici fu fatto il somigliante, sì che sanza contasto fu messa in terra. E lui entrato dentro schierato in su la piazza di San Piero Maggiore, gli crebbe genti e séguito di suoi amici, gridando: "Viva messere Corso e 'l barone!", ciò era messer Corso, che così il nomavano; ed egli veggendosi crescere forza e séguito, la prima cosa che fece, andòe a le carcere del Comune, ch'erano nelle case de' Bastari nella ruga del palagio, e quelle per forza aperse e diliberò i pregioni; e ciò fatto, il simile fece al palazzo de la podestà, e poi a' priori, faccendogli per paura lasciare la signoria e tornarsi a·lloro case. E con tutto questo stracciamento di cittade, messer Carlo di Valos né sua gente non mise consiglio né riparo, né atenne saramento o cosa promessa per lui. Per la qual cosa i tiranni e malfattori e isbanditi ch'erano nella cittade, presa baldanza, e essendo la città sciolta e sanza signoria, cominciarono a rubare i fondachi e botteghe, e le case a chi era di parte bianca, o chi avea poco podere, con molti micidii, e fedite faccendo ne le persone di più buoni uomini di parte bianca. E durò questa pestilenzia in città per V dì continui con grande ruina della terra. E poi seguì in contado, andando le gualdane rubando e ardendo le case per più di VIII dì, onde in grande numero di belle e ricche possessioni furono guaste e arse. E cessata la detta ruina e incendio, messer Carlo col suo consiglio riformarono la terra e la signoria del priorato di popolani di parte nera. E in quello medesimo mese di novembre venne in Firenze il sopradetto legato del papa, messer Matteo d'Acquasparta cardinale, per pacificare i cittadini insieme, e fece fare la pace tra que' della casa de' Cerchi e gli Adimari e' loro seguaci di parte bianca co' Donati e' Pazzi e' loro seguaci di parte nera, ordinando matrimoni tra·lloro; e volendo raccomunare gli ufici, quegli di parte nera co la forza di messer Carlo non lasciarono, onde il legato turbato si tornò a corte, e lasciòe interdetta la cittade. E la detta pace poco durò, che avenne il dì di pasqua di Natale presente, andando messer Niccola de' Cerchi bianchi al suo podere e molina con suoi compagni a cavallo, passando per la piazza di Santa Croce, che vi si facea il predicare, Simone di messer Corso Donati, nipote per madre del detto messer Niccola, sospinto e confortato di mal fare, con suoi compagni e masnadieri seguì a cavallo il detto messer Niccola, e giugnendolo al ponte ad Africo l'assalì combattendo; per la qual cosa il detto messer Niccola sanza colpa o cagione, né guardandosi di Simone, dal detto suo nipote fu morto e atterrato da cavallo. Ma come piacque a·dDio, la pena fu apparecchiata a la colpa, che fedito il detto Simone dal detto messer Niccola per lo fianco, la notte presente morìo; onde tutto fosse giusto giudicio, fu tenuto grande danno, che 'l detto Simone era il più compiuto e virtudioso donzello di Firenze, e da venire in maggiore pregio e stato, ed era tutta la speranza del suo padre messer Corso, il quale della sua allegra tornata e vittoria ebbe in brieve tempo doloroso principio di suo futuro abbassamento. In questo tempo poco appresso, non possendo la città di Firenze posare, essendo pregna dentro del veleno della setta de' Bianchi e Neri, convenne che partorisse doloroso fine; onde avenne che·ll'aprile vegnente con ordine e con trattato fatto per gli Neri uno barone di messer Carlo, ch'avea nome messer Piero Ferrante di Linguadoco, cercò cospirazione co' detti della casa de' Cerchi, e con Baldinaccio degli Adimari, e Baschiera de' Tosinghi, e Naldo Gherardini, e altri loro seguaci di parte bianca, di volergli con suo séguito e di sua gente rimettere in istato, e tradire messer Carlo, con grandi impromesse di pecunia; onde lettere e co·lloro suggelli furono fatte, overo falsificate, le quali per lo detto messer Piero Ferrante, com'era ordinato, furono portate a messer Carlo. Per la qual cosa i detti caporali di parte bianca, ciò furono tutti quegli della casa de' Cerchi bianchi da porte San Piero, Baldinaccio e Corso degli Adimari, con quasi tutto il lato de' Bellincioni, Naldo de' Gherardini col suo lato della casa, Baschiera de' Tosinghi col suo lato de la detta casa, alquanti di casa i Cavalcanti, Giovanni Giacotto Malispini e' suoi consorti, questi furono i caporali che furono citati, e non comparendo, o per tema del malificio commesso, o per tema di non perdere le persone sotto il detto inganno, si partiro de la città, acompagnati da' loro aversari; e chi n'andò a Pisa, e chi ad Arezzo e Pistoia, accompagnandosi co' Ghibellini e nimici de' Fiorentini. Per la qual cosa furono condannati per messer Carlo come ribelli, e disfatti i loro palazzi e beni in città e in contado, e così di molti loro seguaci grandi e popolani. E per questo modo fue abattuta e cacciata di Firenze la 'ngrata e superba parte de' Bianchi, con séguito di molti Ghibellini di Firenze, per messer Carlo di Valos di Francia per la commessione di papa Bonifazio, a dì IIII d'aprile MCCCII, onde a la nostra città di Firenze seguirono molte rovine e pericoli, come innanzi per gli tempi potremo leggendo comprendere.
L
Come messer Carlo di Valos passò in Cicilia per fare guerra per lo re Carlo, e fece ontosa pace.
Nel detto anno MCCCII, del mese d'aprile, messer Carlo di Valos fornito in Firenze quello perché era venuto, cioè sotto trattato di pace cacciata la parte bianca di Firenze, si partì, e andonne a corte, e poi a Napoli; e là trovato lo stuolo e apparecchiamento fatto per lo re Carlo di più di cento tra galee e uscieri e legni grossi, sanza i sottili, per passare in Cicilia, sì si ricolse in mare, e in sua compagnia Ruberto duca di Calavra figliuolo del re Carlo con più di MD cavalieri. E apportato in Cicilia al porto di..., scese in terra per guerreggiare l'isola, ma don Federigo di Raona signore di Cicilia, non possendo resistere né comparire a la forza di messer Carlo in mare né in terra, con suoi Catalani si mise a fare guerra guerriata a messer Carlo, andandoli fuggendo innanzi di luogo in luogo, e talora di dietro a impedirgli la vittuaglia, per modo che in poco tempo sanza acquistare terra neuna di rinomo, se non Termole, messer Carlo e sua gente furono per malatia di loro e de' cavagli, per difalta di vittuaglia, quasi straccati. Per la qual cosa per necessitade convenne che si partisse con suo poco onore. E veggendo che altro non potea, messer Carlo sanza saputa del re Carlo ordinò una dissimulata pace con don Federigo, cioè ch'egli prendesse per moglie la figliuola del re Carlo detta Alienora, e che, quando la Chiesa e 'l re Carlo gli atassono acquistare altro reame, ch'egli lascerebbe a queto al re Carlo l'isola di Cicilia; e se non, sì·lla dovesse tenere per dote della moglie tutta sua vita, e appresso la sua morte i suoi figliuoli lasciare l'isola al re Carlo e a sue rede, dando loro Cm once d'oro. La qual cosa fatta, e promessa e giurata per le parti, e tornato messer Carlo coll'armata a Napoli, e mandatagli la figliuola del re Carlo, sì la sposò; ma poi di promessa fatta nulla s'aseguìo: e così per contradio si disse per motto: "Messer Carlo venne in Toscana per paciaro, e lasciòe il paese in guerra; e andòe in Cicilia per fare guerra, e reconne vergognosa pace". Il quale il novembre vegnente si tornò in Francia, scemata e consumata sua gente e con poco onore.
LI
Come si cominciò la compagna di Romania.
Nel detto anno MCCCII, partito messer Carlo di Cicilia e rimasa l'isola in pace, una grande gente di soldati catalani, genovesi, e altri italiani istati in Cicilia a la detta guerra per l'una parte e per l'altra, si partirono di Cicilia con XX galee e altri legni, onde feciono loro capitano uno frate Ruggieri dell'ordine de' Tempieri, uomo dissoluto, e di sangue, e crudele, e passarono in Romania per conquistare terra, e puosonsi nel reame di Salome e quello distrussono, e guastarono la Grecia infino in Gostantinopoli, e crescendo il loro podere d'ogni colletta di gente latina, fuggitivi, dissoluti, e paterini, e d'ogni setta scacciati, vivendo illibitamente fuori d'ogni legge, si chiamaro la Compagna, stando e vivendo in corso e in guerra a la roba d'ogni uomo; e ciò ch'aquistavano era comune, distruggendo e rubando ciò che trovavano, sanza ritenere città, o castella, o casale che prendessono, ma quelle rubate ardendo e guastando. E così durò la detta dissoluta compagna più di XII anni, uccidendo più loro signori, e rimutandoli in poco tempo chi più avea séguito o podere. A la fine tornaro sopra le terre del dispoto, cioè il reame di Macedonia, e quelle distrussono; e poi ne vennero nel ducato d'Atena, e rubellarsi dal conte di Brenna ch'era duca d'Atena, e loro capitano e signore, e per quistioni da·llui a·lloro si combatterono insieme, e sconfissono il detto duca loro signore, e a·llui tagliarono la testa, e presono le terre sue, e di quelle della Morea; e quegli signoraggi tra·lloro si partirono; e disabitarono e distrussono gli antichi fii de' Franceschi, che que' signoraggi teneano, e le loro donne e figliuole che a·lloro piacquero ritennero e le presono per mogli, e rimasono abitanti e paesani della terra. E così le delizie de' Latini, acquistate anticamente per gli Franceschi, i quali erano i più morbidi e meglio stanti che in nullo paese del mondo, per così dissoluta gente furono distrutte e guaste. Lasceremo de' fatti di Romania e di Cicilia, e torneremo a le novità che sursono in Firenze e in Toscana per la cacciata de' Bianchi di Firenze.
LII
Come i Fiorentini e' Lucchesi feciono oste sopra la città di Pistoia, e come ebbono per assedio il castello di Serravalle.
Nel detto anno MCCCII, del mese di maggio, essendo la città di Pistoia ribellata a' Fiorentini e a' Lucchesi per la cacciata de' Bianchi di Firenze e degl'Interminelli di Lucca, e parte di loro detti usciti ridotti in Pistoia per fare guerra, il Comune di Firenze e quello di Lucca di concordia feciono oste a la città di Pistoia, e furonvi di Firenze tra cavallate e soldati M cavalieri e VIm pedoni, e di Lucca più di VIc cavalieri e bene Xm pedoni; e la città di Pistoia guastarono intorno intorno, istandovi ad assedio per XXIII dì. Dentro a Pistoia era messer Tosolato degli Uberti loro capitano di guerra con IIIc cavalieri, e guardò e difese bene la cittade. A la fine veggendo i Lucchesi che la stanza di Pistoia era speranza vana di potere per forza o per assedio avere la città, s'accordaro di ritrarsi adietro co·lloro oste, e di porsi all'assedio del castello di Serravalle, ch'era de' Pistolesi ed era molto forte; e così fu fatto. E al detto assedio rimasono le due sestora delle cavallate di Firenze, rimutandosi a tempo a tempo con parte di loro soldati e gente a piè assai, tenendo i Fiorentini il loro campo di verso Pistoia. E quello castello combattuto, e con più difici grossi che gittavano dentro macerato, ma per tutto ciò non s'arendea, però che dentro v'avea più di IIIIc de' maggiori e de' migliori cittadini di Pistoia, i quali difendeano il castello, e al continuo assalivano il campo vigorosamente, a la fine per mala provisione di vittuaglia a tanta gente, quanta avea dentro tra Pistolesi e terrazzani e forestieri, ch'era più di MCC uomini, sanza le femmine e' fanciulli, fallì loro; per la qual cosa per necessità di vivanda s'arrenderono pregioni al Comune di Lucca a dì VI di settembre del detto anno; onde più di CCC Pistolesi n'andarono legati pregioni a la città di Lucca, e gli altri terrazzani rimasono fedeli de' Lucchesi, i quali Lucchesi vi feciono una nuova e forte rocca da la parte loro di Valdinievole, e uno grosso muro da la rocca vecchia di qua ov'è la pieve a la Nuova, per tenere meglio il detto castello a·lloro ubbidienza, recandogli a loro contado.
LIII
Come i Fiorentini ebbono il castello di Piano di Trevigne e più altre castella ch'aveano rubellate i Bianchi.
Nella stanza del detto assedio di Pistoia si rubellò a' Fiorentini il castello di Piano di Trevigne in Valdarno per Carlino de' Pazzi di Valdarno, e in quello col detto Carlino si rinchiusono de' migliori nuovi usciti Ghibellini e Bianchi di Firenze, grandi e popolani, e faceano grande guerra nel Valdarno; per la qual cosa fu cagione di levarsi l'oste da Pistoia, lasciando i Fiorentini il terzo della loro gente all'assedio di Serravalle in servigio de' Lucchesi, come detto avemo, e tutta l'altra oste tornata in Firenze, sanza soggiorno n'andarono del mese di giugno in Valdarno e al detto castello di Piano, e a quello istettono, e assediarono per XXVIIII dì. A la fine per tradimento del sopradetto Carlino e per moneta che n'ebbe i Fiorentini ebbono il castello. Essendo il detto Carlino di fuori, fece a' suoi fedeli dare l'entrata del castello, onde molti vi furono morti e presi, pure de' migliori usciti di Firenze. E ciò fatto, tornati a Firenze con questa vittoria, sanza soggiorno andarono popolo e cavalieri di Firenze in Mugello sopra i signori Ubaldini, i quali co' Bianchi e co' Ghibellini s'erano rubellati al Comune di Firenze, e guastarono i loro beni di qua da l'alpe e di là. E tornati in Firenze, la state medesima cavalcarono in Valdigrieve sopra il castello di Monte Agliari e di Monte Aguto, i quali aveano rubellati que' della casa de' Gherardini, ch'erano di parte bianca, e quelle due castella s'arrenderono a patti, salve le persone, al Comune di Firenze, le quali il Comune di Firenze fece disfare. E nel detto anno i Fiorentini ebbono gran vittoria in ogni loro oste e cavalcata che feciono, bene aventurosamente perseguitando in ogni parte gli usciti bianchi e' ghibellini con loro distruzzione.
<B>LIV</B>
<I>Come l'isola d'Ischia gittò maraviglioso fuoco.</I>
Nel detto anno MCCCII l'isola d'Ischia, la quale è presso a Napoli, gittò grandissimo fuoco per la sua solfaneria, per modo che gran parte dell'isola consumò, e guastò infino al girone d'Ischia; e molte genti, e bestiame, e la terra medesima per quella pestilenzia morirono e si guastarono. E molti per iscampare fuggirono a l'isola di Procita e a quella di Capri, e a terra ferma a Napoli, e a Baia, e a Pozzuolo, e in quelle contrade; e durò la detta pestilenzia più di due mesi. Lasceremo alquanto de' nostri fatti di Firenze e di que' d'Italia, e faremo incidenza e disgressione per raccontare grandi e maravigliose novitadi che a questo tempo avennero ne·reame di Francia, cioè nelle parti di Fiandra, le quali sono bene da notare e da farne ordinata memoria nel nostro trattato.
<B>LV</B>
<I>Come il popolo minuto di Bruggia si rubellò dal re di Francia, e uccisono i Franceschi.</I>
Come noi lasciammo adietro nel capitolo, che 'l re di Francia ebbe al tutto la signoria di Fiandra, e in sua pregione il conte e due suoi figliuoli l'anno MCCLXXXXVIIII, e lasciato guernito di sua gente e di suoi balii il paese, e che gli artefici minuti di Bruggia, come sono tesserandoli e foloni di drappi, e beccari, e calzolai, e altri, fossono uditi a ragione per la loro petizione data a lo re, e adirizzati di loro pagamenti per gli loro lavorii, e dell'assise de la terra, le quali erano loro incomportabili; la detta gente de la Comune non fu udita né adirizzati; ma i balii del re a preghiera de' grandi borgesi e per loro moneta i caporali de' detti artefici e popolo minuto, i quali erano i principali Piero le Roi tesserandolo e Giambrida beccaio, con più di XXX de' maggiori di loro mestieri e arti misono in pregione in Bruggia. E nota che 'l detto Piero le Roi fu il capo e commovitore de la Comune, e per sua franchezza fu sopranominato Piero le Roi, e in fiammingo Connicheroi, cioè Piero lo re. Questo Piero era tessitore di panni povero uomo, e era piccolo di persona e sparuto, e cieco dell'uno occhio, e d'età di più di LX anni; lingua francesca né latina non sapea, ma in sua lingua fiamminga parlava meglio, e più ardito e stagliato che nullo di Fiandra e per lo suo parlare commosse tutto il paese a le grandi cose che poi seguiro, e però è bene ragione di fare di lui memoria. E per la presa di lui e de' suoi compagni il popolo minuto di Bruggia corsono la terra e combatterono il borgo, cioè il castello ove stanno gli schiavini e' rettori della terra, e uccisono de' borgesi, e per forza trassono di pregione i loro caporali. E ciò fatto, di questa querela si fece triegua e appello a Parigi dinanzi al re, e durò bene uno anno la quistione; e a la fine per moneta spesa per gli grandi borgesi di Fiandra intorno a la corte del re il popolo minuto ebbono la sentenzia incontro; onde venuta la novella a Bruggia, que' de la Comuna si levarono da capo a romore e ad arme; ma per paura delle masnade e de' grandi borgesi si partirono di Bruggia, e andarne a la terra del Damo ivi presso a III miglia, e quella corsono, e uccisono il balio e' sergenti che v'erano per lo re, e rubarono i grandi borgesi de la terra, e uccisorne; e ciò fatto, come genti disperati e in furia, vennero a la terra d'Andiborgo e feciono il somigliante; e poi ne vennero al maniere del conte che si chiama Mala, presso a Bruggia a tre miglia, che v'era dentro il balio di Bruggia e da LX sergenti del re, e quella fortezza per forza presono, e sanza misericordia o redenzione quanti Franceschi dentro avea misero a morte. I grandi borgesi di Bruggia veggendo così adoperare e crescere la forza al minuto popolo, temettono di loro e de la terra; incontanente mandarono in Francia per soccorso; per la qual cosa lo re incontanente vi mandò messer Giacomo di San Polo sovrano balio di tutta Fiandra, con MD cavalieri franceschi, e con sergenti assai; e giunti a Bruggia, presono e fornirono i palagi de l'Alle del Comune e tutte le fortezze de la terra con guernigione di loro genti d'arme, istando la terra di Bruggia in grande sospetto e guardia. E crescendo la forza e l'ardire al minuto popolo, come piacque a·dDio, per pulire il peccato de la superbia e avarizia de' grandi borgesi e abattere l'orgoglio de' Franceschi, quegli artefici e popolo minuto ch'erano rimasi in Bruggia feciono tra·lloro giura e cospirazione di disperarsi per uccidere i Franceschi e' grandi borgesi, e mandarono per gli loro isfuggiti a la terra del Damo e quella d'Andiborgo, ond'erano loro capi e maestri Piero le Roi e Giambrida, che venissono a Bruggia, li quali cresciuti in baldanza per la vittoria e uccisione per loro cominciata contro a' Franceschi, a bandiere levate, e le femmine come gli uomini, vennero in Bruggia la notte di... com'era ordinato; e poteallo fare, però che lo re avea fatti abattere i fossi e porte di Bruggia. E giunti nella terra, dandosi nome con que d'entro, e gridando in loro linguaggio fiamingo, che da' Franceschi nonn-erano intesi; "Viva la Comune, e a la morte de' Franceschi!", abarraro le rughe de la terra. Per la qual cosa si cominciò la dolorosa pestilenzia e morte de' Franceschi, per modo che qualunque Fiammingo avea in sua casa nullo Francesco, o l'uccidea, o 'l menava preso a la piazza dell'Alla, ove la Comune era raunata e armata, e là giugnendo i presi, come tonnina in pezzi erano tagliati e morti. Sentendo i Franceschi levato il romore, e armandosi per raunarsi insieme, si trovavano da' loro osti tolti i freni, e le selle de' cavalli nascose. E più ne faceano le femmine che gli uomini; e chi era montato a cavallo trovava le rughe abarrate, e gittati loro i sassi da le finestre, e morti per le vie. E così durò tutto il giorno la detta persecuzione, ove morirono, che con ferri, e che di sassi, e d'esser gittati gli uomini dalle finestre delle torri e palazzi dell'Alle, ov'erano in fortezze più di MCC Franceschi a cavallo e più di MM sergenti a piede, onde tutte le rughe e piazze di Bruggia erano piene di corpi morti, e di sangue e carogna de' Franceschi, che più di tre dì gli penarono a sotterrare, portandogli in carra fuori della terra, e gittandogli in fosse a' campi; e de' grandi borgesi assai vi furono morti, e tutte loro case rubate. Messer Giache di San Polo con pochi fuggendo scampò, perch'abitava presso all'uscita della terra; e questa pestilenzia fu uno... del mese di..., gli anni di Cristo MCCCI.
<B>LVI</B>
<I>De la grande e disaventurosa sconfitta che' Franceschi ebbono a Coltrai da' Fiaminghi.</I>
Dopo la detta rubellazione di Bruggia e morte de' Franceschi i maestri e' capitani della Comune di Bruggia, parendo loro avere fatte e cominciate grandi imprese, e grande misfatto contro a·re di Francia e sua gente, e considerando di non potere per loro medesimi sostenere sì gran fascio, essendo sanza il loro signore e sanza altro aiuto, sì mandarono in Brabante per lo giovane Guiglielmo di Giulieri, fratello dell'altro messer Guiglielmo di Giulieri che morì per la sconfitta di Fornes ad Arazzo in pregione del conte d'Artese, come adietro facemmo menzione. Questo Guiglielmo era nato per madre della figliuola del vecchio conte Guido di Fiandra, e figliuolo del conte di Giulieri di Valdireno, ed era gran cherico. Sì tosto come fu richesto da que' di Bruggia, per vendicare il suo fratello da' Franceschi, lasciò la chericia e venne in Fiandra, e da que' di Bruggia fu ricevuto a grande onore, e fatto loro signore. Incontanente fece gridare oste sopra la villa e terra di Guanto, che si tenea per lo re; ma la terra era forte de le più del mondo per sito e per mura, fossi, e riviere, e paduli, sicché il loro assalto fue invano; onde si partirono e andarono a le terre del Franco di Bruggia de le marine di Fiandra, e quelle quasi tutte con poca fatica recaro in loro signoria, come fu le Schiuse, Nuovoporto, Berghe, e Fornes, e Gravalingua, e più altre ville; onde gran popolo crebbe a que' di Bruggia. E ciò sentendo il giovane Guido figliuolo del conte di Fiandra della seconda donna, nato della contessa di Namurro, venne in Fiandra, e accozzossi con Guiglielmo di Giulieri suo nipote, e furono insieme fatti signori e guidatori del popolo di Fiandra ribello del re di Francia; e tornando da le terre delle marine, ebbono a patti Guidendalla, il ricco maniere del conte, ove avea più di Vc Franceschi. E ciò fatto, venne messer Guido a oste sopra Coltrai con XVm di Fiaminghi a piè, e ebbe la terra, salvo il castello del re, ch'era molto forte e guernito de' Franceschi a cavallo e a piè. Guiglielmo di Giulieri andòe all'assedio al castello di Cassella con parte dell'oste, e in questa istanza quegli della terra d'Ipro e di Camua di loro volontà s'arendero a messer Guido di Fiandra, onde crebbe gran podere a' Fiaminghi, e ingrossossi l'oste a Coltrai. Quegli del castello che v'erano per lo re, si difendeano francamente, e co·lloro ingegni e difici disfeciono e arsono gran parte della terra di Coltrai; ma per lo improviso assedio de' Fiamminghi non erano guerniti di vittuaglia quanto bisognava loro; e però mandarono in Francia al re per soccorso tostano, onde il re sanza indugio vi mandò il buono conte d'Artese suo zio e de la casa di Francia, con più di VIIm cavalieri gentili uomini, conti, e duchi, e castellani, e banderesi, onde de' caporali fareno menzione, e con XLm sergenti a piè, de' quali erano più di Xm balestrieri. E giunti sopra il colle il quale è di contro a Coltrai, verso la via che va a Tornai, in su quello s'acamparono, presso del castello a mezzo miglio. E per fornire le spese della cominciata guerra di Fiandra lo re di Francia, per male consiglio di messer Biccio e Musciatto Franzesi nostri contadini, sì fece peggiorare e falsificare la sua moneta, onde traeva grande entrata, però che ella venne peggiorando di tempo in tempo, sì che la recò a la valuta del terzo, onde molto ne fu abominato e maldetto per tutti i Cristiani; e molti mercatanti e prestatori di nostro paese ch'erano co·lloro moneta in Francia ne rimasono diserti. Il buono e valente giovane messer Guido di Fiandra, veggendo l'esercito de' Franceschi a cavallo e a piè che gli erano venuti adosso, e conoscendo ch'egli non potea schifare la battaglia, o abandonare la terra di Coltrai e l'assedio del castello, e lasciandolo e tornando a Bruggia col suo popolo era morto e confuso, sì mando per messer Guiglielmo di Giulieri ch'era all'assedio di Cassella che lasciasse l'assedio, e colla sua oste venisse a·llui, e così fu fatto; e trovarsi insieme con XXm uomini a piè, che nullo v'avea cavallo per cavalcare se non i signori. E diliberato al nome di Dio e di messer san Giorgio di prendere la battaglia, uscirono della terra di Coltrai, e levarono il loro campo, ch'era di là dal fiume de la Liscia, e passarono in su uno rispianato poco di fuori della terra, per lo cammino che va a Guanto, e quivi si schieraro incontro a' Franceschi; ma segacemente presono vantaggio, che a traverso di quella pianura corre uno fosso che raccoglie l'acque della contrada e mette nella Liscia, il quale è largo il più V braccia e profondo III, e sanza rilevato che si paia di lungi, che prima v'è altri su, che quasi s'acorga che v'abbia fossato. In su quello fosso dal loro lato si schieraro a modo d'una luna come andava il fosso, e nullo rimase a cavallo, ma ciascuno a piè, così i signori e' cavalieri come la comune gente, per difendersi da la percossa delle schiere de' cavalli de' Franceschi, e ordinarsi uno con lancia (che l'usano ferrate, tegnendole a guisa che si tiene lo spiedo a la caccia del porco salvatico), e uno con uno grande bastone noderuto come manica di spiedo, e dal capo grosso ferrato e puntaguto, legato con anello di ferro da ferire e da forare; e questa salvaggia e grossa armadura chiamano godendac, cioè in nostra lingua buono giorno. E così aringati uno ad uno, che altre poche armadure aveano da offendere o da difendere, come genti povere e non usi in guerra, come disperati di salute, considerando il grande podere de' loro nimici, si vollono innanzi conducere a morire al campo, che fuggire e essere presi e per diversi tormenti giudicati: feciono venire per tutto il campo uno prete parato col corpo di Cristo, sì che ciascuno il vide, e in luogo di comunicarsi, ciascuno prese uno poco di terra e si mise in bocca. Messer Guido di Fiandra e messer Guiglielmo di Giulleri andavano dinanzi a le schiere confortandogli e amonendo di ben fare, ricordando loro l'orgoglio e superbia de' Franceschi, e 'l torto che faceano a' loro signori e a·lloro, e a quello che verrebbono per le cose fatte per loro, se' Franceschi fossono vincitori; e mostrando loro ch'essi combatteano per giusta causa, e per iscampare loro vita e di loro figliuoli, e che francamente dovessero principalmente intendere pure amazzare e fedire i cavalli. E messer Guido di sua mano in su 'l campo fece cavaliere il valente Piero le Roi con più di XL de la Comune, promettendo, se vincessono, a ciascuno dare retaggio di cavaliere. Il conte d'Artese capitano e duca dell'oste de' Franceschi, veggendo i Fiamminghi usciti a campo, fece stendere il campo suo, e scese più al piano contro a' nemici, e ordinò i suoi in X schiere in questo modo: che de la prima fece guidatore messer Gianni di Barlas con MCCCC cavalieri soldati, Provenzali, Guasconi, Navarresi, Spagnuoli, e Lombardi, molto buona gente; de la seconda fece conduttore messere Rinaldo d'Itria valente cavaliere con Vc cavalieri; la terza schiera fu di VIIc cavalieri, onde fu capitano messer Rau di Niella, conestabile di Francia; la quarta battaglia fu di VIIIc cavalieri, la quale guidava messer Luis di Chiermonte della casa di Francia; la quinta, il conte d'Artese generale capitano con M cavalieri; la sesta, il conte di San Polo con VIIc cavalieri; la settima, il conte d'Albamala, e il conte di Du, e il ciamberlano di Francavilla con M cavalieri; l'ottava, messer Ferri figliuolo del duca de·Loreno, e il conte di Sassona con VIIIc cavalieri; la nona battaglia guidava messer Gottifredi fratello del duca di Brabante, e messer Gianni figliuolo del conte d'Analdo con Vc cavalieri brabanzoni e anoieri; la decima fu di CC cavalieri e di Xm balestrieri, la quale guidava messere Giache di san Polo con messer Simone di Piemonte e Bonifazio di Mantova, con più d'altri XXXm sergenti d'arme a piè, Lombardi, Franceschi, e Provenzali, e Navarresi, detti bidali, con giavellotti. Questa fu la più nobile oste di buona gente che mai facesse il detto re di Francia, dov'era il fiore de la baronia e baccelleria de' cavalieri de·reame di Francia, di Brabante, d'Analdo, e di Valdireno. Essendo aringate le battaglie dell'una parte e dell'altra per combattere, messer Gian di Burlas, e messer Simone di Piemonte, e Bonifazio, capitani di soldati e balestrieri forestieri, molto savi e costumati di guerra, furono al conastabole e dissono: "Sire, per Dio lasciamo vincere questa disperata gente e popolo di Fiaminghi sanza volere mettere a pericolo il fiore della cavalleria del mondo. Noi conosciamo i costumi de' Fiaminghi: e' sono usciti di Coltrai come disperati d'ogni salute, o per combattere o per fuggirsi, e sono acampati di fuori, e lasciato nella terra i loro poveri arnesi e vivanda. Voi starete schierati co la vostra cavalleria, e noi co' nostri soldati che sono usi di fare assalti e correrie, e co' nostri balestrieri, e cogli altri pedoni, che n'avemo due cotanti di loro, enterremo tra loro e la terra di Coltrai, e gli assaliremo da più parti, e terregli in badalucchi e scheremugi gran parte del dì. I Fiaminghi sono di grande pasto, e tutto dì sono usi di mangiare e di bere; tegnendoli noi in bistento e digiuni, gli straccheremo, e non potranno durare, perché non si potranno rinfrescare; si partiranno del campo a rotta da·lloro schiere, e come voi vedrete ciò, spronate loro adosso con vostra cavalleria, e avrete la vittoria sanza periglio di vostra gente". E di certo così veniva fatto, ma a cui Idio vuole male gli toglie il senno, e per le peccata commesse si mostra il giudicio di Dio; e intra gli altri peccati il conte d'Artese avea dispregiate le lettere di papa Bonifazio, e con tutte le bolle gittate nel fuoco. Udito questo consiglio il conastabole, sì gli piacque e parve buono, e venne co' detti conostaboli al conte d'Artese, e dissegli il consiglio, e come gli parea il migliore. Il conte d'Artese rispuose per rimproccio: "Pru diable, ce sont de guiglie di Lombars, e vos conostable aves ancore du pol del lu"; cioè volle dire ch'e' non fosse leale al re, perché la figliuola era moglie di messer Guiglielmo di Fiandra. Allora il conestabole irato per lo rimproccio udito, disse al conte: "Sire, se vos verres u gie irai vos ires bene avant". E come disperato, stimandosi d'andare a la morte, fece muovere sue bandiere, e brocciò a·ffedire francamente, non prendendosi guardia, né sappiendo del fosso a traverso dov'erano schierati i Fiamminghi, come adietro facemmo menzione. E giugnendo sopra il detto fosso, i Fiamminghi ch'erano dall'una parte e dall'altra cominciarono a fedire di loro bastoni detti godendac a le teste de' destrieri, e facevagli rivertire e ergere adietro. Il conte Artese e l'altre schiere e battaglie de' Franceschi, veggendo mosso a fedire il conastabole con sua gente, il seguiro l'uno appresso l'altro a sproni battuti, credendo per forza de' petti de' loro cavalli rompere e partire la schiera de' Fiamminghi; a·lloro avenne tutto per contrario, che per lo pingere e urtare, i cavagli dell'altre schiere per forza pinsono il conostabole, e il conte Artese, e sua schiera a traboccare nel detto fosso l'uno sopra l'altro; e 'l polverio era grande, che que' di dietro non poteano vedere, né per lo romore de' colpi e grida intendere i·loro fallo, né·lla dolorosa isventura di loro feditori; anzi credendo ben fare pignevano pure innanzi urtando i loro cavagli, per modo ch'eglino medesimi per l'ergere e cadere di loro cavagli l'uno sopra l'altro s'afollavano, e faceano affogare e morire gran parte, o i più, sanza colpo di ferri, o di lance, o di spade. I Fiamminghi ch'erano aserrati e forti in su la proda del fosso, veggendo traboccare i Franceschi e' loro cavagli, non intendeano ad altro che amazzare i cavalieri, e' loro cavagli isfondare e isbudellare, sicché in poco d'ora non solamente fu ripieno il fosso d'uomini e di cavagli, ma fatto gran monte di carogna di quegli. Ed era sì fatto giudicio, che' Franceschi non poteano dare colpo a' loro nemici, ma eglino medesimi afollavano, e uccideano l'uno l'altro per lo pignere che faceano, credendo per urtare rompere i Fiaminghi. Quando i Franceschi furono quasi tutte loro schiere radossati l'uno sopra l'altro, e confusi per modo che per loro medesimi convenia o che traboccassono co' loro cavagli, o fossono sì stretti e annodati a schiera che non si poteano reggere, né andare innanzi né tornare adietro, i Fiaminghi ch'erano freschi, e poco travagliati i capi de' corni de la loro schiera, onde dell'uno era capitano messer Guido di Fiandra, e dell'altro messer Guiglielmo di Giulieri, gli quali in quello giorno feciono maraviglie d'arme di loro mano, essendo a piè, passaro il fosso, e rinchiusono i Franceschi, per modo che uno vile villano era signore di segare la gola a' più gentili uomini. E per questo modo furono sconfitti e morti i Franceschi, che di tutta la sopradetta nobile cavalleria non iscampò se non messer Luis di Chiermonte, e il conte di San Polo, e quello di Bologna con pochi, perché si disse che non si strinsono al fedire; onde sempre portarono poi grande onta e rimproccio in Francia. Tutti gli altri duchi, conti, e baroni, e cavalieri furono morti in su il campo, e alquanti fuggendo per le fosse e maresi morti furono; in somma più di VIm cavalieri, e di pedoni a piè sanza numero, rimasono morti a la detta battaglia sanza menarne nullo a pregione. E questa dolorosa e sventurata sconfitta de' Franceschi fue il dì di santo Benedetto, a dì XI di luglio, gli anni di Cristo MCCCII; e non sanza grande giudicio divino, però che fu quasi uno impossibile avenimento. E bene ci cade la parola che Dio disse al popolo suo d'Israel, quando la potenzia e moltitudine di loro nimici venia loro adosso, i quali erano con piccola forza a·lloro comparazione, e temendo di combattere, disse: "Combattete francamente, ché la forza della battaglia nonn-è solo ne la moltitudine de le genti, anzi è in mia mano, però ch'io sono lo Idio Sabaoth, cioè lo Idio dell'oste". Di questa sconfitta abassò molto l'onore, e lo stato, e fama de l'antica nobilità e prodezza de' Franceschi, essendo il fiore della cavalleria del mondo isconfitta e abbassata da' loro fedeli, e la più vile gente che fosse al mondo, tesserandi, e folloni, e d'altre vili arti e mestieri, e non mai usi di guerra, che per dispetto e loro viltade da tutte le nazioni del mondo i Fiaminghi erano chiamati conigli pieni di burro; e per queste vittorie salirono in tanta fama e ardire, ch'uno Fiamingo a piè con uno godendac in mano avrebbe atteso due cavalieri franceschi.
<B>LVII</B>
<I>Di quale lignaggio furono i presenti conti e signori di Fiandra.</I>
Dapoi ch'avemo innarrato le grandi novità e battaglie cominciate tra 'l re di Francia e 'l conte di Fiandra e' suoi, e seguiranno appresso per gli tempi, ne pare convenevole di raccontare dell'esser e legnaggio de' detti conti, però che feciono grandi cose, e di loro furono valenti signori. Questi conti non sono per lignaggio mascolino dello stocco degli antichi conti di Fiandra, onde fue il buono primo imperadore Baldovino che conquistò Gostantinopoli, e 'l valente conte Ferrante, il quale si combatté collo imperadore Otto insieme col buono re Filippo il Bornio, come adietro facemmo menzione; e fu suo non solamente Fiandra, ma la contea d'Analdo, e Vermandois, e Tiracia infino presso a Compigno. E quegli primi conti portarono l'arme agheronata gialla e nera; ma questi d'oggi ne nacquero per femmina in questo modo. Quando morì il detto conte Ferrante, di lui non rimase figliuolo maschio, ma solo una piccola figlia femmina chiamata Margherita. Questa rimase a guardia e tuteria d'uno savio cherico, ch'avea nome messer Gian d'Avenes, figliuolo del signore di Don piero in Borgogna, overo Campagna, e per suo senno avea guidato il conte Ferrante e tutto il suo paese. Questi ritenne la signoria per la fanciulla; e quand'ella fue in età, si giacque co·llei, e ebbene uno figliuolo chiamato Gianni; e per coprire la vergogna di lui e della damigella lasciòe la chericia, e sposò la contessa Margherita a moglie, e poi n'ebbe uno figliuolo, e questi fue il presente valente e buono Guido conte di Fiandra; e poco apresso morìo messer Gian d'Avenes, e rimase la detta contessa Margherita co' detti due suoi figliuoli, e non riprese marito; e guidava molto saviamente sua terra e paese, e quando bisognò, andò in arme com'uno cavaliere, e fu molto savia e ridottata donna, e fece molte buone leggi e costume in Fiandra che ancora s'oservano. Avenne, quando Gianni e Guido suoi figliuoli furono cavalieri, ciascuno volea esser conte di Fiandra, onde piato ne nacque ne la corte del re di Francia, e convenne ne fosse sentenzia; e citata la contessa Margherita al giudicio innanzi al re, disse che Guido era degno d'essere conte di Fiandra, però ch'egli era nato di matrimonio, e Gianni no; onde crucciato Gianni, ch'era il maggiore, inanzi al re di Francia e suo consiglio in presenza della madre disse: "Dunque sono io figliuolo della più ricca puttana del mondo?". La contessa, come savia, si gabbò delle parole, e rispuose a Gianni: "Io non ti posso torre Analdo di tuo retaggio, ma io ti voglio torre che a la tua arme, ch'è il campo ad oro e leone nero, a·leone tu non facci mai unghioni né lingua, perché la tua è stata villana; e Guido voglio il porti tutto intero". E così fu giudicato e confermato per lo re di Francia e per gli dodici peri. Onde di messer Gianni sono discesi i conti d'Analdo, e di messer Guido conte di Fiandra messere Ruberto di Bettona, e messer Guiglielmo e messer Filippo della sua prima donna avogada di Bettona; e della seconda donna figliuola del conte di Luzzimborgo e contessa di Namurro, la quale contea fece comperare per gli figliuoli al conte di Fiandra, sì nacquero messer Gianni conte di Namurro, e il buono messer Guidone, e messer Arrigo di Fiandra; del quale Guidone la nostra storia ha parlato ne la detta sconfitta di Coltrai, e parlerà ancora in più parti di loro prodezze e valentie, e però ne paiono degni di loro nazione avere voluto fare memoria.
<B>LVIII</B>
<I>Come lo re di Francia rifece sua oste, e con tutto suo podere venne sopra i Fiaminghi; e tornossi in Francia con poco onore.</I>
Dopo la detta sconfitta di Coltrai incontanente s'arrendero a messer Guido di Fiandra quegli di Guanto, e que' di Lilla, e Doai, e Cassella, sì che non rimase terra né villa piccola né grande in Fiandra, che non tornasse a le comandamenta di messer Guido; e per la detta vittoria la Comuna d'ogni terra di Fiandra presono ardire e signoria, e cacciarne i loro grandi borgesi, perché amavano i Franceschi; e non tanto in Fiandra, simile avenne in Brabante, e in Analdo, e in tutte loro circustanzie, per lo favore della Comuna di Fiandra. Come in Francia fue la dolorosa novella della detta sconfitta, nonn-è da domandare se v'ebbe dolore e lamento, che non v'ebbe villa, castello, maniero, o signoraggio, che per gli cavalieri e scudieri che rimasono morti a Coltrai non v'avesse dame e damigelle vedove. Lo re di Francia, passato il dolore, fece come valente signore, che incontanente fece bandire oste generale per tutto il reame; e per fornire sua guerra sì fece falsificare le sue monete; e la buona moneta del tornese grosso, ch'era a XI once e mezzo di fine, tanto il fece peggiorare, che tornò quasi a metade, e simile la moneta prima; e così quelle dell'oro, che di XXIII e mezzo carati le recò a men di XX, faccendole correre per più assai che non valeano: onde il re avanzava ogni dì libbre VIm di parigini e più, ma guastò e disertò il paese, che la sua moneta non tornò a la valuta del terzo. E fornito lo re, e apparecchiata la sua grande e ricca oste, si mosse da Parigi, e del mese di settembre presente del detto anno MCCCII, fue ad Arazzo in Artese con più di Xm cavalieri, e con più di LXm pedoni; e in Italia mandò per messer Carlo di Valos suo fratello, che rimossa ogni cagione dovesse tornare in Francia; e così fece poco appresso. I Fiaminghi sentendo l'apparecchio e venuta del re di Francia, mandaro in Namurro per lo conte messer Gianni figliuolo del conte di Fiandra, e maggiore di messer Guido, il quale era molto savio e valente; e lui venuto, il feciono loro generale capitano dell'oste, e come gente calda, e baldanzosa della vittoria da Coltrai, s'apparecchiaro di tende, e padiglioni, e trabacche, con tutto che assai aveano di quelle de' Franceschi; e ciascuna terra e villa per sé si soprasegnaro di soprasberghe e d'arme, e ciascuno mestiere per sé, e raunarsi a Doai, e furono più di LXXXm uomini a piè bene armati e soprasegnati, e con tanto carreggio che portava il loro arnese, che copria tutto il paese, e in somma era a vedere la più bella e ricca oste di gente a piè, che mai fosse tra' Cristiani. Lo re di Francia colla sua grande e nobile oste uscì fuori d'Arazzo per entrare in Fiandra, e acampossi a una villa che si chiama Vetri, tra Doai e Arazzo, e era sì grande, che tenea di giro più di X miglia. I Fiaminghi come franca gente, e bene guidati e condotti, non attesero l'oste a Doai, ma uscirono di Doai, e s'afrontarono incontro a l'oste del re, gridando dì e notte: "Battaglia, battaglia!", e innanimati di combattere, e sovente aveano insieme scarmugi e badalucchi, e non v'avea Fiammingo a piè con suo godendac in mano che non attendesse il cavaliere francesco, per la baldanza presa sopra loro, e' Franceschi per contradio inviliti. E ciò fu del mese d'ottobre, nel quale cominciò grandi piogge, e 'l paese è pieno di paduli e di fosse, e sempre terreno che mai non si puote osteggiare il verno; onde il carreggio del re ch'aducea la vivanda all'oste per li fondati cammini non poteano venire, né i cavalieri co·lloro cavalli apena uscire del campo. Per la quale confusione l'oste del re venne in tanti difetti, e di vittuaglia e d'altro, che non poterono più tenere campo, e convenne che di necessità si levasse da oste, con sua grande onta e vergogna, faccendo triegua per uno anno: e tornossi addietro ad Arazzo, e poi a Parigi, con grande spendio, e con grande mortalità de' suoi cavagli. Alcuno disse in Francia che intra l'altre cagioni della partita dell'oste del re fu per inganno del re Adoardo d'Inghilterra, il quale amava i Fiaminghi, e per favoragli disse a la moglie, la quale era serocchia del re di Francia, in segreto segacemente e con frode: "Io temo che 'l re di Francia non riceva vergogna e pericolo in questa oste, ch'io sento che vi sarà tradito da certi suoi baroni medesimi". La reina prese a vero la parola, e incontanente la significò al re di Francia suo fratello, ond'egli entrò in sospetto e gelosia de' suoi baroni, ma non sapea di cui, e partissi per lo modo che detto avemo con onta e vergogna: e potrebbe esser stata l'una cagione e l'altra della sua partita. E partita l'oste del re, i Fiaminghi si tornarono in loro terre con grande festa e allegrezza. Avemo sì distesamente innarrate queste storie di Fiandra, perché furono nuove e maravigliose, e noi ci trovammo in quegli tempi nel paese, che con oculata fede vedemmo e sapemmo la veritade. Lasceremo alquanto di questa materia, infino che verranno i tempi del termine e fine di questa guerra tra 'l re di Francia e' Fiaminghi, che fu assai piccolo tempo appresso, e torneremo a nostra materia a raccontare le novità d'Italia e della nostra città di Firenze che furono in quegli tempi, seguendo nostro trattato.
<B>LIX</B>
<I>Come Folcieri da Calvoli podestà di Firenze fece tagliare la testa a certi cittadini di parte bianca.</I>
Nel detto anno MCCCII, essendo fatto podestà di Firenze Folcieri da Calvoli di Romagna, uomo feroce e crudele, a posta de' caporali di parte nera, i quali viveano in grande gelosia, perché sentivano molto possente in Firenze la parte bianca e ghibellina, e gli usciti iscriveano tutto dì, e trattavano con quegli ch'erano loro amici rimasi in Firenze, il detto Folcieri fece subitamente pigliare certi cittadini di parte bianca e Ghibellini; ciò furono messer Betto Gherardini, e Masino de' Cavalcanti, e Donato e Tegghia suo fratello di Finiguerra da Sammartino, e Nuccio Coderini de' Galigai, il quale era quasi un mentacatto, e Tignoso de' Macci; e a petizione di messer Musciatto Franzesi, ch'era de' signori della terra, volloro essere presi certi caporali di casa gli Abati suoi nimici, i quali sentendo ciò si fuggiro e partiro di Firenze, e mai poi non ne furono cittadini; e uno massaio de le Calze fu de' presi, oppognendo loro che trattavano tradimento nella città co' Bianchi usciti. O colpa o non colpa, per martorio gli fece confessare che doveano tradire la terra e dare certe porte a' Bianchi e Ghibellini; ma il detto Tignoso de' Macci per gravezza di carni morì in su la colla. Tutti gli altri sopradetti presi gli giudicò, e fece loro tagliare le teste, e tutti quegli di casa gli Abati condannare per ribelli, e disfare i loro beni, onde grande turbazione n'ebbe la città, e poi ne seguì molti mali e scandali. E nel detto anno fue gran caro di vittuaglia, e valse lo staio del grano in Firenze a la rasa soldi XXII di soldi... il fiorino d'oro.
<B>LX</B>
<I>Come la parte bianca e' Ghibellini usciti di Firenze vennero a Pulicciano, e partirsene in isconfitta.</I>
Nel detto anno, del mese di marzo, i Ghibellini e' Bianchi usciti di Firenze co la forza de' Bolognesi che si reggeano a parte bianca, e coll'aiuto de' Ghibellini di Romagna e degli Ubaldini, vennero in Mugello con VIIIc cavalieri e VIm pedoni, ond'era capitano Scarpetta degli Ordilaffi da Forlì, e presono sanza contasto il borgo e poggio di Pulicciano, e assediarono una fortezza che vi teneano i Fiorentini, credendo ivi fare capo grosso, e recare il Mugello sotto loro obbedienza, e poi stendersi co·lloro forza a la città di Firenze. Saputa la novella in Firenze, subitamente cavalcaro in Mugello popolo e cavalieri con tutta la forza de la cittade; e giunti al borgo, e venuti i Lucchesi e l'altra amistà, e di là uscendo ischierati e messi in ordine per andare a' nemici, i cavalieri di Bologna sentendo la sùbita venuta de' Fiorentini, e trovandosi ingannati da' Bianchi usciti di Firenze ch'aveano loro fatto intendere che' Fiorentini per tema di loro amici rimasi dentro non ardirebbono d'uscire della terra, si tennono traditi, e con paura grande sanza niuno ordine si partiro da Pulicciano di Mugello, e andarsene a Bologna, onde i Bianchi e' Ghibellini usciti rimasono rotti e scerrati, e partirsi una notte sanza colpo di spada come sconfitti, lasciando tutti i loro arnesi, e più di loro gittarono l'arme, e rimasonvi de' morti e presi de' migliori per certi iscorridori iti innanzi. Intra gli altri notabili e orrevoli cittadini e antichi Guelfi e fattisi Bianchi vi fu preso messer Donato Alberti giudice, e Nanni di Ruffoli da le porte del vescovo. Nanni vegnendo preso, fu morto da uno de' Tosinghi, e a messer Donato Alberti tagliato il capo, per quella legge medesima ch'egli avea fatta e messa in ordine di giustizia quando egli regnava ed era priore. E col detto messer Donato Alberti furono menati presi e tagliate le teste a due de' Caponsacchi, e uno degli Scolari, e Lapo de' Cipriani, e a Nerlo degli Adimari, e altri intorno di X di piccolo affare; per la quale rotta i Bianchi e' Ghibellini usciti molto abassaro.
<B>LXI</B>
<I>Incidenza, contando come messer Maffeo Visconti fu cacciato di Melano.</I>
Nel detto anno MCCCII, a dì XVI di giugno, messer Maffeo Visconti capitano di Milano fu cacciato della signoria. La cagione fue ch'egli e' figliuoli al tutto voleano la signoria di Milano, e a messer Piero Visconti, e gli altri suoi consorti, e agli altri cattani e varvassori non participava nullo onore. Per la qual cosa scandalo nacque in Milano, e' signori de la Torre colla forza del patriarca d'Aquilea, con grande oste vennero sopra Milano, e co·lloro messer Alberto Scotti di Piagenza, e il conte Filippone da Pavia, e messer Antonio da Fosseraco di Lodi. Messer Maffeo uscì contro a·lloro, ma per la quistione ch'avea co' suoi fue male seguito, e non avea podere contro a' nemici; onde messer Alberto Scotti si fece mezzano per fare accordo, e ingannò e tradì messer Maffeo, che rimessosi in lui, gli tolse la signoria del capitanato, onde messer Maffeo per onta non volle tornare in Milano; ma sanza battaglia si tornarono in Milano i signori della Torre, e rimasono signori di Milano messer Mosca e messer Guidetto di messer Nappo della Torre. E poco appresso morto messer Mosca, il detto messer Guidetto si fece fare capitano di Milano, e menò aspramente la sua signoria, e fue molto temuto e ridottato, e perseguitò molto il detto messer Maffeo e' figliuoli, sì che gli recò quasi a niente, e convenia s'andassono tapinando in diversi luoghi e paesi, e a la fine per loro sicurtà si ridussono a uno piccolo castello in ferrarese, ch'era de' marchesi da Esti suoi parenti, che Galasso suo figliuolo avea per moglie la serocchia del marchese. E sappiendolo messere Guidetto de la Torre, capitano di Milano e suo nimico, sì volle sapere novelle di lui e di suo stato, e disse a uno accorto e savio uomo di corte: "Se tu vuogli guadagnare uno palafreno e una roba vaia, andrai in tal parte ov'è messer Maffeo Visconti, e espia di suo stato". E per ischernirlo li disse: "Quando tu se' per prendere commiato da·llui, faragli due questioni: la prima, che tu il domandi come gli pare stare, e che vita è la sua; la seconda, quand'e' crede potere tornare in Milano". Il ministriere entrò in cammino e venne a messer Maffeo, e trovollo in assai povero abito secondo suo antico stato; e al dipartirsi da·llui, il pregò che gli facesse guadagnare uno palafreno e una roba vaia; rispuose che volentieri, ma non da·llui, che non l'avea; disse: "Da voi no·lla voglio io, ma rispondetemi a due questioni ch'io vi farò"; e dissele come gli furono imposte. Il savio intese da cui venieno, e rispuose subito molto saviamente; a la prima disse: "Parmi stare bene, però ch'io so vivere secondo il tempo". A la seconda rispuose, e disse: "Dirai al tuo signore, messer Guidetto, che quando i suoi peccati soperchieranno i miei io tornerò in Milano". Tornato l'uomo di corte a messer Guidetto, e rapportata la risposta, disse: "Bene hai guadagnato il palafreno e la roba, che bene sono parole del savio uomo messer Maffeo".
<B>LXII</B>
<I>Come si cominciò la quistione e nimistà tra papa Bonifazio e 'l re Filippo di Francia.</I>
Nel detto tempo, benché fosse cominciato assai dinanzi la sconfitta di Coltrai lo sdegno del re di Francia contro a papa Bonifazio, per cagione che la promessa che 'l detto papa avea fatta al re e a messer Carlo di Valos suo fratello di farlo essere imperadore quando mandò per lui, come addietro facemmo menzione, la qual cosa non attenne, quale che si fosse la cagione, anzi nel detto anno medesimo avea confermato a re de' Romani Alberto d'Osteric figliuolo che fu del re Ridolfo; per la qual cosa il re di Francia forte si tenne ingannato e tradito da·llui, e per suo dispetto ritenea e facea onore a Stefano della Colonna suo nimico, il quale era in Francia sentendo la discordia mossa, e lo re favorava lui e' suoi a suo podere. E oltre a·cciò il re fece pigliare il vescovo di Palmia in Carcascese, opponendogli ch'era paterino, e ogni vescovado vacante del reame godeva i beni, e voleva fare le 'nvestiture. Onde papa Bonifazio, il quale era superbo e dispettoso, e ardito di fare ogni gran cosa, come magnanimo e possente ch'egli era e si tenea, veggendosi fare quegli oltraggi al re, mescolò lo sdegno co la mala volontà, e fecesi al tutto nimico del re di Francia. E in prima per giustificare sue ragioni fece richiedere tutti i grandi parlati di Francia che dovessono venire a corte; ma il re di Francia contradisse, e non gli lasciò partire, onde il papa maggiormente s'inanimò contro al re, e trovò per sue ragioni e decreti che 'l re di Francia, come gli altri signori cristiani, dovea riconoscere da la sedia appostolica la signoria del temporale, come dello spirituale: e per questo mandò in Francia per suo legato uno cherico romano arcidiacano di Nerbona, che protestasse e amonisse lo re sotto pena di scomunicazione di ciò fare, e di riconoscere da·llui, e se ciò non facesse, lo scomunicasse, e lasciasse lo 'nterdetto. E 'l detto legato vegnendo nella città di Parigi, il re non gli lasciò piuvicare le sue lettere e privilegi, anzi gliele tolse la gente del re, e accomiatarlo del reame. E venute le dette lettere papali innanzi al re e suoi baroni al tempio, il conte d'Artese, ch'allora vivea, per dispetto le gittò nel fuoco e arsele, onde grande giudicio glie n'avenne, e lo re ordinò di fare guardare tutti i passi di suo reame, che messo o lettere di papa non entrasse in Francia. Sentendo ciò papa Bonifazio, iscomunicò per sentenzia il detto Filippo re di Francia. E lo re di Francia per giustificare sé, e per fare suo appello, fece in Parigi uno grande concilio di cherici e prelati e di tutti i suoi baroni, discusando sé, e opponendo a papa Bonifazio più accuse con più articoli di resia, e simonia, e omicidia, ed altri villani peccati, onde di ragione dovea esser disposto del papato. Ma l'abate di Cestella non volle consentire all'apello, anzi si partì, e tornossi in Borgogna, male del re di Francia: e per così fatto modo si cominciò la discordia da papa Bonifazio al re di Francia, la quale ebbe poi male fine; onde poi nacque grande discordia tra·lloro, e seguìne molto male, come appresso faremo menzione. In questi tempi avenne in Firenze una cosa bene notabile, che avendo papa Bonifazio presentato al Comune di Firenze uno giovane e bello leone, ed essendo nella corte del palagio de' priori legato con una catena, essendovi venuto uno asino carico di legne, veggendo il detto leone, o per paura che n'avesse, o per lo miracolo, incontanente assalì ferocemente il leone; con calci tanto il percosse, che l'uccise, non valendoli l'aiuto di molti uomini ch'erano presenti. Fu tenuto segno di grande mutazione e cose a venire, ch'assai n'avennero in questi tempi alla nostra città. Ma certi alletterati dissono ch'era adempiuta la profezia di Sibilla, ove disse: "Quando la bestia mansueta ucciderà il re delle bestie, allora comincerà la disoluzione della Chiesa etc."; e tosto si mostrò in papa Bonifazio medesimo, come si troverrà nel seguente capitolo.
<B>LXIII</B>
<I>Come il re di Francia fece prendere papa Bonifazio in Anagna a Sciarra della Colonna, onde morì il detto papa pochi dì appresso.</I>
Dopo la detta discordia nata tra papa Bonifazio e il re Filippo di Francia ciascuno di loro procacciò d'abattere l'uno l'altro per ogni via e modo che potesse: il papa d'agravare il re di Francia di scomuniche e altri processi per privarlo del reame; e con questo favorava i Fiamminghi suoi ribelli, e tenea trattato col re Alberto della Magna, e studiandolo che passasse a Roma per la benedizione imperiale, e per fare levare il regno al re Carlo suo consorto, e al re di Francia fare muovere guerra a' confini di suo reame da la parte d'Alamagna. Lo re di Francia da l'altra parte non dormia, ma con grande sollecitudine, e consiglio di Stefano della Colonna e d'altri savi Italiani e di suo reame, mandò uno messer Guiglielmo di Lungreto di Proenza, savio cherico e sottile, con messer Musciatto de' Franzesi in Toscana, forniti di molti danari contanti, e a ricevere da la compagnia de' Peruzzi, allora suoi mercatanti, quanti danari bisognasse, non sappiendo eglino perché. E arrivati al castello di Staggia, ch'era del detto messere Musciatto, ivi stettono più tempo, mandando ambasciadori, e messi, e lettere, e faccendo venire le genti a·lloro di sagreto, faccendo intendente al palese che v'erano per trattare accordo dal papa al re di Francia, e perciò aveano la detta moneta recata: e sotto questo colore menarono il trattato segreto di fare pigliare in Anagna papa Bonifazio, ispendendone molta moneta, corrompendo i baroni del paese e' cittadini d'Anagna; e come fu trattato venne fatto: che essendo papa Bonifazio co' suoi cardinali e con tutta la corte ne la città d'Anagna in Campagna, ond'era nato e in casa sua, non pensando né sentendo questo trattato, né prendendosi guardia, e s'alcuna cosa ne sentì, per suo grande cuore il mise a non calere, o forse, come piacque a Dio, per gli suoi grandi peccati, del mese di settembre MCCCIII, Sciarra della Colonna con genti a cavallo in numero di CCC, e a piè di sua amistà assai, soldata de' danari del re di Francia, colla forza de' signori da Ceccano, e da Supino, e d'altri baroni di Campagna, e de' figliuoli di messer Maffio d'Anagna, e dissesi co l'assento d'alcuno de' cardinali che teneano al trattato, e una mattina per tempo entrò in Anagna colle insegne e bandiere del re di Francia, gridando: "Muoia papa Bonifazio, e viva il re di Francia!"; e corsono la terra sanza contasto niuno, anzi quasi tutto lo 'ngrato popolo d'Anagna seguì le bandiere e la rubellazione; e giunti al palazzo papale, sanza riparo vi saliro e preso lo palazzo, però che 'l presente assalto fu improviso al papa e a' suoi, e non prendeano guardia. Papa Bonifazio sentendo il romore, e veggendosi abandonato da tutti i cardinali, fuggiti e nascosi per paura o chi da mala parte, e quasi da' più de' suoi famigliari, e veggendo che' suoi nimici aveano presa la terra e il palazzo ove egli era, si cusò morto, ma come magnanimo e valente, disse: "Da che per tradimento, come Gesù Cristo, voglio esser preso e mi conviene morire, almeno voglio morire come papa"; e di presente si fece parare dell'amanto di san Piero, e colla corona di Gostantino in capo, e colle chiavi e croce in mano, in su la sedia papale si puose a sedere. E giunto a·llui Sciarra e gli altri suoi nimici, con villane parole lo scherniro, e arrestarono lui e la sua famiglia, che co·llui erano rimasi: intra gli altri lo schernì messer Guiglielmo di Lunghereto, che per lo re di Francia avea menato il trattato, dond'era preso, e minacciollo di menarlo legato a Leone sopra Rodano, e quivi in generale concilio il farebbe disporre e condannare. Il magnanimo papa gli rispuose ch'era contento d'essere condannato e disposto per gli paterini com'era egli, e 'l padre e·lla madre arsi per paterini; onde messer Guiglielmo rimase confuso e vergognato. Ma poi, come piacque a Dio, per conservare la santa dignità papale, niuno ebbe ardire o non piacque loro di porgli mano adosso, ma lasciarlo parato sotto cortese guardia, e intesono a rubare il tesoro del papa e della Chiesa. In questo dolore, vergogna e tormento istette il valente papa Bonifazio preso per gli suoi nimici per III dì; ma come Cristo al terzo dì risucitò, così piacque a·llui che papa Bonifazio fosse dilibero, che sanza priego o altro procaccio, se non per opera divina, il popolo d'Anagna raveduti del loro errore, e usciti de la loro cieca ingratitudine, subitamente si levaro a l'arme, gridando: "Viva il papa, e muoiano i traditori!"; e correndo la terra ne cacciarono Sciarra della Colonna e' suoi seguaci, con danno di loro di presi e de' morti, e liberato il papa e sua famiglia. Papa Bonifazio vedendosi libero e cacciati i suoi nimici, per ciò non si rallegrò niente, però ch'avea conceputo e addurato nell'animo il dolore della sua aversità: incontanente si partì d'Anagna con tutta la corte, e venne a Roma a Santo Pietro per fare concilio, con intendimento di sua offesa e di santa Chiesa fare grandissima vendetta contra il re di Francia, e chi offeso l'avea; ma come piacque a Dio, il dolore impetrato nel cuore di papa Bonifazio per la 'ngiuria ricevuta gli surse, giunto in Roma, diversa malatia, che tutto si rodea come rabbioso, e in questo stato passò di questa vita a dì XII d'ottobre, gli anni di Cristo MCCCIII, e nella chiesa di San Piero a l'entrare delle porte, in una ricca cappella fattasi fare a sua vita, onorevolemente fue soppellito.
<B>LXIV</B>
<I>Ancora diremo de' morali ch'ebbe in sé papa Bonifazio.</I>
Questo papa Bonifazio fu savissimo di scrittura e di senno naturale, e uomo molto aveduto e pratico, e di grande conoscenza e memoria; molto fu altiero, e superbo, e crudele contro a' suoi nimici e aversari, e fue di grande cuore, e molto temuto da tutta gente, e alzò e agrandì molto lo stato e ragioni di santa Chiesa, e fece fare a messer Guiglielmo da Bergamo, e a messer Ricciardo di Siena cardinali, e a messer Dino Rosoni di Mugello, sommi maestri in legge e decretali, e egli co·lloro insieme, ch'era grande maestro in decreto e in divinità, il sesto libro delle decretali, il quale è quasi lume di tutte le leggi e decreti. Magnanimo e largo fu a gente che gli piacesse, e che fossono valorosi, vago molto della pompa mondana secondo suo stato, e fu molto pecunioso, non guardando né faccendosi grande né stretta coscienza d'ogni guadagno, per agrandire la Chiesa e' suoi nipoti. Fece al suo tempo più cardinali suoi amici e confidenti, intra gli altri due suoi nipoti molto giovani, e uno suo zio fratello che fue della madre, e XX tra vescovi e arcivescovi suoi parenti e amici della piccola città d'Anagna di ricchi vescovadi, e l'altro suo nipote e' figliuoli, ch'erano conti, come adietro facemmo menzione, lasciò loro quasi infinito tesoro; e dopo la morte di papa Bonifazio loro zio furono franchi e valenti in guerra, faccendo vendetta di tutti i loro vicini e nimici, ch'aveano tradito e offeso a papa Bonifazio, spendendo largamente, e tegnendo al loro propio soldo CCC buoni cavalieri catalani, per la cui forza domarono quasi tutta Campagna e terra di Roma. E se papa Bonifazio vivendo avesse creduto che fossono così pro' d'arme e valorosi in guerra, di certo gli avrebbe fatti re o gran signori. E nota che quando papa Bonifazio fu preso la novella fu mandata al re di Francia per più corrieri in pochi giorni, per grande allegrezza, e capitando i primi corrieri ad Ansiona di là da la montagna di Briga, il vescovo d'Ansiona, il quale allora era uomo d'onesta e santa vita, udendo la novella quasi stupì, istando uno pezzo in silenzio contemplando, per l'amirazione che gli parve della presura del papa, e tornando in sé, disse palese dinanzi a più buona gente: "Il re di Francia farà di questa novella grande allegrezza, ma i' ho per ispirazione divina che per questo peccato n'è condannato da Dio; e grandi e diversi pericoli e aversità con vergogna di lui e di suo lignaggio gli averranno assai tosto; e egli e' figliuoli rimarranno diretati del reame". E questo sapemmo poco tempo appresso passando per Ansiona da persone degne di fede che vi furono presenti a udire. La quale sentenzia fu profezia in tutte le sue parti, come appresso per gli tempi, raccontando de' fatti del detto re di Francia e de' figliuoli, si potrà trovare il vero. E nonn-è da maravigliare della sentenzia di Dio, che, con tutto che papa Bonifazio fosse più mondano che non richiedea alla sua dignità, e fatte avea assai delle cose a dispiacere di Dio, Idio fece pulire lui per lo modo che detto avemo, e poi l'offenditore di lui pulì, non tanto per l'offesa della persona di papa Bonifazio, ma per lo peccato commesso contro a la maestà divina, il cui cospetto rappresentava in terra. Lasceremo di questa materia, ch'ha avuto sua fine, e torneremo alquanto adietro a raccontare de' fatti di Firenze e di Toscana, che furono ne' detti tempi assai grandi.
<B>LXV</B>
<I>Come i Fiorentini ebbono il castello del Montale, e come feciono oste a Pistoia co' Lucchesi insieme.</I>
Nell'anno di Cristo MCCCIII, del mese di maggio, i Fiorentini ebbono il castello del Montale presso di Pistoia a quattro miglia, cavalcandovi una notte subitamente, e fu loro dato per tradimento di certi terrazzani, che n'ebbono IIIm fiorini d'oro, per trattato di messer Pazzino de' Pazzi, che v'era vicino per la sua posessione di Palugiano. Il quale castello era molto forte di sito, e di mura, e di torri; e come i Fiorentini l'ebbono, il feciono abattere e disfare infino nelle fondamenta, e la campana di quello Comune, ch'era molto buona, la feciono venire in Firenze, e puosesi in su la torre del palagio della podestà per campana de' messi, e chiamossi la Montanina. E disfatto il Montale, del detto mese medesimo i Fiorentini dall'una parte e' Lucchesi da l'altra feciono oste a la città di Pistoia, e guastarla intorno intorno, e furono MD cavalieri e VIm pedoni, e tornarsi a casa sanza contasto niuno. In questo anno morì a Bologna il savio e valente uomo messer Dino Rosoni di Mugello, nostro cittadino, il quale fu il maggiore e il più savio legista che fosse infino al suo tempo. E in questo medesimo tempo morì in Bologna maestro Taddeo detto da Bologna, ma era stato per suo matrimonio nostro cittadino, il quale fue sommo fisiziano sopra tutti quegli de' Cristiani.
<B>LXVI</B>
<I>Come fu eletto papa Benedetto XI.</I>
Dopo la morte di papa Bonifazio il collegio de' cardinali raunati insieme per eleggere nuovo papa, come piacque a Dio, in pochi dì furono in concordia, e chiamarono papa Benedetto XI, a dì XXII d'ottobre nel detto anno MCCCIII. Questi fu di Trevigi di piccola nazione, che quasi non si trovò parente, e nudrìsi in Vinegia, quand'era giovane cherico, a insegnare a' fanciugli de' signori da ca' Corino; poi fu frate predicatore, uomo savio e di santa vita, e per la sua bontà e onesta vita per papa Bonifazio fu fatto cardinale, e poi papa. Ma vivette in su 'l papato mesi otto e mezzo; ma in questo piccolo tempo cominciò assai buone cose, e mostrò gran volere di pacificare i Cristiani. E prima fece accordo dalla Chiesa al re di Francia, e ricomunicò il detto re, e confermò ciò che papa Bonifazio avea fatto, e mandò a Firenze frate Niccolaio da Prato cardinale ostiense per legato, per pacificare i Fiorentini co' loro usciti, come innanzi faremo menzione.
<B>LXVII</B>
<I>Come il re Adoardo d'Inghilterra riebbe Guascogna, e sconfisse gli Scotti.</I>
In questo anno Aduardo re d'Inghilterra fece accordo col re Filippo di Francia, e riebbe la Guascogna faccendonegli omaggio, e ciò assentì lo re di Francia, per la tenza ch'avea colla Chiesa per la presura che fece fare di papa Bonifazio, e per la guerra de' Fiaminghi, acciò che 'l detto re d'Inghilterra non gli fosse contro. E in questo anno medesimo il detto re Aduardo essendo malato, gli Scotti corsono inn-Inghilterra; per la qual cosa il re si fece portare in bara, e andò ad oste sopra gli Scotti, e sconfissegli, e quasi ebbe in sua signoria tutte le terre di Scozia, se non quelle de' maresi e d'aspre montagne, ove rifuggiro i ribelli scotti col loro re, il quale avea nome Ruberto di Bosco, di piccolo lignaggio fattosi re.
<B>LXVIII</B>
<I>Come in Firenze ebbe grande novità e battaglia cittadina, per volere rivedere le ragioni del Comune.</I>
Nel detto anno MCCCIII, del mese di febbraio, i Fiorentini tra·lloro furono in grande discordia, per cagione che messer Corso Donati non gli parea esser così grande in Comune come volea, e gli pareva esser degno; e gli altri grandi e popolani possenti di sua parte nera aveano presa più signoria in Comune che a·llui non parea, e già preso isdegno co·lloro, o per superbia, o per invidia, o per volere essere signore, sì fece di nuovo una sua setta acostandosi co' Cavalcanti, che i più di loro erano Bianchi, dicendo che voleva si rivedessono le ragioni del Comune, di coloro ch'aveano avuti gli ufici e la moneta del Comune a minestrare; e feciono capo di loro messer Lottieri vescovo di Firenze, ch'era de' figliuoli della Tosa del lato bianco, con certi grandi contra i priori e 'l popolo; e combattési la città in più parti e più dì, e armarsi più torri e fortezze de la città al modo antico per gittarsi e saettarsi insieme; e in su la torre del vescovado si rizzò una manganella gittando a' suoi contradi vicini. I priori s'aforzaro di gente d'arme di città e di contado, e difesono francamente il palagio, che più assalti e battaglie furono loro date; e col popolo tennero la casa de' Gherardini con grande séguito di loro amici di contado, e la casa de' Pazzi e quella degli Spini, e messer Tegghia Frescobaldi col suo lato; e furono uno grande soccorso al popolo, e morinne messer Lotteringo de' Gherardini d'uno quadrello a una battaglia ch'era in porte Sante Marie. Altra casa de' grandi non tenne col popolo, ma chi era col vescovo e con messer Corso, e chi non gli amava si stava di mezzo. Per la quale disensione e battaglia cittadina molto male si commise in città e contado di micidii, e d'arsioni, e ruberie, sì come in città sciolta e rotta, sanza niuno ordine di signoria, se non chi più potea far male l'uno a l'altro; e era la città tutta piena di sbanditi, e di forestieri, e contadini, ciascuna casa colla sua raunata; e era la terra per guastarsi al tutto, se non fossono i Lucchesi che vennero a Firenze a richiesta del Comune con grande gente di popolo e cavalieri, e vollono in mano la quistione e la guardia della città; e così fu loro data per necessità balìa generale, sì che XVI dì signoreggiarono liberamente la terra, mandando il bando da loro parte. E andando il bando per la città da parte del Comune di Lucca, a molti Fiorentini ne parve male, e grande oltraggio e soperchio, onde uno Ponciardo de' Ponci di Vacchereccia diede d'una spada nel volto al banditore di Lucca quando bandiva, onde poi non feciono più bandire da·lloro parte, ma adoperarono sì, ch'a la fine racquetaro il romore, e ciascuna parte feciono disarmare, e misono in quieto la terra, chiamando nuovi priori di concordia, rimanendo il popolo in suo stato e libertade, sanza fare nulla punizione di misfatti commessi, se non chi ebbe il male s'ebbe il danno. E per arrota alla detta pestilenzia fu l'anno gran fame, e valse lo staio del grano a la rasa più di soldi XXVI di soldi LII il fiorino d'oro in Firenze, e se non che 'l Comune e que' che governavano la città si providono dinanzi, e aveano fatto venire per mano di Genovesi di Cicilia e di Puglia bene XXVIm di moggia di grano, gli cittadini e' contadini non sarebbono scampati di fame: e questo traffico del grano fue coll'altre una delle cagioni di volere rivedere la ragione del Comune per la molta moneta che vi corse; e certi, a diritto o a torto, ne furono calonniati e infamati. E questa aversità e pericolo della nostra città non fu sanza giudicio di Dio, per molti peccati commessi per la superbia, invidia e avarizia de' nostri allora viventi cittadini, che allora guidavano la terra, e così di ribelli di quella come di coloro che·lla governavano, ch'assai erano peccatori; e non ebbe fine a questo, come innanzi per gli tempi si potrà trovare.
<B>LXIX</B>
<I>Come il papa mandò in Firenze per legato il cardinale da Prato per fare pace, e come se ne partì con onta e con vergogna.</I>
Nella detta discordia tra' Fiorentini papa Benedetto con buona intenzione mandò a Firenze il cardinale da Prato per legato per pacificare i Fiorentini tra·lloro, e simile co' loro usciti e tutta la provincia di Toscana; e venne in Firenze a dì X del mese di marzo MCCCIII, e da' Fiorentini fu ricevuto a grande onore e con grande reverenza, come coloro che parea esser partiti e in male stato, e coloro ch'aveano stato e volontà di ben vivere amavano la pace e la concordia, e era converso per gli altri. Questo messer Niccolao cardinale della terra di Prato era frate predicatore, molto savio di Scrittura e di senno naturale, sottile, e sagace, e aveduto, e grande pratico, e di progenia de' Ghibellini era nato, e mostrossi poi che molto gli favorò, con tutto ch'a la prima mostrò d'avere buona intenzione e comune. Come fu in Firenze, in piuvico sermone e predica nella piazza di San Giovanni mostrò i privilegi de la sua legazione, ed ispuose il suo intendimento ch'avea, per comandamento del papa, di pacificare i Fiorentini insieme. I buoni uomini popolani che reggeano la terra, parendo loro stare male per le novità e romori e battaglie ch'aveano in que' tempi mosse e fatte i grandi contro al popolo per disfarlo e abattere, sì·ss'acostarono col cardinale a volere pace, e per riformagione degli opportuni consigli gli diedono piena e libera balìa di fare pace tra' cittadini d'entro e' loro usciti di fuori, e di fare i priori e' gonfalonieri e signorie de la terra a sua volontà. E ciò fatto, intese a procedere e a fare fare pace tra' cittadini, e rinnovò l'ordine di XVIIII gonfalonieri de le compagnie al modo dell'antico popolo vecchio, e chiamò i gonfalonieri, e diè loro i gonfaloni al modo e insegne che sono oggi, sanza rastrello della 'nsegna del re di sopra; per la quale nuova informazione del cardinale il popolo si riscaldò e raforzò molto, e' grandi n'abassaro, e mai non finaro di cercare novitadi e opporre al cardinale per isturbare la pace, perché i Bianchi e' Ghibellini non avessono stato né podere di tornare in Firenze, e per potere godere i beni loro messi in Comune per ribelli, e in città e in contado. Per tutto questo il cardinale non lasciò di procedere a la pace, per l'aiuto e favore ch'avea dal popolo, e fece venire in Firenze XII sindachi degli usciti, due per sesto, uno de' maggiori Bianchi e uno Ghibellino, i nomi de' quali sono questi [...] e fecegli albergare nel borgo di San Niccolò, e·legato albergava ne' palazzi de' Mozzi da San Grigorio, e sovente gli avea a consiglio co' caporali guelfi e neri di Firenze, per trovare i modi e sicurtà de la pace, e ordinare parentadi tra gli usciti e' grandi d'entro. In questi trattati, a' possenti Guelfi e Neri parea a·lloro guisa che 'l cardinale sostenesse troppo la parte de' Bianchi e de' Ghibellini; ordinarono sottilmente per iscompigliare il trattato di mandare una lettera contrafatta col suggello del cardinale a Bologna e in Romagna agli amici suoi Bianchi e Ghibellini, che rimossa ogni cagione e indugio, dovessono venire a·fFirenze con gente d'arme a cavallo e a piè in suo aiuto; e chi disse pure, che fue vero, che 'l cardinale vi mandò; onde di quella gente venne infino a Crespino, e di tali in Mugello. Per la quale venuta in Firenze n'ebbe grande sombuglio e gelosia, e·legato ne fu molto ripreso e infamato: o avesse colpa o no, se ne disdisse al popolo. Per questa gelosia, e ancora per tema ch'ebbono d'essere offesi i XII sindachi bianchi e ghibellini, si partirono di Firenze, e andarsene ad Arezzo, e la gente che veniva al legato per suo comandamento si tornarono adietro a Bologna e in Romagna, e raquetarono la gelosia alquanto in Firenze. Coloro che guidavano la terra consigliarono il cardinale per levare sospetto ch'egli se n'andasse a Prato, e acconciasse i Pratesi insieme, e simile i Pistolesi, e intanto si piglierebbe modo in Firenze de la generale pace degli usciti. Il cardinale non possendo altro, così fece, e in buona fe' o no ch'avesse intenzione, se n'andò a Prato, e richiese i Pratesi che si rimettessono in lui, e che gli voleva pacificare. I caporali di parte nera e' Guelfi di Firenze veggendo le vestigie del cardinale, ch'egli favorava molto i Ghibellini e' Bianchi per rimettergli in Firenze, e vedeano che con questo il popolo il seguiva, avendo sospetto che non tornasse a pericolo di parte guelfa, ordinarono co' Guazzalotri da Prato, possente casa e di parte nera e molto Guelfi, di fare cominciare in Prato scisma e riotta contra 'l cardinale, e levare romore nella terra; onde il cardinale veggendo i Pratesi male disposti, e temendo di sua persona, sì si parti di Prato, e iscomunicò i Pratesi, e interdisse la terra, e vennesene a Firenze, e fece bandire oste sopra Prato, e diede perdonanza di colpa e di pena chi andasse sopra i Pratesi, e molti cittadini se n'aparecchiaro per andarvi a cavallo e a piè, gente ch'erano in fede e più Ghibellini che Guelfi, e andarono infino a Campi. In questa ordine dell'oste gente assai si raunaro in Firenze di contadini e forestieri, e cominciò a crescere il sospetto e gelosia a' Guelfi, onde molti ch'a la prima aveano tenuti col cardinale, si furono rivolti per gli sdegni che vedeano, e i grandi di parte nera, e simile quegli che piaggiavano col cardinale, si guernirono d'arme e di gente, e la città fu tutta scompigliata e per combattersi insieme. I·legato cardinale veggendo che non potea fornire suo intendimento di fare oste a Prato, e la città di Firenze disposta a battaglia cittadina tra·lloro, e di quegli ch'aveano tenuto co·llui fattisi contradi, prese sospetto e paura, e subitamente si partì di Firenze a dì IIII di giugno MCCCIIII, dicendo a' Fiorentini: "Dapoi che volete essere in guerra e in maladizione, e non volete udire né ubbidire il messo del vicaro di Dio, né avere riposo né pace tra voi, rimanete colla maladizione di Dio e con quella di santa Chiesa", scomunicando i cittadini, e lasciando interdetta la cittade, onde si tenne che per quella maladizione, o giusta o ingiusta, non fosse sentenzia e gran pericolo della nostra cittade per l'aversità e pericoli che·ll'avennero poco appresso, come innanzi faremo menzione.
<B>LXX</B>
<I>Come cadde il ponte alla Carraia, e morivvi molta gente.</I>
In questo medesimo tempo che 'l cardinale da Prato era in Firenze, ed era in amore del popolo e de' cittadini, sperando che mettesse buona pace tra·lloro, per lo calen di maggio MCCCIIII, come al buono tempo passato del tranquillo e buono stato di Firenze, s'usavano le compagnie e brigate di sollazzi per la cittade, per fare allegrezza e festa, si rinnovarono e fecionsene in più parti de la città, a gara l'una contrada dell'altra, ciascuno chi meglio sapea e potea. Infra l'altre, come per antico aveano per costume quegli di borgo San Friano di fare più nuovi e diversi giuochi, sì mandarono un bando che chiunque volesse sapere novelle dell'altro mondo dovesse essere il dì di calen di maggio in su 'l ponte alla Carraia, e d'intorno a l'Arno; e ordinarono in Arno sopra barche e navicelle palchi, e fecionvi la somiglianza e figura dello 'nferno con fuochi e altre pene e martori, e uomini contrafatti a demonia, orriboli a vedere, e altri i quali aveano figure d'anime ignude, che pareano persone, e mettevangli in quegli diversi tormenti con grandissime grida, e strida, e tempesta, la quale parea idiosa e spaventevole a udire e a vedere; e per lo nuovo giuoco vi trassono a vedere molti cittadini; e 'l ponte alla Carraia, il quale era allora di legname da pila a pila, si caricò sì di gente che rovinò in più parti, e cadde colla gente che v'era suso; onde molte genti vi morirono e annegarono, e molti se ne guastarono le persone, sì che il giuoco da beffe avenne col vero, e com'era ito il bando, molti n'andarono per morte a sapere novelle dell'altro mondo, con grande pianto e dolore a tutta la cittade, che ciascuno vi credea avere perduto il figliuolo o 'l fratello; e fu questo segno del futuro danno che in corto tempo dovea venire a la nostra cittade per lo soperchio delle peccata de' cittadini, sì come appresso faremo menzione.
<B>LXXI</B>
<I>Come fu messo fuoco in Firenze, e arsene una buona parte della cittade.</I>
Partito il cardinale da Prato di Firenze per lo modo che detto avemo adietro, la città rimase in male stato e in grande scompiglio, ché·lla setta che teneva col cardinale, ond'erano caporali i Cavalcanti e' Gherardini, Pulci e' Cerchi bianchi del Garbo, ch'erano mercatanti di papa Benedetto, con séguito di più case di popolo, per tema che' grandi non rompessono il popolo, s'avessono la signoria, e ciò furono delle maggiori case e famiglie de' popolani di Firenze, com'erano Magalotti, e Mancini, Peruzzi, Antellesi, e Baroncelli, e Acciaiuoli, e Alberti, Strozzi, Ricci, e Albizzi, e più altri, ed erano molto guerniti di fanti e gente d'arme. I contradi erano di parte nera, i principali, messer Rosso della Tosa col suo lato de' Neri, messer Pazzino de' Pazzi con tutti i suoi, la parte degli Adimari che si chiamano Cavicciuli, e messer Geri Spini e' suoi consorti, e messer Betto Brunelleschi; messer Corso Donati si stava di mezzo, perch'era infermo di gotte, e per lo sdegno preso con questi caporali di parte nera; e quasi tutti gli altri grandi si stavano di mezzo, e' popolani, salvo i Medici e' Giugni, ch'al tutto erano co' Neri. E cominciossi la battaglia tra' Cerchi bianchi e' Giugni alle loro case del Garbo, e combattevisi di dì e di notte. A la fine si difesono i Cerchi coll'aiuto de' Cavalcanti e Antellesi, e crebbe tanto la forza de' Cavalcanti e Gherardini, che co' loro seguaci corsono la terra infino in Mercato Vecchio, e da Orto Sa·Michele infino a la piazza di San Giovanni sanza contasto o riparo niuno, però ch'a·lloro crescea forza di città e di contado; però che·lla più gente di popolo gli seguivano, e' Ghibellini s'acostavano a·lloro; e venieno in loro soccorso que' da Volognano con loro amici con più di M fanti, e già erano in Bisarno. E di certo in quello giorno eglino avrebbono vinta la terra, e cacciatone i sopradetti caporali di parte guelfa e nera, i quali aveano per loro nemici, perché si disse ch'aveano fatta tagliare la testa a messer Betto Gherardini, e a Masino Cavalcanti, e agli altri, come addietro facemmo menzione. E come erano in sul fiorire e vincere in più parti della terra ove si combatteva i loro nimici, avenne, come piacque a Dio, o per fuggire maggiore male, o permise per pulire i peccati de' Fiorentini, che uno ser Neri Abati, cherico e priore di San Piero Scheraggio, uomo mondano e dissoluto, e ribello e nimico de' suoi consorti, con fuoco temperato in prima mise fuoco in casa i suoi consorti in Orto Sammichele, e poi in Calimala fiorentina in casa i Caponsacchi presso a la bocca di Mercato Vecchio. E fu sì empito e furioso il maladetto fuoco col conforto del vento a tramontana che traeva forte, che in quello giorno arse le case degli Abati e de' Macci, e tutta la loggia d'Orto Sammichele, e casa gli Amieri, e Toschi, e Cipriani, e Lamberti, e Bachini, e Buiamonti, e tutta Calimala, e le case de' Cavalcanti, e tutto intorno a Mercato Nuovo e Santa Cecilia, e tutta la ruga di porte Sante Marie infino al ponte Vecchio, e Vacchereccia, e dietro a San Piero Scheraggio, e le case de' Gherardini, e de' Pulci, e Amidei, e Lucardesi, e di tutte le vicinanze di luoghi nomati quasi infino ad Arno; e insomma arse tutto il midollo, e tuorlo, e cari luoghi della città di Firenze, e furono in quantità, tra palagi e torri e case, più di MVIIc. Il danno d'arnesi, tesauri, e mercatantie fu infinito, però che in que' luoghi era quasi tutta la mercatantia e cose care di Firenze, e quella che non ardea, isgombrandosi, era rubata da' malandrini, combattendosi tuttora la città in più parti, onde molte compagnie, e schiatte, e famiglie furono diserte, e vennono in povertade per la detta arsione e ruberia. Questa pistolenza avenne a la nostra città di Firenze a dì X di giugno, gli anni di Cristo MCCCIIII, e per questa cagione i Cavalcanti, i quali erano de le più possenti case di genti, e di posessioni, e d'avere di Firenze, e' Gherardini grandissimi in contado, i quali erano caporali di quella setta, essendo le loro case e de' loro vicini e seguaci arse, perdero il vigore e lo stato, e furono cacciati di Firenze come rubelli, e' loro nemici raquistarono lo stato, e furono signori della terra. E allora si credette bene che i grandi rompessono gli ordini della giustizia del popolo, e avrebbollo fatto, se non che per le loro sette erano partiti e in discordia insieme, e ciascuna parte s'abracciò col popolo per non perdere istato. Convienne ancora lasciare alquanto a raccontare dell'altre novitadi che in questi tempi furono in più parti, perché ancora ne cresce materia dell'averse fortune della nostra città di Firenze.
<B>LXXII</B>
<I>Come i Bianchi e' Ghibellini vennero a le porte di Firenze, e andarne in isconfitta.</I>
Tornato il cardinale da Prato al papa ch'era a Perugia co la corte, sì·ssi dolfe molto di coloro che reggeano la città di Firenze, e molto gli abominò dinanzi al papa e al collegio de' cardinali di più crimini e difetti, mostrandogli peccatori uomini, e nimici di Dio e di santa Chiesa, e raccontando il disinore e 'l tradimento ch'aveano fatto a santa Chiesa, volendogli porre in buono stato e pacefico; per la qual cosa il papa e' suoi cardinali si turbarono forte contra i Fiorentini, e per consiglio del detto cardinale da Prato fece il papa citare XII de' maggiori caporali di parte guelfa e nera che fossono in Firenze, i quali guidavano tutto lo stato della cittade, i nomi de' quali furono questi: messer Rosso della Tosa, messer Corso Donati, messer Pazzino de' Pazzi, messer Geri Spini, messer Betto Bruneleschi [...] che dovessono venire dinanzi a·llui sotto pena di scomunacazione e privazione di loro beni; i quali obbedienti incontanente v'andaro con grande compagnia di loro amici e famigliari molto onorevolemente, e furono più di CL a cavallo, per iscusarsi al papa di quello che 'l cardinale da Prato avea loro messo adosso. E in questa richesta e citazione di tanti caporali di Firenze il cardinale da Prato sagacemente si pensò uno grande tradimento contro a' Fiorentini, che incontanente scrisse per sue lettere a Pisa, e a Bologna, e in Romagna, ad Arezzo, a Pistoia, e a tutti i caporali di parte ghibellina e bianca di Toscana e di Romagna, che si dovessono congregare con tutte le loro forze e degli amici a piè e a cavallo, e in uno dì nomato venire con armata mano a la città di Firenze, e prendere la terra, e cacciarne i Neri e coloro ch'erano stati contro a·llui, e che ciò era di coscienza e volontà del papa (la qual cosa era grande bugia e falsità, che 'l papa di ciò non seppe niente), confortando ciascuno che venissono securamente, perché la città era fiebole e aperta da più parti, e che per sua industria n'avea tratti, e fatti citare a corte tutti i caporali di parte nera, e dentro avea gran parte che risponderebbono loro, e darebbono la terra, e che facessono la loro raunata e venuta segreta, e tosto. I quali avute queste lettere furono molto allegri, e confortandosi del favore del papa, ciascuno a suo podere si guernì, e mosse a venire verso Firenze a la giornata ordinata. E prima due dì, per la grande volontade, tutta l'altra ragunata de' Bianchi e Ghibellini vennero verso Firenze per modo sì segreto che furono a la Lastra sopra Montughi in quantità di MVIc cavalieri e di VIIIIm pedoni innanzi che in Firenze si credesse per la più gente, però ch'egli non lasciavano venire a·fFirenze niuno messo che ciò anunziasse; e se fossono scesi a la città il dì dinanzi, sanza dubbio aveano la terra, però che non v'avea nulla provedenza, né guernigione d'arme né difesa. Ma egli s'arestarono la notte ad albergo a la Lastra e a Trespiano infino a Fontebuona per attendere messer Tolosato degli Uberti capitano di Pistoia, il quale facea la via a traverso dell'alpe con CCC cavalieri pistolesi e soldati, e con molti a piede; e veggendo la mattina che non venia, gli usciti di Firenze si vollono studiare di venire a la terra, credendolasi avere sanza colpo di spada; e così feciono, lasciando i Bolognesi a la Lastra, che per loro viltà, o forse perché a' Guelfi ch'erano tra·lloro non piacea la 'mpresa: vegnendo l'altra gente, entraro nel borgo di San Gallo sanza nulla contasto, che allora non erano a la città le cerchie delle mura nuove, né' fossi, e le vecchie mura erano schiuse e rotte in più parti. E entrati dentro a' borghi, ruppono uno serraglio di legname con porta fatto nel borgo, il quale fue abandonato da' nostri e non difeso, del quale gli Aretini trassono il chiavistello della detta porta, e per dispetto de' Fiorentini il portarono ad Arezzo, e puosollo nella loro chiesa maggiore di Santo Donato. E venuti i detti nemici giù per le borgora verso la cittade, si schieraro in su 'l Cafaggio di costa a' Servi, e furono più di XIIc di cavalieri e popolo grandissimo, per molti contadini seguitigli, e di que' d'entro Ghibellini e Bianchi usciti a·lloro aiuto; la quale fu per loro mala capitaneria, come diremo appresso, che si puosono in luogo sanza acqua; ché se si fossono schierati in su la piazza di Santa Croce, aveano il fiume e l'acqua per loro e per gli cavagli, e la Città Rossa d'intorno fuori delle mura vecchie, ch'era tutta acasata da starvi al sicuro ogni grande oste, ma a cui Iddio vuole male gli toglie il senno e l'accorgimento. Come la sera dinanzi si seppe la novella, in Firenze ebbe grande tremore e sospetto di tradimento, e tutta la notte si guardò la terra; ma per lo sospetto chi andava qua, e chi là, sanza ordine niuno, isgombrando ciascuno le sue case. E di vero si disse che delle maggiori e migliori case di Firenze di grandi, e de' popolani, e' Guelfi seppono il detto trattato, e promesso aveano di dare la terra; ma sentendo la gran forza de' Ghibellini di Toscana e nimici del nostro Comune, i quali erano venuti co' nostri usciti, temettono forte di loro medesimi, e d'esserne poi cacciati e rubati, sì rimossono proposito, e intesono a la difensa cogli altri insieme. Certi de' nostri caporali usciti con parte della gente, si partirono di Cafaggio dalla schiera, e vennero a la porta delli Spadari, e quella combattero e vinsono, e entraro delle loro insegne e di loro infino presso a la piazza di San Giovanni; e se la schiera grossa ch'era in Cafaggio fosse venuta appresso verso la terra, e assalita alcuna altra porta, di certo non aveano riparo. Ne la piazza di San Giovanni erano raunati tutti i valenti uomini e' Guelfi che intendeano a la difensione della città, non però grande quantità, forse CC cavalieri e Vc pedoni, e con forza delle balestra grosse ripinsono i nimici fuori della porta, e con danno d'alquanti presi e morti. La novella andò a la Lastra a' Bolognesi per loro spie, e rapportarono che i loro erano rozzi e sconfitti, incontanente, sanza saperne il certo, che non era però vero, si misono in via, chi meglio potéo fuggire; e scontrandogli messer Tosolato con sua gente in Mugello, che venia e sapea il vero, gli volle ritenere e rimenare indietro. Non ebbe luogo né per prieghi né per minacce. Quelli de la loro schiera grossa del Cafaggio, avuta la novella da la Lastra, come i Bolognesi s'erano partiti in rotta, come piacque a·dDio, incontanente impauriro, e per lo disagio di stare infino dopo nona a schiera a la fersa del sole, e gran caldo ch'era, e non aveano acqua a sofficienza per loro e per loro cavalli, cominciarono a partirsi e andare via in fugga, gittando l'armi sanza asalto o caccia di cittadini, che quasi e' non uscirono loro dietro, se non certi masnadieri di volontà; onde molti de' nimici ne morirono per ferri e per traffelare, e rubati l'arme e' cavalli, e certi presi furono impiccati nella piazza di San Gallo, e per la via in su gli alberi. Ma di certo si disse che con tutta la partita de' Bolognesi, e fossono stati fermi insino a la venuta di messer Tosolato, che 'l poteano sicuramente fare per lo piccolo podere de' cavalieri difenditori ch'avea in Firenze, ancora avrebbono vinta la terra. Ma parve opera e volontà di Dio, e che fossono amaliati, perché la nostra città di Firenze non fosse al tutto diserta, rubata, e guasta. Questa non proveduta vittoria e scampamento della città di Firenze fue il dì di santa Margherita, a dì XX del mese di luglio, gli anni di Cristo MCCCIIII. Avenne fatta sì stesa memoria, perché a·cciò fummo presenti, e per lo grande rischio e pericolo di che Dio iscampò la città di Firenze, e perché i nostri discendenti ne prendano esemplo e guardia.
<B>LXXIII</B>
<I>Come gli Aretini ripresono il castello di Laterino, che 'l teneano i Fiorentini.</I>
Nel detto anno MCCCIIII, a dì XXV del mese di luglio, essendo la città di Firenze in tante aversitadi e fortune, gli Aretini cogli Ubertini e' Pazzi di Valdarno vennero con tutto loro podere di gente d'arme a cavallo e a piede al castello di Laterino, il quale teneano i Fiorentini, e aveano tenuto lungo tempo per forza, e quello coll'aiuto de' terrazzani fu loro dato; e la rocca la quale aveano fatta fare i Fiorentini, l'avea in guardia messere Gualterotto de' Bardi, perch'era venuto a Firenze per le novitadi che v'erano state, convenne s'arrendesse pochi dì appresso, però ch'era rimasa mal fornita, e per le novità di Firenze non aspettavano soccorso. E alcuno disse che gli Ubertini suoi parenti il ne tradiro e ingannaro, e chi disse che lo 'nganno fu fatto al Comune. De la quale perdita del castello spiacque molto a' Fiorentini, però ch'era molto forte, e in una contrada che tenea molto a freno gli Aretini.
<B>LXXIV</B>
<I>Ancora di novitadi che furono in Firenze ne' detti tempi.</I>
Nel detto anno, a dì V d'agosto, essendo preso nel palagio del Comune di Firenze Talano di messer Boccaccio Cavicciuli degli Adimari per malificio commesso, onde dovea essere condannato, i suoi consorti, tornando la podestade con sua famiglia da casa i priori, l'asaliro con arme, e fedirono malamente, e di sua famiglia furono morti e fediti assai; e' detti Cavicciuli entrarono in palagio, e per forza ne trassono il detto Talano sanza contasto niuno, e di questo malificio non fu giustizia né punizione niuna; in sì corrotto stato era allora la città di Firenze. E la podestà, ch'aveva nome messer..., per isdegno si partìo, e tornossi a casa sua co la detta vergogna, e la città rimase sanza rettore; ma per necessità i Fiorentini feciono in luogo di podestà XII cittadini, due per sesto, uno grande e uno popolano, i quali si chiamarono le XII podestadi, e ressono la cittade infino a tanto che venne la nuova podestade.
<B>LXXV</B>
<I>Come i Fiorentini feciono oste e presono il castello delle Stinche e Montecalvi, che 'l teneano i Bianchi.</I>
Nel detto anno e mese d'agosto, essendo la città di Firenze retta per le XII podestadi, ordinarono oste per perseguitare i Bianchi e' Ghibellini, i quali aveano rubellate più fortezze e castella nel contado di Firenze, e intra gli altri era rubellato il castello delle Stinche in Valdigrieve a petizione de' Cavalcanti, al quale andò la detta oste, e puoservi l'assedio, e combatterlo, e per patti s'arrendero pregioni, e 'l castello fu disfatto, e' pregioni ne furono menati in Firenze, e messi nella nuova pregione fatta per lo Comune su 'l terreno degli Uberti di costa a San Simone; e per lo nome di que' pregioni venuti dalle Stinche, che furono i primi che vi furono messi, la detta pregione ebbe nome le Stinche. E disfatto il castello, e partita la detta oste, ne venne in Valdipesa, e assediaro Montecalvi, il quale aveano rubellato i Cavalcanti, e quello assediato e combattuto, s'arenderono salve le persone; ma uscendone uno figliuolo di messer Banco Cavalcanti, per uno de' figliuoli della Tosa fu morto, onde ebbono grande biasimo per la sicurtà data per lo Comune, e nulla giustizia per lo Comune ne fu. Lascereno alquanto de le nostre averse novità di Firenze, e faremo incidenza, tornando alquanto di tempo adietro per raccontare la fine della guerra dal re di Francia a' Fiaminghi, la quale lasciammo adietro.
<B>LXXVI</B>
<I>Incidenza, tornando alquanto adietro a racontare delle storie de' Fiaminghi.</I>
Negli anni di Cristo MCCCIII i Fiamminghi co·lloro oste grandissima corsono il paese d'Artese faccendo grande dammaggio, e arsono il borgo d'Arches fuori di Santo Mieri, e puosonsi a campo nel bosco di là dal fiume de la Liscia. I Franceschi ch'erano in Santo Mieri, più di IIIIm uomini a cavallo e gente a piede assai col maliscalco di Francia, saviamente ingannarono i Fiamminghi, che parte di loro al di lungi dell'oste si misono in guato una notte, e l'altra cavalleria e gente de' Franceschi assalirono i Fiaminghi da la parte del borgo d'Artese. I Fiaminghi vigorosamente tutti si misono a la 'ncontra de' Franceschi, e cominciarono la zuffa; gli altri Franceschi ch'erano nell'aguato uscirono al di dietro sopra i Fiamminghi, i quali veggendosi assalire improviso, si misono in isconfitta, e rimasorne morti più di IIIm, gli altri si fuggirono al poggio di Casella. In questo medesimo anno e tempo il buono messer Guido di Fiandra, il quale per retaggio della madre v'usava ragione sopra la contea d'Olanda e d'Isilanda, la quale tenea il conte d'Analdo suo cugino, prima coll'aiuto e forza de' Fiaminghi corse parte della contea d'Analdo, e poi con grande oste e navilio passò in Isilanda, e prese la terra di Midelborgo, e quasi tutto il paese e quelle isole d'intorno, salvo la terra di Silisea, la quale era molto forte e bene guernita. In questo anno venne di Puglia in Fiandra messer Filippo figliuolo del conte Guido di Fiandra, e lasciò e rifiutò al re Carlo di Puglia il contado di Tieti, di Lanciano, e de la Guardia in Abruzzi, il quale egli tenea in fio dal re e per dote de la moglie, per soccorrere il padre e' frategli e il suo paese di Fiandra, e amò meglio d'essere povero cavaliere sanza terra, per aiutare e soccorrere la sua patria e avere onore, che rimanere in Puglia ricco signore. Incontanente che fue in Fiandra da' Fiamminghi fu fatto signore e capitano di guerra, il quale usò in Italia e in Toscana e in Cicilia a le nostre guerre; fu molto sollecito e franco, però che alquanto era di testa, e coll'oste de' Fiamminghi andò sopra Santo Mieri, e corse e distrussono gran parte del paese infino a la marina; e poi assediò la guasta terra dell'antica città di Ternana in Artese, però ch'era sanza mura, pur cinta di fosse, e dentro v'erano in guardia CC cavalieri lombardi, e MD pedoni toscani e lombardi e romagnuoli con lance lunghe e tutti bene armati a la nostra guisa, onde i paesani di là si maravigliavano molto, e di loro aveano grande spavento; i quali avea fatti venire di Lombardia messer Musciatto Franzesi e messer Alberto Scotti di Piagenza, la quale era una buona masnada e valente, e d'onde i Fiaminghi più temeano. E credendogli i Fiaminghi avere presi in Ternana, però che per moltitudine di loro, ch'erano più di cinquantamilia, aveano presa per forza la porta, e valico il fosso, i Lombardi e' Toscani faccendo serragli e sbarre ne la ruga de la terra, ritegnendo e combattendo co' Fiamminghi, sì gli risistettono tutto il giorno; ma crescendo la potenza de' Fiamminghi per la moltitudine loro, compresono tutta la terra d'intorno, salvo da la parte del fiume, e credendosi avere circondati e presi tutti i Lombardi sanza riparo; ma i Lombardi e' Toscani, come savi e maestri di guerra, feciono uno bello e sùbito argomento al loro scampo, e a ingannare i Fiaminghi; ciò che ch'eglino stiparono due case l'una incontro a l'altra, le quali erano in capo del ponte del fiume de la Liscia che correa di costa a la terra, e vegnendo ritegnendo la battaglia manesca co' Fiaminghi, lasciandosi perdere di serraglio in serraglio al loro scampo e ritratta, come furono presso al ponte misono fuoco nelle dette case stipate, e valicarono il ponte sani e salvi, e di là dal fiume stavano schierati sonando loro stormenti, e faccendo schernie de' Fiaminghi, e saettando loro; e poi ricolti tutti, se n'andarono a la terra d'Aria in Artese, e poi a la città di Tornai. I Fiaminghi per la forza del gran fuoco non ebbono podere di seguirgli, onde rimasono con onta e vergogna scornati dello 'nganno de' Lombardi, e per cruccio misono fuoco, e guastarono e arsono tutta la città di Ternana; e poi sanza soggiorno se n'andarono per Artese guastando il paese, e puosonsi ad oste a la forte e ricca città di Tornai quasi intorno intorno con loro grande esercito, e crescendo loro oste. Ma la città era bene guernita di buona cavalleria e de le masnade de' Lombardi e Toscani, che poco o niente gli curavano; ma di continuo le dette masnade uscivano fuori della terra, e assalivano l'oste de' Fiaminghi di dì e di notte, dando loro molto affanno e sollecitudine, e faccendo romire la grandissima oste; e com'erano cacciati da' Fiaminghi, si riduceano in su i fossi di fuori sotto la guardia de le torri de la città e de' loro balestrieri ordinati in su le mura; e nulla altra gente facie guerra a' Fiaminghi, e di cui più temessono; e per questo modo sovente gabbavano i Fiaminghi. In questa stanza dell'asedio di Tornai lo re di Francia molto straccato di spendio, per trattato del conte di Savoia si presono triegue per uno anno da·llui a' Fiaminghi, e levossi l'assedio da Tornai; e 'l conte Guido di Fiandra fu lasciato di pregione sotto sicurtà di saramento e di stadichi, e di ritornare in pregione infra certo tempo; e andò così vecchio com'era in Fiandra con grande allegrezza per vedere suo paese libero da la signoria de' Franceschi, e fare festa a' suoi discendenti e buona gente del paese. E ciò fatto, disse ch'omai non curava di morire, quando a·dDio piacesse; e per lo saramento si tornò in pregione a Compigno, e poco stante si morì e rendé l'anima a·dDio in aggio di più di LXXX anni, come valente e savio uomo, e buono signore; e lui morto, il corpo suo fu recato in Fiandra, e soppellito a grande onore.
<B>LXXVII</B>
<I>Come fu sconfitto e preso in mare messer Guido di Fiandra colla sua armata da l'amiraglio del re di Francia.</I>
Fallite le triegue dal re di Francia a' Fiaminghi l'anno appresso MCCCIIII, lo re di Francia fece uno grande apparecchiamento di molti baroni per andare in Fiandra, con più di XIIm buoni cavalieri gentili uomini, e con più di Lm pedoni; e col detto esercito e con grande fornimento passò in Fiandra. In mare fece suo amiraglio messer Rinieri de' Grimaldi di Genova, valente e franco uomo e bene aventuroso in guerra di mare, il quale da Genova venne nel mare di Fiandra con XVI galee bene armate al soldo del re per guerreggiare per terra e per mare i Fiaminghi, per levare l'assedio da la terra di Cirigea in Fiandra, a la quale era il buono e valente messer Guido di Fiandra con più di XVm Fiaminghi sanza quegli del paese di sua parte. E corseggiarono, e fatta gran guerra a le terre marine di Fiandra, e preso molto navilio con mercatantia di Fiamminghi per lo detto amiraglio sì andò per soccorrere Sirisea con XX navi armate a Calese, e colle dette XVI galee. Messer Guido di Fiandra veggendolo venire, lasciò fornito in terra l'asedio a Silisea con Xm Fiaminghi, e armò LXXX navi, overo cocche, al modo di quello mare, fornite con castella per battaglia, e in ciascuna il meno C uomini fiaminghi e del paese, e egli in persona con molta buona gente salì in su la detta armata e navilio, avendo il detto messer Rinieri Grimaldi e' Genovesi per niente, per lo poco navile ch'avea a comparazione del suo; ma non istimava quello che portavano in mare le galee de' Genovesi armate. Sì s'afrontarono insieme, e l'asalto fu grande e forte e furioso del navilio di messer Guido per gli Fiaminghi, per lo soprastare che le sue navi colle castella armate faceano a le galee dell'amiraglio. Ma messer Rinieri conoscendo il modo del combattere di quelle navi, e de la marea e ritratta che fae quello mare per lo fiotto, sì si ritrasse adietro a·rremi colle sue galee, e lasciò le sue navi per abandonate, le quali erano armate di genti di quella marina; onde la maggiore parte furono prese e isbarattate, e credevasi messer Guido e' Fiaminghi avere vittoria de' suoi nemici, e messo l'amiraglio in fugga. Ma il savio amiraglio attese colle sue galee tanto che tornò il fiotto co la piena marea, com'è costume di quello mare; e la sua gente rinfrescata venne con forte rema de le sue galee come cavagli correnti, e con molti balestrieri a moschetti in su ciascuna galea assalendo e saettando le cocche e navi de' Fiaminghi, onde molti furono fediti e morti. I Fiaminghi non costumati di sì fatto assalto e battaglia, e non potendo per forza di vele tornare adietro né ire innanzi, isbigottirono molto. I Genovesi co·lloro navilio mescolandosi tra 'l navilio de' Fiaminghi, sì si misono IIII galee co l'amiraglio a combattere la grande cocca dello stendale ov'era messer Guido di Fiandra co' suoi baroni, e quella per forza di saettamento e per prestezza di genti co le spade in mano sagliendo da più parti in su la cocca, quella presono con molti fediti e morti da ciascuna parte, e messer Guido, tra gli altri ch'erano rimasi, s'arendero pregioni. E presa la nave di messer Guido, l'altre furono tutte sconfitte, e la maggiore parte prese. E per abondante la gente de' Fiaminghi ch'erano all'assedio della terra di Sirisea furono assediati eglino, e per difetto di vittuaglia chi fuggì a pericolo di morte, e chi s'arrendéo pregione; e messer Guido con molti altri ne fu menato preso in Francia e a Parigi. Questa pericolosa e grande sconfitta ebbono i Fiaminghi a l'uscita del mese d'agosto, gli anni di Cristo MCCCIIII. In questo medesimo tempo certi di Baiona in Guascogna co·lloro navi, le quali chiamano cocche, passarono per lo stretto di Sibilia, e vennero in questo nostro mare corseggiando, e feciono danno assai; e d'allora innanzi i Genovesi e' Viniziani e' Catalani usaro di navicare co le cocche, e lasciarono il navicare delle navi grosse per più sicuro navicare, e che sono di meno spesa: e questo fue in queste nostre marine grande mutazione di navilio.
<B>LXXVIII</B>
<I>Come lo re di Francia sconfisse i Fiaminghi a Monsimpeveri.</I>
Ne la detta state, innanzi la sopradetta sconfitta di messere Guido di Fiandra, i Fiaminghi sentendo la venuta del re di Francia facea sopra loro, feciono grande apparecchiamento d'oste, e furono più di LXm, e co' loro signori e capitani, messer Filippo di Fiandra, e messer Gianni conte di Namurro, e messer Arrigo suo fratello, e messer Guiglielmo di Giulieri, cogli altri baroni di Fiandra, e di Namurro, e d'Alamagna, e altri loro amici vennero co·lloro oste a Lilla e a le frontiere per contradiare al re e a sua gente l'entrata in Fiandra. La gente del re vegnendo da la parte di Tornai, feciono una grande punga al passo del ponte a Guandino in su la Liscia per passare il fiume, e fuvi morto il valente cavaliere messer Gianni Buttafuoco di que' di Gianville con più altri cavalieri franceschi, ma a la fine i Franceschi furono vincitori del passo, e valicò il re con tutta sua oste, e acampossi tra Lilla e Doagio nella valle del luogo detto Monsimpevero. I signori di Fiandra co·lloro oste scesono di Monsimpevero ov'erano acampati, e stesono loro alberghi e tende, e acamparsi nella piaggia sanza dirizzare tende o trabacche, con intenzione di venire a la battaglia incontanente, per le novelle ch'aveano già della sconfitta d'Isilanda di messer Guido; e puosonsi a la rincontra del re di Francia e di sua oste, e scesono tutti a piè, chi avea cavallo, apparecchiati di combattere; e aveano tanto carreggio, che di loro carri per loro fortezza e sicurtade si chiusono intorno intorno tutta loro oste, che girava più di III miglia, e lasciarono al campo V uscite. Ma intanto feciono mala capitaneria di guerra, che quando istesono i loro padiglioni e trabacche levandosi dal poggio di Monsimpeveri, tutto torciarono e caricarono co' loro arnesa e vittuaglia in su le loro carra, e quasi eglino medesimi s'assediarono e aseccarono; onde i Franceschi assalendogli al continuo in quella giornata con XIIII battaglie, ciò sono schiere, ch'aveano fatte di loro cavalleria, che di ciascuna era guidatore e capitano uno de' maggiori signori di Francia, tegnendoli a badalucchi e agirandogli d'intorno co·lloro schiere ordinate, sonando trombe e nacchere al continuo, molto gli affannavano; e eglino rinchiusi nel carrino, poco si poteano aiutare e offendere i Franceschi. E oltre a questo, faccendo venire i Franceschi i loro pedoni, e spezialmente i bidali, ciò sono Navarresi, Guasconi, e Provenzali, e con altri di Linguadoco, leggeri d'arme, con balestra e co' loro dardi e giavellotti a fusone, e con pietre pugnerecce conce a scarpelli a Tornai, onde il re avea fatti venire in su più carra, assaliro il carreggio de' Fiaminghi, e in più parti lo 'ntorniaro e rubaro, e istando in su' carri de' Fiaminghi saettando e gittando pietre e dardi alle schiere, onde molto forte affriggeano il popolo di Fiandra; e massimamente perché 'l tempo era caldissimo, e il fornimento di bere e di mangiare di Fiaminghi, che poco possono stare digiuni, era loro malagevole, e non ordinato da potere avere, però ch'era in su' carri, onde molto furono confusi. E stando in questo tormento infino presso al vespro, non potendo più durare, quasi come disperati di salute, alquanti di loro co' loro signori e capitani ordinarono d'uscire della bastita de' carri, e assalire l'oste de' Franceschi; e il buono messer Guiglielmo di Giulleri con certi eletti di Bruggia e del Franco di Bruggia fue una schiera, e messer Filippo di Fiandra con certi di quegli di Guanto e del paese un'altra schiera, e messer Gianni conte di Namurro con certi di quegli d'Ipro e de la marina furono un'altra schiera. E subitamente, non prendendosi guardia di ciò i Franceschi, uscirono a uno segno e grido del loro campo da tre parti, con gran furia e romore assalendo i Franceschi; e fue sì grande e forte l'assalto de' Fiaminghi, che messer Carlo di Valos, e il conte di San Polo, e più altre schiere furono rotte, e misonsi in volta. In buono messer Guiglielmo di Giulleri con que' di Bruggia e del Franco se n'andarono diritto al padiglione e logge del re di Francia con sì gran furia, uccidendo chiunque si parava loro innanzi, sì che non ebbono quasi nullo contrasto; sì furono al padiglione del re, trovando gli arosti e la vivanda della cena de' Franceschi a fuoco, e quelle tutte rubaro e mangiarono, e andando cercando la persona del re, il trovarono isproveduto e quasi disarmato, a piè, che indosso non avea arme, se non uno ghiazzerino; e perché nol trovarono coll'armi reali indosso, nol conobbono, che di certo morto l'avrebbono, che n'aveano il podere, e avrebbono finita la loro guerra, se Idio l'avesse asentito; e pur così sconosciuto, ebbe lo re troppo affare a montare a cavallo; e furongli morti a' piè parecchi grandi borgesi di Parigi, ch'aveano l'uficio di metterlo a cavallo. Ma come fu montato, cominciò a sgridare i suoi e dare loro conforto, e di suo corpo fare maraviglie d'arme, come quegli ch'era forte, e di fazzione di corpo il meglio fornito che nullo Cristiano che al suo tempo vivesse; sicché in poca d'ora ebbe sì riscosso da' nemici, e messigli in volta, e ricoverato il campo. E messer Carlo suo fratello e gli altri baroni che co·lloro schiere de' cavalieri fuggieno, sentendo che il re con sua schiera tenea campo, tornaro adietro e ingrossaro la battaglia del re, e fu sì possente, che mise in rotta e in isconfitta i Fiamminghi. E in quella punga rimase morto il buono messer Guiglielmo di Giulieri con più cavalieri, e baroni, e buoni borgesi ch'erano co·llui, ma non sanza grande dammaggio de' Franceschi, e che in quello assalto morìo il conte d'Alzurro, e 'l conte di Sansurro, e messer Gianni figliuolo del duca di Borgogna, e più altri baroni e cavalieri in quantità di MD e più, e di Fiaminghi vi rimasono morti più di VIm, e lasciaro tutto il loro carrino e arnese; e durò l'aspra battaglia infino a la notte con torchi accesi. E di certo per virtù solo della persona del re i Franceschi vinsono e ebbono vittoria della detta battaglia: e messer Filippo di Fiandra con gran parte de' Fiaminghi si fuggiro, e ricoverarono la notte in Lilla, e messer Gian di Namurro e messer Arrigo suo fratello fuggirono la notte a Ipro, e rimaso lo re co' Franceschi vincitori in su 'l campo. L'altro dì appresso ordinò che' Franceschi morti fossono soppelliti, e così fu fatto in una badia la quale è ivi di costa al piano ove fu la battaglia, e fece decreto e gridare sotto pena del cuore e d'avere ch'a nullo corpo de' Fiaminghi fosse data sepoltura, ad asemplo e perpetuale memoria. E io scrittore ciò posso testimoniare di vero, che a pochi dì appresso fui in su 'l campo dove fue la battaglia, e vidi tutti i corpi morti ancora non intaminati. E la detta battaglia fu all'uscita del mese di settembre, gli anni di Cristo MCCCIIII.
<B>LXXIX</B>
<I>Come poco appresso la sconfitta di Monsimpevero i Fiaminghi tornaro per combattere col re di Francia, e ebbono buona pace.</I>
L'altro dì appresso che 'l re di Francia ebbe la vittoria de' Fiaminghi sì si partì di quello luogo ove fue la battaglia, e con tutta sua oste si puose all'asedio a la terra di Lilla, ov'era rinchiuso e rimaso messer Filippo di Fiandra con certa buona gente d'arme per difendere la terra; e quella tutta circundata, sì che nullo ne potea uscire né entrare; e girava l'oste del re più di VI miglia, e fece rizzare molti difici e torri di legname per combattere la terra e 'l castello, il quale era molto forte e bello, fatto per lo re a la prima guerra; e di certo sanza lungo dimoro si credea lo re avere la villa e 'l castello per forza o per fame. In questo stante avenne grande maraviglia, e bene da farne nota e ricordanza; che tornato messer Gianni di Namurro a Bruggia, e richesti quelli del paese al soccorso di Lilla, non isbigottiti né ispaurati de le due grandi sconfitte ricevute così di corto a Sirisea in mare né a Monsimpevero, ma con grande ardire e buono volere tutti quelli del paese lasciando ogni loro arte e mestiere s'apparecchiarono di venire a l'oste; e in tre settimane dopo la sconfitta ebbono rifatti i padiglioni e trabacche; e chi non ebbe panno lino, sì le fece di buone bianche d'Ipro e di Guanto. E raunaro di tutto il paese il carreggio e tutti i fornimenti d'oste, e armossi nobilemente, e tutti per compagnie d'arti e di mestieri, con soprasberghe nuove di fini drappi divisata l'una compagnia da l'altra; e furono bene Lm d'uomini d'arme, e tutti si giurarono insieme di mai non tornare a·lloro casa, ch'egli avrebbono buona pace dal re, o di combattersi co·llui e con sua gente, però che meglio amavano di morire a la battaglia che vivere in servaggio. E così caldi e disperati ne vennero al ponte a Guarestona sopra la Liscia presso di Lilla, e acamparsi incontro all'oste del re di Francia; e per loro araldi (ciò sono uomini di corte) feciono richiedere lo re di battaglia. Quando lo re vide venuto così grande esercito de' Fiaminghi in così poco di tempo, e così disposti a battaglia, si maravigliò molto, e temette forte, avendo assaggiato a Monsimpevero la loro disperata furia; e richiese suo consiglio de' suoi baroni, de' quali non v'ebbe niuno sì ardito che non avesse temenza, dicendo al re: "Bene che Idio ci desse di loro la vittoria, non sarebbe sanza grande pericolo de la nostra gente e cara baronia, però che si combatteranno come gente disperata". Per la qual cosa il duca di Brabante, ch'era venuto come mezzano nell'oste del re col conte di Savoia insieme, si tramisono d'acordo e pace dal re e' Fiamminghi; e come piacque a·dDio, e per la tema de' Franceschi, la pace fue fatta e confermata in questo modo: che' Fiaminghi rimarrebbono in loro franchigia e libertà per lo modo antico e consueto, e ch'eglino riavrebbono i loro signori liberi delle carcere de·re di Francia, ciò era messer Ruberto di Bettona primogenito del conte Guido di Fiandra, e che succedea a essere conte, e messer Guiglielmo di Fiandra, e messer Guido di Namurro suoi fratelli, e più altri baroni e cavalieri e borgesi fiaminghi presi; e che il re ristituirebbe al conte d'Universa, figliuolo del detto messere Ruberto conte di Fiandra, la contea d'Universa e quella di Rastrello, le quali il re di Francia per la guerra gli avea tolte e levate. D'altra parte i Fiaminghi, per patti della pace e amenda al re, lasciavano a queto tutta la parte di Fiandra dal fiume della Liscia verso Francia che parlano piccardo, cioè Lilla, Doai, e Orci, e Bettona, con più villette; e oltre a·cciò pagare al re in certi termini libbre CCm di buoni parigini. E così fu giurata e promessa, e messa a seguizione, e in questo modo ebbe fine la dura e aspra guerra da·re di Francia a' Fiaminghi. Lasceremo di questa materia, ch'hae avuto suo fine, e torneremo a nostra, a dire de' fatti d'Italia e de la nostra città di Firenze, ch'assai novità vi furono in questi tempi. E prima de la morte di papa Benedetto, e di quelli che succedette appresso.
<B>LXXX</B>
<I>Come morì papa Benedetto, e de la nuova lezione di papa Clemento quinto.</I>
Negli anni di Cristo MCCCIIII, a dì XXVII del mese di luglio, morì papa Benedetto nella città di Perugia, e dissesi di veleno; che stando egli a sua mensa a mangiare, gli venne uno giovane vestito e velato in abito di femmina servigiale delle monache di Santa Petornella di Perugia, con un bacino d'argento, iv'entro molti begli fichi fiori, e presentogli al papa da parte della badessa di quello monestero sua devota. Il papa gli ricevette a gran festa, e perché gli mangiava volentieri, e sanza farne fare saggio, perch'era presentato da femmina, ne mangiò assai, onde incontanente cadde malato, e in pochi dì morìo, e fu soppellito a grande onore a' frati predicatori, ch'era di quello ordine, in Santo Arcolano di Perugia. Questi fue buono uomo, e onesto e giusto, e di santa e religiosa vita, e avea voglia di fare ogni bene, e per invidia di certi de' suoi frati cardinali, si disse, il feciono per lo detto modo morire; onde Idio ne rendé loro, se colpa v'ebbono, assai in brieve giusta e aperta vendetta, come si mostrerrà appresso. Ché dopo la morte del detto papa nacque scisma, e fue grande discordia infra 'l collegio de' cardinali d'eleggere papa, e per loro sette erano divisi in due parti quasi iguali; dell'una era capo messere Matteo Rosso degli Orsini con messer Francesco Guatani nipote che fu di papa Bonifazio, e dell'altra erano caporali messer Nepoleone degli Orsini dal Monte e 'l cardinale da Prato, per rimettere i loro parenti e amici Colonnesi inn-istato, e erano amici del re di Francia, e pendeano in animo ghibellino. E essendo stati per tempo di più di nove mesi rinchiusi e costretti per gli Perugini perché chiamassono papa, e non poteano avere concordia, a la fine trovandosi il cardinale da Prato con messer Francesco cardinale de' Guatani in segreto luogo, disse: "Noi facciamo grande male e guastamento della Chiesa a non chiamare papa". E messer Francesco disse: "E non rimane per me". Quello da Prato rispuose: "E s'io ci trovassi buono mezzo, saresti contento?". Rispuose di sì; e così ragionando insieme vennero a questa concordia, per industria e sagacità del cardinale da Prato, trattando col detto messer Francesco Guatani in questo modo gli diede il partito che l'uno collegio per levare ogni sospetto eleggesse tre oltramontani, sofficienti uomini al papato, cui a·lloro piacesse, e l'altro collegio infra XL dì prendesse l'uno di que' tre, cui a·lloro piacesse, e quegli fosse papa. Per la parte di messer Francesco Guatani fu preso di fare la lezione, credendosi prendere il vantaggio, e elesse tre arcivescovi oltramontani, fatti e criati per papa Bonifazio suo zio, molto suoi amici e confidenti, e nemici del re di Francia loro aversaro, confidandosi, che l'altra parte prendesse, d'avere papa a·lloro senno e loro amico; infra quegli tre fu l'arcivescovo di Bordello il primo più confidente. Il savio e proveduto cardinale da Prato si pensò che meglio si potea fornire il loro intendimento a prendere messer Ramondo del Gotto arcivescovo di Bordello, che nullo degli altri, con tutto che fosse creatura del papa Bonifazio, e non amico del re di Francia, per offese fatte a' suoi nella guerra di Guascogna per messer Carlo di Valos; ma conoscendolo uomo vago d'onore e di signoria, e ch'era Guascone, che naturalmente sono cupidi, che di leggeri si potea pacificare col re di Francia; e così presono il partito segretamente, e per saramento egli e la sua parte del collegio, e ferme dall'uno collegio all'altro le carte e cautele de le dette convenenze e patti, per sue lettere propie e degli altri cardinali di sua parte scrissono al re di Francia, e inchiuse dentro sotto loro suggelli i patti e convenenze e commessione da·lloro a l'altra parte del collegio, e per fidati e buoni corrieri ordinati per gli loro mercatanti (non sentendone nulla l'altra parte) mandarono da Perugia a Parigi in XI dì, amonendo e pregando il re di Francia per lo tinore delle loro lettere che s'egli volesse racquistare suo stato in santa Chiesa, e rilevare i suoi amici Colonnesi, che 'l nimico si facesse ad amico, ciò era messer Ramondo del Gotto arcivescovo di Bordello, l'uno de' tre eletti più confidenti dell'altra parte, cercando e trattando co·llui patti larghi per sé e per gli amici suoi, però che in sua mano era rimessa la lezione dell'uno di que' tre cui a·llui piacesse. Lo re di Francia avute le dette lettere e commessioni, fu molto allegro e sollicito a la 'mpresa. In prima mandate lettere amichevoli per messi in Guascogna a messer Ramondo del Gotto arcivescovo di Bordello, che gli si facesse incontro, che gli volea parlare; e infra i presenti VI dì fu il re personalmente con poca compagnia e segreta conferito col detto arcivescovo di Bordello, in una foresta badia nella contrada di San Giovanni Angiolini; e udita insieme la messa, e giurata in su l'altare credenza, lo re parlamentò co·llui, e con belle parole, di riconciliarlo con messer Carlo, e poi sì gli disse: "Vedi arcivescovo, i' ho in mia mano di poterti fare papa s'io voglio, e però sono venuto a te: e perciò, se tu mi prometterai di farmi sei grazie ch'io ti domanderò, io ti farò questo onore; e acciò che tu sie certo ch'io n'ho il podere", trasse fuori e mostrogli le lettere e le commessioni dell'uno collegio de' cardinali e dell'altro. Il Guascone covidoso della dignità papale, veggendo così di subito come nel re era al tutto di poterlo fare papa, quasi stupefatto de l'alegrezza gli si gittò a' piedi, e disse: "Signore mio, ora conosco che m'ami più che uomo che sia, e vuomi rendere bene per male: tu hai a comandare e io a ubidire, e sempre sarò così disposto". Lo re il rilevò suso, e basciollo in bocca, e poi gli disse: "Le sei speziali grazie ch'io voglio da te sono queste. La prima, che tu mi riconcilii perfettamente colla Chiesa, e facci perdonare del misfatto ch'io commisi de la presura di papa Bonifazio. Il secondo, di ricomunicare me e' miei seguagi. Il terzo articolo, che mi concedi tutte le decime del reame per V anni, aiuto a le mie spese ch'i' ho fatte per la guerra di Fiandra. Il quarto, che tu mi prometti di disfare e anullare la memoria di papa Bonifazio. Il quinto, che tu rendi l'onore del cardinalato a messer Iacopo e a messer Piero de la Colonna, e rimettigli in istato, e fai co·lloro insieme certi miei amici cardinali. La sesta grazia e promessa mi riservo a luogo e a tempo, ch'è segreta e grande". L'arcivescovo promise tutto per saramento in sul <I>Corpus Domini</I>, e oltre a·cciò gli diè per istadichi il fratello e due suoi nipoti; e lo re giurò a·llui e promise di farlo eleggere papa. E ciò fatto, con grande amore e festa si partiro, menandone i detti stadichi sotto coverta d'amore e di riconciliargli con messer Carlo, e tornossi lo re a Parigi; e incontanente riscrisse al cardinale da Prato e agli altri di suo collegio ciò ch'avea fatto, e che sicuramente eleggessono papa messer Ramondo del Gotto arcivescovo di Bordello, siccome confidente e perfetto amico. E come piacque a Dio, la bisogna fue sì sollecita, che in XXXV dì fu tornata la risposta del detto mandato a la città di Perugia molto segreta. E avuta il cardinale da Prato la detta risposta, la manifestò al segreto al suo collegio, e richiese cautamente l'altro collegio che quando a·lloro piacesse, si congregassono in uno, ch'eglino voleano oservare i patti, e così fu fatto di presente. E raunati insieme i detti collegi, e come fu bisogno a retificare e confermare l'ordine de' detti patti con vallate carte e saramenti fu fatto solennemente. E ciò fatto, per lo detto cardinale da Prato proposta saviamente una autorità de la santa Scrittura, che a·cciò si confacea, e per l'autorità a·llui commessa per lo modo detto, elesse papa il sopradetto messer Ramondo dal Gotto arcivescovo di Bordello; e quivi con grande allegrezza da ciascuna parte fue accettato e confermato, e cantato con grandi voci <I>Te Deum laudamus</I> etc., non sappiendo la parte di que' di papa Bonifazio lo 'nganno e 'l tranello com'era andato, anzi si credeano avere per papa quello uomo di cui più si confidavano: e gittate fuori le polizze della lezione, gran contasto e zuffe ebbe tra·lle loro famiglie, che ciascuno dicea ch'era amico di sua parte. E ciò fatto, e usciti i cardinali di là ov'erano inchiusi, incontanente ordinaro di mandargli la lezione e decreto oltre i monti là dov'egli era. Questa lezione fu fatta a dì V di giugno, gli anni di Cristo MCCCV, ed era stata vacata la sedia appostolica X mesi e XXVIII dì. Avemo fatta sì lunga menzione di questa lezione del papa per lo sottile e bello inganno come fatta fue, e per esemplo del futuro, e però che gran cose ne seguirono appresso, come per inanzi faremo al tempo del suo papato e del successore memoria. E questa lezione fu cagione perché il papato rivenne agli oltramontani e la corte n'andò oltre i monti, sicché del peccato commesso per gli cardinali italiani della morte di papa Benedetto, se colpa v'ebbono, e della frodolente lezione furono bene gastigati da' Guasconi, come diremo appresso.
<B>LXXXI</B>
<I>De la coronazione di papa Clemento quinto, e de' cardinali che fece.</I>
Portata la lezione e 'l decreto a l'eletto papa arcivescovo di Bordello infino in Guascogna dov'egli era, accettò il papato allegramente, e fecesi nominare papa Clemento quinto, e incontanente mandò per sue lettere citando tutti i cardinali, che sanza indugio venissono a la sua coronazione a Leone sopra il Rodano in Borgogna, e simile richiese il re di Francia, e 'l re d'Inghilterra, e quello d'Araona, e tutti i nomanati baroni di là da' monti, che fossono a la sua coronazione. De la quale richesta e citazione la maggiore parte de' cardinali italiani si tennero gravati e forte ingannati, credendosi che avuto il decreto venisse a Roma a coronarsi; e messer Matteo Rosso degli Orsini, ch'era il priore de' cardinali e il più atempato, e che più malvolentieri si partiva da Roma, avedutosi dello inganno ch'egli e la sua parte aveano avuto di questa lezione, disse al cardinale da Prato: "Venuto se' a la tua di conducerne oltre i monti, ma tardi ritornerà la Chiesa in Italia, sì conosco fatti i Guasconi". E venuto il papa e' suoi cardinali a·lLeone sopra Rodano, fue consecrato e coronato papa il dì di santo Mattino a dì XI di novembre, gli anni di Cristo MCCCV, in presenza del re Filippo di Francia, e di messer Carlo di Valos, e di molti baroni, il quale, come promesso gli avea, il ricomunicò e ristituì in ogni onore e grazia di santa Chiesa, la quale gli aveva levata papa Bonifazio, e donogli le decime di tutto il suo reame per V anni; e a richesta del detto re per le presenti digiune, a dì XVII del mese di dicembre, fece XII cardinali tra Guasconi e Franceschi, amici e uficiali del re, intra' quali, come promesso avea, fece cardinali messer Iacopo e messer Piero de la Colonna, e ristituigli in ogni grazia ch'avea loro tolta e levata papa Bonifazio; e confermò al re Giamo d'Araona il privilegio che gli avea dato papa Bonifazio del reame di Sardigna. E ciò fatto, se n'andò con suoi cardinali e con tutta la corte a la sua città di Bordello, ove tutti gl'Italiani, così bene i cardinali come gli altri, furono male veduti e trattati, secondo il grado de la loro dignità, però che tutto guidavano i cardinali guasconi e franceschi. Nel detto verno fue grandissimo freddo per tutto, e spezialmente oltre i monti, che ghiacciò il Rodano, sì che su vi si potea passare a piè e a cavallo, e tutti i grandi fiumi, e il Reno, e la Mosa, e Senna, e l'Era, e lo Scalto ad Anguersa; e eziandio ghiacciò il mare di Fiandra, ed a le marme d'Olanda e Silanda e Danesmarce più di tre leghe infra mare, che fu gran maraviglia. Lasceremo alquanto de' fatti del papa al presente, e torneremo a nostra materia de' fatti di Firenze.
<B>LXXXII</B>
<I>Come i Fiorentini e' Lucchesi assediarono e vinsono la città di Pistoia.</I>
Negli anni di Cristo MCCCV, avendo i Fiorentini avute le mutazioni dette adietro de la cacciata de' Bianchi a le porte, e quella parte bianca e ghibellina scacciata e vinta in tutte parti quasi di Toscana, salvo de la città di Pistoia, la quale si tenea per parte bianca col favore de' Pisani, e degli Aretini, e eziandio de' Bolognesi, i quali si reggeano a parte bianca, si dubitaro che non crescesse la loro potenzia sostegnendo Pistoia, sì·ssi providono e chiamaro loro capitano di guerra Ruberto duca di Calavra, figliuolo e primogenito rimaso del re Carlo secondo, il quale venne in Firenze del mese d'aprile del detto anno con una masnada di CCC cavalieri araonesi e catalani, e molti mugaveri a piè, la quale fu molto bella gente, e avea tra·lloro di valenti e rinomati uomini di guerra; il quale da' Fiorentini fu ricevuto a modo di re molto onorevolemente. E riposato alquanto in Firenze, s'ordinò l'oste sopra la città di Pistoia per gli Fiorentini e Lucchesi e gli altri della compagnia di parte guelfa di Toscana: e mossono bene aventurosamente col detto duca loro capitano a dì XX del presente mese di maggio; e' Lucchesi e l'altra amistà vennero da l'altra parte, e circundarono la città intorno intorno co le dette osti, e guastarla d'intorno; e poco tempo appresso l'afossaro e steccaro al di fuori con più battifolli, sì che nullo vi potea entrare né uscire; dentro v'erano tutti i Pistolesi bianchi e ghibellini, e messer Tosolato degli Uberti con masnada di CCC cavalieri e pedoni assai, soldati per gli Bianchi e Ghibellini di Toscana. E stando i Fiorentini nella detta oste intorno a Pistoia, si teneano un'altra piccola oste in Valdarno di sopra a l'assedio del castello d'Ostina, il quale aveano fatto rubellare i Bianchi; e quello ebbono a patti i Fiorentini del presente mese di giugno, e feciongli disfare le mura e le fortezze. Per la detta oste ch'era sopra la città di Pistoia messer Nepoleone degli Orsini cardinale e 'l cardinale da Prato, a petizione de' Bianchi e Ghibellini, richiesono papa Chimento ch'egli si dovesse interporre di mettere pace tra' Fiorentini e' loro usciti, com'avea cominciato il suo antecessoro papa Benedetto per bene del paese d'Italia, e ch'egli facesse levare l'oste da Pistoia: onde il detto papa mandò due suoi legati cherici guasconi, e del mese di settembre furono in Firenze e nell'oste; e comandarono al Comune, e simile al duca Ruberto, e a' Lucchesi, e agli altri capitani dell'oste, che si dovessono levare da l'assedio di Pistoia sotto pena di scomunicazione. Al quale comandamento i Fiorentini e' Lucchesi furono disubidienti e non si partirono dall'assedio di Pistoia; per la qual cosa i detti legati iscomunicaro i rettori de la cittade e' capitani dell'oste e puosono lo 'nterdetto a la città di Firenze e al contado. Il duca Ruberto per non disubbidire al papa si partì dell'oste con sua privata famiglia, e andonne a corte a Bordello, e lasciò nell'oste il suo maliscalco, messer Dego de la Ratta catalano, e tutti i cavalieri i quali v'avea menati al servigio de' Fiorentini e al loro soldo; e' Fiorentini e' Lucchesi, ricrescendo l'assedio al continuo, e' convenia che tutti i cittadini v'andassono o mandassono come toccava per vicenda, o pagassono una imposta per capo d'uomo com'era tassato, la quale si chiamò la Sega. Nel detto assedio ebbe molti assalti e badalucchi a cavallo e a piè, e dammaggio dell'una parte e dell'altra, però che dentro avea franche masnade; e chiunque era preso che n'uscisse, a l'uomo era tagliato il piè, e a la femmina il naso, e ripinto adietro nella città per uno ser Lando d'Agobbio, crudele e dispietato oficiale, il quale per gli Fiorentini fu sopranomato Longino. E così istette e durò la detta oste tutta la vernata, non lasciando per nevi né per piove né ghiacci. A la fine vegnendo a que' d'entro meno la vivanda, e sentendo che di Bologna era cacciata la parte bianca, avendo perduta ogni speranza di soccorso, sì s'arendero salve le persone, e tennonsi insino a tanto che nulla vi rimase a mangiare, avendo mangiati i cavagli, e pane di saggina e di semola, nero come mora e duro come ismalto, e quello ancora fallito; e ciò fu a dì X del mese d'aprile, gli anni di Cristo MCCCVI. E renduta la terra, se n'uscirono le masnade e' caporali de' Bianchi e Ghibellini. E avuta la detta vittoria di Pistoia, i Fiorentini e' Lucchesi feciono tagliare le mura della città e gli steccati, e rovinare ne' fossi; e più torri e fortezze feciono disfare; e il contado di Pistoia partiro per metade, e la parte di verso levante e del monte di sotto con tutte le castella e 'l piano infino presso a la città ebbono in parte i Fiorentini, privileggiandolsi a perpetuo. E feciono disfare la rocca di Carmignano per levarlasi da la vista di Firenze, la quale i Fiorentini aveano comperata da messer Musciatto Franzesi, che gliel'avea data messer Carlo di Valos, quando fue paciaro in Toscana. E' Lucchesi ebbono da la parte di ponente da la città in là verso Serravalle, e tutta la montagna di sopra; e la signoria della città di Pistoia rimase a' Fiorentini e Lucchesi, dell'uno podestà, e dell'altro capitano. E per questo modo fue abattuta la superbia e grandezza de' Pistolesi, e puliti de' loro peccati, e recati a tanto servaggio. E ciò fatto, tornarono i Fiorentini in Firenze con grande allegrezza e trionfo; e a messer Bino Gabrielli d'Agobbio, allora podestà di Firenze e capitano dell'oste, entrando in Firenze, gli fu recato sopra capo il palio di drappo ad oro per gli cavalieri di Firenze a piede a modo di re; e per simile modo feciono i Lucchesi a la loro tornata in Lucca. Nel detto anno dell'asedio di Pistoia fu grande caro in Toscana, e valse in Firenze lo staio del grano a la misura rasa mezzo fiorino d'oro.
<B>LXXXIII</B>
<I>Come la città di Modena e di Reggio si rubellarono al marchese da Esti, e come furono cacciati i Bianchi e' Ghibellini di Bologna.</I>
Nel detto anno MCCCV, del mese di febbraio, si rubellaro al marchese Azzo da Esti la città di Modona e quella di Reggio, le quali per lungo tempo l'avea tenute e signoreggiate tirannescamente, e ressonsi a Comune, e in loro libertade. E nel detto anno, in calen di marzo, reggendosi la città di Bologna a parte bianca, e avendo compagnia co' Bianchi e' Ghibellini di Toscana e di Romagna, il popolo di Bologna, il quale naturalmente è guelfo, non piacendo loro sì fatto reggimento e compagnia co' Ghibellini di Toscana e di Romagna loro antichi nemici, e per conforto e soducimento de' Guelfi di Firenze, levaro la città a romore, con armata mano cacciarono de la città e del contado i caporali di parte bianca, e' Ghibellini tutti, e usciti di Firenze, e isbandirli per ribelli; e ordinaro che neuno Bianco o Ghibellino si lasciasse trovare in Bologna, o nel distretto, sotto pena dell'avere e della persona, andandoli cercando e uccidendo co·lloro bargello, diputato per lo popolo sopra·cciò con gran séguito di masnadieri. E feciono i Bolognesi incontanente lega e compagnia co' Fiorentini e co' Lucchesi e cogli altri Guelfi di Toscana.
<B>LXXXIV</B>
<I>Come si levò in Lombardia un fra Dolcino con grande compagnia d'eretici, e furono arsi.</I>
Nel detto anno MCCCV nel contado di Noara in Lombardia uno frate Dolcino, il quale non era frate di regola ordinata, ma fraticello sanza ordine, con errore si levò con grande compagnia d'eretici, uomini e femmine di contado e di montagne di piccolo affare, proponendo e predicando il detto frate Dolcino sé essere vero appostolo di Cristo, e che ogni cosa dovea essere in carità comune, e simile le femmine esser comuni, e usandole non era peccato. E più altri sozzi articoli di resia predicava, e opponeva che 'l papa, e cardinali, e gli altri rettori di santa Chiesa non oservavano quello che doveano né la vita vangelica, e ch'egli dovea esser degno papa. E era con séguito di più di IIIm uomini e femmine, standosi in su le montagne vivendo a comune a guisa di bestie; e quando falliva loro vittuaglia, prendevano e rubavano dovunque ne trovavano; e così regnò per due anni. A la fine rincrescendo a quegli che 'l seguivano la detta dissoluta vita, molto scemò sua setta, e per difetto di vivanda, e per le nevi ch'erano, fu preso per gli Noaresi e arso con Margherita sua compagna, e con più altri uomini e femmine che co·llui si trovaro in quelli errori.
<B>LXXXV</B>
<I>Come papa Clemento fece legato in Italia messer Nepoleone degli Orsini cardinale, e come fue male ricevuto.</I>
Ne l'anno MCCCVI, avendo rapporto papa Clemento da' legati ch'egli mandò in Firenze come i suoi comandamenti non erano ubiditi di levare l'oste da Pistoia, sì·ssi indegnò contro a' Fiorentini, e per sodducimento e consiglio del cardinale da Prato sì fece legato e paciaro generale in Italia messer Nepoleone degli Orsini dal Monte, cardinale, e diegli grandi privilegi e autoritadi: il quale si partì da Leone sopra Rodano, e passò i monti, e mandando a' Fiorentini che voleva venire in Firenze per fare pace e concordia da loro e i loro usciti, e quegli che reggeano la città per sospetto di lui nol vollono ricevere; onde da capo gli riscomunicò, e confermò lo 'nterdetto, e andonne a la città di Bologna del mese di maggio, e volea somigliantemente pacificare i Bolognesi insieme, e rimettere in Bologna i loro usciti bianchi e ghibellini. Quegli che reggeano la terra, avendo preso sospetto di lui, perché parea che favorasse i Bianchi e' Ghibellini, e per sodducimento de' Fiorentini, di Bologna villanamente l'acommiataro, minacciato per lo bargello de la persona se non votasse la terra. Il quale sanza indugio si partì, e andonne a la città d'Imola in Romagna, che si tenea per gli Bianchi e' Ghibellini; e andandone per lo contado di Bologna, gli furono rubati e tolti molti de' suoi arnesi e some; per la qual cosa il detto legato aspramente procedette contro a·lloro per iscomunica e interdetto de la terra, e privogli dello Studio, e scomunicò qualunque scolaio andasse allo Studio a Bologna.
<B>LXXXVI</B>
<I>Come i Fiorentini assediaro e ebbono il forte castello di Monte Accenico e disfeciollo, e feciono fare la Scarperia.</I>
Nel detto anno, del mese di maggio, i Fiorentini andarono ad oste sopra 'l castello di Monte Accenico in Mugello, e puosonvi l'assedio; il quale castello era de' signori Ubaldini, e era molto bello e ricco, e fortissimo di sito e di doppie mura, però che·ll'avea loro fatto edeficare con grande spendio e diligenzia il cardinale Ottaviano loro consorto; nel quale castello s'erano ridotti gran parte degli Ubaldini, e quasi tutti i ribelli bianchi e ghibellini usciti di Firenze, e faceano guerra e soggiogavano tutto il Mugello e infino all'Uccellatoio. E al detto castello stette l'oste infino a l'agosto, gittandovi difici e faccendovi cave; ma tutto era invano, se non che gli Ubaldini tra·lloro vennero in discordia, e il lato di messer Ugolino da senno il patteggiaro co' Fiorentini per mano di messer Geri Spini loro parente, e diedollo per promessa di XVm fiorini d'oro, onde di gran parte n'ebbono male pagamento. E quegli che v'erano dentro l'abandonaro, e andarne sani e salvi; e 'l castello fue tutto abattuto e disfatto per gli Fiorentini, che non vi rimase casa né pietra sopra pietra. E feciono fare i Fiorentini giuso al piano di Mugello, nel luogo detto la Scarperia, una terra per fare battifolle agli Ubaldini, e torre i loro fedeli, e feciolli franchi, acciò che Monte Accenico mai non si potesse riporre. E cominciossi la detta terra a edificare a dì VII di settembre, gli anni di Cristo MCCCVI, e puosolle nome Santo Barnaba. E ciò fatto, del mese d'ottobre vegnente i Fiorentini cavalcarono co·lloro oste oltre l'alpe, e guastarono tutte le terre degli Ubaldini, perch'aveano fatta guerra e ritenuti i Bianchi e' Ghibellini.
<B>LXXXVII</B>
<I>Come i Fiorentini rafortificaro il popolo, e feciono il primo esecutore degli ordini de la giustizia.</I>
Nel detto anno MCCCVI, del mese di dicembre, parendo a' popolani di Firenze che i loro grandi e possenti avessero presa forza e baldanza per la guerra fatta e vittorie avute contra i Bianchi e' Ghibellini usciti di Firenze, sì vollono riformare il popolo di Firenze, e chiamarono XVIIII gonfalonieri de le compagnie, e che tutti i popolani per contrade com'erano ordinati, quando bisogno fosse, traessono con arme a loro gonfalone, e a l'oferta della festa di santo Giovanni andassono co' detti gonfaloni; che in prima s'andava ciascuno de le XXI arti per loro, e sotto il loro gonfalone de la detta arte. E ciò ordinato e messo in ordine di giustizia, e' diedono loro XVIIII gonfaloni al modo d'insegne de l'antico popolo vecchio, e poi al tempo che 'l cardinale da Prato venne in Firenze, erano rinovellati. Bene erano al suo tempo XX gonfaloni, che n'era uno balzano in San Piero Scheraggio, che lasciaro; e dove al tempo de·legato da Prato nonn-avea ne' gonfaloni null'altra insegna se non dell'arme delle compagnie e del popolo, sì vi s'agiunse sopra ciascuno gonfalone il rastrello dell'arme del re Carlo, e chiamossi il buono popolo guelfo. E del mese di marzo vegnente per fortificamento di popolo feciono venire in Firenze l'essecutore degli ordinamenti de la giustizia, il quale dovesse inchiedere e procedere contro a' grandi che offendessono i popolani. E il primo esecutore che venne in Firenze ebbe nome Matteo, e fue della città d'Amelia di terra di Roma, e fu valente uomo e molto temuto da' grandi, e fatto cavaliere per lo popolo; de le quali novitadi e reformazione di popolo i grandi si tennero forte gravati.
<B>LXXXVIII</B>
<I>Di grande guerra che si cominciò al marchese da Ferrara, e come morìo.</I>
Nel detto anno MCCCVI i Veronesi, Mantovani, e Bresciani feciono lega insieme, e grande guerra mossono al marchese Azzo da Esti ch'era signore di Ferrara, per sospetto preso di lui, ch'egli non volesse esser signore di Lombardia, perch'avea presa per moglie una figliuola del re Carlo; e corsono la sua terra, e tolsongli più di sue castella. Ma l'anno appresso, fatto suo isforzo, e con aiuto de la gente di Piemonte del re Carlo, fece oste grande sopra loro, e corse le loro terre, e fece loro grande dammaggio. Ma poco tempo appresso amalò e si morì il detto marchese Azzo in grande miseria e istento; il quale era stato il più leggiadro e ridottato e possente tiranno che fosse in Lombardia, e di lui non rimase figliuolo neuno madornale, e la sua terra e signoria rimase in grande quistione tra frategli e nipoti, e uno suo figliolo bastardo ch'avea nome messer Francesco, il quale i Viniziani molto favoravano, perch'era nato di Vinegia; e molta briga e guerra con danno de' Viniziani ne seguì appresso, come innanzi per gli tempi faremo menzione.
<B>LXXXIX</B>
<I>Come messer Nepoleone Orsini legato venne ad Arezzo, e dell'oste che Fiorentini feciono a Gargosa.</I>
Negli anni di Cristo MCCCVII messer Nepoleone degli Orsini legato per la Chiesa si partì di Romagna, e passò in Toscana, e venne a la città d'Arezzo, e dagli Aretini fu ricevuto a grande onore; e stando in Arezzo raunò tutti i suoi amici e fedeli di terra di Roma, de la Marca, e del Ducato, e di Romagna, e gli usciti bianchi e ghibellini di Firenze e dell'altre terre di Toscana, in quantità di MDCC cavalieri e popolo grandissimo, per fare guerra a' Fiorentini. I Fiorentini sentendo sua venuta e raunata, sì·ssi guernirono, e richiesono gli amici, e trovarsi nel torno di IIIm cavalieri e più di XVm pedoni, e partìsi di Firenze del mese di maggio, non attendendo che·legato e sua gente gli asalisse, e co·lloro oste n'andarono francamente in sul contado d'Arezzo, e tennero la via di Valdambra, guastando il paese; e presono più castella del Comune d'Arezzo e degli Ubertini, e feciolle disfare. E andando verso Arezzo, si puosono a oste al castello di Gargosa, e quello strinsono con battaglie e difici, e erano per averlo. Ma il legato per levarsi d'adosso la detta oste, con savio consiglio de' buoni capitani di guerra ch'erano co·llui, si partì d'Arezzo con tutta sua cavalleria e gente, e fece la via da Bibbiena per lo Casentino, e venne infino al castello di Romena, mostrando di scendere l'alpe, e di venire a la città di Firenze, dando suono che gli dovea essere data la terra. I Fiorentini sentendo sua venuta, ebbono grande paura e gelosia, e feciono grande guardia nella terra, e rimandarono nell'oste a Gargosa per la loro cavalleria e gente; ma innanzi che i messi vi giugnessono, que' dell'oste sentiro la partita che·legato fece d'Arezzo, e come facea la via del Casentino; temendo de la città di Firenze, incontanente si ricolsono, e la sera quasi di notte si partirono disordinatamente, e tutta la notte cavalcarono chi meglio ne potea venire. La quale partita de' Fiorentini e di loro amici fue sanza alcuno danno, ma non sanza grande vergogna di mala condotta e di grande pericolo. Che se il legato avesse lasciati in Arezzo CCC cavalieri e M pedoni, e alla levata de' Fiorentini gli avessono assaliti, ne tornavano sconfitti. E per lo detto modo chi prima e chi poi si tornarono in Firenze; e saputo ciò, il legato si tornò con sua gente inn-Arezzo. Dopo queste cose i·legato andò a Chiusi e al castello della Pieve, e più trattati d'accordo ebbe co' Fiorentini, i quali mandaro a·llui loro ambasciadori, cercando di rimettere in Firenze i Bianchi e' Ghibellini con certi patti, e pacificarli insieme. E dopo molte rivolture, i Fiorentini non fidandosi, e tegnendo il legato in vana speranza, tutto il trattato tornò in niente. Per la qual cosa il legato veggendosi non ubbidito e scemato il suo podere, con poco onore si partì di Toscana, e tornossi oltre i monti a la corte, lasciando i signori che reggeano Firenze scomunicati, e la città e 'l contado interdetta. E rimasi i Fiorentini male disposti, del presente mese di luglio del detto anno feciono sopra i cherici una grande e grave imposta; e perché non voleano pagare, più ingiurie furono fatte a' cherici, e a' loro osti e fittaiuoli, e pure convenne che pagassono. E la Badia di Firenze, andandovi l'uficiale isattore con sua famiglia, i monaci chiusono le porte, e sonarono le campane; per la qual cosa dal popolo minuto e da' malandrini, con sospignimento di loro possenti vicini grandi e popolani che non gli amavano, furono corsi a furore, e tutti rubati. E poi il Comune, perch'aveano sonato, volea tagliare il campanile da piè, e disfecionne di sopra presso che la metade; la quale furia fue molto biasimata per la buona gente di Firenze.
<B>XC</B>
<I>Come morìo il buono re Adoardo d'Inghilterra.</I>
Nel detto anno MCCCVII, del mese di giugno, morìo il buono e valente Adoardo re d'Inghilterra, il quale fue uno de' valorosi signori e savio de' Cristiani al suo tempo, e bene aventuroso in ogni sua impresa di là da mare contra i Saracini, e in suo paese contra gli Scotti, e in Guascogna contro a Franceschi, e al tutto fu signore dell'isola d'Irlanda e di tutte le buone terre di Scozia, salvo che 'l suo rubello Ruberto di Busto, fattosi re degli Scotti, si ridusse con suoi seguagi a' boschi e montagne di Scozia, il quale dopo la morte del detto Adoardo fece gran cose contro agl'Inghilesi. Appresso la morte del buono re Adoardo, Adoardo suo primogenito prese per moglie Isabella figliuola del re Filippo di Francia; diedono compimento a l'accordo de la quistione di Guascogna, e isposata la detta donna del mese di gennaio presente, la quale era delle belle donne del mondo, e poi la Pasqua di Risoresso vegnente si fece coronare, egli e la reina, con grande festa e onore.
<B>XCI</B>
<I>Come il re di Francia andò a Pittieri a papa Chimento per fare condannare la memoria di papa Bonifazio.</I>
Nel detto anno e mese di giugno MCCCVII, essendo papa Chimento venuto co la corte a petizione del re di Francia a la città di Pettieri, il detto re di Francia con tre suoi figliuoli, e con messer Carlo di Valos e messer Luisi suoi fratelli, e con molti altri baroni e cavalieri, e col conte di Fiandra e' suoi figliuoli e fratelli vennero a Pittieri: e dato per lo papa compimento e fermezza a la pace del re di Francia al conte di Fiandra e' Fiaminghi, il re di Francia richiese al papa la quinta cosa che s'aveva fatta promettere, quando il re gli promise di farlo fare papa, cioè ch'egli condannasse la memoria di papa Bonifazio, e facesse ardere le sue ossa e corpo; e fece opporre contra lui a' suoi cherici e avogadi XLIII articoli di resia, profferendo di provagli; onde il papa e' suoi cardinali furono in grande turbazione per la detta richesta, però che 'l re volea o per ragione o per forza fornire le pruove, e come detto è adietro, il papa gliel'avea promesso e giurato; e di ciò si pentea molto, ma non s'osava scoprire contra 'l volere del re, e torto e abassamento de la Chiesa gli parea fare, se l'asentisse, però che in papa Bonifazio di ragione non si trovava nulla memoria di resia, ma si trovava per lo VI libro de le decretali ch'egli fece comporre, molto cattolico e utile, e per papa Bonifazio si trovava molto esaltata la santa Chiesa e le sue ragioni; e ancora più, del collegio de' cardinali v'avea di quegli ch'avea fatti papa Bonifazio, e 'l cardinale da Prato intra gli altri era uno di quegli; e se la memoria di papa Bonifazio fosse dannata, conveniva che fossono disposti del cardinalato. Per la qual cosa, così la setta de' cardinali ch'aveano tenuto col re di Francia in questo caso erano contro a·llui, come quegli della setta del nipote di papa Bonifazio. E stando la Chiesa in questa contumacia e perseguizione fatta per lo re, il papa non sapea che si fare, che male gli parea a rompere il suo saramento e promessa fatta al re, e peggio gli parea a corrompere e guastare la Chiesa di Roma. A la fine strignendosi di ciò a segreto consiglio col savio cardinale da Prato, che sapea le sue segrete promesse, sì gli disse: "Qui nonn-ha che uno rimedio, cioè che ti conviene dissimulare col re, e che tu gli dichi che, perché quello ch'egli domanda di papa Bonifazio sia forte caso a passare per la Chiesa, e parte del collegio de' cardinali non vi s'accordino, conviene di necessità, e ancora più acconcio del suo intendimento, e più abbominazione de la memoria di papa Bonifazio, che le pruove degli articoli ch'egli gli oppone si facciano in concilio generale, e fia più autentico e fermo. E per non avere contasto, sì metterai dinanzi al collegio che per più grandi e utili cose, in bene e istato di santa Chiesa e de' Cristiani che bisogni si faccia in concilio generale; e che in quello farai pienamente quello che domanda. E 'l detto concilio ordina e componi a la città di Vienna, per più comune luogo a' Franceschi, e Inghilesi, e Tedeschi, e Italiani, e a quegli di Linguadoco; e a questo non ti potrà opporre né contradiare: e ciò faccendo, tu e la Chiesa sarai in tua libertà; e partendoti di qui e andando a Vienna, sì sarai fuori de le sue forze e di suo reame". Al papa piacque molto il consiglio, e miselo a seguizione, e fece la risposta al re: onde il re si tenne forte gravato, ma non potendo il re a·cciò bene contradire, promettendogli il papa che bene il servirebbe, e faccendogli molte altre grazie e richeste, acconsentìe, credendosi sì adoperare al concilio a Vienna, che gli verrebbe fatto il suo intendimento. E così si tornò a Parigi, e mandò Luis suo primo figliuolo in Navarra con grande compagnia di baroni e cavalieri, e fecelo a la città di Pampalona coronare del reame di Navarra; e 'l papa piuvicato di fare concilio, e diterminatolo d'ivi a tre anni a Vienna, con tutta la corte poco tempo appresso uscì del reame di Francia, e venne a Vignone in Proenza nelle terre del re Ruberto.
<B>XCII</B>
<I>Come e per che modo fu distrutta l'ordine e magione del Tempio di Gerusalem per procaccio del re di Francia.</I>
Nel detto anno MCCCVII, innanzi che 'l re di Francia si partisse da la corte a Pittieri, sì accusò e dinunziò al papa per sodducimento de' suoi uficiali, e per cupidigia di guadagnare sopra loro, il maestro del Tempio e la magione di certi crimini ed errori che al re fu fatto intendente che' Tempieri usavano. Il primo movimento fu per uno priore di Monfalcone di tolosana de la detta ordine, uomo di mala vita ed eretico, e per gli suoi difetti messo in Parigi in perpetuale carcere per lo suo maestro. E trovandovisi dentro con uno Noffo Dei nostro Fiorentino, pieno d'ogni magagne, sì come uomini disperati d'ogni salute, e maliziosi e rei, con trovare la detta falsa accusa, e per guadagnare e uscire di pregione per l'aiuto del re. Ma ciascuno di loro feciono mala fine poco appresso: Noffo impiccato, e 'l priore morto a ghiado. Per fare al re guadagnare la misono innanzi a' suoi uficiali, e' detti il misono dinanzi al re; onde per sua avarizia si mosse il re, e sì ordinò e fecesi promettere segretamente al papa di disfare l'ordine de' Tempieri, opponendo contro a·lloro molti articoli di resia: ma più si dice che fu per trarre di loro molta moneta, e per isdegni presi col maestro del Tempio e colla magione. Il papa per levarsi d'adosso il re di Francia, per la richesta ch'egli avea fatta del condannare papa Bonifazio, come avemo detto dinanzi, o ragione o torto che fosse, per piacere al re gli asentì di ciò fare; e partito il re, in uno dì nomato per sue lettere, fece prendere tutti i Tempieri per l'universo mondo, e staggire tutte le loro chiese e magioni e possessioni, le quali erano quasi innumerabili di podere e ricchezze; e tutte quelle del reame di Francia fece occupare il re per la sua corte, e a Parigi fece prendere il maestro del Tempio, il quale avea nome fra Giache de' signori da Mollai in Borgogna, con LX frieri cavalieri e gentili uomini, opponendo contro a·lloro certi articoli di resia, e certi villani peccati contra natura ch'usavano tra·lloro; e che alla loro professione giuravano d'atare la magione a diritto e a torto, e a uno modo quasi come idolari, e isputavano nella croce, e che quando il loro maestro si consegrava era di nascoso e privato, e non si sapea il modo; e opponendo che i loro anticessori per tradimento feciono perdere la Terrasanta, e prendere a la Monsura il re Luis e' suoi. E sopra ciò fatte dare per lo re certe pruove, gli fece tormentare di diversi tormenti perché confessassono; e non si truova che niente volessono di ciò confessare né riconoscere. E tegnendoli più tempo in pregione a grande stento, e non sappiendo dare fine al loro processo, a la fine di fuori di Parigi da Santo Antonio, e parte a San Luis in Francia, in uno grande parco chiuso di legname, LVI de' detti Tempieri fece legare ciascuno a uno palo, e cominciare a mettere loro il fuoco da' piè e a le gambe a poco a poco, e l'uno innanzi a l'altro amonendogli che quale di loro volesse raconoscere l'errore e' peccati loro opposti potesse scampare; e in su questo martorio confortati da' loro parenti e amici che riconoscessono, e non si lasciassono così vilmente morire e guastare, niuno di loro il volle confessare; e con pianti e grida scusandosi com'erano innocenti e fedeli Cristiani, chiamando Cristo e santa Maria e gli altri santi, col detto martorio tutti ardendo e consumando finirono loro vita. E riserbato il maestro loro, e 'l fratello del Dalfino d'Alvernia, e fra Ugo di Paraldo, e un altro de' maggiori de la magione, e istati uficiali e tesorieri del re di Francia, furono menati a Pittieri dinanzi al papa, e fuvi il re di Francia, e promesso loro grazia se riconoscessono il loro errore e peccato, alcuna cosa si dice ne confessaro; e tornati a Parigi, e venuti due legati cardinali per dare la sentenzia e condannare l'ordine sotto la detta confessione, e per dare alcuna disciplina al detto maestro e' suoi compagni, essendo incontro a Nostra Dama di Parigi in su grandi pergami, e letto il processo, il detto maestro del Tempio si levò in piè gridando che fosse udito: e fatto silenzio per lo popolo, si disdisse che mai quelle resie e peccati loro opposti nonn-erano state vere, e che l'ordine di loro magione era santa e giusta e cattolica, ma ch'egli era ben degno di morte, e voleala sofferire in pace, però che per paura e per lusinghe del papa e del re, in alcuna parte l'aveano per inganno loro confessate. E rotto il sermone e non compiuto di dare sentenzia, si partiro i cardinali e gli altri parlati di quello luogo. E avuto consiglio col re, il detto maestro e suoi compagni in su l'Isola di Parigi dinanzi a la sala del re per lo modo degli altri loro frieri furono messi a martirio, ardendo il maestro a poco a poco, e sempre dicendo che la magione e loro religione era cattolica e giusta, accomandandosi a Dio e a santa Maria; e simile fece il fratello del Dalfino; fra Ugo di Paraldo e l'altro per paura del martorio confessaro e raffermaro quello ch'aveano detto dinanzi dal papa e al re, e scamparo, ma poi moriro miseramente. E per molti si disse che furono morti e distrutti a torto e a peccato, e per occupare i loro beni, i quali poi per lo papa furono privileggiati, e dati a la magione dello Spedale, ma convennegli loro ricogliere e ricomperare dal re di Francia e dagli altri prencipi e signori, e con tanta quantità di moneta, che cogli 'nteressi corsi poi la magione dello Spedale fu ed è più povera che non era prima del loro propio, o che Idio il dimostrasse per miracolo. E lo re di Francia e' suoi figliuoli ebbono poi molte vergogne e aversitadi, e per questo peccato, e per quello della presura di papa Bonifazio, come innanzi si farà menzione. E nota che la notte appresso che'l detto maestro e'l compagno furono martorizzati, per frati e altri religiosi le loro corpora e ossa come relique sante furono ricolte, e portate via in sacri luoghi. In questo modo fu distrutta e messa a niente la ricca e possente magione del Tempio di Gerusalem gli anni di Cristo MCCCX. Lasceremo de' fatti di Francia, e torneremo a' nostri fatti d'Italia.
<B>XCIII</B>
<I>Di novitadi e sconfitte che furono in Romagna e in Lombardia.</I>
Nel detto anno MCCCVII, del mese d'agosto, essendo i Guelfi a l'assedio a Brettinoro, la lega de' Ghibellini di Romagna raunati insieme co·lloro amistà sconfissono li Guelfi; e furonne tra morti e presi più di MM tra piè e a cavallo. E l'aprile vegnente MCCCVIII il popolo de la città di Parma con trattato d'Orlando de' Rossi e de' suoi cacciarono di Parma messer Ghiberto da Coreggio, il quale n'era signore; per la qual cosa s'acompagnò co' Mantovani e' Veronesi, e imparentossi co' signori della Scala; e del mese di giugno vegnente il detto messer Ghiberto venne verso Parma co la forza di messere Cane della Scala, e con quella de' Mantovani e Parmigiani. I Parmigiani uscendo contro a·lloro furono sconfitti, e 'l detto messer Ghiberto tornò in Parma e funne signore, e caccionne i Rossi e' suoi nemici, e fece mozzare la testa a XXVIIII popolani, i quali erano stati caporali a la sua cacciata.
<B>XCIV</B>
<I>Come fue morto il re Alberto de la Magna.</I>
Nel detto anno MCCCVIII, in calen di maggio, lo re Alberto d'Alamagna, che s'attendea d'essere imperadore, fu morto a ghiado da uno suo nipote a tradigione a uno valicare d'uno fiume scendendo de la nave, per cagione che 'l detto re Alberto gli occupava il retaggio de la parte sua del ducato d'Osteric. Lasceremo alquanto delle cose de' forestieri, e torneremo a raccontare de le novitadi che ne' detti tempi furono nella nostra città di Firenze.
<B>XCV</B>
<I>Come una podestà di Firenze si fuggì col suggello dell'Ercore del Comune.</I>
Nel detto anno MCCCVIII, essendo podestà di Firenze uno messer Carlo d'Amelia fratello del primo esecutore degli ordini della giustizia, avendo egli e sua famiglia fatte in Firenze molte baratterie, e guadagnerie, e pessime opere, e già di ciò molto scoperto, temendosi al suo sindicato esser condannato e ratenuto, la notte di santo Giovanni del mese di giugno furtivamente si fuggì con sua privata famiglia, onde fu condannato per baratteria. E per riavere pace e danari dal Comune sì ne portò seco il suggello del Comune, dov'era intagliata l'imagine dell'Ercore, e tennelo più tempo, istimandosi che 'l Comune il traesse di bando, e ricomperasselo molta moneta: onde il Comune il mise in abandono operando altro suggello e notificandolo in tutte parti, sì che non fosse data fede a quello suggello. A la fine il suo fratello gliele tolse, e rimandollo in Firenze, e d'allora innanzi s'ordinò che né podestà né priori tenessono suggello di Comune, ma fecionne cancelliere e guardiano i frati conversi di Settimo, che stanno nella camera dell'arme del palagio de' priori.
<B>XCVI</B>
<I>Come fu morto il nobile e grande cittadino di Firenze messer Corso de' Donati.</I>
Nel detto anno MCCCVIII, essendo nella città di Firenze cresciuto scandolo tra' nobili e potenti e popolani di parte nera che guidavano la città per invidia di stato e di signoria, come si cominciò al tempo del romore della ragione, come addietro facemo memoria; questo invidioso portato convenne che partorisse dolorosa fine, che per le peccata della superbia, e invidia, e avarizia, e altri che regnavano tra·lloro erano partiti in setta; e dell'una era capo messer Corso de' Donati con séguito d'alquanti nobili e di certi popolani, e intra gli altri quegli della casa di Bordoni, e dell'altra erano capo messer Rosso della Tosa, messere Pazzino de' Pazzi, e messer Geri Spini, e messer Betto Brunelleschi co' loro consorti, e con quegli de' Cavicciuli, e di più altri casati grandi e popolani, e la maggiore parte de la buona gente della cittade, i quali aveano gli ufici e 'l governamento de la terra e del popolo. Messer Corso e' suoi seguagi parendo loro esser male trattati degli onori e ofici a·lloro guisa, parendogli essere più degni, però ch'erano stati i principali ricoveratori dello stato de' Neri e cacciatori della parte bianca; ma per l'altra parte si disse che messer Corso volea essere signore della cittade e non compagnone; quale che si fosse il vero o la cagione, i detti, e quegli che reggeano il popolo, l'aveano in odio e a grande sospetto, dapoi s'era imparentato con Uguiccione della Faggiuola, Ghibellino e nimico de' Fiorentini; e ancora il temeano per lo suo grande animo e podere e séguito, dubitando di lui che non togliesse loro lo stato e cacciasse de la terra, e massimamente perché trovarono che 'l detto messere Corso avea fatta lega e giura col detto Uguiccione da la Faggiuola suo suocero, e mandato per lui e per suo aiuto. Per la qual cosa, e per grande gelosia, subitamente si levò la cittade a romore, e sonarono i priori le campane a martello, e fu ad arme il popolo e' grandi a piè e a cavallo, e le masnade de' Catalani col maliscalco del re, ch'era a posta di coloro che guidavano la terra. E subitamente, com'era ordinato per gli sopradetti caporali, fu data una inquisizione overo accusa a la podestà, ch'era messer Piero de la Branca d'Agobbio, incontro al detto messer Corso, opponendogli come dovea e volea tradire il popolo, e sommettere lo stato della cittade, faccendo venire Uguiccione da Faggiuola co' Ghibellini e nimici del Comune. E la richesta gli fu fatta, e poi il bando, e poi la condannagione: in meno d'una ora, sanza dargli più termine al processo, messer Corso fu condannato come rubello e traditore del suo Comune, e ancontanente mosso da casa i priori il gonfalone della giustizia con podestà, capitano, e esecutore, co·lloro famiglie e co' gonfaloni de le compagnie, col popolo armato e le masnade a cavalio a grido di popolo per venire a le case dove abitava messer Corso da San Piero Maggiore per fare l'esecuzione. Messer Corso sentendo la persecuzione che gli era mossa e chi disse per esser forte a fornire il suo proponimento, attendendo Uguiccione de la Faggiuola con grande gente, che già n'era giunta a Remole - sì s'era aserragliato nel borgo di San Piero Maggiore a piè de le torri del Cicino, e in Torcicoda, e a la bocca che va verso le Stinche, e a la via di San Brocolo con forti isbarre, e con genti assai suoi consorti e amici armati, e con balestra, i quali erano rinchiusi nel serraglio al suo servigio. Il popolo cominciò a combattere i detti serragli da più parti, e messer Corso e' suoi a difendere francamente: e duròe la battaglia gran parte del dì, e fue a tanto, che con tutto il podere del popolo, se i·rinfrescamento de la gente d'Uguiccione, e gli altri amici di contado invitati per messer Corso gli fossono giunti a tempo, il popolo di Firenze avea quello giorno assai a·ffare; ché, perché fossono assai, erano male in ordine e non molto inn-accordo, però ch'a parte di loro non piacea. Ma sentendo la gente d'Uguiccione come messer Corso era assalito dal popolo, si tornaro adietro, e' cittadini ch'erano nel serraglio si cominciarono a partire, onde rimase molto sottile di genti, e certi del popolo ruppono il muro del giardino di contro alle Stinche, e entrarono dentro con grande gente d'arme. E veggendo ciò messer Corso e' suoi, e che 'l soccorso d'Uguiccione e degli altri suoi amici gli era tardato e fallito, sì abandonò le case, e fuggìsi fuori de la terra, le quali case dal popolo incontanente furono rubate e disfatte, e messer Corso e' suoi perseguiti per alquanti cittadini a cavallo e Catalani mandati in pruova che 'l pigliassono. E per Boccaccio Cavicciuli fu giunto Gherardo Bordoni in sull'Africo, e morto, e tagliatagli la mano, e recata nel corso degli Adimari, e confitta a l'uscio di messer Tedici degli Adimari suo consorto, per nimistade avuta tra·lloro. Messer Corso tutto solo andandosene, fue giunto e preso sopra a Rovezzano da certi Catalani a cavallo, e menandolne preso a Firenze, come fue di costa a San Salvi, pregando quegli che'l menavano, e promettendo loro molta moneta se lo scampassono, i detti volendolo pure menare a Firenze, sì com'era loro imposto da' signori, messer Corso per paura di venire a le mani de' suoi nemici e a essere giustiziato dal popolo, essendo compreso forte di gotte ne le mani e ne' piedi, si lasciò cadere da cavallo. I detti Catalani veggendolo in terra, l'uno di loro gli diede d'una lancia per la gola d'uno colpo mortale, e lasciarollo per morto: i monaci del detto monistero il ne portaro ne la badia, e chi disse che inanzi che morisse si rimise ne le mani di loro in luogo di penitenzia, e chi disse che il trovar morto; e l'altra mattina fu soppellito in San Salvi con piccolo onore e poca gente, per tema del Comune. Questo messer Corso Donati fue de' più savi, e valente cavaliere, e il più bello parlatore, e 'l meglio pratico, e di maggiore nominanza, e di grande ardire e imprese ch'al suo tempo fosse in Italia, e bello cavaliere di sua persona e grazioso, ma molto fu mondano, e di suo tempo fatte in Firenze molte congiurazioni e scandali per avere stato e signoria; e però avemo fatto de la sua fine sì lungo trattato, però che fu grande novità a la nostra cittade, e seguirne molte cose appresso per la sua morte, come per gl'intendenti si potrà comprendere, acciò che sia assempro a quegli che sono a venire.
<B>XCVII</B>
<I>Come arse la chiesa di Laterano di Roma.</I>
Nel detto anno MCCCVIII, del mese di giugno, s'apprese il fuoco ne' palagi papali di Santo Giovanni Laterano di Roma, e arsono tutte le case de' calonaci, e tutta la chiesa e circuito, e non vi rimase ad ardere se non la piccola cappelletta in volte di <I>Sancto Sanctorum</I>, ove si dice ch'è la testa di santo Piero e quella di santo Paolo, e molte relique di santi: e ciò fu con grandissimo dammaggio di tesoro e d'arnesi, sanza lo 'nfinito danno della chiesa e palazzi e case. Poi sappiendolo papa Chimento, l'anno appresso, vi mandò suoi uficiali con grande quantità di moneta, e la detta chiesa fece ristorare, e rifare più bella e più ricca che non era prima, e simile i palazzi papali e le case de' calonaci, e penarsi a·ffare parecchi anni, e costarono molto tesoro a la Chiesa.
<B>XCVIII</B>
<I>Come i grandi di Samminiato disfeciono il loro popolo.</I>
Nel detto anno MCCCVIII, del mese d'agosto, i grandi di Samminiato del Tedesco, come sono Malpigli e Mangiadori, per soperchi ricevuti dal popolo di Samminiato, overo perché 'l popolo gli tenea corti, per modo che non poteano signoreggiare la terra a·lloro senno, sì s'accordaro insieme e feciono venire loro amistà di fuori, e con armata mano combattero col popolo e sconfissongli, e molti n'uccisono e presono, e a certi caporali feciono tagliare la testa, e tutti i loro ordini arsono, e la campana del popolo feciono sotterrare, e tennero poi il popolo in grande servaggio infino che le dette due case non ebbono discordia tra·lloro.
<B>XCIX</B>
<I>Come i Tarlati furono cacciati d'Arezzo, e rimessivi i Guelfi.</I>
Nel detto anno MCCCVIII, del mese di gennaio, il popolo d'Arezzo con aiuto e favore d'Uguiccione da Faggiuola che badava d'esserne signore cacciarono de la cittade i signori di Pietramala, detti Tarlati, per soperchi e oltraggi che faceano a' cittadini; e poco appresso vi rimisono la parte guelfa, che quegli di Pietramala n'aveano tenuti fuori per XXI anni; e quegli che signoreggiavano la cittade, ch'erano mischiati Guelfi e Ghibellini, si faceano chiamare la parte Verde; e mandarono loro ambasciadori a·fFirenze, e feciono pace co' Fiorentini, come i Fiorentini la seppono divisare; ma poco tempo durò questo stato in Arezzo, ché vi tornarono i Tarlati.
<B>C</B>
<I>Come gli Ubaldini tornarono a ubidienza del Comune di Firenze.</I>
In questo medesimo tempo i signori Ubaldini s'accordarono co' Fiorentini, e vennero in Firenze a·ffare reverenza e le comandamenta del Comune, e sodaro la cittadinanza di tenere il passaggio de l'alpi sicuro per idonei mallevadori. E 'l Comune di Firenze dimise e perdonò loro ogni misfatto, e accettogli per cittadini e distrittuali, loro, e' loro fedeli e terre, e che in ogni atto e fazioni dovessono fare al Comune come distrittuali e cittadini.
<B>CI</B>
<I>Per che modo fue eletto imperadore di Roma Arrigo conte di Luzzimborgo.</I>
Nel detto anno MCCCVIII, essendo morto lo re Alberto de la Magna, come dicemmo addietro, per la cui morte vacava lo 'mperio, e i lettori de la Magna erano in grande discordia tra·lloro di fare la lezione, lo re di Francia, sentendo la detta vacazione, sì·ssi pensò che gli verrebbe fornito il suo intendimento con poca fatica per la sesta promessa che gli avea fatta papa Chimento segretamente, quando gli promise di farlo fare papa, come adietro facemmo menzione; e raunò suo segreto consiglio con messer Carlo di Valos suo fratello, e quivi scoperse il suo intendimento, e i·lungo disiderio ch'egli avea avuto di fare eleggere a la Chiesa di Roma a re de' Romani messer Carlo di Valos, e eziandio vivendo Alberto re de la Magna, co la sua forza e podere e dispendio, e col podere del papa e de la Chiesa: ch'altre volte per antico avea rimossa la lezione de' Greci ne' Franceschi, e de' Franceschi negli Italiani, e degl'Italiani negli Alamanni, ora maggiormente ci dee venire fatto, dapoi che vaca lo 'mperio, e massimamente per la detta promessa e saramento che gli avea fatta papa Clemento, quando il fece fare papa. E scoperse tutto il segreto contratto co·llui, e fatto ciò, domandò il loro consiglio e fece giurare credenza. A questa impresa fue lo re confortato per tutti gli suoi consiglieri, e che in ciò s'aoperasse tutto il podere de la corona e di suo reame, sì che venisse fatto, sì per l'onore di messer Carlo di Valos che n'era degno, e perché l'onore e dignità dello 'mperio tornasse a' Franceschi, sì come fu per antico lungo tempo per gli loro anticessori, Carlo Magno e gli suoi successori. Inteso per lo re e per messer Carlo il conforto e buon volere del suo consiglio, sì furono molto allegri, e ordinaro che sanza indugio lo re e messer Carlo con grande forza di baroni e cavalieri d'arme andassono a Vignone al papa innanzi che gli Alamanni facessono altra lezione, mostrando e dando boce che la sua andata fosse per la richesta fatta contra la memoria di papa Bonifazio; e che quando il re fosse a corte, richiedesse al papa la sesta segreta promessa, cioè d'eleggere e confermare imperadore di Roma messer Carlo di Valos, e trovassesi sì forte di sua gente, che nullo cardinale né altri, né eziandio il papa, non l'ardisse a rifusare. E ciò ordinato, sì comandò a' baroni e cavalieri che s'aparecchiassono d'arme e di cavagli a fare compagnia al re per andare a la corte a Vignone, e quegli del siniscalco di Proenza fossono apparecchiati, e doveano essere in numero di più di VIm cavalieri d'arme. Ma come piacque a Dio, per non volere che la Chiesa di Roma fosse al tutto sottoposta a la casa di Francia, questo apparecchiamento del re e il suo intendimento fu fatto segretamente assentire al papa per uno del segreto consiglio del re di Francia. Il papa temendo della venuta del re con tanta forza, e ricordandosi della sua promessa fatta, riconoscendo ch'era molto contraria a la libertà della Chiesa, sì ebbe segreto consiglio solamente con messer d'Ostia cardinale da Prato, che già aveano preso isdegno col re di Francia per le disordinate richeste, e perché se la Chiesa avesse condannata la memoria di papa Bonifazio, ciò ch'avea fatto era casso e annullato, e 'l cardinale di Prato fue per Bonifazio fatto cardinale con certi altri, come detto avemo in altra parte. Il detto cardinale udendo quello che sentia il papa della 'ntenzione e della venuta del re di Francia, sì disse: "Padre santo, qui nonn-ha che uno remedio, cioè che innanzi ti faccia la richesta il re, per te s'ordini co' prencipi de la Magna segretamente e con istudio ch'eglino facciano lezione d'imperio". Al papa piacque il consiglio, ma disse: "Cui volemo per imperadore?". Allora il cardinale molto antiveduto, non tanto solamente per la libertà della Chiesa, quanto a sua propietà e di sua parte ghibellina rilevare in Italia, disse: "Io sento che 'l conte di Luzzimborgo è oggi il migliore uomo de la Magna, e il più leale e il più franco, e più cattolico, e non mi dubito, se viene per te a questa dignità, ch'egli non sia fedele e obbediente a te e a santa Chiesa, e uomo da venire a grandissime cose". Al papa piacque per la buona fama che sentia di lui; disse: "Questa lezione come si può fornire per noi segretamente, mandando lettere con nostra bolla, che nol senta il collegio de' nostri frati cardinali?". Rispuose il cardinale: "Fa' a·llui e a' lettori tue lettere col piccolo e segreto suggello, e io scriverò loro per mie lettere più a pieno il tuo intendimento, e manderolle per mio famigliare"; e così fu fatto. E come piacque a·dDio, giunti i messaggi ne la Magna e presentate le lettere, in otto dì i prencipi de la Magna furono congregati a Midelborgo, e ivi sanza niuno discordante elessero a re de Romani Arrigo conte di Luzzimborgo; e ciò fu per la industria e studio del detto cardinale, che scrisse a' prencipi infra l'altre parole: "Fate d'essere in accordo del tale, e sanza indugio, se non, io sento che la lezione e la signoria dello 'mperio tornerà a' Franceschi". Fatto ciò, la lezione fu pubblicata in Francia e in corte di papa incontanente; non sappiendo il modo il re di Francia, che facea l'apparecchiamento per andare a corte, si tenne ingannato, e mai non fu poi amico del detto papa.
<B>CII</B>
<I>Come Arrigo imperadore fue confermato dal papa.</I>
Nel detto anno, essendo fatta la lezione d'Arrigo di Luzzimborgo a re de' Romani, sì mandò a Vignone a corte a papa Clemento per la sua confermazione il conte di Savoia suo cognato e messer Guido di Namurro fratello del conte di Fiandra suo cugino, i quali dal papa e da' cardinali onorevolemente furono ricevuti, e del mese d'aprile MCCCVIIII, per lo papa il detto Arrigo fue confermato a imperadore, e ordinato che 'l cardinale dal Fiesco e 'l cardinale di Prato fossono legati in Italia e in sua compagnia quando venisse di qua da' monti, comandando da parte de la Chiesa che da tutti fosse ubbidito. Incontanente che' suo' ambasciadori furono tornati co la confermagione del papa, se n'andò ad Asia la Cappella in Alamagna con tutta la baronia e prelati d'Alamagna, e fuvi il duca di Brabante, e 'l conte di Fiandra, e 'l conte d'Analdo, e più baroni di Francia, e ad Asia per l'arcivescovo di Cologna onorevolemente e sanza nullo contasto fu de la prima corona coronato il dì de la Epifania MCCCVIII a re de' Romani.
<B>CIII</B>
<I>Come i Viniziani presono la città di Ferrara e poi la perdero.</I>
Nel detto anno MCCCVIII, a dì X di gennaio, i Viniziani presono per forza di loro navilio la città di Ferrara, la quale era de la Chiesa di Roma, e cacciarne messer Francesco da Esti; per la qual cosa dal sopradetto papa furono scomunicati, e contra loro fatto gran processo, e a chi desse aiuto a la Chiesa fu fatta grande indulgenza per due legati del papa che vennero in Lombardia, i quali coll'aiuto de' Bolognesi e della lega di Lombardia de la parte della Chiesa racquistarono Ferrara, salvo il Castello Tedaldo ch'era in capo della terra, molto forte e grande, che rimase a' Viniziani; e in quello mese i Viniziani furono sconfitti a Francolino, ch'erano venuti per assediare Ferrara, per la gente della Chiesa.
<B>CIV</B>
<I>Come il maestro dello Spedale prese l'isola di Rodi.</I>
Nell'anno MCCCVIII, del mese di febbraio, i frieri dello Spedale ebbono grandi privilegi dal detto papa Chimento di grandi perdonanze a chi facesse loro aiuto al conquisto d'oltremare, e per Italia andarono predicando, e raunarono moneta assai, e poi la state vegnente il loro maestro da Napoli fece suo passaggio, e presono l'isola di Rodi in Turchia con grande danno de' Saracini e de' Greci.
<B>CV</B>
<I>Come il re d'Araona s'apparecchiò di venire in Sardigna.</I>
Nel detto anno e mese, apparecchiandosi il re d'Araona di venire a prendere Sardigna, e avea richesti i Fiorentini e' Lucchesi e la taglia di Toscana di fare compagnia co·lloro a guerreggiare i Pisani, i detti Pisani gli mandarono loro ambasciadori in tre galee con molta moneta, onde il detto re si rimase de la detta impresa.
<B>CVI</B>
<I>Come i Guelfi furono cacciati di Prato, e poi lo racquistarono.</I>
Nell'anno MCCCVIIII, a dì VI d'aprile, i Bianchi e' Ghibellini di Prato ne cacciarono fuori i Guelfi e' Neri; il seguente dì fu per loro ricoverato coll'aiuto de' Fiorentini e de' Pistolesi, e per gli Fiorentini vi fu messa la signoria.
<B>CVII</B>
<I>Come i Tarlati tornarono inn-Arezzo e cacciarne i Guelfi.</I>
Nel detto anno, a dì XXIIII del mese d'aprile, i Tarlati d'Arezzo co·lloro parte ghibellina tornarono in Arezzo, e cacciarne fuori i Guelfi e' Verdi, e uccisonne assai, e ruppono la pace ch'aveano co' Fiorentini.
<B>CVIII</B>
<I>Quando morì il re Carlo secondo.</I>
Nel detto anno, il dì di Pentecosta, a dì III di maggio, morì il re Carlo secondo, il quale fu uno de' larghi e graziosi signori ch'al suo tempo vivesse, e nel suo regno fu chiamato il secondo Allessandro per la cortesia; ma per altre virtù fu di poco valore, e magagnato in sua vecchiezza disordinatamente in vizio carnale, e d'usare pulcelle, iscusandosi per certa malattia ch'avea di venire misello; e lui morto, a Napoli fu soppellito a grande onore.
<B>CIX</B>
<I>De' segni ch'aparirono in aria.</I>
Nel detto anno MCCCVIIII, a dì X di maggio, di notte, quasi al primo sonno, apparve in aria uno grandissimo fuoco, grande in quantità d'una grande galea, correndo da la parte d'aquilone verso il meriggio con grande chiarore, sì che quasi per tutta Italia fu veduto, e fu tenuto a grande maraviglia; e per gli più si disse che fu segno de la venuta dello 'mperadore.
<B>CX</B>
<I>Come i Fiorentini ricominciarono guerra ad Arezzo.</I>
Nel detto anno, dì XXIII di maggio, cavalcarono i Fiorentini CC cavallate e certi pedoni, e la masnada de' Catalani col maliscalco del duca al Monte San Savino, che si tenea per gli Fiorentini, e di là andaro in sul contado d'Arezzo ardendo e guastando, e furono infino a le porte d'Arezzo, e feciono dannaggio assai. Poi a dì VIII di giugno si tornarono in Firenze sani e salvi.
<B>CXI</B>
<I>Come i Lucchesi vollono disfare Pistoia, e' Fiorentini furono contradianti.</I>
Nel detto anno, in calen di giugno, i Lucchesi vennero a Serravalle, popolo e cavalieri, innanimati di disfare Pistoia al tutto, o almeno la loro metade; la qual cosa a' Fiorentini non piacque, parendo loro spietata e crudel cosa. Diedono parola a' Pistolesi che si difendessono, e a chi di Firenze gli volesse aiutare, sì che coll'aiuto di messer Lippo Vergellesi, che tenea il castello de la Sambuca, essendo i Lucchesi già a Pontelungo, gli ripararo con danno e vergogna di loro. Per la qual cosa i Fiorentini aconsentiro a' Pistolesi che rifermassono la terra; i quali in due dì rimondarono i fossi e rifeciono gli steccati con bertesche intorno a la città, e a·cciò furono uomini, e donne, e preti, e fanciulli, che fu tenuto gran cosa. La quale benignità e pietà de' Fiorentini tornò loro poi per più volte molto contradia, con grandi pericoli e spendii de' Fiorentini, sì come innanzi per gli tempi si farà menzione, e più volte poi fu più commendata la furia de' Lucchesi, che la piatà e astinenza de' Fiorentini.
<B>CXII</B>
<I>Come il re Ruberto fu coronato del regno di Cicilia e di Puglia.</I>
Anno MCCCVIIII, del mese di giugno, il duca Ruberto, allora primogenito del re Carlo, andò per mare da Napoli in Proenza a la corte con grande navilio di galee e grande compagnia, e fue coronato a re di Cicilia e di Puglia da papa Clemento il dì di santa Maria di settembre del detto anno, e aquetato di tutto il presto che la Chiesa avea fatto al padre e a l'avolo per la guerra di Cicilia, il quale si dice ch'erano più di CCC migliaia d'once d'oro. Nel detto mese e anno i Guelfi furono cacciati d'Amelia per la forza de' Colonnesi.
<B>CXIII</B>
<I>Come gli Ancontani furono sconfitti dal conte Fedrigo.</I>
Nel detto anno e mese di giugno il conte Fedrigo da Montefeltro con quegli da Iegi, e d'Osimo, ed altri Marchigiani ghibellini sconfissono gl'Ancontani ch'erano a oste sopra il contado di Iegi: furonne tra presi e morti, tra di cavallo e di piè, più di Vm.
<B>CXIV</B>
<I>Come messer Ubizzino Spinoli fu cacciato di Genova e sconfitto.</I>
Nel detto anno MCCCVIIII, dì XI di giugno, essendo messer Ubizzino Spinoli signore di Genova, e cacciatine più tempo dinanzi i Guelfi, e poi gli Ori e loro séguito, e gli Spinoli suoi consorti da basso, e la terra tenea quasi a guisa di tiranno, i detti usciti, così i Guelfi come i Ghibellini, fatta lega e compagnia vennero co·lloro isforzo di gente a cavallo e a piè assai infino in Ponzevera per rientrare in Genova. Il detto messer Ubizzino con suo isforzo di gente a cavallo e popolo di Genova a piè si fece a lo 'ncontro, gli usciti vigorosamente assalendo il popolo di Genova, il quale era partito, e male seguiro messer Ubizzino, ma si misono in fugga, onde fu sconfitto con piccola mortalità di gente: si fuggì in Serravalle co' suoi seguagi. Gli Ori, e' Grimaldi, e gli altri usciti si rientraro in Genova sanza fare altra novità, se non che feciono disfare il castello di Luccoli ch'era in Genova, del detto messer Ubizzino.
<B>CXV</B>
<I>Come i Viniziani furono sconfitti a Ferrara.</I>
Nel detto anno, a l'uscita di luglio, i Fiorentini mandarono cavalieri e pedoni in servigio de la Chiesa al cardinale Pelagrù nipote e legato del papa, il quale era al soccorso di Ferrara, che v'erano i Viniziani per comune ad oste per terra e per acqua, onde il detto legato ebbe a grande grado da' Fiorentini, ch'erano interdetti da la Chiesa, e però non lasciaro il servigio. Poi il settembre vegnente la gente del legato co' Fiorentini e Bolognesi combattero co' Viniziani e sconfissongli a dì XXVII d'agosto prossimo, onde rimasono tra morti e presi e anegati in Po de' Viniziani più di VIm uomini, e perdero al tutto Ferrara e 'l Castello Tedaldo. Poi l'anno appresso tornando il detto legato in Toscana, venne in Firenze, e per li Fiorentini gli fu fatto grande onore, e presentargli IIm fiorini d'oro, e 'l carroccio gli andò incontro con grande processione; per la qual cosa e servigio fatto il detto legato assolvette i Fiorentini de la 'nterdizione e scomunica, e riconciliogli colla Chiesa della discordia dove gli aveva messi messer Nepoleone, come adietro si fece menzione, e rendé l'oficio a' Fiorentini a dì XXVI di settembre, anno detto.
<B>CXVI</B>
<I>De la guerra de' Volterrani e que' di San Gimignano.</I>
Nel detto anno MCCCVIIII, del mese d'agosto, si cominciò grande guerra tra' Volterrani e que' di San Gimignano per quistione di loro confini; e ciascuno fece suo isforzo di più di VIIc cavalieri per parte, e durò la guerra più mesi con grande spendio e dammaggio dell'una parte e dell'altra, d'arsioni e di guasto e di più avisamenti. I Fiorentini e' Sanesi assai si travagliaro d'aconciargli insieme; quando volea l'uno non volea l'altro, che si tenea soverchiato. A la fine i Fiorentini vi cavalcaro con grande isforzo, dicendo d'esser contra la parte che non volesse l'acordo. Quegli dibattuti di spese e della guerra, si rimisono ne' Fiorentini; e per gli Fiorentini fue giudicata e terminata la quistione, e messi i termini a' confini, e ciascuno a' suoi termini fece una fortezza, e fu fatta la pace. E nel detto mese d'agosto, scurò tutta la luna; e po' l'ultimo dì di gennaio scurò gran parte del sole, e 'l febbraio seguente ancora scurò la luna. Nel detto anno fu grande dovizia di pane e vino: valse lo staio del grano in Firenze soldi VIII, e 'l cogno del mosto in certe parti meno di soldi XL.
<B>CXVII</B>
<I>Come gli Orsini di Roma furono sconfitti da' Colonnesi.</I>
Nel detto anno, del mese d'ottobre, si riscontraro certi degli Orsini e di Colonnesi e di loro seguaci, in quantità di CCCC a cavallo, fuori di Roma, e combatterono insieme, e' Colonnesi furono vincitori, e fuvi morto il conte dell'Anguillara, e presi VI degli Orsini, e messer Riccardo de la Rota degli Anibaldeschi ch'era in loro compagnia.
<B>CXVIII</B>
<I>Come gente d'Arezzo furono sconfitti dal maliscalco de' Fiorentini.</I>
Nel detto anno, di febbraio, il re Ruberto mandò in Firenze sua bandiera al suo maliscalco ch'era in Firenze con CCC cavalieri catalani, che in prima che fosse coronato a re, il suo detto maliscalco portava pure pennone della sopransegna del duca.
Il detto maliscalco per provare la bandiera e per andare in servigio di que' de la Città di Castello, i quali aveano richesti i Fiorentini d'aiuto contra gli Aretini, con sua gente a cavallo e a piè, con III de' maggiori di Firenze per sesto, e con certi pedoni eletti, si partiro di Firenze martidì a dì X di febbraio, e furono intorno di CCCL cavalieri e VIc pedoni. Feciono la via di Valdarno e poi per Vallelunga a l'olmo d'Arezzo, guastando per lo contado d'Arezzo. Gli Aretini, popolo e cavalieri, e usciti di Firenze, con Uguiccione da Faggiuola loro capitano sotto Cortona si pararono loro dinanzi credendogli avere sorpresi, gli assaliro per loro feditori, i quali dal detto maliscalco e Fiorentini furono rotti, e Uguiccione col popolo si fuggì ad Arezzo inn-isconfitta, e rimansovi morti Vanni de' Tarlati, e Cione de' Gherardini, e uno de' Pazzi di Valdarno con più altri, e tre di loro bandiere ne vennero co' pregioni a Firenze. Con tutta la vittoria, fue tenuta folle andata, perché si misono in forte passo e ne la forza de' nimici.
<B>CXIX</B>
<I>Come i Fiorentini feciono oste ad Arezzo.</I>
Nell'anno MCCCX, dì VIII di giugno, i Fiorentini co·lloro amistà in quantità di IIm cavalieri e popolo a piè grandissimo si partirono di Firenze per andare ad oste ad Arezzo. Prima si partissono vennono lettere e messi da Arrigo imperadore, comandando a' Fiorentini che l'oste non andasse sopra Arezzo, con ciò sia cosa ch'ell'era sua terra, e ch'egli intendea di pacificargli insieme a la sua venuta in Italia. Per la qual cosa in Firenze n'ebbe quistione, che chi volea e chi non volea che l'oste v'andasse. A la fine il popolo pur vinse ch'ell'andasse, e andò infino al vescovado vecchio d'Arezzo; e quivi si fermò il campo guastando intorno la terra; e più battaglie si diedono a la terra; e gran parte degli steccati da quella parte per gli Fiorentini s'abattero; e dissesi per molti che la terra s'arebbe avuta per forza, però che gli Aretini erano in fiebole stato, se non che certi grandi di Firenze per nudrire la guerra e moneta che n'ebbono - se 'l vero fu - non l'assentirono. A la fine si partì l'oste, e lasciaro uno battifolle molto forte presso ad Arezzo a due miglia al poggio ch'è sopra l'olmo, fornito di genti cogli usciti d'Arezzo, il quale fece loro molta guerra; e' Fiorentini tornarono in Firenze sani e salvi dì XXV di luglio, anno detto.
<B>CXX</B>
<I>Come gli ambasciadori d'Arrigo re de' Romani vennero in Firenze.</I>
Nel detto anno, dì III di luglio, vennero in Firenze messer Luis di Savoia eletto sanatore di Roma con II prelati cherici d'Alamagna e messer Simone Filippi da Pistoia, ambasciadori dello 'mperadore, richeggendo il Comune di Firenze che s'aparecchiassono di fargli onore a la sua coronazione, e che gli mandassero loro ambasciadori a Losanna; e richiesono e comandaro che l'oste ch'era ad Arezzo si dovesse partire. Fu per gli Fiorentini fatto un grande e bello consiglio, ove saviamente spuosero loro ambasciata. Risponditore fu fatto per lo Comune messer Betto Bruneleschi, il quale prima rispuose con parole superbe e disoneste, onde da' savi fu biasimato; poi per messer Ugolino Tornaquinci saviamente risposto, e cortesemente. Contenti si partiro a dì XII di luglio, e andarono nell'oste de' Fiorentini ad Arezzo, e feciono il somigliante comandamento si partisse l'oste; la quale non si partì per ciò. Rimasersi in Arezzo i detti ambasciadori assai indegnati contro a' Fiorentini.
<B>CXXI</B>
<I>Di miracolosa gente che s'andarono battendo in Italia.</I>
Nel detto anno apparì grande maraviglia, che si cominciò in Piemonte, e venne per Lombardia e per la riviera di Genova, e poi per Toscana, e poi quasi per tutta Italia, che molta gente minuta, uomini e femmine e fanciulli sanza numero, lasciavano i loro mestieri e bisogne, e colle croci innanzi s'andavano battendo di luogo in luogo, gridando misericordia, e faccendo fare l'uno a l'altro molte paci, tornando più genti a penitenzia. I Fiorentini e più altre città non gli lasciarono entrare in loro terre, ma gli scacciavano dicendo ch'era male segnale nella terra ove intrassero. E nel detto tempo, a di XII di maggio, il re di Francia fece a Parigi ardere il maestro del Tempio con LIIII suoi frieri de' maggiori de la magione, opponendo loro resia; ma i più dissono che fu loro fatto torto per occupare le loro possesioni, e a la loro morte riconoscendosi e confessandosi buoni Cristiani.
<B>LIBRO DECIMO</B>
<B>I</B>
<I>Qui comincia il libro X: come Arrigo conte di Luzzimborgo fu fatto imperadore.</I>
Arrigo conte di Luzzimborgo imperiò anni IIII, mesi VII e dì XVIII, da la prima corona infino a la sua fine. Questi fue savio e giusto e grazioso, prode e sicuro in arme, onesto e cattolico; e di piccolo stato che fosse per suo lignaggio, fue di magnanimo cuore, temuto e ridottato; e se fosse vivuto più lungamente avrebbe fatte grandissime cose. Questi fu eletto a imperadore per lo modo scritto addietro, e incontanente ch'ebbe la confermazione dal papa si fece coronare in Alamagna a re; e poi tutte le discordie de' baroni de la Magna pacificò, con sollecito intendimento di venire a Roma per la corona imperiale, e per pacificare Italia de le diverse discordie e guerre che v'erano, e poi di seguire il passaggio oltremare in racquistare la Terrasanta, se Dio gliel'avesse conceduto. Questi stando in Alamagna per pacificare i baroni, e fornirsi di moneta e di gente per passare i monti, Vincislao re di Boemmia morì, del quale non rimase nulla reda maschio, se non due figliuole; l'una già moglie del dogio di Chiarentana, l'altra per consiglio de' suoi baroni diè per moglie a Giovanni suo figliuolo, e lui ne coronò re di Boemmia, e lasciollo in suo luogo in Alamagna.
<B>II</B>
<I>Come parte guelfa fu cacciata di Vinegia.</I>
Nell'anno MCCCX, del mese di giugno, fatta congiura in Vinegia per quegli della casa di Querini, e per messer Bruiamonte de lo Scopolo di Vinegia col loro séguito, per abbattere il dogio ch'allora era in Vinegia da ca' Grandanigo e' suoi seguaci, quasi recata la terra a parte, Guelfi e Ghibellini si combattero per le dette parti ne la città. A la fine que' da ca' Querini e loro séguito Guelfi furono vinti e cacciati della terra, e guasti i loro palazzi (e fue la prima disfazione di casa che fosse mai fatta in Vinegia), e certi di loro caporali presi furono dicollati, e co·lloro due gentili uomini di Firenze, uno degli Adimari, e uno de' Sizii, ch'erano in loro compagnia.
<B>III</B>
<I>De le profezie di maestro Arnaldo da Villanuova.</I>
Nel detto anno MCCCX maestro Arnaldo da Villanuova di Proenza gran savio filosafo in Parigi questionava, e annunziava per argomenti de le profezie di Daniello e de la Sibilla Eritea che l'avento d'Anticristo e persecuzione de la Chiesa dovea essere tra 'l MCCC e 'l MCCCC, quasi intorno al LXXVI anno, e di ciò fece uno libro il quale intitolò <I>Della speculazione de l'avento Anticristi</I>, per la qual cosa fu tenuto nuovo errore di fede. Partissi di Parigi per tema dello 'nquisitore, però che gli altri maestri di Parigi il faceano perseguitare, e andonne in Cicilia a don Federigo, e poi in suo servigio morì in mare, andando per ambasciadore a corte di papa.
<B>IV</B>
<I>Come in Ferrara si fece congiura per ribellare la terra a la Chiesa.</I>
Nel detto anno, del mese di luglio, congiurazione si fece in Ferrara per rubellare la terra a la Chiesa, e quasi l'aveano rubellata. Il legato cardinale Pelagrù subitamente la soccorse coll'aiuto de' Bolognesi; e mostrando di riformare la terra, fece consiglio de' cittadini in Castello Tedaldo, e ritenne XXXVI de' migliori e maggiori de la terra, e subitamente gli fece impiccare in sulla piazza di Ferrara; e poi a dì XXII d'agosto il detto cardinale venne in Firenze, e fugli fatto grande onore da' Fiorentini, come dicemmo adietro.
<B>V</B>
<I>Come i Todini furono sconfitti da' Perugini.</I>
Nel detto anno e mese di luglio i Perugini feciono oste a Todi, e mandarono per aiuto a' Fiorentini, i quali vi mandarono il mariscalco del re, ch'era al loro soldo, con CCC cavalieri. I Todini uscirono fuori a battaglia, e furono sconfitti con grande danno di loro gente, di morti e presi assai per lo valore del detto maliscalco e di sue masnade.
<B>VI</B>
<I>Come i Guelfi furono cacciati di Spuleto.</I>
Nel detto mese di luglio furono cacciati i Guelfi di Spuleto per Currado di Nastagio di Filigno, grande capitano di parte ghibellina, co la forza de' Todini. Poi i Perugini per più tempo feciono oste e guerra assai a Spuleto; poi l'anno appresso accordo fu tra·lloro e' Todini e gli Spuletini, e rimessi i Guelfi in Todi e in Spuleto.
<B>VII</B>
<I>Come Arrigo imperadore si partì de la Magna per passare in Italia.</I>
Nel detto anno MCCCX lo 'mperadore venne a Losanna del mese di... con poca gente, attendendo il suo isforzo e l'ambascerie de le città d'Italia, e ivi dimorò più mesi. Sentendo ciò i Fiorentini, ordinaro di mandargli una ricca ambasceria, e simigliante i Lucchesi, e' Sanesi, e l'altre terre della lega di Toscana; e già erano eletti gli ambasciadori, e levati i panni per le robe per loro vestire onoratamente. Per certi grandi Guelfi di Firenze si sturbò l'andata, temendo che sotto inganno di pace lo 'mperadore non rimettesse gli usciti ghibellini in Firenze e gli ne facesse signori; e in questo si prese il sospetto, e appresso lo sdegno, onde seguì grande pericolo a tutta Italia, che essendo gli ambasciadori di Roma e que' di Pisa e dell'altre città a Losanna in Savoia, lo 'mperadore domandò perché non v'erano que' di Firenze; per gli ambasciadori degli usciti di Firenze fu risposto al signore ch'egli aveano sospetto di lui. Allora disse lo 'mperadore: "Male hanno fatto, che nostro intendimento era di volere i Fiorentini tutti, e non partiti, a buoni fedeli, e di quella città fare nostra camera e la migliore di nostro imperio". E di certo si seppe da gente ch'erano appresso di lui ch'elli era infino allora con puro animo in mantenere quegli che reggeano Firenze in loro stato, e gli usciti n'aveano grande paura; che d'allora innanzi per questo isdegno e per mala informazione de' suoi ambasciadori venuti a·fFirenze, e de' Ghibellini, e Pisani, s'apprese al contradio. Per la qual cosa, l'agosto presente, i Fiorentini entrati in sospetto feciono M cavalieri cittadini di cavallate, e si cominciarono a guernire di soldati e di moneta, e a fare lega col re Ruberto e con più città di Toscana e di Lombardia, per isturbare la venuta e coronazione dello imperadore; e' Pisani acciò che passasse, sì mandarono LXm fiorini d'oro, e altrettanti gli promisono quando fosse in Pisa; e con questo aiuto si mosse da Losanna, ché da·ssé non era ricco signore di moneta.
<B>VIII</B>
<I>Come il re Ruberto venne in Firenze tornando da la sua coronazione.</I>
Nel detto anno MCCCX, di XXX di settembre, il re Ruberto venne in Firenze tornando da Vignone, dov'era la corte del papa, da la sua coronazione: albergò in casa de' Peruzzi dal Parlagio, e da' Fiorentini gli fu fatto grande onore, e armeggiata, e presenti grandi di moneta, e dimorò in Firenze infino a XXIIII dì d'ottobre per riconciliare i Guelfi insieme, ch'erano divisi per sette intra·lloro, e per trattare al riparo dello 'mperadore. In riconciliargli poco potéo adoperare; tanto era l'errore cresciuto tra·lloro, come adietro è fatta menzione.
<B>IX</B>
<I>Come Arrigo imperadore entròe in Italia, e ebbe la città di Milano.</I>
Nell'anno MCCCX, all'uscita di settembre, lo 'mperadore si partì da Losanna con sua gente, e passò la montagna di Monsanese, e all'entrata d'ottobre arrivò a Torino in Piemonte; appresso giunse ne la città d'Asti, dì X d'ottobre. Per gli Astigiani fu ricevuto pacificamente per signore, andandogli incontro con grande processione e festa, e tutte le discordie tra gli Astigiani pacificò. In Asti attese sue genti, e inanzi si partisse ebbe presso a IIm oltramontani a cavallo. In Asti soggiornò più di due mesi, però che in quello tempo tenea la signoria di Milano messer Guidetto de la Torre, uomo di grande senno e podere, il quale avea tra soldati e cittadini più di IIm uomini a cavallo, e per sua forza e tirannia teneva fuori di Milano i Visconti e loro parte ghibellina, e eziandio l'arcivescovo suo consorto con più altri Guelfi. Questo messer Guidetto avea lega co' Fiorentini e cogli altri Guelfi di Toscana e di Lombardia, e contendea la venuta dello 'mperadore, e sarebbegli venuto fatto, se non che' suoi consorti medesimi co·lloro séguito condussero lo 'mperadore a venire a Milano col consiglio del cardinale dal Fiesco legato del papa. Messer Guidetto non possendo al tutto riparare, asentì a la sua venuta contra sua voglia; e così entrò lo 'mperadore in Milano la villa de la festa di Natale, e il dì di Bifania, dì VI di gennaio, fu coronato in Santo Ambruogio da l'arcivescovo di Milano de la seconda corona del ferro onorevolemente egli e la moglie. E a la detta coronazione furono gli ambasciadori quasi di tutte le città d'Italia, salvo quegli di Firenze e di loro lega. E dimorando in Milano, pacificò tutti i Milanesi insieme, e rimisevi messer Maffeo Visconti e sua parte, e l'arcivescovo e' suoi, e ogni uomo che n'era di fuori. E quasi tutte le città e signori di Lombardia vennero a fare le comandamenta, e dargli grande quantità di moneta; e in tutte le terre mandò suo vicaro, salvo Bologna e Padova, ch'erano contra lui a la lega de' Fiorentini.
<B>X</B>
<I>Come i Fiorentini chiusono di fossi le nuove cerchie della cittade.</I>
Nel detto anno, il dì di santo Andrea, i Fiorentini per tema della venuta dello 'mperadore sì ordinarono a chiudere la città di fossi da la porta a San Gallo infino a la porta di Santo Ambruogio, overo detta la Croce a Gorgo, e poi infino al fiume d'Arno: e poi, da la porta di San Gallo infino a quella dal Prato d'Ognesanti erano già fondate le mura, sì le feciono inalzare VIII braccia. E questo lavoro fu fatto sùbito e in poco tempo, la qual cosa fermamente fu poi lo scampo de la città di Firenze, come innanzi si farà menzione; imperciò che la città era tutta schiusa, e le mura vecchie quasi gran parte disfatte, e vendute a' prossimani vicini per allargare la città vecchia, e chiudere i borghi e la giunta nuova.
<B>XI</B>
<I>Come quegli de la Torre furono cacciati di Milano.</I>
Nel detto anno, dì XI del mese dì febbraio, veggendosi messer Guidetto de la Torre fuori de la signoria di Milano, e Maffeo Visconti e gli altri suoi nimici assai innanzi a lo 'mperadore, si pensò di rubellare a lo 'mperadore la città di Milano, che v'avea col signore poca cavalleria, ch'era andata e sparta per le città di Lombardia, e sarebbegli venuto fatto, se non che Maffeo Visconti, molto savio, ne fece aveduto lo 'mperadore e 'l maliscalco suo e 'l conte di Savoia. Per la qual cosa la città si levò a romore e ad arme, e alcuna battaglia v'ebbe: altri dissono che messere Maffeo Visconti per suo senno e sagacità lo 'ngannò per farlo sospetto de lo 'mperadore, vegnendo a·llui segretamente, e dolendosi de la signoria dello 'mperadore e de' Tedeschi, mostrando ch'amasse meglio la libertà di Milano che sì fatta signoria; e innanzi volea lui per signore che lo 'mperadore, e ch'egli co' suoi gli darebbe ogni aiuto e favore per cacciarne lo 'mperadore. Al quale trattato messer Guidetto intese, fidandosi dell'antico nimico, per volontà di ricoverare suo stato e signoria, o che fosse per li suoi peccati, ch'assai n'avea; e approvossi la risposta di messer Maffeo, la quale gli fece per l'uomo di corte, come contammo adietro. Messer Maffeo sotto la detta promessa il tradì, e tutto il palesò a lo 'mperadore e al suo consiglio; e a questo diamo assai fede per quello ne sentimo poi da savi Lombardi ch'allora erano in Milano. E per questa cagione fu richesto dallo 'mperadore messere Guidetto de la Torre che si scusasse; non comparì, ma si partì con suoi seguaci di Milano, opponendo che non avea colpa del tradimento, ma che' suoi nimici gli aveano ciò apposto per distruggerlo e cacciarlo di Milano. Per gli più si credé pure che colpa avesse, però ch'egli era in lega co' Fiorentini e co' Bolognesi e coll'altre città guelfe, e si disse che ne dovea avere moneta assai da' Fiorentini e loro lega. Ma quale si fosse la cagione, e incontanente per le dette sodduzioni sì rubellò a lo 'mperadore la città di Chermona, dì XX di febbraio, e questa rubellazione e l'altre di Lombardia furono di certo con industria e spendio de' Fiorentini per dare tanto a·ffare in Lombardia a lo 'mperadore che non potesse venire in Toscana. In questo tempo i Ghibellini di Brescia cacciarono fuori i Guelfi, e simigliante avenne in Parma; per la qual cosa lo 'mperadore mandò suo vicario e gente in Brescia, e fece fare l'accordo, e rimettere i Guelfi nella terra, i quali poco appresso veggendosi forti ne la terra, e rubellata Chermona, e confortati da' Fiorentini e Bolognesi con danari e grandi impromesse, cacciarono i Ghibellini di Brescia, e al tutto si rubellarono a lo 'mperadore, e s'apparecchiaro di farli guerra.
<B>XII</B>
<I>Come in Firenze ebbe grande caro, e altre novitadi.</I>
Nel detto anno MCCCX, dal dicembre al maggio vegnente, in Firenze ebbe grandissimo caro, che lo staio del grano valse uno mezzo fiorino d'oro, ed era tutto mischiato di saggina. E in questo tempo l'arti e la mercatantia non istette in Firenze mai peggio, e spese di Comune grandissime, e gelosie e paure per l'avento dello 'mperadore. In quello tempo, a l'uscita di febbraio, i Donati uccisono messer Betto Brunelleschi, e poco appresso i detti Donati e' loro parenti e amici raunati a San Salvi disotterraro messer Corso Donati, e feciono gran lamento e l'uficio come allora fosse morto, mostrando che per la morte di messer Betto fosse fatta la vendetta, e ch'egli fosse stato consigliatore della sua morte, onde tutta la città ne fu quasi ismossa a romore.
<B>XIII</B>
<I>Come in Firenze vennono orlique di santo Barnaba.</I>
Nel MCCCXI, dì XIII d'aprile, vennero in Firenze reliquie del beato appostolo santo Barnaba, le quali mandò da corte di papa il cardinale Pelagrù al Comune di Firenze, perché sapea che' Fiorentini l'aveano in grande devozione. E fune fatta in Firenze grande reverenza e solennità, e furono riposte nell'altare di Santo Giovanni.
<B>XIV</B>
<I>Come lo 'mperadore assediò Chermona, e sua gente ebbe Vincenza.</I>
Nel detto anno, dì XII del mese d'aprile, faccendo lo 'mperadore oste sopra Chermona, mandò il vescovo di Ginevra suo cugino con IIIc cavalieri oltramontani, e co la forza di messer Cane de la Scala di Verona subitamente tolse la città di Vincenza a' Padovani, e quegli ch'erano di Padova nel castello per paura sanza difendersi abandonarono la fortezza, la quale perdita fue grande isbigottimento a' Padovani e a tutta loro parte; per la qual cosa poco tempo appresso s'acconciarono collo imperadore, e diedongli la signoria di Padova, e Cm fiorini d'oro in più paghe, e 'l suo vicaro ricevettono. Il detto vescovo di Ginevra andò poi a Vinegia e richiese i Viniziani da parte de lo 'mperadore d'aiuto: feciongli grande onore, e donargli per comperare pietre preziose per la sua corona libbre M di viniziani grossi. E in Vinegia di que' danari e d'altri si fece la corona e la sedia imperiale molto ricca e nobile, d'ariento dorata la sedia, e d'oro con molte pietre preziose la corona.
<B>XV</B>
<I>Come lo 'mperadore ebbe la città di Chermona.</I>
Nel MCCCXI, dì XX d'aprile, essendo lo 'mperadore ad oste a Chermona, essendo la città molto stretta perché s'erano male proveduti per la loro sùbita ribellazione, rendero la città a lo 'mperadore a misericordia per trattato dell'arcivescovo di Ravenna, il quale gli ricevette e perdonò loro, e fece disfare le mura e tutte le fortezze de la città, e di moneta forte gli gravò. E avuta Chermona, incontanente andò ad oste sopra la città di Brescia a dì XIIII di maggio, e là si trovò con più isforzo e con maggiore cavalleria e migliore ch'egli avesse mai, che di vero si trovò più di VIm buoni uomini di cavallo, i IIIIm e più, Tedeschi e Franceschi e Borgognoni e gentili uomini, e gli altri, Italiani; che auto lui Milano e poi Chermona, più grandi signori de la Magna e di Francia il vennero a servire, e chi a soldo, e molti per amore. E di certo s'allora avesse lasciata la 'mpresa de l'assedio di Brescia e venutosene in Toscana, egli aveva a queto Bologna, Firenze, Lucca, e Siena, e poi Roma, e 'l regno di Puglia, e tutte le terre contrarie, però che non erano forniti né proveduti, e gli animi de le genti molto variati, perché 'l detto imperadore era tenuto giusto signore e benigno. Piacque a Dio ristesse a Brescia, il quale assedio molto il consumò di genti e di podere per grande pestilenzia di morte e malatie, come innanzi farò menzione.
<B>XVI</B>
<I>Come i Fiorentini per la venuta dello 'mperadore trassono di bando tutti i Guelfi.</I>
Nel detto anno, a dì XXVI d'aprile, avendo i Fiorentini novelle come Vincenza e Chermona erano rendute a lo 'mperadore, e come andava all'asedio di Brescia, per fortificarsi feciono appresso dicreto e ordine, e trassono di bando tutti i cittadini e contadini guelfi di che che bando si fosse, pagando certa piccola gabella: feciono più ordini di leghe in città e in contado e coll'altre terre guelfe di Toscana.
<B>XVII</B>
<I>Come i Fiorentini con tutte le terre guelfe di Toscana feciono lega insieme contra lo 'mperadore.</I>
Nel detto anno MCCCXI, in calen di giugno, i Fiorentini, Bolognesi, Sanesi, Lucchesi, Pistolesi, e' Volterrani, e tutte l'altre terre guelfe di Toscana feciono parlamento e fermarono lega insieme, e fermarono taglia de' cavalieri, e giurarsi insieme a la difensione e contasto dello 'mperadore. E appresso, a dì XXVI di giugno, i Fiorentini mandarono a Bologna il maliscalco del re con IIIIc cavalieri catalani, ch'erano al loro soldo per la guardia di Bologna, e per contastare a lo 'mperadore se venisse da quella parte; e simigliante vi mandaro i Sanesi e' Lucchesi, e dimorarvi più mesi tra in Bologna e in Romagna in servigio del re Ruberto.
<B>XVIII</B>
<I>Come il re Ruberto fece pigliare per inganno i Ghibellini di Romagna.</I>
Nel detto anno, dì VIII di luglio, venne in Firenze messer Giliberto da Santiglia con CC cavalieri catalani e Vc mugaveri a piè, che gli mandava il re Ruberto in Romagna per visconte, però che 'l papa avea fatto lo re conte di Romagna. Come fu di là, co la forza del maliscalco prese tutti i caporali ghibellini di Forlì, e di Faenza, e d'Imola, e dell'altre terre di Romagna, e misegli in pregione perché non gli rubellassono la terra, e acomiatòne tutti i Ghibellini e' Bianchi usciti di Toscana che v'erano.
<B>XIX</B>
<I>Come il marchese del papa prese Fano e Pesaro.</I>
Nel detto anno, a l'entrante di settembre, il marchese ch'era ne la Marca per lo papa prese la città di Fano e quella di Pesaro, che s'erano rubellate a la Chiesa.
<B>XX</B>
<I>Come lo 'mperadore Arrigo ebbe la città di Brescia per assedio.</I>
Nel detto anno MCCCXI, essendo lo 'mperadore ad oste a Brescia, più assalti v'ebbe, ove morì gente assai di que' d'entro e di que' di fuori, intra' quali fu morto a uno assalto, d'uno quadrello di balestro grosso, messer Gallerano di Luzzimborgo, fratello carnale e maliscalco dello 'mperadore, e più altri baroni buoni cavalieri; onde fu grande spavento a tutta l'oste. E per quella baldanza i Bresciani uscendo ispesso fuori ad assalire l'oste, del mese di giugno parte di loro furono rotti e sconfitti, e furonne presi da XL de' maggiori della terra, e morti ben CC, intra' quali presi fue messere Tebaldo Brusciati, il quale era capo della gente d'entro, e uomo di grande valore, ed era stato amico dello 'mperadore, e avealo rimesso in Brescia quando ne furono cacciati i Guelfi: fecelo isquartare a quattro cavagli come traditore, e più altri fece dicapitare, onde il podere de' Bresciani molto affiebolìo; ma però que' d'entro non lasciarono la difensione della città. In quello assedio si corruppe l'aria per la puzza de' cavalli e della lunga stanza del campo, onde v'ebbe grandissima infermità e d'entro e di fuori, e amalaro gran parte degli oltramontani, e molti grandi baroni vi morirono, e se ne partirono per la malatia, e morirne poi in cammino. Intra gli altri vi morì il valente messer Guido di Namurro fratello del conte di Fiandra, che fu capo de' Fiamminghi a la sconfitta di Coltrai, uomo di gran valore e rinnomea; per la quale cagione i più dell'oste consigliavano lo 'mperadore se ne partisse. Egli sentendo maggiormente la difalta dentro, sì de la 'nfertà e mortalità, e sì di vittuaglia, si fermò di non partirsi, ch'egli avrebbe la terra. Quegli di Brescia, fallendo loro la vivanda, per mano del cardinale dal Fiesco si renderono a la misericordia dello 'mperadore a dì XVI di settembre nel detto anno. Com'ebbe la città, le fece disfare tutte le mura e le fortezze, e condannogli in LXXm fiorini d'oro, e con gran fatica in più tempo per loro male stato gli ebbe; e C de' migliori della città, grandi e popolari, mandò a' confini in diverse parti. Partito dall'oste da Brescia con sua grande perdita e dammaggio, che il quarto de la sua gente non gli era rimasa, e quella gran parte inferma, fece suo parlamento in Chermona. Quivi per sodduzione e conforto de' Pisani e de' Ghibellini e Bianchi di Toscana, si fermò di venire a Genova e là riformare suo stato, e in Milano lasciò per vicaro e capitano messer Maffeo Visconti, e in Verona messer Cane della Scala, e in Mantova messer Passerino di Bonaposi, e in Parma messer Ghiberto da Coreggia, e così in tutte l'altre terre di Lombardia lasciò a tiranni, non possendo altro per lo suo male stato, e da ciascuno ebbe moneta assai, e brivileggiogli de le dette signorie.
<B>XXI</B>
<I>Come i Fiorentini e' Lucchesi guernirono le frontiere per la venuta dello 'mperadore.</I>
Nel detto anno, a dì XVII d'ottobre, i Fiorentini sentendo che·llo 'mperadore venia a Genova, presono in guardia il castello e la rocca di Samminiato del Tedesco, e fornirlo di cavalieri e di pedoni, e mandarono gente a Volterra, acciò che non si rubellasse per gli Ghibellini a lo 'mperadore o a sua parte; e' Lucchesi fornirono tutte le castella di Lunigiana e del Valdarno di ponente.
<B>XXII</B>
<I>Come papa Chimento diede legati a lo 'mperadore Arrigo che 'l coronassono.</I>
Negli anni di Cristo MCCCXI papa Chimento a la richesta de lo 'mperadore, non potendo in persona venire a Roma a coronarlo per cagione del concilio ordinato, mandò il vescovo d'Ostia cardinale da Prato legato, che potesse in ciò come la persona del papa; il quale fu co·llui in Genova del mese...; e mandò il detto papa legato in Ungheria messer Gentile da... cardinale per coronare Carlo Rimberto, figliuolo che fu di Carlo... nipote del re Ruberto, del reame d'Ungheria, e per dargli ... favore della Chiesa. E così fece, e dimorovvi più tempo in Ungheria il detto cardinale, tanto ch'ebbe conquistato quasi tutto il paese il detto Carlo, e lui coronato paceficamente. E alla sua tornata in Italia del detto cardinale ebbe comandamento dal papa che tutto il tesoro della Chiesa ch'era a Roma e in altre terre del Patrimonio conducesse di là da' monti a·llui, il quale così fece infino a la città di Lucca. Di là no·llo potéo più innanzi conducere per terra né per mare, perché la riviera di Genova così per terra come per mare era tutta scommossa a guerra per le parti, Guelfi e Ghibellini, per la venuta dello 'mperadore. Lasciollo in Lucca nella sagrestia di San Friano, il quale tesoro fu poi rubato per gli Ghibellini, come innanzi faremo menzione.
<B>XXIII</B>
<I>Come papa Chimento fece concilio a Vienna in Borgogna, e canonizzò santo Lodovico figliuolo del re Carlo.</I>
Nel detto anno MCCCXI, per calen di novembre, il detto papa Chimento celebrò concilio a Vienna in Borgogna per la promessa fatta al re di Francia, per cagione della quistione mossa per lo detto re contra la memoria di papa Bonifazio, come adietro facemmo menzione, ov'ebbe più di CCC vescovi, sanza gli abati e prelati; e durò infino... In quello concilio si dichiarò che papa Bonifazio era stato cattolico, e non in caso di resia ove il re di Francia gli mettea adosso, e trovossi modo per contentare il re di Francia, e fecesi dicreto che per offesa che 'l re di Francia avesse fatta al detto papa Bonifazio o a la Chiesa mai a·llui né a sue rede potesse essere opposto né dato briga; e ordinossi che tutti i beni e possessioni ch'erano state della magione del Tempio, fossono della magione dello Spedale, le quali convenne che la magione dello Spedale ricomperasse grandissimo tesoro da·re e da' signori che·ll'aveano occupate; onde la magione dello Spedale si credette essere ricca, e per lo grande debito venne in male stato. Al detto concilio fu il re di Francia e più signori, e fecionvisi più costituzioni, e si cominciò il settimo libro de' decretali. E compiuto il concilio, il papa se n'andò a Bordello. In quello concilio fu canonizzato a santo Lodovico arcivescovo di Tolosa, frate minore, figliuolo del re Carlo e primogenito, e fratello del re Ruberto, e per essere religioso lasciò l'onore mondano e la corona del reame. Fu uomo benigno e di santa vita, e molti miracoli mostrò Iddio per lui, e prima a sua vita e poi.
<B>XXIV</B>
<I>Come lo 'mperadore Arrigo venne nella città di Genova.</I>
Nel detto anno MCCCXI, a dì XXI d'ottobre, lo 'mperadore venne di Lombardia a Genova con VIc cavalieri di sua gente oltramontani, sanza i Lombardi. Per gli Genovesi fu ricevuto come loro signore onorevolemente, e fattagli gran festa, e datogli al tutto la signoria della terra; che fu tenuto grande cosa, essendo la libertà e la potenza de' Genovesi sì grande, come nulla città de' Cristiani in mare e in terra. Il detto imperadore pacificò tutte le discordie de' Genovesi, e rimisevi messer Ubizzino Spinoli e' suoi seguaci, che n'erano fuori per rubegli, e fece fare pace tra·lloro e gli Ori e loro parte: donargli i Genovesi alla sua venuta Lm fiorini d'oro, e alla 'mperadrice XXm.
<B>XXV</B>
<I>Come in Arezzo venne vicario d'imperio.</I>
Negli anni MCCCXI, del mese d'ottobre, venne ad Arezzo vicaro dello 'mperadore uno gentile uomo di Padova: pacificò gli Aretini insieme, e rimisevi dentro i Guelfi, e poco appresso vi morì di rema.
<B>XXVI</B>
<I>Come in Firenze vennero ambasciadori dello 'mperadore, e furonne cacciati.</I>
Nel detto anno e mese d'ottobre venieno a Firenze messer Pandolfo Savelli di Roma e altri cherici per ambasciadori dello 'mperadore; furono a la Lastra sopra Montughi, i priori di Firenze mandarono loro che non entrassono in Firenze, e si partissono. I detti non volendosi partire, furono rubati per malandrini di Firenze, con consentimento segreto de' priori; e con rischio delle persone fuggendo, se n'andarono per la via di Mugello ad Arezzo, richeggendo poi in Arezzo tutti i nobili e' signori e' Comuni di Toscana che s'apparecchiassono d'esser a la coronazione dello 'mperadore a Roma.
<B>XXVII</B>
<I>Come i Fiorentini mandarono loro masnade in Lunigiana per contradiare i passi a lo 'mperadore.</I>
Nel detto anno, del mese d'ottobre, sentendo i Fiorentini che lo 'mperadore era partito di Lombardia e ito verso Genova, feciono tornare da Bologna il maliscalco co' loro soldati, e feciongli andare in Lunigiana a Pietrasanta e a Serrezzano con altra buona gente di Firenze e di Lucca a guardare il passo di Porta Beltramo e la via della marina, perché lo 'mperadore non potesse venire a Pisa.
<B>XXVIII</B>
<I>Come in Genova morì la 'mperadrice.</I>
Nel detto anno, del mese di novembre, morì in Genova la 'mperadrice moglie dello 'mperadore, la quale era tenuta buona e santa donna; fue figliuola del duca di Brabante; e soppellissi a' frati minori con grande onore.
<B>XXIX</B>
<I>Come lo 'mperadore fece suo processo contra i Fiorentini.</I>
Nel detto anno e mese lo 'mperadore fece in Genova suo processo contro a' Fiorentini, che se infra XL dì non gli mandassono XII buoni uomini con sindaco e pieno mandato ad ubbidirlo, che gli condannava in avere e in persona dove fossono trovati. Non vi mandò il Comune di Firenze, ma a tutti i Fiorentini mercatanti ch'erano in Genova comandato fue si dovessono partire, e così feciono; ma poi ogni mercatantia che si trovò in Genova in nome de' Fiorentini fue impacciata per la corte dello 'mperadore.
<B>XXX</B>
<I>Di scandalo ch'ebbe in Firenze tra' lanaiuoli.</I>
Nel detto anno e mese i lanaiuoli di Firenze vennono tra·lloro in grande divisione e sette per cagione del consolato, e fune quasi a romore la città.
<B>XXXI</B>
<I>Come il re Ruberto mandò gente a' Fiorentini per contastare lo 'mperadore.</I>
Nel detto anno, dì XV di dicembre, il re Ruberto mandò a Firenze CC de' suoi cavalieri ch'erano in Romagna, perché i Fiorentini e' Lucchesi potessono meglio contastare il passo a lo 'mperadore; ond'era capitano il conte di Luni da Raona.
<B>XXXII</B>
<I>Come la città di Brescia si rubellò a lo 'mperadore.</I>
Nel detto anno, a l'uscita di dicembre, i Guelfi di Brescia rientrarono nella terra per ribellarla da la signoria dello 'mperadore. Cavalcovvi messer Cane della Scala con suo isforzo, e cacciogline fuori con grande loro dammaggio. E nel detto mese di dicembre messer Ghiberto da Coreggio, che tenea Parma, si rubellò da la signoria dello imperadore; e simile feciono i Reggiani; e' Fiorentini, e l'altra lega de' Guelfi di Toscana, mandarono loro aiuto di gente a cavallo.
<B>XXXIII</B>
<I>Come in Firenze ebbe grande novità per la morte di messere Pazzino de' Pazzi.</I>
Nel detto anno, dì XI di gennaio, avenne in Firenze che messere Pazzino de' Pazzi, uno de' maggiori caporali che reggea la città e più amato dal popolo, andando a falcone in isola d'Arno a cavallo sanza guardia con suoi falconieri e famigliari, Paffiera de' Cavalcanti l'uccise, coll'aiuto de' Brunelleschi e d'altri masnadieri in sua compagnia a cavallo, a tradimento, secondo si disse, però che messer Pazzino da·lloro non si guardava; e ciò fece per vendetta di Masino de' Cavalcanti e di messer Betto Brunelleschi, dando colpa al detto messer Pazzino gli avesse fatti morire. Per la quale cosa, recato il corpo suo morto al palagio de' priori per più infamare i Cavalcanti, la città si mosse tutta a romore e ad arme, e col gonfalone del popolo in furia sì corse a casa i Cavalcanti, e misevisi fuoco, e da capo furono cacciati di Firenze i Cavalcanti. E per questa cagione il popolo di Firenze alle spese del Comune fece IIII de' Pazzi cavalieri, dotandoli de' beni e rendite del Comune.
<B>XXXIV</B>
<I>Come la città di Chermona si rubellò dallo imperadore.</I>
Nel detto anno MCCCXI, dì X del detto mese di gennaio, i Chermonesi si rubellarono a la signoria dello 'mperadore, e cacciarne fuori sua gente e 'l suo vicario, e ciò fu per soddotta de' Fiorentini, che ancora v'aveano loro ambasciadore a trattare ciò, promettendo a' Chermonesi grande aiuto di danari e di gente; ma male fu loro per gli Fiorentini attenuto.
<B>XXXV</B>
<I>Come il maliscalco dello 'mperadore giunse in Pisa, e cominciò guerra a' Fiorentini.</I>
Nel detto anno, dì XXI di gennaio, messer Arrigo di Namurro fratello del conte Ruberto di Fiandra, maliscalco dello 'mperadore, giunse per mare in Pisa con poca gente, e a due dì appresso uscì di Pisa con sua gente di qua dal Ponte ad Era, e tutte le some de' Fiorentini che venieno da Pisa fece prendere e rimenare in Pisa; onde i Fiorentini ebbono grande danno. Per questa cagione i Fiorentini mandarono gente a cavallo e a piede a la guardia di Samminiato e di quella frontiera.
<B>XXXVI</B>
<I>Come i Padovani si rubellarono dalla signoria dello 'mperadore.</I>
Nel detto anno, dì XV di febbraio, i Padovani col conforto de' Fiorentini e Bolognesi si rubellarono da la signoria dello 'mperadore, e cacciarne il suo vicario e sua gente; e a romore uccisono messer Guiglielmo Novello loro cittadino, e gran capo di parte ghibellina in Padova.
<B>XXXVII</B>
<I>Come lo 'mperadore Arrigo venne nella città di Pisa.</I>
Nel detto anno, a dì XVI del mese di febbraio, lo 'mperadore si partì di Genova per mare con XXX galee per venire a Pisa: per fortuna di tempo gli convenne dimorare in Portoveneri XVIII dì; poi di là arrivò a Porto Pisano, e in Pisa entrò a dì VI di marzo MCCCXI, e da' Pisani fu ricevuto come loro signore, faccendogli grande festa e processione, e al tutto gli diedono la signoria della città, faccendoli grandi doni di moneta per fornire sua gente, che gran bisogno n'aveva. In Pisa dimorò infino a dì XXII d'aprile MCCCXII, attendendo gente nuova di suo paese. In questo dimoro in Pisa il maliscalco suo colla sua gente molte cavalcate e asalti fece sopra le terre e castella de' Lucchesi e di Samminiato del Tedesco, sanza tenere campo o assedio. In quelle cavalcate presono il castello di Buti e la valle che teneano i Lucchesi; altro aquisto non vi fece di terra alcuna. In Pisa si trovò con MD cavalieri oltramontani cogl'infrascritti baroni e signori: l'arcivescovo di Trievi suo fratello carnale, il vescovo di Legge fratello del conte di Bari suo cugino, il duca di Baviera, il conte di Savoia suo cognato, il conte di Forese, messer Guido fratello del Dalfino di Vienna, messer Arrigo fratello del conte di Fiandra suo maliscalco e cugino, messer Ruberto figliuolo del detto conte di Fiandra, il conte d'Alvagna d'Alamagna chiamato Luffo Mastro, cioè in latino Mastro Siniscalco, uomo di grande valore, e più altri conti de la Magna non conosciuti da noi, castellani e banderesi assai, ciascuno di questi signori con sua gente, e molti Italiani, Lombardi e Toscani. I Fiorentini e gli altri Toscani sentendolo in Pisa, s'aforzarono di cavalieri e di gente in grande quantità per contastallo.
<B>XXXVIII</B>
<I>Come gli Spuletini furono sconfitti da' Perugini.</I>
Nel detto anno MCCCXI, dì XXVIII di febbraio, gli Spuletini, ch'erano a parte ghibellina, furono sconfitti da' Perugini, e assai ne furono tra presi e morti.
<B>XXXIX</B>
<I>Della raunata che 'l re Ruberto e la lega di Toscana feciono a Roma per contastare la coronazione d'Arrigo imperadore.</I>
Nell'anno MCCCXII, del mese d'aprile, sentendo il re Ruberto l'aparecchiamento che il re d'Alamagna facea in Pisa per venire a Roma per coronarsi, sì mandò innanzi a Roma, a la richesta e colla forza degli Orsini, messer Gianni suo fratello con VIc cavalieri catalani e pugliesi, e giunsono in Roma dì XVI d'aprile; e mandò a' Fiorentini e Lucchesi e Sanesi e l'altre terre di Toscana ch'erano in lega co·llui che vi mandassono loro isforzo; onde v'andarono a dì VIIII di maggio MCCCXII di Firenze CC cavalieri di cavallate de' migliori cittadini, e 'l maliscalco del re Ruberto, ch'era al loro soldo, con CCC cavalieri catalani e M pedoni, molto bella gente, ond'ebbe la 'nsegna reale messer Berto di messer Pazzino de' Pazzi, valente e savio giovane cavaliere, e a Roma morì al servigio del re e del Comune di Firenze. E di Lucca v'andarono CCC cavalieri e M pedoni; e Sanesi CC cavalieri e VIc pedoni; e molti d'altre terre di Toscana e di terra di Roma vi mandarono gente. I quali tutti furono in Roma a dì XXI di maggio MCCCXII al contasto della coronazione dello imperadore, e colla forza de' detti Orsini di Roma e di loro seguaci presono Campidoglio, e messer Luis di Savoia sanatore per forza ne cacciarono: presono le torri e fortezze a piè di Campidoglio sopra la Mercatantia, e fornirono Castello Adriano detto Santagnolo, e la chiesa e' palagi di San Piero; e così più della metade di Roma e la meglio popolata, e tutto Trastevero ebbono per forza e signoria. I Colonnesi e loro séguito che teneano la parte dello imperadore teneano Laterano, Santa Maria Maggiore, Culiseo, Santa Maria Ritonda, le Milizie, e Santa Savina; e così ciascuna parte imbarrata e aserragliata con grandi fortezze. E dimorandovi la gente de' Fiorentini, il dì di santo Giovanni Batista, loro principale festa, feciono correre in Roma palio di sciamito chermisi, sì come usano il detto dì in Firenze.
<B>XL</B>
<I>Come lo 'mperadore Arrigo si partì di Pisa e andò a Roma.</I>
Nel detto anno, dì XXIII d'aprile, il re d'Alamagna si partì di Pisa con sua gente in quantità di MM cavalieri e più, e fece la via per Maremma, e poi per lo contado di Siena e per quello d'Orbivieto sanza soggiornare; e sanz'altro contrasto se n'andò a Viterbo e quello ebbe sanza contradio, però ch'era nella signoria de' Colonnesi. E passando lui per lo contado d'Orbivieto, i Filippeschi d'Orbivieto col loro séguito di Ghibellini cominciarono battaglia nella città contro a' Monaldeschi e gli altri Guelfi d'Orbivieto per dare la terra a lo 'mperadore. I Guelfi trovandosi forti e ben guerniti, combatterono vigorosamente innanzi che' Ghibellini avessono la forza della gente dello 'mperadore, sì gli vinsono e cacciarono della città, con molti morti e presi di loro parte. Soggiornando poi più giorni lo re d'Alamagna in Viterbo, perché non potea avere l'entrata de la porta di San Piero di Roma, e ponte Emale sopra Tevero era guernito e guardato per la forza degli Orsini, a la fine si partì di Viterbo, e in su Montemalo s'attendò, e poi per forza della sua gente di fuori, e di quella de' Colonnesi e di loro séguito d'entro, assaliro le fortezze e guardie di ponte Emale, e per forza le vinsono, e così entrò in Roma a dì VII di maggio, e andonne a Santa Savina ad albergo.
<B>XLI</B>
<I>Come messer Galeasso Visconti di Milano prese la città di Piagenza.</I>
Nel detto anno MCCCXII, essendo i Guelfi della città di Piagenza in grande divisione tra·lloro, messer Alberto Scotti ch'era capo dell'una setta si elesse per loro podestà per VI mesi messer Galeasso Visconti figliuolo del capitano di Milano. Compiuto il termine, il detto messer Galeasso sotto spezie d'ambasceria mandò a Milano il detto messer Alberto Scotto, e X de' maggiori Guelfi, e X Ghibellini, e a Milano furono ritenuti i Guelfi; poi messer Galeasso con CC cavalieri che gli vennono da Melano, coll'aiuto de' Ghibellini, e massimamente di quegli della casa di Landa, corse la terra e fecesene fare signore, e caccionne i Guelfi, dì XXIIII di luglio del detto anno.
<B>XLII</B>
<I>Come i Fiorentini levarono in isconfitta i Pisani da Cerretello.</I>
Nel detto anno, a dì XX di maggio, essendo i Pisani ad assedio d'uno loro castello in Valdera, ch'avea nome Cerretello, vi cavalcarono i Fiorentini da Vc cavalieri di cavallate, e le loro masnade di Catalani, e levargli da oste in isconfitta, e furonne assai morti e presi di gente a piede.
<B>XLIII</B>
<I>Come Arrigo di Luzzimborgo fu coronato imperadore in Roma.</I>
Nel detto tempo, dimorando il re de' Romani in Roma più tempo per potere venire per forza a la chiesa di San Piero a coronarsi, più battaglie feciono la sua gente contra quegli del re Ruberto e de' Toscani che 'l contradiavano, e per forza vinsono e racquistarono Campidoglio, e le fortezze sopra la Mercatantia, e le torri di San Marco. E di certo si crede ch'avrebbe vinta in gran parte della punga, se non che uno giorno, a dì XXVI di maggio, a una gran battaglia il vescovo di Legge con più baroni d'Alamagna, avendo rotte le sbarre, e correndo la terra infino presso al ponte Santangiolo, la gente del re Ruberto con quella de' Fiorentini partendosi di Campo di Fiore per vie traverse, per costa fediro a la detta gente che cacciava, e ruppongli, e più di CCL cavalieri ne furono tra morti e presi, intra' quali fu il detto vescovo di Legge preso, e menandolo uno cavaliere in groppa di suo cavallo disarmato a messer Gianni fratello de·re Ruberto, uno Catalano a cui era stato morto il fratello in quella caccia il fedì dietro a le reni d'uno stocco, onde giugnendo a Castello Santangiolo, poco stette morì; onde fu grande danno, però che era signore di gran valore e di grande autorità. Per la detta perdita e sconfitta la gente del re Ruberto e loro séguito presono gran vigore, e quella del re d'Alamagna il contradio. Veggendo il signore che l'urtare non facie per lui, e che ne perdea sua gente e suo onore, avendo prima mandato al papa per licenza che' cardinali il potessono coronare in quale chiesa di Roma a·lloro piacesse, sì·ssi diliberò di coronarsi in San Giovanni Laterano; e in quella fu coronato per lo vescovo d'Ostia cardinale da Prato, e per messer Luca dal Fiesco e messer Arnaldo Guasconi cardinali, il dì di san Piero in Vincola, dì primo d'agosto MCCCXII, con grande onore, da quella gente ch'erano co·llui, e da quegli Romani ch'erano di sua parte. E coronato lo 'mperadore Arrigo, pochi giorni appresso se n'andò a Tiboli a soggiornare, e lasciò Roma imbarrata e in male stato, e ciascuna parte tenea le sue contrade afforzate e guernite. De' suoi baroni si partì, fatta la coronazione, il dogio di Baviera e sua gente, e altri signori de la Magna che·ll'aveano servito, sicché con pochi oltramontani rimase.
<B>XLIV</B>
<I>Come lo 'mperadore si partì di Roma per venire in Toscana.</I>
Poi si partì lo 'mperadore da Tiboli, e venne con sua gente a Todi, e da' Todini fu ricevuto onorevolemente e come loro signore, però che teneano sua parte. I Fiorentini e gli altri Toscani, sentendo che lo 'mperadore s'era partito di Roma e facea la via verso Toscana, incontanente mandarono per la loro gente ch'era a Roma, per esser più forti a la sua venuta. E tornata la detta gente, i Fiorentini e l'altre terre di Toscana si guernirono le loro fortezze di cavalieri e di gente, per risistere a la venuta dello 'mperadore, temendo forte della sua forza, e faccendo più confinati, Ghibellini e sospetti; e' Fiorentini crebbono il numero delle loro cavallate in XIIIc, e soldati aveano col maliscalco e con altri da VIIc, sicché circa MM cavalieri aveano; e ciascuna altra città e terra di Toscana de la lega del re Ruberto e di parte guelfa s'erano isforzati di gente d'arme per tema dello 'mperadore.
<B>XLV</B>
<I>Come lo 'mperadore venne a la città d'Arezzo, e poi come venne verso la città di Firenze.</I>
Del detto mese d'agosto, nel MCCCXII, si partì lo 'mperadore da Todi e venne per lo contado di Perugia guastando e ardendo, e per forza prese la sua gente Castiglione Chiusino sopra i·lago, e di là venne a Cortona, e poi ad Arezzo, e dagli Aretini fu ricevuto a grande onore. E in Arezzo fece sua raunanza per venire sopra la città di Firenze, e subitamente si partì d'Arezzo, e entrò in sul contado di Firenze a dì XII di settembre, e di presente gli fu renduto il castello di Caposelvole in su l'Ambra, ch'era de' Fiorentini. E poi si puose ad oste al castello di Montevarchi, il qual era bene guernito di gente, soldati a cavallo e a piè, e di vittuaglia: a quello fece dare più battaglie, e votare i fossi dell'acqua per riempiere. Quegli della terra veggendo ch'erano sì forte combattuti, e avea la terra le mura basse, che i cavalieri dello 'mperadore a piè combattendo, e colle scale salendo a le mura, non temendo saettamento né gittamento di pietre, sì isbigottirono forte, e maggiormente sentendo che' Fiorentini non gli soccorreano, sì s'arendero il terzo dì a lo 'mperadore. Avuto Montevarchi, sanza dimoro venne ad oste a Castello San Giovanni, e per simigliante modo gli si rendéo, e presevi da LXX cavalieri catalani soldati de' Fiorentini; e così sanza riparo ne venne nel borgo di Fegghine.
<B>XLVI</B>
<I>Come i Fiorentini furono quasi sconfitti al castello de l'Ancisa da lo 'mperadore.</I>
I Fiorentini, sentendo lo 'mperadore partito d'Arezzo, incontanente cavalcaro popolo e cavalieri di Firenze, sanza attendere altra amistà, al castello de l'Ancisa in su l'Arno, e furono intorno di XVIIIc di cavalieri e gente a piè assai, e a l'Ancisa s'acamparo per tenere il passo a lo 'mperadore. Egli sentendo ciò, con sua gente armata venne nel piano de l'Ancisa in su l'isola d'Arno che si chiama il Mezzule, e richiese i Fiorentini di battaglia. I Fiorentini non sentendosi di numero di cavalieri guari più che quegli dello 'mperadore, e erano sanza capitano, non si vollono mettere a la ventura de la battaglia, credendosi per lo forte passo riparare lo 'mperadore, che non potesse valicare verso Firenze. Lo 'mperadore veggendo che' Fiorentini non voleano combattere, per consiglio de' savi uomini di guerra usciti di Firenze si prese la via del poggio di sopra a l'Ancisa, per istretti e forti passi valicò il castello, e venne da la parte verso Firenze. Veggendo l'oste de' Fiorentini la sua mossa, dubitando non venisse a la città di Firenze, parte di loro col maliscalco del re e sue masnade si partirono da l'Ancisa per essergli dinanzi al cammino. Il conte di Savoia e messer Arrigo di Fiandra, ch'erano venuti innanzi a prendere il passo, sotto a Montelfi vigorosamente fediro a quelli ch'erano a la frontiera, e col vantaggio ch'aveano del poggio gli misono in volta e in isconfitta, seguendogli parte di loro infino nel borgo de l'Ancisa. La rotta de' Fiorentini fu più per lo sbigottimento del sùbito assalto, che per dammaggio di gente; che tra tutti non vi morirono XXV uomini di cavallo, e meno di C a·ppiede; e quasi tutti quegli oltramontani che per forza vennono cacciando infino nel borgo rimasono morti. Ma pure la gente dello 'mperadore rimasono vincenti de la punga, i Fiorentini molto impauriti; e quella notte lo 'mperadore s'atendò di qua da l'Ancisa verso Firenze due miglia. I Fiorentini rimasono nel castello de l'Ancisa quasi assediati e con poco fornimento di vittuaglia sì fattamente, che se lo 'mperadore fosse stato fermo a l'assedio, i Fiorentini ch'erano ne l'Ancisa erano quasi tutti morti e presi. Ma come piacque a Dio, lo 'mperadore prese consiglio la notte d'andarsene al diritto a la città di Firenze, credendolasi avere sanza contasto, lasciandosi l'oste de' Fiorentini adietro ne l'Ancisa, come assediati e molto impauriti e peggio ordinati.
<B>XLVII</B>
<I>Come lo 'mperadore Arrigo si puose ad oste a la città di Firenze.</I>
E così il seguente giorno, dì XVIIII di settembre MCCCXII, lo 'mperadore venne ad oste a la città di Firenze, ardendo la sua gente quanto si trovavano innanzi; e così passò il fiume d'Arno allo 'ncontro ov'entra la Mensola, e attendossi a la badia di Santo Salvi forse con M cavalieri. L'altra sua gente rimase in Valdarno, e parte a Todi, i quali gli vennero poi. E vegnendo per lo contado di Perugia, da' Perugini furono assaliti e quegli si difesono: con danno e vergogna de' Perugini passarono. E giunse lo 'mperadore sì sùbito, che i più de' Fiorentini non poteano credere vi fosse in persona; ed erano sì ismarriti per tema della loro cavalleria, ch'era rimasa a l'Ancisa quasi come isconfitti, che se lo 'mperadore o sua gente in su la sùbita venuta fossono venuti a le porte, le trovavano aperte e male guernite; e per gli più si crede ch'avrebbe presa la città. Tuttora i Fiorentini, veggendo l'arsioni delle case per lo cammino facea, a suono di campana s'armarono il popolo e co' gonfaloni delle compagnie vennero ne la piazza de' loro priori, e 'l vescovo di Firenze con cavagli de' cherici s'armò, e trasse a la difensione de la porta di Santo Ambruogio e di fossi, e tutto il popolo a piede co·llui, e serraro le porte, e ordinarono i gonfalonieri e loro gente su per gli fossi a le poste a la guardia de la città di dì e di notte. E dentro a la città, da quella parte, puosono uno campo con padiglioni, logge e trabacche, acciò che la guardia fosse più forte, e feciono steccati su per fossi d'ogni legname e bertesche in assai brieve tempo. E così dimoraro in grande paura i Fiorentini due dì, che' loro cavalieri e oste tornarono da l'Ancisa per diverse vie per Valle di Robbiano e da Santa Maria in Pianeta a Montebuoni di notte tempore. Giunti in Firenze, la città si rassicurò: e' Lucchesi vi mandarono a l'aiuto e guardia de la città VIc cavalieri e IIIm pedoni, e' Sanesi VIc cavalieri e IIm pedoni, e' Pistolesi C cavalieri e Vc pedoni, e' Pratesi L cavalieri e IIIIc pedoni, e' Volterrani C cavalieri e IIIc pedoni, e Colle e San Gimignano e Samminiato ciascuno L cavalieri e CC pedoni, i Bolognesi IIIIc cavalieri e M pedoni. Di Romagna vi vennono tra di Rimine e di Ravenna e di Faenza e Cesena e l'altre terre guelfe CCC cavalieri e MD pedoni, e d'Agobbio C cavalieri, e da la Città di Castello L cavalieri. Di Perugia non vi venne aiuto per la guerra ch'aveano co' Todini e Spuletini. E così infra VIII dì posto l'assedio per lo 'mperadore, si trovarono i Fiorentini co·lloro amistà più di IIIIm uomini a cavallo, e gente a piè sanza numero. Lo 'mperadore era con XVIIIc cavalieri, gli VIIIc oltramontani, e M Italiani, di Roma, de la Marca, del Ducato, d'Arezzo, e di Romagna, e de' conti Guidi, e di quegli di Santa Fiore, e usciti di Firenze, e gente a piè assai; però che' nostri contadini da la parte ov'e' possedea, tutti seguivano il suo campo. E fu quell'anno il più largo e uberoso di tutte vittuaglie che fosse XXX anni adietro. A l'assedio dimorò lo 'mperadore infino a l'ultimo dì del mese d'ottobre, guastando il contado tutto da la parte di levante, e fece gran danno a' Fiorentini sanza dare battaglia niuna a la città, stando in isperanza d'averla di concordia; e tutto l'avesse combattuta, era sì guernita di gente a cavallo, che due tanti e più n'aveva a la difensione della città che di fuori, e gente a piè per ognuno IIII. E rassicurarsi sì i Fiorentini, che i più andavano disarmati, e teneano aperte tutte l'altre porte, fuori che da quella parte; e entrava e usciva la mercatantia, come se non v'avesse guerra. Dell'uscire fuori i Fiorentini a battaglia, o per viltà o per senno di guerra, o per non avere capo, in nulla guisa si vollono mettere a la fortuna del combattere, che assai aveano il vantaggio, s'avessono avuto buono capitano, e tra·lloro più uniti che non erano. Ben feciono una cavalcata a Cerretello, che v'erano tornati i Pisani a oste, e ancora gli ne levarono a modo di sconfitta del mese d'ottobre. Lo 'mperadore fu malato più giorni a San Salvi, e veggendo non potea avere la città per accordo, né la battaglia non voleano i Fiorentini.
<B>XLVIII</B>
<I>Come lo 'mperadore si partì dall'asedio da San Salvi e andonne a San Casciano, e poi a Poggibonizzi.</I>
Lo 'mperadore con sua oste si partì la notte vegnendo la Tusanti, ardendo il campo, valicò Arno per la via ond'era venuto, e acampossi nel piano d'Ema di lungi a la città da III miglia. Né già per sua levata i Fiorentini non uscirono la notte della città, ma sonarono le campane, e ogni gente fu ad arme; e per quello si seppe poi, la gente dello 'mperadore ebbono gran tema della levata, che la notte non fossono assaliti dinanzi o a la retroguardia da' Fiorentini. La mattina vegnente una parte de' Fiorentini andarono al poggio di Santa Margherita sopra il campo dello 'mperadore, e a modo di badalucchi più assalti gli feciono, de' quali ebbono il peggiore: e con vergogna là dimorato III giorni, si partì, e andonne con sua oste in sul borgo di San Casciano presso a la città VIII miglia; per la qual cosa i Fiorentini feciono afossare il crescimento del sesto d'Oltrarno, ch'era fuori delle mura vecchie, in calen di dicembre MCCCXII. E stando lo 'mperadore a San Casciano, gli vennono in aiuto i Pisani ben Vc cavalieri e IIIm pedoni, e M balestrieri di Genova, e giunsono a dì XX di novembre. A San Casciano dimorò infino a dì VI di gennaio sanza fare a' Fiorentini altro assalto se non di correrie e guasto e arsioni di case per lo contado, e prese più fortezze de la contrada; né perciò i Fiorentini non uscirono fuori a battaglia, se non in correrie e scheremugi, quando a danno dell'una parte e quando dell'altra, da non farne gran menzione, se non ch'a una avisaglia a Cerbaia di Valdipesa furono i nostri rotti da' Tedeschi, e morì uno degli Spini, e uno de' Bostichi, e uno de' Guadagni per loro franchezza in questa stanza, ch'erano d'una compagnia di volontà a una insegna campo verde e banda rossa con capitano, e chiamavansi i cavalieri della Banda, de' più pregiati donzelli di Firenze, e assai feciono d'arme. Ma in quella stanza i Fiorentini s'aleggiarono di gran parte di loro amistà, e dierono loro commiato, e allo 'mperadore medesimo mancò gente, e per lo suo lungo dimoro e per disagio di freddo si cominciò nel campo a San Casciano grande infermeria e mortalità di gente, la quale corruppe la contrada forte, e infino in Firenze seguì parte; per la qual cagione si partì lo 'mperadore con sua oste da San Casciano, e andonne a Poggibonizzi, e prese il castello di Barberino e di San Donato in Poggio, e più altre fortezze: a Poggibonizzi ripuose il castello in sul poggio, come solea essere anticamente, e puosegli nome Castello Imperiale. Là dimorò infino a dì VI di marzo, e gli fallò molto la vittuaglia, e soffersevi gran soffratta egli e tutta sua oste, che' Sanesi dall'una parte e' Fiorentini da l'altra gli aveano chiuse le strade, e IIIc soldati del re Ruberto erano in Colle di Valdelsa, che 'l guerreggiavano al continuo; e tornando da Casoli CC cavalieri dello 'mperadore, furono sconfitti da' cavalieri del re ch'erano in Colle dì XIIII di febbraio MCCCXII. E d'altra parte il maliscalco co' soldati de' Fiorentini era a guerreggiarlo in San Gimignano, sì che lo stato dello 'mperadore scemò molto, sì che quasi non gli rimasono M uomini a cavallo, che messer Ruberto di Fiandra se ne partì con sua gente, e da' Fiorentini fu combattuto di costa a Castello Fiorentino, e morta e presa di sua gente gran parte, e egli con pochi si fuggì, con tutto ch'assai tenne campo, e assai diè a·ffare a quella gente l'assaliro, ch'erano per uno quattro, ed ebbonne vergogna.
<B>XLIX</B>
<I>Come lo 'mperadore si partì da Poggibonizzi e si tornò in Pisa, e fece molti processi contro a' Fiorentini.</I>
Lo 'mperadore veggendosi così assottigliato e di gente e di vittuaglia, e eziandio di moneta, che nulla gli era rimaso da spendere, se non che ambasciadori del re Federigo di Cicilia, i quali apportarono a Pisa e vennono a·llui a Poggibonizzi per fermare lega co·llui incontro al re Ruberto, gli diedono XXm dobbre d'oro. Con quelle pagati i debiti, si partì da Poggibonizzi, e sanza soggiorno si tornò a Pisa a dì VIIII di marzo MCCCXII assai in male stato di sé e di sue genti; ma questa somma virtude ebbe in sé, che mai per aversità quasi non si turbò, né per prosperità ch'avesse non sì vanagloriò. Tornato lo 'mperadore in Pisa, fece grandi e gravi processi sopra i Fiorentini di torre a la città ogni giuridizione e onori, disponendo tutti giudici e notari, e condannando il Comune di Firenze in Cm marchi d'ariento, e' più grandi cittadini e popolari che reggeano la città nell'avere e persone e ne' loro beni, e che i Fiorentini non potessero battere moneta d'oro né d'argento; e consentì per privilegio a messer Ubizzino Spinola di Genova e al marchese di Monferrato che potessono battere in loro terre i fiorini d'oro contraffatti sotto il conio di quegli di Firenze; la qual cosa da' savi gli fu messa in grande difalta e peccato, che per cruccio e mala volontà ch'avesse contro a' Fiorentini non dovea niuno privileggiare che battessono fiorini falsi.
<B>L</B>
<I>Come lo 'mperadore condannò il re Ruberto.</I>
Sopra il re Ruberto fece simigliantemente grandi processi, condannandolo nel reame di Puglia e della contea di Proenza, e lui e sue rede nelle persone, come traditori dello 'mperio; i quali processi furono poi cassi e annullati per papa Giovanni XXII. E stando lo 'mperadore in Pisa, messer Arrigo di Fiandra suo maliscalco cavalcò in Versilia, in Lunigiana con VIIIc cavalieri e VIm pedoni, e per forza prese Pietrasanta dì XXVIII di marzo MCCCXIII. I Lucchesi, i quali erano a Camaiore collo sforzo de' Fiorentini, e non ardirono a contastare, si tornarono in Lucca. E Serrezzano, che 'l teneano i Lucchesi, s'arrenderono a' marchesi Malispini che teneano collo imperadore.
<B>LI</B>
<I>Come lo 'mperadore s'apparecchiò per andare nel Regno contro al re Ruberto, e si partì di Pisa.</I>
Fatto ciò, prese consiglio lo 'mperadore di non urtare co' Fiorentini e cogli altri Toscani, che poco n'avea avanzato, ma peggiorato suo stato; ma di farsi dal capo, e d'andare sopra il re Ruberto con tutto suo isforzo, e torregli il Regno; e se venuto gli fosse fatto, si credea essere signore d'Italia; e di certo così sarebbe stato, se Idio non avesse riparato, come faremo menzione. Egli s'allegò col re Federigo, che tenea l'isola di Cicilia, e co' Genovesi, e ordinò che ciascuno a giorno nomato avesse in mare grande navilio di galee armate; in Alamagna e in Lombardia mandò per gente nuova, e così richiese tutti i suoi sudditi e' Ghibellini d'Italia. In questo soggiorno in Pisa raunò moneta assai, e non dormendo, tuttora al suo maliscalco facea guerreggiare Lucca e Samminiato, ma poco n'avanzò. Nella state MCCCXIII che soggiornò in Pisa, venutogli suo isforzo, si trovò con più di MMD cavalieri oltramontani, i più Alamannì, e Italiani ben MD. I Genovesi armarono a sua richesta LXX galee, onde fu amiraglio messer Lamba d'Oria, e venne col detto stuolo in Porto Pisano, e parlò a lo 'mperadore; e poi n'andò verso il Regno a l'isola di Ponzo. Il re Federigo armò L galee, e il giorno nominato, dì V d'agosto MCCCXIII, lo 'mperadore si partì di Pisa; e quello dì medesimo si trovò, lo re Federigo si partì coll'armata di Messina, e con M cavalieri si puose in su la Calavra, e prese la città di Reggio, e più altre terre.
<B>LII</B>
<I>Come lo 'mperadore Arrigo morìo a Bonconvento nel contado di Siena.</I>
Partito lo 'mperadore di Pisa, passò su per l'Elsa e combatté Castello Fiorentino, e nol potéo avere: passò oltre tra Poggibonizzi e Colle infino a Siena lungo le porte. In Siena avea gente assai; e cavalieri di Firenze alquanti per badalucchi uscirono per la porta di Cammollia, ed ebbonne il peggiore, e furono ripinti per forza nella città; e così Siena in grande paura, lo 'mperadore valicò la città, e puosesi a campo a Monte Aperti in su l'Arbia. Là cominciò amalare, con tutto che infino a la partita di Pisa si sentisse; ma per non fallire la partita sua al giorno ordinato, si mise a cammino. Poi andò in piano di Filetta per bagnarsi al bagno a Macereto, e di là andò al borgo a Bonconvento, di là da Siena XII miglia. Là agravò forte, e come piacque a·dDio, passò di questa vita il dì di santo Bartolomeo, dì XXIIII d'agosto MCCCXIII.
<B>LIII</B>
<I>Conta come morto lo 'mperadore si divise la sua oste, e' suoi baroni ne portarono il corpo a la città di Pisa.</I>
Morto lo 'mperadore Arrigo, la sua oste, e' Pisani, e tutti i suoi amici ne menarono grande dolore, e' Fiorentini, Sanesi, e' Lucchesi, e quegli di loro lega ne feciono grande allegrezza. Incontanente, lui morto, si partirono gli Aretini e gli altri Ghibellini della Marca e di Romagna dell'oste da Bonconvento, ne la quale avea gente grandissima a cavallo e a piede. I suoi baroni e' cavalieri pisani con loro gente sanza soggiorno passarono per la Maremma col corpo suo, e recarlo in Pisa: là con grande dolore, e poi con grande onore il soppellirono al loro Duomo. Questa fu la fine dello 'mperadore Arrigo. E non si maravigli chi legge, perché per noi è continuata la sua storia sanza raccontare altre cose e avenimenti d'Italia e d'altre province e reami; per due cose: l'una, perché tutti i Cristiani, ed eziandio i Saracini e' Greci, guardavano al suo andamento e fortuna, e per cagione di ciò poche novità notabili erano in nulla parte altrove; l'altra, per le diverse e varie grandi fortune che gl'incorsono in sì piccolo tempo ch'egli visse, che di certo si credea per gli savi che se la sua morte non fosse stata sì prossimana, al signore di tanto valore e di sì grandi imprese com'era egli, avrebbe vinto il Regno e toltolo al re Ruberto, che piccolo apparecchiamento avea al riparo suo. Anzi si disse per molti che 'l re Ruberto no·ll'avrebbe atteso, ma itosene per mare in Proenza; e appresso s'avesse vinto il Regno come s'avisava, assai gli era leggere di vincere tutta Italia, e dell'altre province assai.
<B>LIV</B>
<I>Come Federigo detto re di Cicilia venne per mare a la città di Pisa.</I>
Federigo di Cicilia, il qual era in mare con suo stuolo, come fatta è menzione, agiuntosi già co' Genovesi, sentendo de la morte dello 'mperadore, venne in Pisa, e non avendo potuto vedere lo 'mperadore vivo, sì 'l volle vedere morto. I Pisani per dotta de' Guelfi di Toscana e del re Ruberto sì vollono il detto don Federigo fare loro signore: non volle la signoria, ma per sua scusa domandò loro molto larghi patti fuori di misura, con tutto che per gli più si credette che, bene che' Pisani gli avessono fatti, non avrebbe voluto lasciare la stanza di Cicilia per signoreggiare Pisa; e così sanza grande dimoro si tornò in Cicilia. I Pisani rimasi molto sconsolati e in paura, vollono fare signore il conte di Savoia e messer Arrigo di Fiandra: nullo volle ricevere; ma tutti i caporali e' baroni ch'erano collo imperadore si partirono e tornarono in loro paesi. Altri cavalieri tedeschi e brabanzoni e fiamminghi co·lloro bandiere rimasono al soldo de' Pisani intorno di mille a cavallo. E i Pisani non potendo avere altro capitano, elessono Uguiccione da Faggiuola di Massa Trabara, il quale era stato per lo 'mperadore vicaro in Genova. Questi venne a Pisa e prese la signoria, e appresso, col séguito de' cavalieri tedeschi che vi rimasono, fece in Toscana grandissime cose, come innanzi si farà menzione.
<B>LV</B>
<I>Come il conte Filippone di Pavia fu sconfitto a Piagenza.</I>
Nel detto anno MCCCXIII, del mese d'agosto, il conte Filippone di Pavia co la parte guelfa vegnendo sopra Piagenza, che·lla tenea messer Galeasso Visconti, fu sconfitto e preso.
<B>LVI</B>
<I>Come i Fiorentini diedono la signoria di Firenze al re Ruberto per cinque anni.</I>
Nel detto anno MCCCXIII, ancora vivendo lo 'mperadore, i Fiorentini parendo loro essere in male stato, sì per la forza dello 'mperadore e di loro usciti, e ancora dentro tra·lloro per le sette nate per cagione delle signorie, si diedono al re Ruberto per V anni, e poi appresso si raffermarono per III. E così VIII anni appresso il re Ruberto n'ebbe la signoria, mandandovi di VI in VI mesi suo vicario; e 'l primo fu messer Iacomo di Cantelmo di Proenza, che venne in Firenze del mese di giugno MCCCXIII. E per simile modo appresso feciono i Lucchesi e' Pistolesi e' Pratesi di darsi alla signoria del re Ruberto. E di certo fu lo scampo de' Fiorentini, che per le grandi divisioni tra' Guelfi insieme, se 'l mezzo della signoria del re non fosse stata, guasti e stracciati s'arebbono tra·lloro, e cacciata parte.
<B>LVII</B>
<I>Come gli Spinoli furono cacciati di Genova.</I>
Nel detto anno, del mese di febbraio e di marzo, essendo morto lo 'mperadore, e partito Uguiccione da Faggiuola di Genova, i Genovesi ghibellini tra·lloro ebbono grande discordia per invidia degli ufici e signoria della terra; che gli Orii ch'erano possenti, e gli Spinoli somigliante, ciascuno volea essere il maggiore. Per la qual cosa vennero a battaglia cittadina insieme, la quale durò per XX dì continui molto pericolosa, che tutta la città era partita, l'una parte cogli Ori, e l'altra cogli Spinoli; nella quale battaglia molti ebbe morti d'una parte e d'altra. A la fine misono fuoco combattendo, onde arsero più di IIIc case nel migliore della città; e dibattuti di tanta pestilenza, gli Spinoli non tanto per forza cacciati, ma per isdegno si partirono della città, e andarne a Bazzalla; e la terra rimase a la signoria di quegli d'Oria e de' Grimaldi che teneano co·lloro, e feciono stato comune di popolo, e durò più anni.
<B>LVIII</B>
<I>Come Uguiccione signore in Pisa fece molta guerra a' Lucchesi sì che misono i Ghibellini usciti per isforzata pace in Lucca.</I>
Nel detto anno MCCCXIII, essendo Uguiccione in Pisa per signore appresso la morte dello 'mperadore colla masnada tedesca, non istette ozioso, ma innanzi ch'a·lloro fosse cominciata guerra, vigorosamente assalirono i Lucchesi e' Samminiatesi, cavalcandogli molto spesso infino a le porte, ardendo e guastando; e in più avisamenti sempre n'ebbono i Lucchesi il peggiore, però che per la loro discordia tra' Guelfi medesimi, per sette fatte per invidia di loro signorie, male intendeano a seguire l'antica loro buona sollecitudine e unità e vittorie, ma scemando loro cavallate e soldati; per la qual cosa a' Fiorentini convenia portare tutto il fascio e la spesa, sovente cavalcando a Lucca, popolo e cavalieri, a la loro difensione. Ma Uguiccione co' Pisani essendo di presso, partiti i Fiorentini, incontanente gli cavalcava, sì che molto gli afrisse; e per la loro divisione de la quale era capo dell'una setta messer Luti degli Obizzi, e dell'altra messer Arrigo Berarducci, contra la volontà de' Fiorentini pace feciono co' Pisani, rendendo loro Ripafratta e più altre castella de' Pisani, ch'anticamente aveano sopra loro guadagnate, e rimisono in Lucca quegli della casa degl'Interminegli e loro séguito; onde i Fiorentini molto isdegnarono e furono crucciosi.
<B>LIX</B>
<I>Della morte di papa Chimento.</I>
Nell'anno MCCCXIIII, dì XX d'aprile, morì papa Chimento: volendo andare a Bordello in Guascogna, passato il Rodano a la Rocca Maura in Proenza, amalò e morì. Questi fu uomo molto cupido di moneta, e simoniaco, che ogni benificio per danari s'avea in sua corte, e fu lussurioso; che palese si dicea che tenea per amica la contessa di Pelagorga bellissima donna, figliuola del conte di Fusci. E lasciò i nipoti e suo lignaggio con grandissimo e innumerabile tesoro. E dissesi che, vivendo il detto papa, essendo morto uno suo nipote cardinale cu' egli molto amava, costrinse uno grande maestro di negromanzia che sapesse che dell'anima del nipote fosse. Il detto maestro, fatte sue arti, uno cappellano del papa molto sicuro fece portare a' dimonia, i quali il menarono a lo 'nferno, e mostrargli visibilemente uno palazzo, iv'entro uno letto di fuoco ardente, nel quale era l'anima del detto suo nipote morto, dicendogli che per la sua simonia era così giudicato. E vide nella visione fare un altro palazzo a la 'ncontra, il quale gli fu detto si facea per papa Clemento; e così rapportò il detto cappellano al papa, il quale mai poi non fu allegro, e poco vivette appresso: e morto lui, lasciato la notte in una chiesa con grande luminara, s'accese e arse la cassa, e 'l corpo suo da la cintola in giù.
<B>LX</B>
<I>Come Uguiccione co' Pisani presono la città di Lucca, e rubarono il tesoro della Chiesa.</I>
Nel detto anno MCCCXIIII, essendo i Ghibellini rimessi in Lucca, Uguiccione molto tegnendo corti i Lucchesi, che rendessono i beni loro, e' Guelfi di Lucca che gli s'aveano apropiati non gli voleano rendere, per lo detto Uguiccione tradimento fu ordinato in Lucca cogl'Interminelli, che v'erano rimessi, e con Quartigiani e Pogginghi e Onesti. E subitamente a dì XIIII di giugno nel detto anno, la terra sì misono a romore, combattendo insieme, e giugnendo Uguiccione a le porte co' Pisani e loro isforzo per la detta parte, gli fu data la postierla del Prato. Onde entrò nella terra con sua gente il vicaro del re Ruberto, messer Gherardo da Sa·Lupidio de la Marca, e gli altri Guelfi di Lucca male in accordo e peggio forniti di cavalieri e di gente; e bene ch'avessono mandato per soccorso a' Fiorentini, i quali già venuti a Fucecchio, ma il loro soccorso fu tardi, perché Uguiccione co' Pisani aveano corsa la terra. Per la qual cosa il vicaro del re Ruberto e gli altri Guelfi non potendo resistere, uscirono di Lucca e vennonne a Fucecchio, e a Santa Maria a Monte, e l'altre castella del Valdarno, e la città di Lucca per gli Pisani e' Tedeschi fu corsa e spogliata d'ogni ricchezza, che per VIII dì durò la ruberia così agli amici come a' nemici, pur chi più avea forza, con molti micidii e incendii. E oltre a·cciò il tesoro della Chiesa di Roma, che 'l cardinale messer Gentile da Montefiore de la Marca avea per comandamento del papa tratto di Roma e di Campagna e del Patrimonio, e avevalo lasciato in San Friano di Lucca, per lo detto Uguiccione e sue masnade tedesche, e per gli Pisani tutto fu rubato e portato in Pisa. E non si ricorda di gran tempi passati che una città avesse una sì grande aversità e perdite per parte che vi rientrasse com'ebbe la città di Lucca d'avere e di persone.
<B>LXI</B>
<I>Come messer Piero fratello del re Ruberto venne in Firenze per signore.</I>
Nel detto anno e mese di giugno i Fiorentini avendo novelle della perdita di Lucca, furono molto crucciosi e scommossi, e già avendo dinanzi gl'indizii, s'erano mossi al soccorso, ma giunsono tardi, ché Uguiccione co' Pisani erano più vicini, e prima fornirono d'avere Lucca. I Fiorentini, essendo perduta Lucca, presono poi le castella di Valdarno che ancora si teneano a parte guelfa, ciò furono Fucecchio, Santa Maria a Monte, Montecalvi, Santa Croce, e Castello Franco, e Montetopoli; e in Valdinievole, Montecatini e Montesommano; ma Serravalle, in su la perdita di Lucca, per nigrigenza e avarizia de' Pistolesi, non volendo spendere CCC fiorini d'oro per dare a le masnade che 'l teneano, dagli usciti di Pistoia fu preso; e così Toscana apparecchiata a grande guerra per la rivoluzione della città di Lucca. I Fiorentini mandarono incontanente in Puglia al re Ruberto che mandasse loro uno de' frategli con gente a cavallo e per loro capitano. Il re Ruberto sanza in dugio mandò a·fFirenze messer Piero suo minore fratello, giovane molto grazioso e savio e bello, con CCC uomini di cavallo, e con savio consiglio di suoi baroni; e giunse in Firenze a dì XVIII d'agosto del detto anno: da' Fiorentini fu ricevuto a grande onore come loro signore, dandoli del tutto la signoria della città, e faceva i priori e tutti gli uficiali di Firenze. E fu sì grazioso apo i Fiorentini, che se fosse vivuto, per gli più si dice che' Fiorentini l'avrebbono fatto loro signore a vita.
<B>LXII</B>
<I>Come il re Ruberto andò con grande stuolo sopra Cicilia, e assediò la città di Trapali.</I>
Nel detto anno MCCCXIIII il re Ruberto per vendicarsi di don Federigo di Cicilia che alla venuta dello 'mperadore gli avea rotta pace, e allegatosi co·llui, e prese le sue terre in Calavra, sì fece una grande armata a Napoli, che tra di Proenza e di Puglia e de·Regno e Genovesi armò CXX galee, e tra uscieri e legni grossi da portare cavagli e arnesi d'oste presso di C, sì che CC e più legni a gabbia fu lo stuolo, e con MM cavalieri e gente a piè senza numero. Egli in persona col prenze Filippo e con messer Gianni suoi fratelli si partirono di Napoli col detto stuolo del mese d'agosto del detto anno, e puose in Cicilia a Castello a Mare, e per forza l'ebbe; e poi a la città di Trapali puose l'assedio per mare e per terra, e quella credendosi di presente avere per trattati fatti prima ch'e' si movesse, da' cittadini di Trapali ingannato tue, che sotto i detti trattati fatti fare a posta di don Federigo fu tanto lo 'ndugio della partita del re Ruberto, ch'egli fornì Trapali di gente e di vittuaglia, e rafforzò la città per modo che per battaglia, che più e più ve ne diè il re Ruberto, no·lla potéo avere: e per lungo stallo e male tempo di pioggia, e l'oste mal fornita di vittuaglia per lo tempo contrario, grande infermeria e mortalità fu nell'oste. Il re Ruberto veggendo non potea avere la città, né combattere non volea don Federigo co·llui in mare né in terra, fatta fu triegua per tre anni tra·lloro, e così si partì il re Ruberto con sua oste assai peggiorato, e sanza nulla aquistare: di là tornò in Napoli il dì di calen di gennaio, anno MCCCXIIII, e più galee delle sue afondarono in mare colla gente, perch'erano state nuove e non riconce in sì lungo soggiorno.
<B>LXIII</B>
<I>Come i Padovani furono sconfitti a Vincenza da messer Cane della Scala.</I>
Nel detto anno MCCCXIIII, dì XVIII di settembre, essendo i Padovani con tutto loro isforzo, andarono a Vincenza, e presono i borghi, e assediavano la terra. Messer Cane signore di Verona subitamente venne in Vincenza con poca gente assalì i Padovani; e eglino male ordinati, confidandosi de la presa de' borghi, sì furono sconfitti, e molti di loro presi e morti.
<B>LXIV</B>
<I>Come i Fiorentini feciono pace cogli Aretini.</I>
Nel detto anno MCCCXIIII, a dì XXVIII di settembre, i Fiorentini e' Sanesi e tutta la lega di parte guelfa di Toscana feciono pace cogli Aretini per mano di messer Piero figliuolo del re Carlo in Firenze, ch'abitava in casa i Mozzi a capo del ponte Rubaconte.
<B>LXV</B>
<I>Come apparve una stella commeta in cielo.</I>
Nel detto anno MCCCXIIII apparve una commeta di verso settantrione quasi a la fine del segno de la Vergine, e durò più di VI semmane, e secondo che dissono gli astrologi, significò molte novità e pestilenze ch'appresso furono, e la morte del re di Francia e di suoi figliuoli, che morirono poco appresso.
<B>LXVI</B>
<I>Della morte di Filippo re di Francia e di suoi figliuoli.</I>
Nel detto anno MCCCXIIII, del mese di novembre, il re Filippo re di Francia, il quale avea regnato XXVIIII anni, morì disaventuratamente, che essendo a una caccia, uno porco salvatico gli s'atraversò tra gambe al cavallo in su ch'era, e fecelne cadere, e poco appresso morì. Questi fu de' più belli uomini del mondo, e de' maggiori di persona, e bene rispondente ogni membro, savio da·ssé e buono uomo era, secondo laico, ma per seguire suoi diletti, massimamente in caccia, sì non disponea le sue virtù al reggimento del reame, anzi le commettea in altrui, sicché le più volte si reggea per male consiglio, e quello credea troppo, onde assai pericoli recò al suo reame. Questi lasciò III figliuoli: Luis re di Navarra, Filippo conte di Pettieri, e Carlo conte de la Marcia. Tutti questi furono in poco tempo l'uno appresso l'altro re di Francia, succedendo l'uno a l'altro per morte. E poco innanzi che il re Filippo loro padre morisse, avenne loro grande e vituperevole isventura, che le mogli di tutti e tre si trovarono in avolterio; e sì erano ciascuno di loro de' più begli Cristiani del mondo. La moglie de·re Luis fu figliuola del duca di Borgogna. Questi quando fu re di Francia la fece strangolare con una guardanappa, e poi prese a moglie la reina Crementa, figliuola che fu di Carlo Martello figliuolo del re Carlo secondo. La seconda e la terza donna di loro furon serocchie e figliuole del conte di Borgogna, e rede della contessa d'Artese. Filippo conte di Pettieri per disdette de la sua, e che l'amava molto, la si ritolse per buona e per bella: Carlo conte della Marcia, mai non rivolle la sua, ma la tenne in pregione. Questa sciagura si disse ch'avenne loro per miracolo, per lo peccato regnato in quella casa di prendere a moglie loro parenti, non guardando grado, o forse per lo peccato commesso per lo loro padre della presura di papa Bonifazio, come il vescovo d'Ansiona profetizzò, secondo dicemmo addietro.
<B>LXVII</B>
<I>Della lezione che fu fatta in Alamagna di due imperadori, l'uno il dogi di Baviera, e l'altro quello d'Osteric.</I>
Nel detto anno MCCCXIIII per li prencipi de la Magna fu fatta lezione di due re de la Magna. L'uno fu il fratello del dogi di Baviera chiamato Lodovico, uomo valoroso e franco. Questi ebbe più boci, ciò fu quella dell'arcivescovo di Maganza e di quello di Trievi, e quella del re Giovanni di Buemmia e del dogio di Sassogna, e quella del marchese di Brandimborgo. Federigo d'Osteric ebbe quella dell'arcivescovo di Cologna e quella del dogio di Baviera nimico del fratello. Queste ebbe certe, e ebbe quella del dogio di Chiarentana, il quale dicea dovea essere re di Boemmia di ragione, perch'avea per moglie la prima figliuola di Vincislao reda. E ebbe la boce d'uno de' marchesi di Brandimborgo, che dicea ch'era di ragione marchese, ma non possedea. Ma Lodovico più presso era di ragione imperadore, se non che 'l dogio di Baviera suo fratello per promessione fatta diè la sua boce co' detti altri lettori a Federigo dogio d'Osteric, de la quale isvariata lezione grande scandalo surse in Alamagna tra l'uno eletto e l'altro, e tra 'l dogio di Baviera e Lodovico eletto suo fratello, e più assembramenti e guerre ebbe tra·lloro.
<B>LXVIII</B>
<I>Come Uguiccione signore di Pisa fece gran guerra a le terre vicine.</I>
Nell'anno MCCCXIIII, avendo Uguiccione da Faggiuola co' Pisani e' Tedeschi presa la città di Lucca, come adietro è fatta menzione, tutte le castella che' Lucchesi aveano de' Pisani possedute infino al tempo del conte Ugolino rendé al Comune di Pisa, de le quali i Pisani feciono disfare Asciano e Cuosa, e Castiglione di Valdiserchio, e Nozzano, e 'l ponte a Serchio, e ritennero il castello di Ripafratta, il Mutrone, e 'l Viereggio di su la marina, e Rotaia, e 'l borgo di Serrezzano. E in questo medesimo tempo e nel caldo di tanta vittoria il detto Uguiccione colla masnada de' Tedeschi cavalcando sovente sopra i Pistolesi infino a Carmignano, e sopra i Volterrani, e per tutta Maremma, e sopra Samminiato, e per assedio ebbe il castello di Cigoli e di più altre loro castella, e molto gli affrisse, e poi si puose ad asedio a Montecalvi, che 'l tenevano i Fiorentini: per non essere soccorso si rendéo a Uguiccione e a' Pisani, salve le persone.
<B>LXIX</B>
<I>Come coronato il re Luis di Francia, andò ad oste sopra i Fiaminghi, ma niente v'aquistò.</I>
Nell'anno MCCCXV, il dì di san Giovanni Batista di giugno, Luis si coronò re di Francia colla reina Crementa sua moglie. Incontanente che fu coronato, fece bandire oste sopra i Fiamminghi, rompendo triegue e pace che il re Filippo suo padre avea fatte co·lloro; e in persona con tutta la baronia di Francia, in numero di Xm o più cavalieri e popolo innumerabile, andò in Fiandra, e puosesi a campo a Coltrai. Il conte Ruberto di Fiandra co' suoi Fiamminghi gli vennono a lo 'ncontro a Coltrai per combattere co·llui. Come piacque a Dio, del mese d'agosto cadde tanta piova (e 'l paese di Fiandra è come marese), che 'l carreggio che apportava la vittuaglia a l'oste de' Franceschi non potea uscire di cammino, e le tende e' padiglioni de la detta oste sì circondati d'acque e di pantano, che non poteva appena andare l'uomo dall'uno padiglione a l'altro; sì che per lo difetto de la vittuaglia, e per lo guastamento del campo, convenne che il re di Francia si partisse da oste del mese di settembre, con vergogna e con gran dammaggio quasi di tutti i loro arnesi. E poi il detto conte di Fiandra con sua oste andò infino a Cassella e Santo Mieri per assediare la terra, e se non che quegli de le buone ville non vollono più vergogna fare al re, elli avrebbono potuto correre tutto Artese sanza contasto neuno.
<B>LXX</B>
<I>Come Uguiccione signore di Lucca e di Pisa fece porre l'assedio al castello di Montecatini.</I>
Nel detto anno Uguiccione da Faggiuola co la forza delle masnade de' Tedeschi, signore al tutto di Pisa e di Lucca, trionfando per tutta Toscana, fece porre oste e assedio a Montecatini in Valdinievole, il quale teneano i Fiorentini dopo la perdita di Lucca, e quello guernito di buona gente, con battifolli fu molto distretto, sì che gran difetto aveano di vittuaglia. I Fiorentini mandato nel Regno per lo prenze Filippo di Taranto fratello del re Ruberto, per contastare la rabbia d'Uguiccione e de' Pisani e de' Tedeschi, quegli venne a Firenze dì XI di luglio, con Vc cavalieri al soldo de' Fiorentini con messer Carlo suo figliuolo contra voglia del re Ruberto, conoscendo il suo fratello per più di testa che savio, e con questo non bene aventuroso di battaglie, ma il contradio; e se' Fiorentini avessono voluto più indugiare, il re Ruberto mandava a Firenze il duca suo figliuolo con più ordine e con più consiglio e migliore gente: ma la fretta de' Fiorentini, co lo studio della contradia fortuna, gli fece pure volere il prenze, onde a·lloro seguì grande dammaggio e disinore.
<B>LXXI</B>
<I>Come il prenze di Taranto venuto in Firenze, i Fiorentini uscirono ad oste per soccorrere Montecatini, e furono sconfitti da Uguiccione de la Faggiuola.</I>
Venuto il prenze di Taranto e 'l figliuolo in Firenze, Uguiccione con tutto suo isforzo di Pisa e di Lucca, e del vescovo d'Arezzo, e de' conti da Santa Fiore, e di tutti i Ghibellini di Toscana e usciti di Firenze, e con aiuto de' Lombardi da messer Maffeo Visconti e da' figliuoli, il quale Uguiccione fue con novero di XXVc e più di cavalieri, e popolo grandissimo, venne all'assedio del detto castello di Montecatini. I Fiorentini per quello soccorrere raunarono grande oste, richeggendo tutta loro amistà: vi furono Bolognesi, Sanesi, Perugini, de la Città di Castello, d'Agobbio, e di Romagna, e di Pistoia, di Volterra, e di Prato, e di tutte l'altre terre guelfe e amici di Toscana, in quantità, co la gente del prenze e di messer Piero, di XXXIIc di cavalieri, e gente a piè grandissima, e partirsi di Firenze dì VI d'agosto. E venuta la detta oste de' Fiorentini e del prenze in Valdinievole a la 'ncontra di quella d'Uguiccione, più dì stettono affrontati, il fossato della Nievole in mezzo, con più assalti e badalucchi. I Fiorentini con molti capitani e con poca ordine i nemici aveano per niente; Uguiccione e sua gente con tema grande, e per quella faceano grande guardia e savia condotta. Uguiccione avendo novelle che i Guelfi delle sei migliaia del contado di Lucca per sodduzione de' Fiorentini venieno verso Lucca, e già aveano rotta la scorta e la strada onde venia la vittuaglia a l'oste d'Uguiccione, prese per consiglio di levarsi dall'assedio, e di notte si ricolse, e fece ardere i battifolli, e venne con sua gente schierata in sul congiugnimento dello spianato dell'una oste e dell'altra, a intenzione, se 'l prenze e sua oste non si dilungasse, di valicare e andarsene a Pisa; e se 'l volessono contrastare, d'avere l'avantaggio del campo, e di prendere la ventura della battaglia. Il prenze e' Fiorentini e loro oste veggendo ciò, in sul giorno si levarono da campo, e istendero loro padiglioni e arnesi, e 'l prenze malato di quartana, con poca provedenza non tenendo ordine di schiere per lo sùbito e improviso levamento di campo, s'affrontarono con i nimici, credendogli avere in volta. Uguiccione veggendo non potea schifare la battaglia, fece assalire le guardie dello spianato, ch'erano i Sanesi e' Colligiani e altri, a' suoi feditori intorno di CL cavalieri, ond'era capitano col pennone imperiale messer Giovanni Giacotti Malespini rubello di Firenze, e 'l figliuolo d'Uguiccione, e quegli Sanesi e Colligiani sanza contrasto ruppero e trascorsono infino a la schiera di messer Piero ch'era colla cavalleria de' Fiorentini. Quivi i detti feditori furono rattenuti, e quasi tutti tagliati e morti, e rimasevi morto il detto messer Giovanni, e 'l figliuolo d'Uguiccione e loro compagnia, e abattuto il pennone imperiale, con molta buona e franca gente.
<B>LXXII</B>
<I>Ancora de la detta battaglia e sconfitta de' Fiorentini e del prenze.</I>
Essendo cominciato l'assalto, e Uguiccione veduto il male sembiante di fuggire che feciono i Sanesi e' Colligiani per la percossa de' suoi feditori, incontanente fece fedire la schiera de' Tedeschi, ch'erano da VIIIc cavalieri e più, e quegli rabbiosamente assalendo la detta oste male ordinata, che per la sùbita levata gran parte de' cavalieri non erano armati di tutte loro armi, e' pedoni male in ordine, anzi al fedire che feciono i Tedeschi di costa, i gialdonieri lasciarono cadere le loro lance sopra i nostri cavalieri, e misonsi in fugga; la quale intra l'altre fu gran cagione della rotta dell'oste de' Fiorentini, che la detta schiera de' Tedeschi pignendo innanzi gli misono in volta con poco ritegno, salvo dalla schiera di messer Piero e de' Fiorentini, che assai sostennono; a la perfine furono sconfitti. Ne la quale battaglia morì messer Piero fratello del re Ruberto, e non si ritrovò mai il corpo suo; e morìvi messere Carlo figliuolo del prenze, e 'l conte Carlo da Battifolle, e messer Caroccio e messer Brasco d'Araona conostaboli de' Fiorentini, uomini di gran valore; e di Firenze vi rimasono quasi di tutte le grandi case e di grandi popolari, in numero di CXIIII tra morti e presi cavalieri delle cavallate, e di Siena, di Bologna, e di Perugia e dell'altre terre di Toscana e di Romagna pur de' migliori; ne la qual battaglia furono di tutte genti morti tra uomini a cavallo e a piede da IIm e presi da MD. Il prenze con tutta l'altra gente si fuggì, chi verso Pistoia, e chi verso Fucecchio, e chi per la Cerbaia, onde molti capitando a' pantani della Guisciana, del sopradetto numero de' morti sanza colpi annegarono assai. Questa dolorosa sconfitta fu il dì di santo Giovanni dicollato, dì XXVIIII d'agosto MCCCXV. Fatta la detta sconfitta, il castello di Montecatini s'arrendéo a Uguiccione, e 'l castello di Montesommano, i quali teneano i Fiorentini; e quegli che dentro v'erano se n'andarono sani e salvi per patti.
<B>LXXIII</B>
<I>Come Vinci e Cerreto Guidi si rubellarono a' Fiorentini.</I>
Come la detta sconfitta fu fatta, i signori d'Anghiano rubellarono dal Comune di Firenze il loro castello di Vinci, e Baldinaccio degli Adimari rubello di Firenze rubellò il castello di Cerreto Guidi di Greti; e fuggendo i Fiorentini e gli altri de la detta sconfitta, ne presono e rubarono assai; e poi per più tempo fatta compagnia con Uguiccione, e poi con Castruccio di Lucca, grande guerra feciono al contado di Firenze in quella contrada, e più volte vi furono rotti e ricevettono danno i soldati di Firenze e que' d'Empoli, e di Pontormo, e del paese per le masnade de' Tedeschi di Lucca. A la fine per patti e per danari essendo tratto di bando Baldinaccio e altri, con vergogna del Comune di Firenze, renderono le dette castella a' Fiorentini.
<B>LXXIV</B>
<I>Come il re Ruberto mandò in Firenze per capitano il conte Novello.</I>
Nel detto anno i Fiorentini per la detta sconfitta non isbigottiti, ma vigorosamente la loro città di Firenze riformarono e d'ordini e di forza di gente d'arme e di moneta, e steccarsi i fossi per la loro difensione, e mandarono al re Ruberto per uno capitano di guerra, il quale sanza indugio mandò a·fFirenze il conte d'Andria e di Montescaglioso detto conte Novello de la casa del Balzo, con CC cavalieri; e costì stettono al riparo della fortuna d'Uguiccione sanza perdere stato o signoria o castello o altra tenuta, onde i Ghibellini e usciti di Firenze si trovarono ingannati, che si credeano avere vinta la terra fatta la sconfitta: ed e' fu il contradio, che già per ciò non fu il danno sì grande, che essendo in Firenze, paresse v'avesse mai avuta sconfitta, non lasciando gli artefici di fare i loro lavori continuo.
<B>LXXV</B>
<I>Come Uguiccione fece tagliare la testa a Banduccio Bonconti e al figliuolo, grandi cittadini di Pisa.</I>
Nell'anno MCCCXVI, del mese di marzo, trionfando Uguiccione della detta vittoria, e avendo la signoria di Pisa e di Lucca, volendo come tiranno al tutto dominare sanza contasto, fece pigliare in Pisa Banduccio Bonconti e 'l figliuolo, uomo di grande senno e autoritade, e molto creduto da' suoi cittadini, perché per bene del suo Comune contrastava a la sua tirannia, gli fece subitamente dicapitare, opponendo loro falsamente che teneano trattato col re Ruberto; onde i Pisani forte s'indegnarono contra Uguiccione, ma per la sua forza e signoria nullo l'ardiva a contastare. Facciamne menzione per quello che·nn'avenne poi.
<B>LXXVI</B>
<I>Come i Fiorentini si divisono tra·lloro per sette, e feciono bargello.</I>
Nel detto anno MCCCXVI i Fiorentini volendosi fortificare e riparare a la forza d'Uguiccione, mandarono in Francia ambasciadori e sindachi per fare venire per loro capitano messer Filippo di Valos figliuolo di messer Carlo di Francia con VIIIc cavalieri franceschi, il quale per la turbazione della morte del re Luis di Francia suo cugino non venne; e ancora v'ebbe sturbo e difetto per le sette che nacquero grandissime tra' Fiorentini, che l'una parte de' Guelfi amavano la signoria de·re Ruberto e de' Franceschi, e gli altri il contradio e' voleano; e mandarono in Alamagna per lo conte di Liutimberghe perché menasse Vc cavalieri tedeschi, e simigliante non vennero, e volentieri avrebbono tolta la signoria data al re Ruberto. Onde in Firenze si cominciò grande scisma e parte tra' Guelfi; e dell'una parte che disamavano la signoria del re Ruberto erano capo messer Simone della Tosa con certi grandi, e' Magalotti con certi popolari, i quali al tutto co·lloro isforzo e séguito signoreggiavano la terra; e se non fosse per la tema d'Uguiccione, certamente la parte del re Ruberto n'avrebbono cacciata fuori della città; e mandarne il conte Novello con sua gente, che non era ancora dimorato in Firenze che IIII mesi capitano di guerra, e dovea dimorare uno anno: e sì era in Firenze vicaro in luogo di podestà e capitano per lo re Ruberto, ma poco podere v'avea, però che la setta contraria aveano la forza e signoria del priorato e degli altri offici e ordini de la terra. E per meglio signoreggiare la terra ed essere più temuti, la detta setta reggente criò e fece uno bargello ser Lando d'Agobbio, uomo carnefice e crudele; e il dì di calen di maggio MCCCXVI gli diedono il gonfalone e la signoria; il quale continuo stava con Vc fanti armati con mannaie a piè del palagio de' priori, e subitamente mandava pigliando Ghibellini e rubelli e loro figliuoli e altri cui gli piacea di fatto, in città e in contado, e sanza giudicio ordinale di fatto gli facea a' suoi fanti tagliare colle mannaie; e così fece a' cherici sacri della casa degli Abati, e a uno giovane innocente della casa de' Falconieri, e a più altri di basso affare; onde il comune popolo di Firenze isbigottiti della guerra di fuori d'Uguiccione, e de la tirannesca e crudele signoria d'entro, ciascuno vivea in paura, così i Guelfi come i Ghibellini, i quali non erano di quella setta, e la città era caduta in pessimo stato; se non che Idio vi provide con corto rimedio, come innanzi farà menzione.
<B>LXXVII</B>
<I>Come si murarono parte delle mura di Firenze, e fecesi una mala moneta.</I>
Nel detto anno e tempo, sotto la signoria del detto bargello, in Firenze si compierono di murare le mura dal prato d'Ognesanti a San Gallo, e fecesi una moneta falsa in Firenze, ch'era quasi tutta di rame bianchita d'ariento di fuori, e contavasi l'uno danari VI, che non valea danari IIII, e chiamarsi bargellini: fu molto biasimata per gli buoni uomini.
<B>LXXVIII</B>
<I>Come Uguiccione da Faggiuola fu cacciato della signoria di Pisa e di Lucca, e come Castruccio di prima ebbe la signoria di Lucca.</I>
Nel detto anno MCCCXVI, dì X d'aprile, essendo in Lucca per signore il figliuolo d'Uguiccione da Faggiuola, Castruccio della casa degl'Interminelli (non perciò de' migliori della casa, ma era di grande ardire e séguito), avendo fatto in Lunigiana certe ruberie e micidi contra volontà d'Uguiccione, preso fu in Lucca dal figliuolo d'Uguiccione per giustiziare. Quelli per la forza de' suoi consorti e séguito non l'osava né ardia a·ffare: mandò per Uguiccione suo padre, e egli venne a Lucca con parte di sua cavalleria per seguire la detta giustizia. Sì tosto come fu in sul Monte San Giuliano, il popolo di Pisa si levò a romore per soperchi ricevuti, e per la morte di Banduccio Bonconti e del figliuolo, onde forte s'erano gravati della signoria d'Uguiccione, onde fu capo Coscetto dal Colle franco popolare, e corsono con arme e con fuoco al palagio ove stava Uguiccione e sua famiglia, gridando: "Muoia il tiranno d'Uguiccione"; e così rubarono e uccisono tutta sua famiglia, e rimutaro stato nella terra, e feciono loro signore il conte Gaddo de' Gherardeschi, uomo savio e di gran podere. Uguiccione trovandosi in Lucca, quasi la terra scommossa per rubellarsi contra lui per la cagione di Castruccio, e avendo novelle da Pisa che' Pisani s'erano rubellati, per paura si partì egli e 'l figliuolo e sua gente, e andarsene verso Lombardia nelle terre del marchese Spinetta, e poi a Verona a messer Cane della Scala. Castruccio scampato, a grido fu fatto signore di Lucca per uno anno, coll'aiuto e favore di messer Pagano di Quartigiani, Pogginghi, e Onesti, e con patto che 'l detto messer Pagano fosse signore in contado, e compiuto l'anno, scambiare la signoria. Ma Castruccio per essere al tutto signore, gli colse cagione, e cacciollo di Lucca e del contado; e tali sono i meriti de' tiranni. E così in picciolo tempo a Uguiccione fu mutata la fortuna, e l'una città e l'altra tratta de la sua tirannica signoria. Questo fu il guidardone che lo 'ngrato popolo di Pisa rendé a Uguiccione da Faggiuola, che gli avea vendicati di tante vergogne, e racquistate loro tutte loro castella e dignità, e rimisigli nel maggiore stato, e più temuti da' loro vicini che città d'Italia.
<B>LXXIX</B>
<I>Come il conte da Battifolle fu vicario in Firenze, e caccionne il bargello, e mutòe stato in Firenze.</I>
Nel detto anno MCCCXVI gran parte de' Guelfi grandi e popolani di Firenze ch'aveano data la signoria al re Ruberto, i quali erano gran parte di tutte le maggiori schiatte de la terra, e co·lloro quasi tutti i mercatanti e artefici, parea loro male stare per la signoria del bargello, segretamente si dolfono per lettere e ambasciadori al re Ruberto, e richiesollo ch'egli facesse vicario di Firenze il conte Guido da Battifolle; il quale dal re fu accettato e fatto. E 'l detto conte del mese di luglio del detto anno venne a Firenze, e prese la signoria per lo re. L'altra setta che signoreggiava la città nel priorato, che non amavano la signoria del re Ruberto, volentieri l'avrebbero contastato; ma il conte da Battifolle era sì Guelfo e sì possente vicino, che no·ll'ardirono a contastare a la sua venuta in Firenze. Ma poco pote' aoperare i·lloro contradio per la sua signoria, per la forza del bargello, e perché tutti e VII i priori e gonfaloniere erano di quella setta, e' gonfalonieri delle compagnie dell'arti di Firenze. Ma avenne in quello tempo che la figliuola del re Alberto de la Magna, serocchia del dogio d'Osteric, andava a marito a Carlo duca di Calavra figliuolo del re Ruberto, e passò per Firenze: incontro per acompagnarla venne l'arcivescovo di Capova cancelliere del re, e messer Gianni fratello del re Ruberto, e 'l conte camerlingo, e 'l conte Novello con cavalieri in numero di CC. Venuti in Firenze, per lo conte da Battifolle vicario del re, e per gli altri cittadini ch'amavano la sua signoria, si dolfono a quegli signori della signoria del bargello, e mostrarono com'era contra l'onore e stato del re; onde avenne che si tramisono d'accordo e per parole e per minacce che' Guelfi si raccomunassono insieme de la signoria, e convenne che si facesse; sì che a la lezione de' priori, che venia in mezzo ottobre, che VII erano già fatti di quella setta che reggea la città, convenne che VI altri de la parte del re s'agiugnessono a quegli. E come quegli signori furono co la donna a Napoli, e fatto asapere al re lo stato di Firenze e la signoria del bargello, incontanente mandò il re a Firenze che la detta signoria s'abbattesse, e 'l bargello più non fosse; e così fu fatto. E partissi il bargello di Firenze del mese d'ottobre MCCCXVI, però che la parte del re col podere del conte da Battifolle vicario avea già sì presa forza, che non che di disfare l'oficio del bargello, ma la seguente lezione de' XIII priori furono quasi tutti de la parte ch'amavano la signoria del re; e così al tutto il conte da Battifolle con quella parte rimasono signori, e si mutò stato in Firenze sanza nulla altra turbazione o cacciamento di genti. La quale gente di vero tennero la città in assai pacifico e tranquillo stato più tempo appresso, onde la città s'avanzò e migliorò assai; e per lo detto conte da Battifolle vicario s'ordinò e cominciò e fece gran parte del palagio nuovo ove sta la podestà. E nel detto anno, del mese di gennaio, a la signoria del detto conte nacque al Terraio in Valdarno uno fanciullo con due corpi così fatto, e fu recato in Firenze, e vivette più di XX dì; poi morì a lo spedale di Santa Maria della Scala, l'uno prima che l'altro: e volendo essere recato vivo a' priori ch'allora erano, per maraviglia non vollono ch'entrasse in palagio, recandolsi a pianta e sospetto di sì fatto mostro, il quale secondo l'oppenione degli antichi ove nasce era segno di futuro danno.
<B>LXXX</B>
<I>Conta di grande fame e mortalità ch'avenne oltremonti.</I>
Nel detto anno MCCCXVI grande pestilenzia di fame e mortalità avenne nelle parti di Germania, cioè nella Magna di sopra verso tramontana, e stesesi in Olanda, e in Frisia, e in Silanda, e in Brabante, e in Fiandra, e in Analdo, e infino ne la Borgogna, e in parte di Francia; e fu sì pericolosa, che più che 'l terzo de la gente morirono, e da l'uno giorno a l'altro quegli che parea sano era morto. E 'l caro fu sì grande di tutte vittuaglie e di vino, che se non fosse che di Cicilia e di Puglia vi si mandò per mare per gli mercatanti per lo grande guadagno, tutti morieno di fame. Questa pestilenzia avenne per lo verno dinanzi, e poi la primavera e tutta la state fu sì forte piovosa, e 'l paese è basso, che l'acqua soperchiò e guastò ogni sementa. Allora le terre affogarono sì, che più anni appresso quasi non fruttarono, e corruppe l'aria. E dissono certi astrolaghi che la cometa ch'aparve dinanzi nel MCCCXIIII fu segno di quella pestilenzia, ch'ella dovea venire perché la sua infruenzia fu sopra quegli paesi. E in quello tempo la detta pestilenzia contenne simigliante in Romagna e in Casentino infino in Mugello.
<B>LXXXI</B>
<I>Della lezione di papa Giovanni XXII.</I>
Giovanni XXII, nato di Caorsa di basso affare, sedette papa anni XVIII, mesi II e dì XXVI. Questi fu eletto dì VII d'agosto MCCCXVI in Vignone da' cardinali, essendo stata vacazione bene di due anni, e tra·lloro in grande discordia, però che' cardinali guasconi, ch'erano una gran parte del collegio, voleano la lezione in loro, e gli cardinali italiani e franceschi e provenzali non aconsentieno, sì erano stati a punto del Guascone. Dopo la molta contesa, quasi come in mezzano, rimisono l'una parte e l'altra le boci in costui, credendosi i Guasconi la rendesse al cardinale di Bidersi ch'era di loro nazione, o al cardinale Pelagrù. Questi con assentimento degli altri Italiani e Provenzali, e per trattato di messer Nepoleone Orsini cardinale, capo di quella setta contro a' Guasconi, la diede a·ssé medesimo, per ordinato modo secondo i decretali. Questi fue uno povero cherico, e di nazione del padre ciabattiere, e col vescovo d'Arli cancelliere del re Carlo secondo s'allevò, e per sua bontà e sollecitudine essendo in grazia del re Carlo, e a sua spensaria il fece studiare, e poi il re il fece fare vescovo di Vergiù; e morto l'arcivescovo d'Arli messer Piero da Ferriera cancelliere e suo maestro, il re Ruberto il fece in suo luogo cancelliere; e poi con suo studio e sagacità mandando lettere da parte del re Ruberto a papa Chimento di sua raccomandigia, de le quali il re, si disse, non seppe neente; per le quali lettere il detto vescovo di Vergiù fu promutato e fatto vescovo di Vignone, e poi cardinale per lo suo senno e studio; onde il re Ruberto innanzi che fosse cardinale era male di lui, e aveali tolto il suggello, perch'egli avea suggellate le dette lettere in suo favore al detto papa Chimento sanza sua coscienza. Questo papa Giovanni fu coronato in Vignone il dì di santa Maria, dì VIII di settembre, anno MCCCXVI. Poi fu grande amico del re Ruberto, e egli di lui; e per lui fece di grandi cose, come innanzi farà menzione. Questo papa diede compimento al settimo libro de le decretali, il quale avea cominciato papa Clemento, e rinovellò la Pasqua e festa del sagramento del corpo dì Cristo con grandi indulgenzie e perdoni, chi fosse a celebrare gli ufici sacri a ogn'ora, e diè perdono generale a tutti i Cristiani di XL dì per ogni volta che si facesse reverenza quando il prete nominasse Gesù Cristo; questo fece poi nell'anno MCCCXVIII.
<B>LXXXII</B>
<I>Come il re Ruberto e' Fiorentini feciono pace co' Pisani e' Lucchesi.</I>
Nell'anno MCCCXVII, del mese d'aprile, pace fu fatta dal re Ruberto a' Pisani e Lucchesi, e simigliante la fece fare il detto re a' Fiorentini e Sanesi e Pistolesi, e tutta la lega di parte guelfa di Toscana; e con tutto che per gli Guelfi malvolentieri si facesse per la sconfitta ricevuta da·lloro, e dando biasimo al re Ruberto di viltà, sì 'l fece per gran senno e provedenza, e per pigliare lena e forza per sé e per gli Fiorentini, e non urtare co' nimici a la fortuna de la loro vittoria, e per altri maggiori intendimenti, come innanzi farà menzione. I patti ebbe il re da' Pisani che quando facesse generale armata, gli darebbono V galee armate, o la moneta che costassono, e volle facessono in Pisa una cappella e spedale per l'anime de' morti a la sconfitta da Montecatino a perpetua memoria; e ancora di questo fu ripreso, e lo re la fece fare a gran provedenza. I Fiorentini ebbono patti d'essere liberi e franchi in Pisa, e le castella che aveano si tenessono; e tornarono i pregioni in Firenze dì XXVIIII di maggio: furono XXVIII tra cittadini e contadini nobili e buoni popolani, sanza più altri, minuta gente e contadini. E la detta pace co' Pisani non avrebbe avuto effetto con tutto il podere del re Ruberto, però che' Pisani in nulla guisa voleano fare franchi i Fiorentini in Pisa, né altri patti domandati, parendo loro, com'erano, al di sopra de la guerra con vittoria, se non fosse adoperato per gli Fiorentini una bella e sottile maestria di guerra per l'uficio passato de' priori, intra' quali avea di savi e discreti uomini, della quale è bene da fare notevole memoria per assempro di quegli che sono a venire. Essendo, come detto è dinanzi, rinnovato lo stato in Firenze per la signoria del conte a Battifolle, e era ancora molto tenero, e avendo la guerra di Pisa e di Lucca, non erano in sicuro stato, sì usarono questa savia disimulazione: ch'eglino elessono XIIII buoni uomini popolani, e rinchiusogli nell'opera di Santo Giovanni, e commisono loro che facessono nuove gabelle, e delle vecchie radopiassono, sì che il Comune avesse d'entrata Dm di fiorini d'oro l'anno, o più; e di questo ordine si diede la boce per la cittade, e di mandare in Francia per uno de' reali, figliuolo o nipote del re, per capitano con M cavalieri franceschi. E questa providenza fu commessa per lo conte e per tutto l'uficio de' priori in Alberto del Giudice, uomo di grande autoritade, con Donato Acciaiuoli, e co·noi, che tutti e tre eravano di quello collegio, e fune dato il suggello del Comune e piena autorità con giurata credenza. Incontanente per gli detti furono fatte fare lettere da parte del Comune al re di Francia e a messer Carlo suo fratello, pregandogli per bene e stato di santa Chiesa e di parte guelfa, e riparare la venuta di nuovo imperio, ci mandassono uno de' loro figliuoli con M cavalieri al nostro soldo; e ordinossi colle compagnie di Firenze ch'aveano affare in Francia, che facessono lettere di pagamento di LXm fiorini d'oro, per dare per arra e fare la promessa de' gaggi a Carlo; e scrissesi al papa e a più de' suoi cardinali amici del nostro Comune ch'eglino iscrivessono e confortassono lo re e messer Carlo di questa impresa. Fatte le dette lettere, ebbono uno fidato corriere francesco, e ordinarono ch'andasse a Parigi per la via di Vignone, ov'era il papa, in XV dì per lo cammino di Pisa; e disparte s'ordinò sagretamente per quegli ch'era sopra le spie ch'una spia fidata gli facesse compagnia a condurlo per Pisa. E come furono in Pisa, com'era temperato, la detta spia scoperse al conte e agli anziani del detto corriere, il quale feciono pigliare colle dette lettere, e quelle aperte e lette, s'ammirarono forte dell'ordine impresa, sì grande per lo nostro Comune, e di tanta entrata di gabelle: consigliaro che per loro non facea di mantenere la guerra, potendo avere pace; e con tutti i loro vizii, credendoci avere ingannati per la presa delle dette lettere, rimasono ingannati; e di presente mandarono al nostro Comune che rimandassono i loro ambasciadori trattatori della pace a Montetopoli, e i loro verrebbono a Marti; e così fu fatto. E innanzi si partissono si diè compimento a la pace, al piacere, e com'era prima domandata per gli Fiorentini: e così si mostra che·lla savia providenza bene guidata e colla credenza, nelle guerre e nell'altre imprese, vince ogni forza e potenzia, e reca a·ffine onorevole ogni gran cosa.
<B>LXXXIII</B>
<I>Come i Fiorentini disfeciono la mala moneta, e feciono la buona del guelfo nuovo.</I>
Nel detto anno MCCCXVII i Fiorentini disfeciono la mala moneta bargellina che correa per danari VI l'uno, ed erano di valuta di danari IIII, o meno, e fecionne una da danari XX, che poco valea meglio per bontà d'argento, che poi si disfece quella da XX, non piaccendo al popolo, e feciono la buona moneta del guelfo da danari XXX l'uno, e quella da XV danari di buono argento di lega d'once XI e mezzo di fine. E in quello anno, del mese di luglio, si fondarono in su·ll'Arno la pila del nuovo ponte detto Reale, e feciono le mura da quella torre di su l'Arno infino a la porta di Santo Ambruogio, e quelle di su la riva d'Arno in su l'isola infino al Corso de' Tintori di costa l'orto di Santa Croce.
<B>LXXXIV</B>
<I>Come il re Ruberto mandò sua armata in Cicilia, e fece gran danno.</I>
Nel detto anno essendo fallite le triegue dal re Ruberto a quello di Cicilia, per lo detto re si fece armata in Napoli di LX galee, sanz'altri legni passaggeri, onde fu amiraglio e capitano messer Tommaso di Marzano conte di Squillaci, il quale con XIIc d'uomini a cavallo e gente a piè assai, passò col detto stuolo in Cicilia, e puose a Castello a Mare, e poi per terra n'andò in Valle di Mazara, guastando intorno a Trapali e tutta la contrada, e le galee per mare, e grandissimo danno fece di tutto il formento ch'era a le piagge; poi ritornò co la detta oste per la via da Coriglione a Palermo, e quivi per più giorni dimorò; e tutti i giardini e vigne de la città d'intorno guastò, e le tonnare del porto: d'allora innanzi vennero in queste marine grande abbondanza di tonni, che prima non ce n'avea. E poi se n'andò, per terra i cavalieri, e le galee per mare, infino a Messina, guastando ciò che innanzi gli si trovava, sanza riparo niuno; intorno a Messina stette ad oste più di XV dì, guastando tutte le vigne e' giardini di Messina. Il re Federigo non ardì di comparire né per terra né per mare; ma si dimorò a Castrogianni con sua oste, per la qual cosa l'isola di Cicilia ricevette in quello anno più di guerra che prima non avea ricevuta dal re Carlo primo, né dal secondo. E dissesi, se il re Ruberto l'avesse continuato l'anno appresso, i Ciciliani non avrebbono durato; ma papa Giovanni volle che triegue fossono per V anni, e la città di Reggio in Calavra e più castella intorno che·re Federigo avea conquistate a la venuta dello 'mperadore Arrigo rimise nelle mani e guardia della Chiesa; la qual triegua il re Ruberto accettò per la 'mpresa ch'avea fatta di Genova per recarla a sua parte, come innanzi farà menzione, e per racquistare le dette terre, le quali riebbe poi in guardia da la Chiesa; onde quello di Cicilia si tenne tradito e ingannato da la Chiesa e dal re Ruberto, però che il re Ruberto le si ritenne in sua signoria.
<B>LXXXV</B>
<I>Come Ferrara si rubellò da la Chiesa.</I>
Nel detto anno, a dì IIII d'agosto, i Ferraresi si rubellarono da la signoria de la Chiesa e del re Ruberto, e a romore assalirono e uccisono e presono la sua masnada, ch'erano Catalani a soldo; e poco appresso i marchesi de la casa da Esti se ne feciono signori, come aveano ordinato co' loro cittadini.
<B>LXXXVI</B>
<I>Come Uguiccione da Faggiuola tornava per rientrare in Pisa, e le novità ne furono in Pisa, e di Spinetta marchese.</I>
Nel detto anno MCCCXVII, del mese d'agosto, Uguiccione da Faggiuola coll'aiuto di messer Cane da Verona venne subitamente con gente a cavallo e a piè assai infino in Lunigiana, co la forza e per le terre di Spinetta marchese, il quale intendea di venire a Pisa per certi trattati ch'avea nella città per gente di sua setta; il quale trattato fue scoperto, e a grido di popolo, onde Coscetto dal Colle di Pisa si fece capo: col consiglio del conte Gaddo corsono a furore a casa i Lanfranchi che s'intendeano con Uguiccione, e uccisonne quattro de' maggiori de la casa, e più di loro mandaro a' confini, e di loro séguito. Sentendo Uguiccione che non potea fornire la sua impresa, si ritornò in Lombardia a Verona. Castruccio signore di Lucca e nimico d'Uguiccione fece lega col conte Gaddo e co' Pisani, e col loro aiuto de' cavalieri andò ad oste sopra Spinetta marchese ch'avea dato il passo a Uguiccione, e tolsegli Fosdinuovo fortissimo castello, e Verruca Buosi, e di tutte sue terre il disertaro; e 'l detto Spinetta si fuggì con sua famiglia a messer Cane della Scala a Verona.
<B>LXXXVII</B>
<I>Come la parte ghibellina uscì di Genova.</I>
Nel detto anno MCCCXVII, a dì XI di settembre, essendo la città di Genova in istato di popolo, ma più v'aveano podere i Grimaldi e' Fiescadori e la loro parte de' Guelfi che gli Ori e' Ghibellini; l'una perché il re Ruberto favoreggiava i Guelfi, l'altra perché gli Spinoli ch'erano di parte ghibellina erano nimici di quegli d'Oria, e fuori di Genova alquanti della casa de' Grimaldi per dispetto preso contra quegli d'Oria feciono tornare in Genova gli Spinoli sotto protesto che stessono a le comandamenta del Comune. Come quegli della casa d'Oria e i loro amici sentirono ciò, sì ebbono sospetto e tema d'essere traditi da' Guelfi e da' Grimaldi, e la città ne fu ad arme e a romore; e quegli d'Oria non trovandosi poderosi per lo contradio de' Guelfi, e eziandio per gli Spinoli ghibellini loro nimici, sì·ssi celarono eglino e' loro amici sanza comparire in forza d'arme; per la qual cosa i Guelfi presono vigore, e furono a l'arme, e feciono capitani di Genova messer Carlo dal Fiesco e messer Guasparre Grimaldi a dì X di novembre MCCCXVII. Veggendo ciò gli Spinoli ch'erano tornati in Genova, che·lla terra era venuta al tutto a parte guelfa, e conoscendo che ciò era fatto per industria e opera del re Ruberto, incontanente s'accordarono con quegli della casa d'Oria e loro amici ghibellini, e si partirono della città sanza altro cacciamento, onde appresso seguì grande scandalo e guerra, come per innanzi farà menzione, però che·lle dette due case d'Oria e di Spinola erano le più poderose schiatte d'Italia in parte d'imperio e ghibellina.
<B>LXXXVIII</B>
<I>Come i Ghibellini di Lombardia assediarono Chermona.</I>
Nel detto anno, a dì XX di settembre, la parte ghibellina di Lombardia, in quantità di CC cavalieri e gente assai a·ppiè, ond'era capitano messer Cane della Scala di Verona, puosono assedio a la città di Chermona, e avendola molto stretta, per forte tempo di piova convenne si partissono dall'assedio, e ancora perché i Bolognesi per fargli levare da Chermona cavalcarono sopra la città di Modona, e guastarla intorno, e fecionvi danno assai.
<B>LXXXIX</B>
<I>Come messer Cane della Scala fece oste sopra i Padovani, e tolse loro molte castella.</I>
Nel detto anno, del mese di dicembre, il detto messer Cane con suo isforzo venne a oste sopra i Padovani, e prese Monselici ed Esti, e gran parte di loro castella, e recogli sì al sottile, che 'l febbraio vegnente non possendo contastare, feciono pace come piacque a messer Cane, e promisono di rimettere i Ghibellini in Padova, e così feciono.
<B>XC</B>
<I>Come gli usciti di Genova co la forza de' Ghibellini di Lombardia assediarono Genova.</I>
Ne l'anno MCCCXVIII, essendo usciti di Genova quegli della casa d'Oria e di Spinola col loro séguito, e per loro podere si stavano nella riviera di Genova a le loro posessioni, mandarono loro ambasciadori in Lombardia, e trattato e lega feciono con messer Maffeo Visconti capitano di Milano e co' figliuoli, e con tutta la lega di Lombardia di parte d'imperio e ghibellina. Per la qual cosa messer Marco Visconti figliuolo del detto messer Maffeo venne di Lombardia con grande oste di gente, Tedeschi e Lombardi a cavallo e a piè, e co' detti usciti di Genova puosono assedio a la detta città da la parte di Co di Fare e di borghi; e ciò fu a dì XXV di marzo MCCCXVIII; e pochi dì appresso quegli della casa d'Oria coll'aiuto degli altri usciti feciono un'altra oste a la città d'Albingano nella riviera di Genova, e quella ebbono a patti in pochi giorni. Appresso, stante la detta oste a Genova, messer Adoardo d'Oria tenne trattato co l'abao del popolo di Saona, e entrò nella detta città di Saona di notte celatamente, e incontanente colla forza de' Ghibellini della terra, che la maggiore partita erano di parte imperiale, sì rubellarono la detta terra al Comune di Genova del mese d'aprile; per la qual cosa molto acrebbe la forza agli usciti di Genova, che quasi tutta la riviera di ponente era a·lloro signoria, salvo il castello di Monaco e Ventimiglia e la città di Noli, e nella riviera di levante teneano Lerici.
<B>XCI</B>
<I>Come i Ghibellini di Lombardia ebbono Chermona.</I>
Nel detto anno MCCCXVIII, del mese d'aprile, la parte ghibellina di Lombardia co la forza de la gente di messer Cane ebbono la città di Chermona per tradimento, per una porta che fue loro data, con grande danno de' Guelfi ch'erano dentro.
<B>XCII</B>
<I>Come gli usciti di Genova presono i borghi di Prea.</I>
Nel detto anno, a l'uscita di maggio, avendo i detti usciti assediata la torre di Co di Fare per due mesi, e quella si tenea francamente per que' d'entro, per uno sottile dificio di canapi che venia della torre a una cocca del porto di Genova, e per quello si fornia e rinfrescava a contradio di tutta l'oste, sì si misono i detti usciti a cavare e tagliare sotterra la detta torre. Quegli d'entro, temendo non cadesse, sì renderono la torre, salve le persone, e chi disse per danari; e tornati in Genova, furono giudicati a morte, e traboccati di fuori. Istando al detto assedio, e continuo davano battaglia a' borghi di Prea che sono fuori a la porta de le Vacche; combattendo per forza il presono a dì XXV di giugno nel detto anno, onde avanzarono molto, e que' d'entro a Genova perdero, per modo che l'oste di fuori crebbe e si ridusse ne' borghi, e presono la montagna di Peraldo e di San Bernardo di sopra a Genova, e accircondaro la terra; e sopra il Bisagno puosono un altro campo, sì che la città per terra era tutta assediata, e per mare avea persecuzione assai per galee di Saona e degli usciti che signoreggiavano il mare.
<B>XCIII</B>
<I>Come il re Ruberto venne per mare al soccorso di Genova.</I>
Nel detto anno MCCCXVIII, essendo la parte de' Guelfi così assediati nella città di Genova e per mare e per terra, sì mandarono a Napoli loro ambasciadori al re Ruberto, il quale avea fatta fare in Genova la detta commutazione, ch'egli gli dovesse soccorrere e aiutare sanza indugio; e se ciò non facesse, non si potevano tenere, sì erano a stretta di vittuaglia e d'assedio. Per la qual cosa il re Ruberto incontanente fece una grande armata di XLVII uscieri e XXV galee sottili, e più altri legni e cocche cariche di vittuaglia; e egli in persona col prenze di Taranto e con messer Gianni prenze de la Morea suoi fratelli, e con più baroni e con quantità di MCC cavalieri, partì di Napoli dì X di luglio, e venne per mare, e entrò in Genova a dì XXI di luglio MCCCXVIII, e da' cittadini fu ricevuto onorevolemente come loro signore, e rifrancò la città, che poco si potea tenere per difalta di vittuaglia. Incontanente che 'l re fu giunto in Genova, gli usciti levarono l'oste ch'aveano messa in Bisagno, e si ridussono a la montagna di San Bernardo e di Peraldo, e a' borghi di Prea verso ponente.
<B>XCIV</B>
<I>Come i Genovesi diedono la signoria di Genova al re Ruberto.</I>
Nel detto anno, a dì XXVII di luglio, i capitani di Genova e l'abao del popolo e la podestà in pieno parlamento rinunziarono la loro balìa e signoria, e con volontà del popolo diedono la signoria e la guardia della città e della riviera al papa Giovanni e al re Ruberto per X anni, secondo i capitoli di Genova; e 'l re Ruberto la prese per lo papa e per sé, come quegli che più tempo dinanzi l'avea disiderata, a intenzione quando avesse a queto la signoria di Genova, si credea racquistare l'isola di Cicilia, e venire al di sopra di tutti gli suoi nimici; e a questo intendimento procacciò più tempo dinanzi la rivoluzione della città, e di farne cacciare fuori gli Ori e gli Spinoli, però che più volte, essendone eglino signori di Genova, contastarono il re Ruberto e il re Carlo suo padre, e atarono quegli d'Araona che teneano l'isola di Cicilia, come adietro è fatta menzione.
<B>XCV</B>
<I>De la viva guerra che gli usciti di Genova co' Lombardi feciono al re Ruberto.</I>
Per la venuta del re Ruberto in Genova non affiebolìo l'oste di fuori, ma maggiormente crebbe per l'aiuto de' signori di Lombardia di parte d'imperio, e rifeciono lega collo imperadore di Gostantinopoli, e col re Federigo di Cicilia, e col marchese di Monferrato, e con Castruccio signore di Lucca, e ancora co' Pisani al segreto. E stando all'assedio, forti e gravi battaglie continuamente davano a la città, traboccandola con più difici, e assalendola da più patti di dì e di notte, come gente di gran vigore, sì fattamente, che 'l re Ruberto con tutto il suo isforzo non aquistò niente sopra loro in niuna parte, anzi con cave sotterra puntellaro gran pezzo delle mura da la porta a Santa Agnesa, e quelle feciono cadere, e parte di loro per forza entrarono nella città, onde il re in persona s'armò con tutta sua gente, e con gran vigore affrontandosi in su le mura rovinate colle spade in mano, pure i maggiori baroni e cavalieri del re ripinsono fuori i loro nemici con gran danno di gente dell'una parte e dell'altra, e rifeciono le mura con grande affanno in poco di tempo, lavorandovi di dì e di notte. Istando il re e sua gente in Genova così assediato e combattuto, sì mandò per aiuto in Toscana, e di più patti l'ebbe; da' Fiorentini C cavalieri e Vc pedoni tutti soprasegnati a gigli, e di Bologna altrettanti, e simigliante di Romagna e di più altre parti, e andarono a Genova per mare per la via di Talamone; sì che, giunta l'amistà, il re si trovò in Genova in calen di novembre del detto anno con più di MMD cavalieri e pedoni sanza numero. Di fuori n'avea più di MD cavalieri, ed era capitano dell'oste messer Marco Visconti di Milano, e aveano le fortezze de' monti d'intorno, per modo che 'l re non potea campeggiare. E così dimoraro le dette osti in guerra stretta di badalucchi e di traboccarsi e saettarsi tutta la detta state, e eziandio il verno, che l'uno da l'altro non potea avanzare. E in questa stanza il detto messer Marco Visconti ebbe tanta audacia, che fece richiedere il re Ruberto di combattere co·llui corpo a corpo, e quale vincesse rimanesse signore; per la qual cosa il re molto isdegnò.
<B>XCVI</B>
<I>Come nella città di Siena si fece una congiura e ebbevi romore e gran mutazione.</I>
Nel detto anno, del mese d'ottobre, MCCCXVIII, nella città di Siena nacque scandalo e romore, del quale fue capo messer Sozzo Dei e messer Deo de' Tolomei, con séguito de' giudici e de' notari e beccari che voleano muovere il reggimento dello stato della città, e molto vi furono di presso, e la città tutta ad arme. E trovandosi la gente de' Fiorentini ch'andavano a Genova in Siena, a richesta del detto Comune seguirono l'oficio de' nove che reggeano la terra, onde quegli della detta congiura vennero a niente, e furono cacciati di Siena; onde si criò grande divisione nella città, e per questa cagione non mandarono i Sanesi aiuto al re Ruberto. E alcuno disse che, perché l'ordine de' nove che si reggea molto al volere de' Salimbeni (e aveavi de' Ghibellini) non voleano mandare aiuto al re Ruberto, que' de' Tolomei feciono quella novità; ma di vero si crede cominciasse per mutare stato nella città per la briga già nata tra' Tolomei e' Salimbeni, trovando quella cagione.
<B>XCVII</B>
<I>Come la gente del re Ruberto sconfissono gli usciti di Genova a la villa di Sesto, e si partirono dall'assedio della città.</I>
Nel detto anno MCCCXVIII, essendo il re Ruberto stato assediato in Genova, per lo modo che addietro fa menzione, più di VI mesi, si pensò che non potea gravare i nimici suoi di fuori se non ponesse sua oste in terra tra' borghi e Saona: fece ordinare una armata dì LX tra galee e uscieri, e ivi su fece ricogliere da VIIIcL cavalieri, e gente a piè bene XVm; e con questa gente furono quegli de' Fiorentini e gli altri Toscani, e di Bologna, e Romagnuoli, e partirsi di Genova a dì IIII di febbraio per porre la detta gente nella contrada di Sesto. Sentendo ciò gli usciti e que' di fuori, incontanente vi mandarono di loro gente a cavallo e a piè in grande quantità per contastare la riva a l'oste del re Ruberto, acciò che non ponessono in terra la gente del re. Arrivaro a dì V di febbraio, e con grande travaglio mettendosi innanzi botti vote, combattendo co' nimici manescamente, onde i principali furono i Fiorentini e gli altri Toscani che prima scesono di galee sotto la guardia de' balestrieri delle galee ch'erano a la riva, e per forza d'arme presono terra, e la gente degli usciti ruppono e sconfissono in su la piaggia di Sesto, e assai ne furono morti e presi; e quegli che scamparono fuggirono ne' borghi e a Saona; e la notte vegnente tutta l'oste ch'erano ne' borghi e al monte di Peraldo e di San Bernardo si partiro, e sì n'andaro verso Lombardia, e lasciarono tutti i loro arnesi sanza ricevere altra caccia, che il re non volle che sua gente si mettesse a seguirgli al periglio in quelle montagne. Appresso quegli della città di Genova ripresono i borghi di Prea e Co di Fare, e tutte le fortezze di fuori.
<B>XCVIII</B>
<I>Come il re Ruberto si partì di Genova e andò a corte di papa in Proenza.</I>
Nell'anno MCCCXVIIII, a di XXVIIII d'aprile, il re Ruberto si partì di Genova con XL galee, e con sua gente se n'andò in Proenza ov'era la corte del papa a Vignone, e ivi da papa Giovanni fu ricevuto onorevolemente. In Genova lasciò per suo vicario messer Ricciardo Gambatesa d'Abruzzi, uno savio signore, con VIc cavalieri e con più sergenti a piè, e con più galee a la guardia di Genova.
<B>XCIX</B>
<I>Come gli usciti di Genova co' Lombardi tornarono all'assedio di Genova.</I>
Nel detto anno MCCCXVIIII, sentendo gli usciti di Genova partito il re Ruberto, sì armarono in Saona XXVIII galee, onde fu amiraglio messer Currado d'Oria, e mandarono in Lombardia per aiuto, e raunarono M e più cavalieri, la maggiore parte Tedeschi, e grande quantità di popolo; e a dì XXVII di luglio del detto anno tornarono a oste sopra Genova, e puosonsi a campo in Ponzevera, e a dì III d'agosto vegnente s'appressarono a la città, dando battaglia a' borghi da più parti per terra da la parte di Bisagno; e le dette galee entrarono nel porto combattendo fortemente la città, ma niente acquistarono. E a dì VII d'agosto vegnente fue una grande battaglia nel piano di Bisagno tra gli usciti e quegli della città, e l'una parte e l'altra ricevettono danno assai, sanza avere nessuna parte onore de la vittoria, che que' di fuori si ritrassono al poggio, e que' d'entro si tornarono nella città: apresso continuamente combatteano di dì e di notte la città per mare e per terra.
<B>C</B>
<I>Come messer Cane prese le borgora di Padova.</I>
Nel detto anno MCCCXVIIII, d'agosto, messer Cane della Scala cogli usciti di Padova, che' Padovani non vollono rimettere nella terra per gli patti fatti per messer Cane, sì venne a oste sopra Padova con MM cavalieri e Xm pedoni, e presono le borgora, e puosonvi tre campi per assediare Padova.
<B>CI</B>
<I>Come i Guelfi di Lombardia ripresono Chermona.</I>
Nel detto anno, dì X d'ottobre, i Fiorentini mandarono in Lombardia CCCL cavalieri per una taglia fatta per Bologna e parte guelfa di M cavalieri, ond'era capitano messer Ghiberto da Coreggia: partissi di Brescia, e prese la città di Chermona per tradimento, e recolla a parte guelfa; ma per la lunga guerra e mutazioni era quasi strutta e recata a niente la detta Chermona.
<B>CII</B>
<I>Come messer Ugo dal Balzo fue sconfitto ad Alessandra.</I>
Nel detto anno MCCCXVIIII, del mese di dicembre, essendo messere Ugo dal Balzo in Piemonte per lo re Ruberto nel borboglio d'Alessandra, e assediava la detta città, uscendo un dì fuori con CC cavalieri per far fare legname per fare ponti e difici, messer Marco Visconti di Milano con VIc cavalieri per uno aguato gli uscì adosso, e sconfisse, e uccise.
<B>CIII</B>
<I>Come gli usciti di Genova ripresono i borghi di Genova.</I>
Nel detto anno MCCCXVIIII, a dì X d'ottobre, avendo gli usciti di Genova co la lega di Lombardia date più battaglie a la città per terra e per mare, sì presono per forza il Castellaccio, ch'aveano fatto i Guelfi d'entro in sul monte e di Peraldo e di San Bernardo, il quale era con poca guardia; e con quella vittoria discesono giù a' borghi, e sanza ritegno gli ebbono; che veduto i Genovesi d'entro perduto il poggio, abandonaro i borghi. E così la detta oste riprese la signoria de' borghi come innanzi altra volta s'aveano, e pochi dì apresso ebbono la torre di Co di Fare, e quegli dell'oste di Bisagno per non essere troppo sparti si ritrassono al poggio e a' borghi di Prea, a dì XVIIII di novembre; e così tutto il verno vegnente combatterono la città continuamente per mare e per terra, e tenealla molto afflitta. In questo assedio l'armata degli usciti di Genova ebbe sì grande fortuna, che si levò da Genova, e VIII di loro galee ruppono in terra a Chiaveri, e perdero tutta la gente, e il rimanente si tornò in Saona rotte e stracciate. E in questo tempo essendo XII galee di Provenzali a Noli, que' di Saona armarono XXII galee, e sopra Noli combatterono quelle XII galee del re, e VIII ne presono, e quattro ne tirarono in terra. Sentendo ciò quegli di Genova, andarono a Saona con XXXVI galee, ma niente poterono danneggiare il porto.
<B>CIV</B>
<I>Come i Ghibellini presono Spuleto.</I>
Nel detto anno MCCCXVIIII, del mese di novembre, per trattato e aiuto del conte Federigo da Montefeltro e degli altri Ghibellini de la Marca e del Ducato, la parte ghibellina di Spuleto ne cacciarono per forza la parte de' Guelfi, e combattendo la città vi furono assai micidii e incendii, e presono i Ghibellini più di CC buoni uomini de la città di parte guelfa, e misergli in pregione. I Perugini, i quali furono tardi al soccorso de' Guelfi, vennero poi all'assedio di Spuleto con tutto loro isforzo, e stando al detto assedio, l'anno appresso il detto conte Federigo fece rubellare a' Perugini la città d'Ascesi, per la qual cosa si partirono da guerreggiare Spuleto, e puosonsi a l'assedio d'Ascesi, l'anno MCCCXX. E 'l detto anno, del mese di dicembre, i Ghibellini di Spuleto a furore corsono a le carcere ove aveano in pregione i Guelfi, e vi misono fuoco e arsonvegli tutti dentro; la quale fue una scellerata crudeltade.
<B>CV</B>
<I>Come il re di Tunisi ritornòe in sua signoria.</I>
Nel detto anno MCCCXVIIII il re di Buggea, il quale era stato prima re di Tunisi e poi cacciato per un altro ch'era di suo legnaggio che si fece re, sì rivenne a la città di Tunisi, e colla forza degli Arabi sì ne cacciò il detto re, e racquistò la signoria; e quegli che tenea la città se n'andò a Tripoli di Barberia, e accordossi col re Federigo di Cicilia per moneta che gli diede, e col suo aiuto fece grande guerra al re che tenea Tunisi, per terra, e più per mare; che la seccò di vittuaglia, che Tunisi era in grande bisogno; onde quello re che tenea Tunisi, dando al re Federigo maggiore quantità di moneta, s'accordò co·llui, e fornigli la terra di vittuaglia, e rimase signore: e così il re Federigo di Cicilia con inganno da' detti due re saracini guadagnò in poco tempo CC migliaia di dobbre d'oro.
<B>CVI</B>
<I>Come Castruccio signore di Lucca ruppe pace a' Fiorentini, e cominciò loro guerra.</I>
Nell'anno MCCCXX, del mese d'aprile, essendo Castruccio Interminelli signore di Lucca a parte ghibellina e a·llega co' Pisani, sentendo che 'l sopradetto papa Giovanni col re Ruberto aveano sommosso di fare venire di Francia in Lombardia messer Filippo di Valos figliuolo di messer Carlo fratello del re di Francia con grande gente d'arme, per contastare la forza di messer Maffeo Visconti e de' figliuoli e di sua lega; e sentendo che' Fiorentini e' Sanesi e' Bolognesi aveano mandati in Lombardia M cavalieri a richesta della Chiesa e del re Ruberto, e erano già a la città di Reggio, il detto Castruccio a preghiera e richesta del detto messere Maffeo Visconti e della lega de' Ghibellini di Lombardia ruppe pace a' Fiorentini per isturbare la detta impresa di Lombardia; e ancora come tiranno, che istando in pace scema suo stato, e vivendo in guerra l'asalta. E Castruccio, come uomo vago di signoria, credendo montare in istato, cominciò guerra a' Fiorentini; e sanza nullo isfidamento co la forza de le masnade de' Pisani cavalcò, e prese e fugli renduto come avea ordinato il castelletto di Cappiano, e 'l ponte sopra la Guisciana, e Montefalcone, le quali fortezze teneano i Fiorentini. E fatto ciò, passò la Guisciana, e corse guastando e ardendo intorno a Fucecchio, e a Vinci, e a·cCerreto, e poi infino a Empoli in sul contado di Firenze. E ritornando si puose ad assedio a Santa Maria a Monte che si tenea per gli Fiorentini, salvo la rocca si tenea per gli terrazzani, e quella in pochi giorni ebbe, però che' terrazzani per tradimento l'arenderono, dì XXV d'aprile; e' Fiorentini non erano proveduti come si convenia: credendosi conservare la pace, non poterono a·cciò riparare; e avuta la terra, tornòe a Lucca con grande trionfo, e quegli traditori che gli aveano renduta Santa Maria a Monte per sospetto menò a Lucca, e in pregione languendo gli fece morire. E apresso in quello anno il detto Castruccio più castella di Carfagnana e di Lunigiana vinse e recò alla sua signoria, per la qual cosa sturbò molto, ma quasi tutta la 'mpresa fatta per la Chiesa e per lo re Ruberto in Lombardia co l'altre cagioni, come innanzi farà menzione.
<B>CVII</B>
<I>Come gente degli usciti di Genova furono sconfitti a Lerici.</I>
Nel detto anno MCCCXX, essendo in Genova grande stretta di vittuaglia, perché gli usciti di Genova con XVII galee corseggiavano la riviera, e prendeano navi e cocche e altri legni che recavano vittuaglia a Genova, quegli di Genova armarono XXVII galee, e seguirono quelle degli usciti, e in Lerici le rinchiusono, e ripresono una nave e una cocca carica di vittuaglia ch'aveano prese le dette galee degli usciti. E assediando quelle galee in Lerici co' loro uscieri, feciono venire da Genova CL cavalieri di quegli del re Ruberto, e quegli di Lerici tirate le galee in terra, si misono a combattere co' detti cavalieri: a dì XXXI di maggio furono sconfitti da la gente del re Ruberto e di Genova, combattendo contra loro per mare e per terra; presono e arsono il porto di Lerici, e le dette galee con gran danno degli usciti.
<B>CVIII</B>
<I>Come quegli di Genova presono il Bingane.</I>
Nel detto anno MCCCXX il vicaro del re Ruberto co' Genovesi armarono da LX tra galee e uscieri: con CCCCL cavalieri n'andarono e puosono assedio a la città dal Bingane e quella combattendola, per forza presono a dì XXI di giugno, e rubarla tutta. Allora tutto il marchesato di Cravigiana tornò a la signoria di Genova e di parte guelfa.
<B>CIX</B>
<I>Come il papa e la Chiesa feciono venire in Lombardia messer Filippo di Valos di Francia.</I>
Nel detto anno MCCCXX, avendo il papa e la Chiesa fatte fare più richeste a messer Maffeo Visconti e a' figliuoli che si levassono dall'assedio de la città di Genova, la quale si tenea per la Chiesa e per lo re Ruberto, come addietro fa menzione, e quegli i detti comandamenti non ubbidiro, opponendo che Genova era terra d'imperio e non di Chiesa; per la qual cosa per lo papa fu fatto processo e scomunica contra a' detti, e interdetto Milano e Piagenza e l'altre città di Lombardia che' detti per forza tirannescamente teneano e signoreggiavano, e ordinò che messer Filippo di Valos nipote del re di Francia venisse in Lombardia per vicaro di Chiesa per abbattere la signoria de' detti sismatici e rubegli della Chiesa, il quale messer Filippo vi venne con VII conti e con CXX cavalieri tra banderesi e di corredo, con quantità di VIc gentili uomini d'arme a cavallo, molto bella e nobile gente, al soldo della Chiesa e del re Ruberto. E mandò in Lombardia per legato della Chiesa messer Beltramo del Poggetto cardinale con VIIIc cavalieri tra Provenzali e Guasconi, i quali col detto legato e con messer Filippo di Valos e sua gente s'agiunsono a la città d'Asti in Lombardia; ed avendo novelle che la città di Vercelli si combattea dentro tra' Guelfi e' Ghibellini, si partì il detto messer Filippo d'Asti con quella tanta gente ch'avea, sanza attendere l'altra cavalleria che gli mandava il papa e 'l re Ruberto di Proenza, e quella che gli mandava il re di Francia e messer Carlo suo padre di viennese, e siniscalcato di Belcari, che in piccolo tempo sarebbe stata grandissima quantità di gente, e sanza attendere M cavalieri che' Fiorentini e' Bolognesi e' Sanesi gli mandavano in aiuto in Lombardia; e per male consiglio, con quantità di MD cavalieri si mise a oste tra Vercelli e Noara in luogo detto Mortara. Sentendo la sua venuta il capitano di Milano, il quale era come uno grande re in Lombardia, ch'egli con IIII suoi figliuoli signoreggiava Milano, Pavia, Piagenza, Lodi, Commo, Bergamo, Noara, Vercelli, Tortona, e Allessandra, sanza la forza dell'altre città di Lombardia di parte d'imperio e ghibellina ch'erano a conlega co·llui, e Pisa, e Lucca, e Arezzo in Toscana, sì mandò i suoi figliuoli con tutto suo isforzo contra il detto messer Filippo di Valos, che furono IIIm e più uomini a cavallo, gran parte Tedeschi, e gente a piè sanza numero, e puosonsi a campo contra la detta oste apresso d'uno miglio di terra.
<B>CX</B>
<I>Come messer Filippo di Valos si tornò in Francia con vergogna, sanza niente aquistare.</I>
Messer Galeasso e messer Marco figliuoli del capitano di Milano, capitani dell'oste, feciono richiedere messere Filippo di Valos di volere parlamentare co·llui, e ordinato il parlamento, e agiunti insieme, messer Galeasso con savie e maestrevoli parole, che le sapea ben dire, pregò messer Filippo che non gli fosse incontro né gli volesse disertare; e com'elli e' suoi sempre erano stati amici e servidori del re di Francia e del suo padre messer Carlo, e che l'avea fatto cavaliere, e che la tenza da' suoi a la Chiesa la rimettea volentieri nel re di Francia, e mostrogli la sua forza e cavalleria, ch'era più di due tanti che quella della Chiesa, e che per suo amore e del padre non gli volea offendere come potea. Veggendosi il giovane messere Filippo a sì fatto punto condotto, non gli parve bene stare (e dissesi per tradimento di messere Berardo di Marcoglio suo maliscalco, il quale era stato ribello e bandito del re di Francia, per sua vendetta, e perché si disse che n'ebbe molti danari dal capitano di Milano, per farlo venire innanzi al termine ordinato sanza attendere l'altro soccorso), sì s'accordò co' detti figliuoli del capitano di Milano, e tornossi con grandi presenti e doni vituperosamente in Francia co la sua gente. Questo fu del mese d'agosto, anni MCCCXX: poco apresso i detti figliuoli di messer Maffeo ebbono per forza e per assedio la parte de la città di Vercelli che teneano i Guelfi, e fu preso messer Simone da Collibiano signore di Vercelli, e menato a Milano; e 'l vescovo suo fratello scacciato con tutti i suoi seguaci. Ancora il detto messer Filippo di Valos rendé a messer Filippo di Savoia il castello di Cavignano in Piemonte, il quale si tenea per la gente del re Ruberto, e eragli molto caro, e ebbene, si disse, Xm fiorini d'oro. E peggiorò duramente le condizioni di Lombardia, a danno e a vergogna della Chiesa e del re Ruberto e di chi a·lloro attenea; che per questa cagione la gente de' Fiorentini e' Bolognesi e' Sanesi, ch'erano già infino a Reggio, si tornarono adietro, e la forza e vigore del capitano di Milano e de' figliuoli molto acrebbe. Di questa difalta si scusò in Francia messer Filippo al re e a messer Carlo, ch'era stata perché il papa e·re Ruberto non gli aveano attese le convenenze di fornirlo di moneta e di gente al tempo, come aveano promesso; ma per gli più si disse che la difalta fu sua, e di chi l'ebbe a consigliare di venire più tosto verso Milano, che non era ordinato: ma quale si fosse la cagione, egli acquistò poco onore. Ed è da notare una favola che si dice e dipigne per dispetto degl'Italiani in Francia, che' Lombardi hanno paura de la lumaccia, cioè lumaca. I signori Visconti di Milano, come si sa, hanno l'arme loro il campo bianco e la vipera cilestra ravolta con uno uomo rosso in bocca; e messer Marco Visconti per leggiadria e grandezza avea la sua bandiera e schiera di cavalieri, intorno di Vc pur de' migliori scelti per feditori, e tutti co la detta sopransegna. Gl'ignoranti Franceschi credevano che quella insegna fosse una lumaccia, e per loro dispetto e contrario fosse per loro fatta, onde il si recarono a grande onta, e forte ne parlaro in Francia del dispetto ch'aveano loro fatto i Lombardi; ma co la beffa e disinore si tornarono in Francia, per lo modo che detto avemo.
<B>CXI</B>
<I>Come Castruccio andò ad oste nella riviera di Genova.</I>
Nel detto anno MCCCXX, in quello tempo ch'erano in Lombardia le dette novità de la venuta di messer Filippo di Valos, non cessò la lega de' Ghibellini di Lombardia l'assedio di Genova, ma maggiormente l'acrebbono e rinforzaro, e feciono lega da capo con Federigo re di Cicilia, e collo 'mperadore di Gostantinopoli, e cogli usciti di Genova, e con Castruccio signore di Lucca, il quale Castruccio con sua gente venne a oste ne la riviera di Genova da la parte di levante; e più castella e terre della riviera gli si renderono. E quegli de' borghi di Genova per la sua venuta crebbono l'oste, e misono campo in Bisagno per assediare al tutto la terra di Genova.
<B>CXII</B>
<I>Come Federigo di Cicilia mandò sua armata di galee a l'assedio di Genova.</I>
Nel detto anno MCCCXX, del mese di luglio, il re Federigo che tenea la Cicilia fece armare XLII tra galee e uscieri, e con CC cavalieri mandò la detta armata in servigio degli usciti di Genova, e gli usciti di Genova n'armarono XXII galee, le quali galee s'aggiunsono insieme del mese di agosto per consumare Genova, assediandola strettamente per terra e per mare, per modo che nullo vi potea entrare né uscire, e la città era male fornita e a grande disagio di vittuaglia e di molte cose. Della detta armata era capo amiraglio messer Currado d'Oria uscito di Genova.
<B>CXIII</B>
<I>Come il re Ruberto fece armata di galee per contastare quella di Ciciliani, e quello ch'aoperò.</I>
Nel detto anno MCCCXX, sentendo il papa e 'l re Ruberto l'apparecchiamento fatto per gli usciti di Genova e per quello di Cicilia, feciono armare LXV galee tra in Proenza e a Napoli; e quegli di Genova armarono XX galee; e del detto stuolo fu amiraglio messer Ramondo di Cardona d'Aragona. E congiunte le dette galee insieme, vennero sopra Genova per combattere con quelle de' Ciciliani e degli usciti di Genova, le quali sentendo come venia contra loro quella armata, si partirono della riviera di Genova, e vennono in Porto Pisano, e poi con savio provedimento di guerra per fare partire l'armata de la riviera sanza soggiorno se n'andarono in verso Napoli; e giunte a l'isola d'Ischia, misono i cavalieri in terra, e corsono l'isola e guastarla in parte. Sentendo la loro partita l'amiraglio del re Ruberto, con sua armata si partì di Genova e de la riviera, e le seguì vigorosamente per abboccarsi co·lloro, e sopragiunsegli a Ischia una sera a tardi. Quelle galee di Cicilia e degli usciti, veggendo i nimici sì di presso per volere la battaglia, si ricolsono di notte, e si misono in mare dando boce di tornarsi in Cicilia. L'amiraglio del re Ruberto veggendoli la mattina partiti, volendogli seguire, la gente di Principato, ch'erano intorno di XXX galee, trovandosi in loro paese, gridarono: "Rinfrescamento e panatica!": e di vero bisogno n'aveano; e così a grido, sanza alcuno ritegno a Napoli se n'andaro. Le galee di Proenza e di Genova rinfrescati a Ischia alquanti giorni, avendo novelle come l'armata de' Ciciliani e usciti di Genova aveano fatta la via di ponente verso Genova, per seguirle in verso Proenza si ritornaro; e così la detta armata per male seguire il loro amiraglio, overo per sua difalta e mala condotta, quasi tutta si sbarattò e venne a niente; che se avessono seguita quella de' Ciciliani e degli usciti di Genova, di certo s'avisava che sarebbono stati vincitori, però ch'erano più galee, e meglio armate.
<B>CXIV</B>
<I>Di quello medesimo.</I>
L'armata de' Ciciliani e degli usciti di Genova maestrevolemente e non sanza temenza partiti da Ischia, nel porto di Genova arrivaro a dì III di settembre MCCCXX, e con grande tumulto gridando ch'aveano sconfitti l'armata del re Ruberto per ispaventare que' di Genova, assaliro la città da la parte del porto; e gli usciti e' Lombardi ch'erano a l'assedio l'asalirono da la parte di terra da più parti. Quegli della città co la gente del re Ruberto con grande affanno di dì e di notte, e paura e con difalta e necessità di vittuaglia, francamente si difesono da più assalti e battaglie di mare e di terra, sì che i nimici non acquistarono niente.
<B>CXV</B>
<I>Come i Fiorentini feciono tornare Castruccio da l'assedio di Genova.</I>
Nel detto anno MCCCXX Castruccio signore di Lucca con suo isforzo e coll'aiuto delle masnade de' Pisani andò con grande oste verso Genova per la lega fatta per istrignere la città, e vincerla per forza e assedio coll'aiuto dell'armata di Cicilia per lo modo che detto è. I Fiorentini, sentendo cavalcato Castruccio, i loro soldati mandaro in sul contado di Lucca ne le contrade di Valdinievole guastando e ardendo, e tornando ad Altopascio. Castruccio ch'era presso a Genova, sentendo ciò, temendo che la città di Lucca per tradimento non gli si rubellasse, tornò in Lucca con tutta la sua oste. Sentendo ciò il capitano de la guerra de' Fiorentini, co le masnade de' soldati si ritrassono verso Fucecchio, e Castruccio con sua gente vigorosamente se ne venne a oste a Cappiano in su la Guisciana a petto a' Fiorentini. Quivi per istanza di più mesi l'una oste di qua dal fiume, e l'altra di là, stettono a perdere tempo e a badaluccare con grande spendio, faccendo battifolli, fortezze, e ponti, e difici per gravare l'una oste l'altra, sanza avanzare neente l'una parte a l'altra; e sì aveva ciascuna parte da MCC cavalieri in su, sanza il popolo grandissimo. A la fine per la vernata e mal tempo di pioggia ciascuna parte si partì sanza altro avanzo, e con poco onore de' Fiorentini, se non in tanto che di vero si disse che per l'andata de' Fiorentini Castruccio con sua oste non andòe a l'assedio di Genova; che se giunto vi fosse coll'altra forza de' Ghibellini, la città non si potea tenere.
<B>CXVI</B>
<I>De le battaglie che gli usciti di Genova e' Ciciliani diedono a la terra, e ebbono il peggiore.</I>
Nel detto anno MCCCXX, essendo l'oste a Genova per mare e per terra per lo modo detto addietro, e veggendo i Ciciliani e gli usciti di Genova che da la parte del porto non poteano prendere la città, però che 'l porto era tutto impalizzato e incatenato, e di sopra di grosso legname imbertescato, di maraviglioso lavoro, e veggendosi venire il verno adosso, si ritrassono con tutta loro armata in Bisagno, e da quella parte co' loro cavalieri e co la ciurma de le loro galee in terra discesono, e sopra Carignano la terra agramente combattero per due volte, l'una a dì XXVI di settembre, e l'altra a dì XXVIIII di settembre, con grande speranza d'avere la città per forza da quella parte; e quegli de' borghi combatteano la città da la loro parte, quegli de la città difendendosi di dì e di notte a tutte le battaglie vigorosamente. A la fine, a l'ultima battaglia, uscì la cavalleria ch'era nella città del re Ruberto con popolo assai per la porta di Bisagno, e assalendo l'oste de' Ciciliani e usciti, vigorosamente gli levaro da la battaglia de la città: ritraendosi combattendo quasi come sconfitti, si ricolsono a galee, e vi lasciarono presi e morti gente assai; e la detta armata de' Ciciliani se n'andò in Cicilia molto peggiorata, e quella degli usciti a Saona; e così l'ultimo dì di settembre fu liberata la città di Genova, e il campo dell'oste ch'era in Bisagno si ritrasse al monte e a l'altra oste ch'era ne' borghi.
<B>CXVII</B>
<I>Come gli usciti di Genova guastarono Chiaveri.</I>
Nel detto anno MCCCXX, a dì XIIII di dicembre, XV galee degli usciti di Genova corseggiando la riviera scesono al borgo di Chiaveri, e quello per forza presono, e ruballo e arsollo tutto.
<B>CXVIII</B>
<I>Come gli usciti di Genova ebbono Noli, e feciono diversa guerra.</I>
Nel detto anno MCCCXX, a dì XXV di gennaio, gli usciti di Genova per mare, e 'l marchese dal Finale per terra, assediarono la città di Noli, traboccandola e combattendola per più volte: a la fine si rendero a patti a dì VI di febbraio MCCCXX salvo il castello, che si tenne poi insino a dì VI d'aprile vegnente, e per fame si rendéo. Chi potrebbe scrivere e continuare il diverso assedio di Genova, e le maravigliose imprese fatte per gli usciti co·lloro allegati? Certo si stima per gli savi che·ll'assedio di Troia, in sua comparazione, non fosse di maggiore continuamento di battaglie per mare e per terra, che così il verno come la state tenendo galee armate in mare, assediando la città, per modo che a grande distretta e necessitade di vittuaglia la condussono più volte nel detto anno MCCCXX e nel MCCCXXI vegnente; e per due volte la loro armata per fortuna di mare percosse in terra, e rotte le loro galee, e perita gran parte de la gente, per ciò non lasciavano la guerra, sanza il continovo corseggiare per mare in diverse parti del mondo, consumando l'una parte l'altra di più mercatantia che non vale uno reame; de le continue battaglie di terra assalendo la città per dì e per notte con più difici, gittando que' di fuori a que' d'entro, e quegli d'entro a que' di fuori, e con rovinare le mura della città, e di quelle fare cadere, e quegli d'entro con grande travaglio e necessitadi sollecitamente riparare e difendere, se tutto questo libro fosse scritto per quelle storie seguire, sanza altro sarebbe pieno. E nonn-è da maravigliare, che i Genovesi erano i più ricchi cittadini e' più possenti in quello tempo che fossono tra' Cristiani, né eziandio tra' Saracini; e coll'una parte e coll'altra erano allegati i signori e comunanze di grandissima potenzia, come è fatta menzione.
<B>CXIX</B>
<I>Come il fratello del re di Spagna fue sconfitto da' Saracini di Granata.</I>
Nel detto anno MCCCXX i Saracini del reame di Granata, essendo sopra loro ad oste il fratello del re di Spagna con grande quantità di Cristiani a cavallo e a piè, quelli Saracini non possendo a la forza riparare, con grande spendio di pecunia corruppono certi baroni traditori di Spagna, i quali non seguirono il loro signore: assaliti da' Saracini furono sconfitti, e presso a Xm Cristiani furono tra morti e presi, e morto vi fu il detto fratello del re di Spagna, e corsono la Spagna infino a Sibilia a grande dammaggio e vergogna de' Cristiani.
<B>CXX</B>
<I>Come i frieri dello Spedale isconfissono i Turchi con loro navilio a Rodi.</I>
Nel detto anno MCCCXX uno ammiraglio di Turchia venendo per prendere l'isola di Rodi, che tenea la magione dello Spedale, con più di LXXX tra galee e altri legni di Saracini, il comandatore di Rodi con IIII galee e con XX piccioli legni, e coll'aiuto di VI galee de' Genovesi d'entro che tornavano d'Erminia, combattero co' detti Saracini e sconfissogli, e grande parte de' detti legni presono e profondaro. Appresso andaro a una isoletta ivi presso, come aveano posti più di Vm uomini saracini per mettergli in su l'isola di Rodi: le dette galee de' Cristiani tutti gli ebbono presi, e uccisono i vecchi, e' giovani venderono per ischiavi.
<B>CXXI</B>
<I>Come messer Cane de la Scala essendo all'assedio di Padova fu sconfitto da' Padovani e dal conte da Gurizia.</I>
Nel detto anno MCCCXX messer Cane della Scala signore di Verona, essendo all'assedio de la città di Padova con tutto suo isforzo stato per più d'uno anno continuo, e a quella città quasi prese tutte le sue castella e contado, e sconfittigli per più volte, avea sì affritta, che più non si potea tenere, che tutta intorno con battifolli forniti di sua gente avea circondata, sì che vivanda non vi potea entrare. I detti Padovani quasi disperati d'ogni salute, si diedono al dogio d'Osteric eletto re de' Romani, il quale mandò a·lloro soccorso il conte da Gurizia e 'l signore di Gualfe con Vc cavalieri a elmo, il quale subitamente, e come di nascoso, entròe in Padova colla detta gente. Il detto messer Cane per grande audacia e superbia ch'avea de le sue vittorie, e per la grande cavalleria e popolo ch'avea in sua oste, poco si curava de' Padovani, e per lo lungo assedio, per troppa sicurtà, male si tenea ordinato. Avenne che a dì XXV d'agosto MCCCXX il detto conte da Gurizia co' suoi Frigolani e Tedeschi e co' Padovani uscì di subito de la città, e assalì l'oste vigorosamente. Messer Cane con alquanta di sua cavalleria male ordinata, credendo riparare, si mise a la battaglia, il quale dal conte da Gurizia e da' Padovani fue sconfitto e atterrato e fedito, e di poco scampò la vita per soccorso di sua gente; in su una cavalla in Monselice scampò, e l'oste sua fue tutta isbarattata, e rimasevi di sua gente morta e presa assai, e tutti i loro arnesi: e così per mala provedenza la fortuna di sì vittorioso tiranno si mutò in contradio. Al detto assedio di Padova morì Uguiccione da la Faggiuola in cittadella, di suo male, essendo venuto in aiuto a messer Cane. Questi fu l'altro grande tiranno che perseguì tanto i Fiorentini e' Lucchesi, come adietro è fatta menzione.
<B>CXXII</B>
<I>Come morì il conte Gaddo signore di Pisa, e fu fatto signore il conte Nieri.</I>
Nel detto anno MCCCXX il conte Gaddo de' Gherardeschi, ch'era signore di Pisa, morì (per gli più si disse per veleno), e fatto fu signore il conte Nieri suo zio; e lui fatto signore, mutò stato in Pisa, e tutti quegli ch'erano stati con Uguiccione da Faggiuola fece grandi, e a quegli che·ll'aveano cacciato tolse la signoria, e alquanti capitani di popolo fece morire, e altri fece ribelli, e chi confinati, e fece lega con Castruccio signore di Lucca e cogli usciti di Genova, dando loro occultamente aiuto e favore contra i Fiorentini e que' di Genova.
<B>CXXIII</B>
<I>Come fu fatta pace dal re di Francia a' Fiamminghi.</I>
Nel detto anno MCCCXX il conte Ruberto di Fiandra con Luis conte d'Universa suo figliuolo andarono a Parigi con grande compagnia di Fiamminghi di tutte le buone ville, per dare compimento a la pace dal re di Francia a·lloro de la grande guerra ch'era stata tra·lloro più di XXII anni. E ciò fu a mossa di papa Giovanni che vi mandòe uno suo legato cardinale, e come piacque a·dDio, del mese d'aprile, vi si diede compimento, e il re di Francia diede per moglie la figliuola a Luis figliuolo di Luis conte d'Universa, che dovea essere reda de la contea di Fiandra, e rendégli la detta contea. E' Fiamminghi per patti lasciarono Lilla e Doagio e Bettona e tutta la terra di qua dal fiume del Liscio, ove si parte la lingua francesca da la fiamminga, e promisono di dare al re di Francia mille migliaia di libbre di buoni parigini in termine di XX anni, per amenda e soddisfacimento delle spese, e di quello ch'aveano misfatto a la corona.
<B>CXXIV</B>
<I>Come tra quegli della casa di Fiandra ebbe grande dissensione.</I>
Nel detto anno MCCCXX, essendo i detti Fiamminghi in pace co' Franceschi e in buono stato, invidia nacque tra Luis conte d'Universa, maggiore figliuolo del conte di Fiandra, e Ruberto suo fratello; però che 'l conte vecchio loro padre amava più Ruberto suo minore figliuolo, perch'era più valoroso, e quasi al tutto l'avea fatto signore di Fiandra; onde il conte Luis forte isdegnò, e quasi tutto il paese se ne divise a setta, e per questa cagione in Guanto e in Bruggia ebbe più romori e battaglie cittadine, e uccisonne e cacciarne assai; e quegli che teneano con Luis e che amavano la pace co' Franceschi rimasono signori. In questo si disse che 'l conte vecchio volle essere avelenato, e fue aposto che Luis suo figliuolo il facea fare; per la qual cosa il fece prendere a Ruberto suo minore fratello, e mettere in pregione, onde il paese maggiormente si divise, che l'una parte tenea con Luis, e l'altra con Ruberto; e crebbe sì l'errore, che la villa di Bruggia si rubellò al conte e a messer Ruberto, e cacciarono de la terra tutta sua parte. Per la qual cosa quello anno e l'altro apresso il detto messere Ruberto gli guerreggiò e prese la villa del Damo e quella della Schiusa ov'è il porto. Quegli di Bruggia uscendo fuori a oste per assediare il Damo, quegli de la villa di Guanto e d'Ipro furono mezzani, e acconciarono quegli di Bruggia col conte, rimanendo signori la parte di Luis, dando al conte danari assai per amenda, si pacificaro.
<B>CXXV</B>
<I>Come i Ghibellini furono cacciati di Rieti.</I>
Nel detto anno MCCCXX, del mese d'agosto, i Guelfi della città di Rieti, coll'aiuto di quegli da l'Aquila e di Civitaducale e gente del re Ruberto, cacciarono per forza i Ghibellini di Rieti, e combattendo nella città, più di Vc n'uccisono, e più n'anegarono nel fiume, il quale di sangue corse. E poi apresso a IV mesi, essendo i detti Guelfi di Rieti a l'assedio del castello d'Airone nel contado di Spuleto, i Ghibellini di Rieti usciti, coll'aiuto e forza di Sciarra della Colonna, per forza rientrarono in Rieti e cacciarne i Guelfi che non erano a l'oste.
<B>CXXVI</B>
<I>D'uno grande raunamento d'osti che fu tra' due eletti d'Alamagna.</I>
Nel detto anno MCCCXX grande raunata fu fatta ne la Magna per combattersi insieme il dogio d'Ostoricchi e quello di Baviera, i quali amendue erano eletti re de' Romani per lo modo fatto menzione; e più tempo stettono ad oste in sul fiume del Reno, a..., quasi tutta la cavalleria de la Magna, chi dall'una parte e chi dall'altra. A la fine si partirono sanza combattere, perché quello di Baviera non poté durare la spesa.
<B>CXXVII</B>
<I>Come Spinetta marchese s'alegò co' Fiorentini contra a Castruccio, ma tornò a vergogna de' Fiorentini.</I>
Nell'anno MCCCXXI i Fiorentini volendo guerreggiare Castruccio signore di Lucca, sì feciono lega con Ispinetta marchese Malaspini, il quale, tutto fosse Ghibellino, per Castruccio era disertato di sue terre. I Fiorentini gli mandarono in Lunigiana per la via di Lombardia CCC soldati a cavallo e Vc a piè; e egli con suo aiuto fece C uomini a cavallo, e in poco tempo racquistò assai di sue castella; ed erano per discendere al piano di Lunigiana, e fare guerra assai a la città di Lucca, però che' Fiorentini da l'altra parte erano in sul contado di Lucca, e posto assedio al castello di Montevettolino con VIIIc cavalieri, soldati e gente a piè assai; e se' Fiorentini avessono fatta la 'mpresa con maggiore provedimento e con più forte braccio, de la guerra erano vincitori. Castruccio sentendo il detto apparecchiamento, non fue ozioso; mandò a tutti i suoi amici per aiuto, e di Lombardia dal capitano di Milano, e da quello di Piagenza, e da' Parmigiani ebbe Vc cavalieri, e da' Pisani e dal vescovo d'Arezzo e altri Ghibellini di Toscana più d'altri Vc, sì che si trovòe in Lucca con più di XVIc di cavalieri, e disponendo suo consiglio saviamente, la 'mpresa di Lunigiana lasciò, e con tutta sua oste de' detti cavalieri, e popolo sanza numero, venne contra l'oste de' soldati di Firenze. I Fiorentini male proveduti di sì fatta impresa, e non credendo che la sua forza fosse sì grande per l'aiuto de' Lombardi, si levarono dall'assedio di Montevettolino, e si ritrassono in su Belvedere. Castruccio e sua oste seguendogli si puose a oste contra a·lloro, e se la sera avesse combattuto, di certo avea la vittoria, però che di gente e di tutto avea l'avantaggio. Guido da la Petrella, capitano delle masnade de' Fiorentini, la sera francamente si difese, assalendo con badalucchi la gente di Castruccio, mostrando gran vigore, e che attendessono aiuto. La notte vegnente, dì VIII di giugno, accesono molti fuochi e faccelline, faccendo sembiante d'assalire i nemici, e per questo modo lasciando i falò e luminare nel campo accesi, si levarono da campo salvamente con tutta sua oste, e si ridusse in Fucecchio e a Carmignano e a l'altre castella; e vennegli bene, che una grande acqua da cielo venne la notte, per che Castruccio non sentì la partita, e fu gabbato per le luminare. La mattina per tempo vedendo Castruccio partiti i suoi nimici, si tenne ingannato, e incontanente cavalcò, e guastò Fucecchio intorno, e Santa Croce, e Castello Franco, e Montetopoli, e Vinci, e Cerreto sanza contasto niuno: stette a oste per XX dì sanza riparo con grande vergogna de' Fiorentini, e tornossi in Lucca con grande onore. I Fiorentini per questa cagione feciono tornare di Lunigiana i loro cavalieri. Castruccio incontanente vi cavalcò, e riprese tutte le sue castella e Pontriemoli e più terre de' marchesi, e Spinetta le abandonò, e tornossi a messer Cane a Verona.
<B>CXXVIII</B>
<I>Di novità d'ufici di Firenze.</I>
Nel detto anno e mese di giugno, incorrendo a' Fiorentini sì fatte traverse di guerra, e per la setta di quegli che non reggeano la città erano i priori e' rettori caloniati e biasimati, onde si criò uno uficio di XII buoni uomini popolani due per sesto, che consigliassono i priori, e che sanza loro consiglio e diliberazione i priori non potessono fare niuna grave diliberazione, né prendere balìa. Il modo fue assai lodato, e fue sostegno de la setta e istato che reggeva.
<B>CXXIX</B>
<I>Come il marchese Cavalcabò co la lega di Toscana fue sconfitto in Lombardia.</I>
Nel detto anno MCCCXXI papa Giovanni e 'l re Ruberto per soccorrere il Piemonte e' loro amici di Lombardia, che molto era isbigottiti per la partita di messer Filippo di Valos, mandarono là per capitano di guerra messer Ramondo di Cardona d'Araona con XIIc di cavalieri, che fosse col legato cardinale, e rifeciono lega co' Fiorentini e' Bolognesi e' Sanesi, i quali mandarono in Lombardia M cavalieri tra due volte, onde fu capitano il marchese Cavalcabò di Chermona, ed erano parte in Reggio e parte a la pieve d'Altavilla in sul contado di Piagenza. Di là da Po era il patriarca d'Aquilea con quegli de la Torre e co' Bresciani, e teneano Chermona e Cremma, e guerreggiavano il capitano di Milano. Messer Galeasso Visconti veggendosi così guerreggiare a' cavalieri di Toscana e di Bologna, e dentro a la terra avea sospetto, mandò per aiuto a Milano al padre, e a Pisa e a Lucca, i quali gli mandarono VIc cavalieri. Il marchese Cavalcabò con Vc cavalieri cavalcò in Valditara, e quello borgo e più castelletta prese, e puosesi a l'assedio a la rocca di Bardo. Il capitano di Piagenza vi mandò da VIIIc cavalieri in M al soccorso, e trovando il detto marchese mal proveduto di tanta forza de' nimici, quasi soppreso, fue sconfitto, ed egli morto con più di CL cavalieri tra presi e morti. Il rimanente si fuggiro a grande periglio al borgo di Valditara; e questa sconfitta fue del mese di novembre a l'uscita, anno MCCCXXI.
<B>CXXX</B>
<I>Come messer Galeasso di Milano ebbe la città di Chermona.</I>
Per questa vittoria il detto messer Galeasso con sua oste passò il Po, e a Chermona si puose ad assedio sentendo la mala fortuna, e la città era molto anullata per la guerra dello 'mperadore, e maggiormente per la morte del marchese Cavalcabò isbigottiti. Bartaglia diede a la città per tre dì; quegli d'entro annullati, e non avendo speranza di soccorso, le masnade che v'erano dentro, da CC a cavallo e CCC a piè, abandonarono la terra, e si fuggirono a Cremma. La gente di messer Galeasso, non essendo quasi chi difendesse la terra, per forza ruppono del muro de la città, e in quella entraro, e presolla e spogliarono d'ogni sustanzia che v'era rimasa; e ciò fu a dì V di gennaio MCCCXXI.
<B>CXXXI</B>
<I>Come scuròe il sole, e morì il re di Francia.</I>
Nell'anno MCCCXXI, a dì XXVII di giugno, iscurò il sole in su·levare quasi le due parti o più, e durò per una ora. Nel detto anno, il dì de la Bifania, morì Filippo re di Francia, il quale non regnò che anni... mesi..., dì...; fue uomo dolce e di buona vita: non rimase di lui reda maschio. Apresso la sua morte fu fatto re di Francia Carlo conte de la Marcia suo fratello e figliuolo del re Filippo il grande, e fu coronato a Rens, dì XI di febbraio MCCCXXI.
<B>CXXXII</B>
<I>Come i Bolognesi cacciarono di Bologna Romeo de' Peppoli il ricco uomo e' suoi seguaci.</I>
Nel detto anno MCCCXXI, del mese di giugno, i Bolognesi a romore di popolo col séguito de' Beccadelli e altri nobili cacciarono di Bologna a furore Romeo de' Peppoli, grande e possente cittadino e quasi signore della terra, con tutta sua setta, il quale si dicea il più ricco cittadino d'Italia, aquistato quasi tutto d'usura, che XXm fiorini e più avea di rendita l'anno sanza il mobile. Per la sua partita molto sturbò lo stato di parte guelfa di Bologna.
<B>CXXXIII</B>
<I>Come lo 'mperadore di Gostantinopoli ebbe guerra co' figliuoli.</I>
Nel detto anno MCCCXXI lo 'mperadore di Gostantinopoli fu in grande discordia co' figliuoli, perché lo 'mperadore a sua vita avea fatto imperadore succedente a·llui il figliuolo del suo maggiore figliuolo, ch'era morto; onde il secondo figliuolo vivente isdegnato col padre, congiura fece co' baroni contro al padre e nipote, e quasi gran parte dello 'mperio gli rubellò. E questo fu grande cagione dell'abassamento degli usciti di Genova, però che il detto imperadore per abassare la forza della Chiesa e del re Ruberto continuamente co' suoi danari mantenea la guerra agli usciti di Genova, e a quegli di Saona contra la città di Genova e contro al re Ruberto, e per la sua guerra abandonòe la 'mpresa.
<B>CXXXIV</B>
<I>Come Federigo di Cicilia fue scomunicato, e come fece coronare il figliuolo del reame.</I>
Nel detto anno MCCCXXI il detto papa Giovanni co' suoi cardinali ordinarono triegua per tre anni dal re Ruberto a don Federigo di Cicilia per potere meglio fornire la 'mpresa di Genova, il detto re Federigo dimandando per suoi ambasciadori pace o triegua di X anni, e Reggio e altre terre di Calavra ch'egli avea rendute in mano del papa, le quali il papa avea rendute al re Ruberto; onde tenendosi ingannato e tradito, sì contradisse la detta triegua di tre anni ch'avea fatta il papa, e fece disfidare il re Ruberto: il papa e' suoi cardinali isdegnati gli diedono sentenzia di scomunicazione. Il detto Federigo per questa cagione coronò del reame di Cicilia don Piero suo maggiore figliuolo sanza dispodestare sé a sua vita e fecegli in sua presenza fare omaggio e saramento a tutti i baroni e Comuni dell'isola; e questo fue il dì di...
<B>CXXXV</B>
<I>Come i Fiorentini mandarono in Frioli per cavalieri.</I>
Nel detto anno MCCCXXI i Fiorentini mandarono in Frioli per cavalieri a soldo, e vennono in Firenze del mese d'agosto CLX cavalieri a elmo, con altrettanti balestrieri a cavallo tra Friolani e Tedeschi, molto buona gente d'arme, ond'era capitano Iacopo di Fontanabuona grande castellano di Frioli, e feciono guerra assai a Castruccio; almeno dapoi gli sentì in Firenze non s'ardì a passare la Guisciana, come in prima era usato di fare.
<B>CXXXVI</B>
<I>Chi fue il poeta Dante Allighieri di Firenze.</I>
Nel detto anno MCCCXXI, del mese di luglio, morì Dante Allighieri di Firenze ne la città di Ravenna in Romagna, essendo tornato d'ambasceria da Vinegia in servigio de' signori da Polenta, con cui dimorava; e in Ravenna dinanzi a la porta de la chiesa maggiore fue sepellito a grande onore in abito di poeta e di grande filosafo. Morì in esilio del Comune di Firenze in età circa LVI anni. Questo Dante fue onorevole e antico cittadino di Firenze di porta San Piero, e nostro vicino; e 'l suo esilio di Firenze fu per cagione, che quando messer Carlo di Valos de la casa di Francia venne in Firenze l'anno MCCCI, e caccionne la parte bianca, come adietro ne' tempi è fatta menzione, il detto Dante era de' maggiori governatori de la nostra città e di quella parte, bene che fosse Guelfo; e però sanza altra colpa co la detta parte bianca fue cacciato e sbandito di Firenze, e andossene a lo Studio a Bologna, e poi a Parigi, e in più parti del mondo. Questi fue grande letterato quasi in ogni scienza, tutto fosse laico; fue sommo poeta e filosafo, e rettorico perfetto tanto in dittare, versificare, come in aringa parlare, nobilissimo dicitore, in rima sommo, col più pulito e bello stile che mai fosse in nostra lingua infino al suo tempo e più innanzi. Fece in sua giovanezza i·libro de la Vita nova d'amore; e poi quando fue in esilio fece da XX canzoni morali e d'amore molto eccellenti, e in tra·ll'altre fece tre nobili pistole; l'una mandò al reggimento di Firenze dogliendosi del suo esilio sanza colpa; l'altra mandò a lo 'mperadore Arrigo quand'era a l'assedio di Brescia, riprendendolo della sua stanza, quasi profetezzando; la terza a' cardinali italiani, quand'era la vacazione dopo la morte di papa Chimento, acciò che s'accordassono a eleggere papa italiano; tutte in latino con alto dittato, e con eccellenti sentenzie e autoritadi, le quali furono molto commendate da' savi intenditori. E fece la Commedia, ove in pulita rima, e con grandi e sottili questioni morali, naturali, strolaghe, filosofiche, e teologhe, con belle e nuove figure, comparazioni, e poetrie, compuose e trattò in cento capitoli, overo canti, dell'essere e istato del ninferno, purgatorio, e paradiso così altamente come dire se ne possa, sì come per lo detto suo trattato si può vedere e intendere, chi è di sottile intelletto. Bene si dilettò in quella Commedia di garrire e sclamare a guisa di poeta, forse in parte più che non si convenia; ma forse il suo esilio gliele fece. Fece ancora la Monarchia, ove trattò de l'oficio degli 'mperadori. Questo Dante per lo suo savere fue alquanto presuntuoso e schifo e isdegnoso, e quasi a guisa di filosafo mal grazioso non bene sapea conversare co' laici; ma per l'altre sue virtudi e scienza e valore di tanto cittadino ne pare che si convenga di dargli perpetua memoria in questa nostra cronica, con tutto che per le sue nobili opere lasciateci in iscritture facciamo di lui vero testimonio e onorabile fama a la nostra cittade.
<B>CXXXVII</B>
<I>Come i Fiorentini rimasono fuori della signoria del re Ruberto, e feciono parte delle mura della città.</I>
Nel detto anno MCCCXXI, in calen di gennaio, i Fiorentini uscirono della signoria del re Ruberto, la quale era durata per VIII anni e mezzo, e tornaro a fare lezione di loro podestà e capitano, com'erano usati per antico, e cominciaronsi a fare le mura e le torri da la porta di San Gallo a quella di Santo Ambruogio de la città di Firenze. E io scrittore, trovandomi per lo Comune di Firenze uficiale con altri onorevoli cittadini sopra fare edificare le dette mura, di prima adoperamo che le torri si facessono di CC in CC braccia; e simile s'ordinò si cominciassono i barbacani, overo confessi, di costa a le mura e di fuori da' fossi, per più fortezza e bellezza de la cittade, e così si seguirà poi per tutto.
<B>CXXXVIII</B>
<I>Come il re d'Inghilterra fece uccidere 'l cugino e più suoi baroni, e come gli Scotti gli cominciarono guerra.</I>
Nel detto anno MCCCXXI fallirono le triegue dagli Scotti al re d'Inghilterra, e con grande isforzo corsono gli Scotti gran parte de' confini d'Inghilterra da la loro parte, tenendo tutti gl'Inghilesi di quelle marce sotto tributarìa; e ciò avenne per grande discordia che il re Adoardo il giovane re d'Inghilterra ave' quasi con più de' suoi baroni, ond'era capo il conte di Lancastro, cugino del re e de la casa reale. E la detta lega e giura era fatta per gli baroni contro al re, perch'egli si reggea per male consiglio e vile portamento, dando più fede a uno messer Ugo il Dispensiero, cavaliere di picciolo affare, ch'a tutti gli altri suoi baroni. E crebbe tanto la detta scisma, che i detti congiurati teneano arme contro al re, e s'erano rubellati nella contrada del Trento verso Bonobruco, cioè ponte. E tornando uno conastabole del re con più di sua gente d'arme da le frontiere della Scozia, e per mandamento del re gente a piè del paese ragunò in buona quantità per offendere a' detti allegati, trovandogli male ordinati al detto ponte, ch'era uno stretto passo, gli sorprese e sconfisse con piccola fatica di combattere: quasi tutti s'arrendero; onde il re fece dicapitare il detto conte di Lancastro e 'l conte d'Ariforte con LXXXVIII tra conti e baroni. E ciò fu a l'uscita del mese di marzo, anni MCCCXXII, e fu tenuta una grande crudeltà, per la qual cagione la forza del reame d'Inghilterra molto afiebolìo.
<B>CXXXIX</B>
<I>Come i Perugini ebbono la città d'Ascesi per assedio.</I>
Nell'anno di Cristo MCCCXXII, essendo il Comune di Perugia stato a l'assedio della città d'Ascesi per più d'uno anno con più battifolli, per cagione che s'erano rubellati da parte di Chiesa, e signoreggiavala il popolo in parte ghibellina, quella città molto afflitta di guastamento intorno intorno, e tolte loro tutte le castella, e oltre a·cciò di più avisamenti la loro gente sconfitta, e fallendo loro la vittuaglia e molte cose bisognevoli, si rendero al Comune di Perugia, i quali le disfeciono le mura e le fortezze, e recarla a loro giuridizione, e tolsono il suo contado infino al fiume di Chiacio a piè de la città: e questo fu del mese d'aprile del detto anno. E intrati i Perugini in Ascesi corsono la terra, e oltre a' patti più di C cittadini uccisono a furore ne la terra, ch'erano stati loro ribelli.
<B>CXL</B>
<I>Come la parte ghibellina furono cacciati di Fano.</I>
Nel detto anno e mese d'aprile i Guelfi de la città di Fano de la Marca coll'aiuto de' Malatesti da Rimine cacciarono di Fano la parte ghibellina, e si renderono al marchese, ch'era per lo papa.
<B>CXLI</B>
<I>Come Federigo conte da Montefeltro fu morto a romore da quegli d'Orbino.</I>
Nell'anno MCCCXXII, essendo stata, e era grande guerra nella Marca d'Ancona, la quale mantenea il conte Federigo da Montefeltro co la città d'Orbino, e d'Osimo, e di Racanata contra il marchese che v'era per la Chiesa, e morto in Racanata uno nipote e uno cugino del detto marchese con molta di sua gente, il papa per la detta cagione, a richesta del marchese, fece processo, e sentenzia diede contra il detto conte Federigo, e contra i caporali e rettori de la città d'Osimo e di Racanata, trovandoli in più articoli di resia, e tali in idolatria, secondo la sentenzia; e croce fece contro a·lloro predicare in Toscana e in più parti d'Italia, perdonando colpa e pena chi andasse o mandasse in servigio di santa Chiesa. Più crociati v'andarono di Firenze e di Siena e di più altre cittadi. E 'l marchese essendo con sua oste intorno a Racanata, avenne che essendo il conte Federigo in Orbino, e fatta a quegli della cittade una grande taglia, overo imposta di moneta, per andare al soccorso di Racanata con certi soldati del vescovo d'Arezzo e di Castruccio, come piacque a·dDio, maravigliosamente e di sùbito il popolo d'Orbino si levòe a romore contro al detto conte Federigo, ed egli improviso rinchiuso e assediato dal popolo nella sua fortezza de la terra, vedendosi non guernito né da potere riparare, s'arendé come morto al popolo, pregandogli per grazia gli tagliassono la testa; e spogliato in giubba, col capestro in collo, e con uno suo figliuolo scese al popolo cheggendo misericordia, il quale popolo a furore lui e 'l figliuolo uccisono, e poi faccendo il corpo suo tranare per la terra, vituperosamente a' fossi in uno carcame di cavallo morto il soppellirono, sì come scomunicato; e due altri suoi figliuoli fuggendo d'Orbino furono presi da quegli d'Agobbio; e un altro suo piccolino fanciullo fu preso dal popolo d'Orbino, e Speranza da Montefeltro si fuggì nel castello di San Marino. E per questo modo venne il giudicio d'Iddio improvisamente a quegli della casa da Montefeltro, gli quali erano sempre stati ribelli e perseguitori di santa Chiesa; e questo fu a dì XXVI d'aprile MCCCXXII.
<B>CXLII</B>
<I>Come la città d'Osimo si rendé a la Chiesa.</I>
Nel detto anno, per cagione del rubellamento d'Orbino e de la morte del conte Federigo, quegli della città d'Osimo si levaro a romore contra i loro rettori, gridando che voleano pace colla Chiesa; e veggendo i detti il popolo scommosso a romore, per paura di quello ch'era avenuto al conte Federigo, si fuggiro de la terra, e 'l Comune e 'l popolo d'Osimo sì rendero a la Chiesa e al marchese; e questo fu a dì III di maggio MCCCXXII.
<B>CXLIII</B>
<I>Come la città di Racanata si rendé a la Chiesa, e come il marchese la fece disfare.</I>
Nel detto anno e mese quegli della città di Racanata veggendo renduti al marchese Orbino e Osimo, s'arendero al detto marchese e sua oste liberamente, e cacciarne i loro rettori e caporali. Il marchese presa la città, per vendetta del nipote e di sua gente ch'aveano molti, dicendo che in Racanata s'adoravano l'idoli, la città sanza misericordia fece ardere tutta, e apresso i muri diroccare infino a' fondamenti; e ciò fu a' dì XV di maggio MCCCXXII, la quale fu tenuta grande crudeltà, overo fu sentenzia d'Iddio per gli loro peccati.
<B>CXLIV</B>
<I>Come i Visconti signori di Milano furono scomunicati, e come la Chiesa fece venire contra loro il dogio d'Osteric.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, veggendo papa Giovanni che 'l capitano di Milano e' figliuoli nol voleano ubbidire per richeste fatte più volte che facesse levare l'assedio da la città di Genova, e amoniti dal legato cardinale e scomunicati, sentenzia diede la Chiesa contra loro sì come eretici e sismatici, e fece predicare la croce contra loro in Italia e in Alamagna, e perdonare colpa e pena. E oltre a·cciò, veggendo la Chiesa che la 'mpresa fatta con messer Filippo di Valos era venuta a neente, che solamente per la forza di messer Ramondo di Cardona e di sua gente non si potea resistere a la forza de' detti tiranni, ordinò e richiese con trattato del re Ruberto Federigo dogio d'Osteric, eletto re de' Romani, che s'egli mandasse d'Alamagna le sue forze in Lombardia contra i detti scomunicati e sismatici, di confermarlo per la Chiesa imperadore, e uno suo fratello cherico farebbe arcivescovo di Maganza. Per la qual cosa Federigo detto mandò in Lombardia Arrigo dogio d'Ostericche suo fratello con Vc cavalieri a elmo; e giunse nella città di Brescia domenica d'ulivo del detto anno; e poi più signori e genti d'arme crociati d'Alamagna vi s'agiunsono, sì che si trovò in Brescia con MM Tedeschi d'arme a cavallo. Sentendo ciò il capitano di Milano e' suoi seguaci, parea loro male stare, e al tutto temendo di perdere la signoria, veggendo sì grande esercito venire contra lui da la parte di Brescia d'Alamagna, e d'altri Lombardi fedeli de la Chiesa, e Fiorentini e Bolognesi e Sanesi per fornire la loro lega co la Chiesa e·re Ruberto, e mandati i loro sindachi con molta moneta in Frioli e in Alamagna per soldare IIIIc cavalieri a elmo e CC balestrieri a cavallo per agiugnerli a Brescia, co la forza del detto dogio Arrigo d'Ostericchi d'altra parte.
<B>CXLV</B>
<I>Come i signori di Milano sotto trattato d'accordo colla Chiesa corruppono il dogio d'Ostericchi, sì che si tornò in Alamagna.</I>
Messer Ramondo di Cardona era col legato a Valenza con MD uomini a cavallo e con gente a piè innumerabile crociati per venire verso Milano da la parte di Pavia. Il detto capitano veggendosi così assalire da tutte parti da la forza de la Chiesa, mandò XII de' maggiori cittadini di Milano per ambasciadori al legato cardinale per acconciarsi co la Chiesa, però che 'l popolo di Milano veggendosi sì fatti eserciti di gente venire adosso, non voleano essere scomunicati, né distrutti per quegli della casa de' Visconti. Essendo i detti ambasciadori col legato a Valenza trattando d'accordo, il detto capitano di Milano mandò segretamente suoi ambasciadori in Alamagna, e eziandio moneta assai a Federigo dogio d'Ostericchi, mostrando come facea contra lo 'mperio e contro a·ssé medesimo; e che se la Chiesa e 'l re Ruberto avessono la signoria di Milano, avrebbono tutta Lombardia, e' fedeli dello imperio di Lombardia e di Toscana, distrutti per modo che mai non porrebbe passare in Italia né avere la corona dello 'mperio. Il Tedesco per queste ragioni e per la cupidigia della moneta fue scommosso, e mandòe al suo fratello Arrigo, ch'era a Brescia, che cogliesse alcuna cagione e si tornasse addietro. Il quale avuto il mandato del fratello, e disparte dal capitano di Milano e dagli altri tiranni di Lombardia moneta assai, avendo ordinato co' Bresciani e col patriarca d'Aquilea e con loro séguito d'andare ad oste sopra la città di Bergamo, ch'era in trattato d'arendersi a·lloro, mosse quistione a' Bresciani, che in prima che si partisse volea la signoria di Brescia. I Bresciani negando che no·lla poteano dare, perché vacando imperio s'erano dati al re Ruberto, incontanente sanza niuno ritegno si partì de la terra a dì XVIII di maggio MCCCXXII, e con tutta sua gente se n'andò a Verona, il quale da messer Cane della Scala signore di Verona onorevolemente fu ricevuto e presentato di ricchi doni; poi appresso sanza dimoro se n'andò in Alamagna, guastando a la Chiesa sì grande impresa e sì bello servigio incominciato, per sì fatto tradimento.
<B>CXLVI</B>
<I>Come i Pistolesi feciono triegua con Castruccio contra 'l volere de' Fiorentini.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, del mese d'aprile, essendo i Pistolesi molto gravati di guerra da Castruccio signore di Lucca, il quale tenea il castello di Serravalle presso a tre miglia a Pistoia, trattato ebbono co·llui di triegua; onde i Fiorentini entraro in grande gelosia, che Castruccio sotto la detta triegua non prendesse la terra; per la quale cosa più volte vi mandarono loro ambasciadori per isturbarla. A la fine la terra si levò a romore, e feciono loro capitano di popolo l'abate di Pacciana di Tedici, che volea la detta triegua, e contra volontà de' Fiorentini la feciono, dando di trebuto a Castruccio IIIm fiorini d'oro l'anno, e cacciarne per ribelli il vescovo e altri caporali che teneano co' Fiorentini.
<B>CXLVII</B>
<I>Come in Siena ebbe romore e novitade.</I>
Nell'anno MCCCXXII, del mese d'aprile, la città di Siena fue a romore per cagione che quegli della casa de' Salimbeni uccisono una notte due frategli carnali figliuoli di cavaliere della casa de' Tolomei, loro nemici, nelle loro case. Per la potenza de le dette due case i Sanesi quasi tutti parati per combattersi insieme, e temendo di certe masnade tedesche che' Pisani e Castruccio mandavano per lo loro contado al vescovo d'Arezzo, per aiuto mandarono a' Fiorentini, i quali mandarono loro le masnade de' Friolani, ch'erano CCCL cavalieri, molto buona gente, e tutte le leghe del contado di Firenze di genti a piè vicini de' Sanesi; per la qual cosa la città di Siena si guarentì da battaglia cittadina, con tutto rimanesse assai pregna di male volontadi tra·lloro.
<B>CXLVIII</B>
<I>Come i Ghibellini di Colle vollono prendere la terra e furono sconfitti.</I>
Nell'anno MCCCXXII, del mese d'aprile, usciti di Colle di Valdelsa coll'aiuto di certi ribelli di Firenze entrarono per forza nel borgo di Colle. Quelli della terra combattendo per forza gli ripinsono fuori, e assai ve ne rimasono morti e presi; e quegli di Colle feciono popolo co la 'nsegna a croce del popolo di Firenze.
<B>CXLIX</B>
<I>Come il soldano de la Soria corse e prese quasi tutta l'Erminia.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, del mese d'aprile, il soldano de la Soria con più di XXVm Saracini a cavallo corsono l'Erminia di sotto, e quella presono e guastarono tutta infino a la marina, salvo alcuna fortezza di montagne; e tutti gli Ermini e Cristiani che in quella correria presono, assai n'uccisono e menarono in servaggio; e questa persecuzione si disse fu per loro peccata e discordia, che essendo morto il re d'Erminia, e rimasi di lui due piccioli figliuoli, il signore del Curco suo zio prese per moglie sanza dispensazione di papa la reina stata moglie del nipote, e figliuola del prenze di Taranto, per aversi la signoria del reame; e quella reina ripresa del matrimonio che volea fare, e che mandasse al papa per dispensazione, disse che prima si peccava che si domandasse perdono; onde i baroni isdegnati furono in discordia e partiti, per la qual cosa quando fue bisogno non difesono il reame da' Saracini, onde l'Erminia fu quasi distrutta.
<B>CL</B>
<I>Come il re di Tunisi cacciato di signoria la racquistò.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, del mese d'aprile, il re di Tunisi, ch'era stato cacciato di Tunisi, come adietro fa menzione, s'acordò co' signori degli Arabi, e raunato suo isforzo, con alquanti Cristiani di soldo e' venne verso Tunisi con IIIIm uomini a cavallo e con gente a piè assai. L'altro re che tenea Tunisi uscì fuori a battaglia e fue sconfitto, sì che il primo re fu vincitore e racquistò il suo reame. Questo re fu figliuolo di madre cristiana, e assai si ritenea co' Cristiani.
<B>CLI</B>
<I>Come il vescovo d'Arezzo cominciò guerra a' conti, e prese Castello Focognano.</I>
Nell'anno MCCCXXII, del mese di maggio, il vescovo d'Arezzo, ch'era di quegli da Pietramala, fece raunata di VIc cavalieri con CL Tedeschi ch'ebbe da' Pisani e da Castruccio signore di Lucca: dissesi che ciò avea fatto per soccorrere il conte Federigo da Montefeltro; ma sentendo ch'era morto, cavalcò co la detta gente in Casentino, e tolse il castello di Fronzole sopra a Poppio, il quale teneano i figliuoli del conte da Battifolle; e fatto ciò, incontanente cavalcò e puosesi a oste a Castello Focognano. I Fiorentini a richesta dei conti e de' signori del Castello Focognano mandarono in Casentino CCCL cavalieri friolani, e fermossi in Firenze di dare loro aiuto generale, quanto il Comune potesse fare, per levare il detto assedio, ricordandosi i Fiorentini che 'l detto vescovo, non istante la pace fatta co·lloro alla sconfitta a Montecatini, CL de' suoi cavalieri mandò incontro a l'oste de' Fiorentini; e poi quando Castruccio ruppe la pace a' Fiorentini e cavalcò in sul contado di Firenze, ne mandò C cavalieri in suo aiuto. Faccendo i Fiorentini l'aparecchiamento d'oste, e richesti gli amici di Toscana e di Romagna e de la Marca, il detto vescovo per tradimento che ordinò con uno piovano di que' signori del castello ebbe a patti il detto castello, ch'era fortissimo e ben fornito; e come gli fu renduto, sanza attenere patti il fece tutto ardere, e poi diroccare infino a' fondamenti.
<B>CLII</B>
<I>Come Romeo de' Peppoli e suo séguito vennono per prendere Bologna e andarne in isconfitta.</I>
Nel detto anno, del mese di maggio, il grande ricco uomo Romeo de' Peppoli cacciato di Bologna, come adietro è fatta menzione, essendo a Cesena in Romagna, de' suoi propi danari e con amici subitamente raunò IIIIc cavalieri: venne a la città di Bologna, e con aiuto di certi suoi amici ch'erano ne la città entròe dentro a l'antiporte ne' borghi. I Bolognesi quasi improvisi de la sùbita venuta, francamente difendendo la terra, i detti loro ribelli per forza e con grande loro dammaggio gli ripinsono fuori de la città, e poi più confinati e ribegli feciono di quella parte, rimanendo Bologna in grande sospetto e in male stato, e mandarono per aiuto a' Fiorentini, i quali mandarono loro CL di loro cavalieri.
<B>CLIII</B>
<I>De' romori e grandi novità ch'ebbe nella città di Pisa per la setta de' cittadini.</I>
Nel MCCCXXII, del mese di maggio, la città di Pisa si levò a romore per cagione delle sette ch'erano tra' cittadini. Messer Corbino de la casa de' Lanfranchi uccise messer Guido da Caprona de' maggiori cittadini che vi fosse; e quello de' Lanfranchi preso a romore di popolo, a·llui e al fratello fu tagliato il capo. E per cagione di ciò non cessò il romore ne la terra, ma più caldamente si raccese, che il conte Nieri de' Gherardeschi signore delle masnade tedesche co' grandi de la terra corsono la città, e a furore da' detti grandi Lanfranchi e Gualandi e Sismondi e Capornesi ch'erano dell'altra setta contra il popolo uccisono tre possenti popolani, e cercando per tutto quegli ch'erano de la setta di Coscetto dal Colle per uccidergli, dicendo che aveano fatto uccidere quello da Caprona, e facieno venire Coscetto dal Colle: il popolo per la detta ingiustizia e micidi isdegnarono contra il conte Nieri e contra i grandi. Il secondo dì s'armarono e corsono la terra, e vollono che giustizia si facesse, onde furono condannati XV de' maggiori de le dette case per ribelli, e guasti i beni loro: il conte medesimo sarebbe stato corso dal popolo di Pisa, se non che si trovò forte de le masnade; e sì si disse che ne' micidi detti non avea avuto colpa, ma più il campò che Castruccio con tutto suo isforzo venne per due volte infino in sul Monte San Giuliano. I Pisani temendo de la sua venuta, ch'egli e la sua gente non corressono e rubassono la città, sì gli contradissono la venuta. Istando i Pisani sotto l'arme e in grande sospetto più giorni per le dette divisioni e sette, Coscetto dal Colle popolano, uomo di grande valore e ardire, il quale era stato capo di popolo in Pisa a cacciare Uguiccione da la Faggiuola, e poi a uccidere quegli della casa de' Lanfranchi, come adietro ha fatta menzione, e allora era fuori di Pisa per ribello, sentendo le dette divisioni in Pisa per certi trattati di suoi amici d'entro, venia in Pisa per mutare stato a la città, e per uccidere e cacciare il conte Nieri e' suoi seguaci; essendo fuori di Pisa assai presso a la città in una piccola casa d'uno villano per entrare la mattina per tempo in Pisa, un suo compare e confidente il tradì e l'apostò al conte, il quale a grande furore fu menato preso in Pisa, e sanza altro giudicio fatto, il fé tranare, e tranando tagliato a pezzi, e gittato in Arno. E fatto ciò, la terra si racquetò, e feciono grande festa e processione, e mandaro a' confini più nobili e popolani de la setta del detto Coscetto in diverse e lontane parti del mondo, e 'l detto conte Nieri feciono signore e difensore del popolo di Pisa dì XIII di giugno MCCCXXII; e così in pochi dì il detto conte fu in così varie e diverse fortune.
<B>CLIV</B>
<I>Come Castruccio fece uno grande castello in Lucca.</I>
Nel detto anno, del mese di giugno, MCCCXXII Castruccio signore di Lucca spaventato per la morte del conte Federigo da Montefeltro, e per le mutazioni fatte per lo popolo di Pisa contro al conte Nieri, temendo che 'l popolo di Lucca nol corressono a furore, ordinòe nella città uno maraviglioso castello, che quasi la quinta parte de la città da la parte di verso Pisa prese, e murò di fortissimo muro con XXVIIII grandi torri intorno, e puosegli nome l'Agusta, e caccionne fuori tutti gli abitanti, e egli e sua famiglia e sue masnade vi tornò ad abitare; la qual cosa fu tenuta grande novità e magnifico lavorio.
<B>CLV</B>
<I>Come il re di Tunisi fu ricacciato de la signoria.</I>
Nel detto anno, del mese di giugno, il re di Tunisi ch'avea raquistata la signoria del mese d'aprile passato, sì come è fatta menzione, fue cacciato de la signoria da l'altro re suo nimico: coll'aiuto di certa parte degli Arabi riprese la signoria.
<B>CLVI</B>
<I>Come morì messer Maffeo Visconti capitano di Milano.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, a dì XXVIII di giugno, morì messer Maffeo Visconti capitano per lo 'mperio di Milano a la badia di Chiaravalle fuori di Milano, scomunicato da la Chiesa di Roma, e con processo d'eretico e sismatico. Questi fue uno savio signore e tiranno, e molte grandi cose trasse a fine per suo senno e industria, e visse più di LXXXX anni, e infino a l'ultimo fu savio e di grande signoria. Il detto dì che morì, Galeasso suo maggiore figliuolo e capitano di Piagenza corse la città di Milano co le masnade de' soldati, e fecesi fare quasi per forza capitano di Milano uno anno.
<B>CLVII</B>
<I>Come nella Chiesa di Roma nacque grande quistione sopra la povertà di Cristo.</I>
Nel detto anno MCCCXXII grande quistione nacque ne la Chiesa di Roma, onde seguì nuovo errore tra' Cristiani, per movimento che fece uno grande maestro in divinità de' frati minori, che predicava in Proenza, che Gesù Cristo fu tutto povero sanza avere nullo propio né in comune, onde molti prelati e frati predicatori, ed eziandio in corte papa Giovanni e' suoi cardinali contradissono a·cciò, provando che Cristo cogli apostoli ebbe propio in comune, come si mostra per gli Vangeli, che Giuda Scariotto era camerlingo e spenditore de' beni loro dati per Dio, e ancora così seguiro i discepoli, come si mostra per gli Atti degli appostoli. Per la qual cosa il papa crucciato contro a quegli frati e altri prelati che sosteneano l'altra oppinione, dicendo ch'erano eretici, o elli e gli altri papi passati e cardinali e prelati ch'aveano propietà comune erano eretici; e di ciò diede termine a' frati, che a questo articolo diliberatamente rispondessono. Per la qual cosa i frati minori feciono capitolo generale a Perugia, nel quale dichiararono e rispuosono al papa ch'eglino ne credeano quella oppinione che la Chiesa di Roma per antico avea consueto, e quello che ne fu dichiarato per papa Niccola terzo. Il papa per questa cagione fece uno dicreto, che l'ordine de' frati minori non potesse avere nullo comune propio, né' loro procuratori potessono nullo bene temporale domandare sotto titolo della Chiesa di Roma, né potere esser a nulla esecuzione di testamento, né quello che a·lloro fosse lasciato per favore di Chiesa, né secolare braccio potere domandare. La qual cosa fu tenuta grande novità nella Chiesa di Dio.
<B>CLVIII</B>
<I>Come in Firenze s'ordinò una fiera, e altre novitadi.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, del mese di giugno, i Fiorentini ordinarono una fiera in Firenze di cavagli e di tutte cose per la festa di san Giovanni di giugno, la quale feciono franca a' forestieri VIII giorni innanzi a la festa e VIII giorni appresso, la quale si facesse nel Prato d'Ognesanti; ma poco tempo apresso durò, per cagione de le grandi gabelle ch'erano allora in Firenze; e d'altra parte, considerando il vero de la piena arte e mercatantia ch'è in Firenze, ogni dì si può dire vi sia fiera. E a dì VII di luglio vegnente s'apprese il fuoco in sul ponte Vecchio, e arsono tutte le botteghe ch'erano da mezzo il ponte in qua, con molte case di sotto le volte. E infra quattro semmane vegnenti s'appresono l'altre botteghe da l'altro lato, e arsono tutte e casa de' Mannelli. E in quello tempo uno sottile maestro di Siena per suo artificio fece sonare la gran campana del popolo di Firenze, ch'era stata XVII anni che nullo maestro l'avea saputo farla sonare a distesa, essendo XII uomini, e acconciolla per sì sottile e bello artificio, che due la poteano muovere, e poi mossa, uno solo la sonava a distesa (e pesa più di XVIIm di libbre); onde il detto maestro per suo servigio ebbe dal Comune CCC fiorini d'oro.
<B>CLIX</B>
<I>Di guerra che fue in Cicilia e in Calavra.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, a l'uscita del mese di giugno e a l'entrata di quello di luglio, il duca di Calavra figliuolo del re Ruberto mandò da Napoli in Cicilia XVIII galee armate in corso sopra i Ciciliani, le quali presono e guastarono l'isola di Lipari, e poi guastarono le tonnare di Palermo, e corseggiaro intorno a l'isola con danno assai di Ciciliani. Partite le dette galee, il re Federigo fece armare in Messina XXVI galee, e con più legni puose cavalieri e genti a piè assai a Reggio in Calavra, e guastollo intorno, e simigliante Niccotera e più altre terre sanza altro aquistare, ma le sopradette galee del duca misono in caccia.
<B>CLX</B>
<I>Come messer Ramondo di Cardona capitano per la Chiesa fue sconfitto al ponte a Basignano.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, dì VI di luglio, essendo messer Ramondo di Cardona capitano in Lombardia per la Chiesa, de la gente della Chiesa e del re Ruberto, a l'assedio de la rocca di Basignano, e quella molto distretta, ch'egli aveva fatto fare ponti di navi in sul Po, sì che vittuaglia non vi potea entrare, messer Marco Visconti di Milano con suo isforzo di XXIIc di cavalieri e con popolo a piè grandissimo venne al soccorso, e puosesi a oste sopra i borghi di Basignano, e messer Gherardino Spinoli uscito di Genova capitano de la detta oste con grande navilio scese giù per Po, per combattere il ponte e fornire la detta rocca, e messer Marco per terra assaliro a un'ora l'oste di messer Ramondo ch'era fuori de' borghi, ov'ebbe grandissimi assalti e battaglie, e per più riprese. E volendo rompere il detto ponte sopra al Po mettendo fuoco, e l'altra parte difendendo, grandissimo dammaggio vi ricevettono quegli del capitano di Milano di morti e d'annegati; e avendo perduto in Po, si ritrassono in terra, ov'era cominciata la battaglia per la cavalleria e popolo, la quale durò da mezzo dì a vespro; e per due volte rotti quegli di Milano, e morti più di CCC uomini di cavallo, e di que' da piè grande quantità; a la fine essendo la forza di messer Marco maggiore che quella di messer Ramondo, il quale non avea che XIIc di cavalieri, e di quegli gli convenia guardare di qua e di là da Po e il ponte sopra Po, la gente sua ch'era dal lato de' borghi, per soperchio di gente fu ripinta per forza ne' borghi e sconfitti, ove morirono di sua gente da CL uomini di cavallo, e di que' da piè assai; e così quegli che maggiore dammaggio ricevettono furono vincitori del campo, e rifornirono la rocca di Basignano, e rimasono all'assedio de la gente de la Chiesa ch'era ritratta ne' detti borghi.
<B>CLXI</B>
<I>Conta di grande guerra tra il re d'Inghilterra e quello di Scozia.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, del mese di luglio, il re di Scozia con suo isforzo, sentendo la divisione ch'era in Inghilterra tra 'l re e' suoi baroni, venne in su l'Inghilterra, e tutte le frontiere de' suoi confini guastò. Sentendo ciò il re d'Inghilterra, del mese presente d'agosto con tutto suo isforzo andò ad oste in Iscozia per terra, e per mare vi mandò bene CCC cocche e navi armate. Gli Scotti sentendo l'esercito che venia loro adosso, si ritrassono fra la Scozia in foreste e fortezze. Gl'Inghilesi male proveduti di vittuaglia, grandissimo difetto ebbe nell'oste, per la qual cosa moltitudine morirono di fame, e si corruppe l'oste per modo che non poterono durare; e così sanza nullo acquisto fare si tornò il re d'Inghilterra con sua oste adietro del mese di settembre con grande vergogna e dammaggio di XXm uomini morti di fame e d'infermità. E in quello medesimo tempo i Fiamminghi, per discordia ch'aveano cogl'Inghilesi, sì guerreggiarono in mare rubando e corseggiando sopra gl'Inghilesi, i quali in quello anno d'una parte e d'altra e tra·lloro molto furono afflitti.
<B>CLXII</B>
<I>Come la città d'Osimo si rubellòe a la Chiesa.</I>
Nel detto anno, del mese d'agosto, messer Lippaccio, ch'era stato signore de la città d'Osimo de la Marca e ribello de la Chiesa, coll'aiuto di quegli de la città di Fermo e d'altri Ghibellini de la Marca in Osimo ritornò e caccionne la gente del marchese, e co l'aiuto de' Fermani si cominciò grande guerra al marchese, e feciono rubellare Fabbriano.
<B>CLXIII</B>
<I>Come i Fiorentini feciono una grande raunata di gente credendosi avere alcuna terra di Castruccio.</I>
Nel detto anno, del mese d'agosto, i Fiorentini subitamente feciono raunata di XXVc di cavalieri tra di loro gente e d'amici, e di XVm uomini d'arme a piè. La cagione nullo sapea, se non certi sagretari: dissesi che doveano avere una terra, overo città, di loro nimici. Per la qual cosa i Pisani e 'l signore di Lucca, e ancora gli Aretini, stettono in grande guardia e gelosia, e più confinati mandarono fuori. A la fine non potendosi compiere il trattato, a dì VIIII d'agosto diedono commiato a tutti i forestieri, e 'l migliore fu; e perché di ciò avemo fatta menzione, ché mai non si scoperse la cagione del sagreto, che di rado suole avenire a' Fiorentini.
<B>CLXIV</B>
<I>Come ambasciadori del dogio d'Osteric feciono fare triegua in Lombardia a danno della Chiesa.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, del mese d'agosto, il dogio d'Ostericchi, uno degli eletti re de' Romani, mandò in Lombardia suoi ambasciadori al legato del papa per discusarsi de la laida partita da Brescia del dogio Arrigo suo fratello, e per fare trattare accordo da la Chiesa a' figliuoli del capitano di Milano; e giunti loro in Milano, messer Galeasso fece loro grande onore, e con sindachi del detto Comune e di nove altre città di Lombardia, ond'erano signori, brivileggiaro, e si diedono al detto dogio d'Ostericchi, acciò che gli acordasse, o difendesse da la forza della Chiesa. I quali ambasciadori andati a Valenza al legato cardinale, feciono fare triegua da l'oste della Chiesa a quella del signore di Milano infino a calen di ottobre vegnente; e ciò assenti il cardinale per la gente della Chiesa ch'era assediata ne' borghi di Basignano a grande distretta, i quali n'uscirono sani e salvi, lasciando la terra a guardia de' detti ambasciadori: e simigliante lasciarono que' di Milano la rocca di Basignano. E fallite poi le dette triegue, non possendo poi essere accordo, i detti ambasciadori rendero a messer Marco capitano dell'oste di Milano la rocca di Basignano e eziandio i borghi, opponendo che se messer Ramondo rivolesse i borghi, rimettesse ne la terra la sua gente assediata, e nello stato ch'era quando si feciono le triegue; onde il legato e messer Ramondo si tennono traditi e ingannati da' detti ambasciadori.
<B>CLXV</B>
<I>Come i Pisani in certa parte ruppono la pace a' Fiorentini.</I>
Nel detto anno, del mese d'agosto, i Pisani feciono certe nuove gabelle sopra loro legni e galee che aducessono roba di franchi o portassono, faccendo pagare a la roba, rompendo la libertà de' Fiorentini, e' patti de la pace in più guise sotto il detto colore. I Fiorentini vi mandarono ambasciadori, e niente valse, onde si tennono forte gravati da' Pisani.
<B>CLXVI</B>
<I>Come i Fiorentini racquistaro il castello di Caposelvoli.</I>
Nel detto anno, dì VII di settembre MCCCXXII, i Fiorentini riebbono il castello di Caposelvoli di Valdambra, il quale aveano tenuto gli Aretini da la venuta dello 'mperadore: rendési a patti per certi del castello. Quegli della rocca si tennono alquanti dì attendendo soccorso dagli Aretini. I Fiorentini vi cavalcaro popolo e cavalieri; per la qual cosa gli Aretini non ardirono di venire al soccorso, e feciono rendere la rocca.
<B>CLXVII</B>
<I>Come il signore di Mantova e quello di Verona vennono a oste a Reggio.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, del detto mese di settembre, messer Cane della Scala signore di Verona e messer Passerino signore di Mantova vennono a oste sopra la città di Reggio con MD cavalieri, e quello guastando, si puosono a oste a uno loro castello de' Reggiani dicendo di venire a Bologna. I Bolognesi temendo mandarono per aiuto a' Fiorentini, i quali vi mandarono CCC cavalieri. Istando i detti a quello assedio, subitamente si levarono da oste, lasciando di loro arnesi, e con danno d'alquanti di loro gente. La cagione della sùbita partita si disse che fu per tema che 'l detto messer Cane ebbe che 'l dogio di Chiarentana e 'l conte da Gurizia che per comandamento del dogio d'Ostericchi re de' Romani non venissono sopra Verona e Vincenza, come facceano l'apparecchiamento.
<B>CLXVIII</B>
<I>Come ne la città di Parma ebbe battaglia tra' cittadini.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, dì XVIII del mese di settembre, la città di Parma si levòe a romore, e si combatterono insieme i cittadini: dell'una parte era capo Orlando Rosso, dell'altra Gianni Quirico e l'abate di San Zeno, i quali dal detto Orlando e dal popolo di Parma furono sconfitti e presi col loro séguito; ciò si disse che fu perché il detto Gianni Quirico trattava co' Fiorentini e' Bolognesi di recare Parma a parte guelfa; ma i più dissono ch'egli trattava di dare la terra a messer Cane e a messer Passerino suoi parenti, e però aveano fatta la detta cavalcata sopra Reggio. Il detto Orlando Rosso rimase signore e rimise in Parma i figliuoli di messer Ghiberto da Coreggia.
<B>CLXIX</B>
<I>Come i signori di Ravenna s'uccisono insieme.</I>
Nel detto anno e dì i figliuoli di messer Bernardino da Polenta di Ravenna, con trattato de' Malatesti signori da Rimine, sì uccisono l'arciprete di Ravenna loro cugino e consorto, ch'era signore de la terra, e di quella rimasono signori.
<B>CLXX</B>
<I>Come gli usciti di Genova ebbono Albingano.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, del mese di settembre, il re Federigo di Cicilia fece de' suoi danari armare in Saona XVII galee per guerreggiare la città di Genova e 'l re Ruberto, e quelle galee cogli usciti di Genova e coll'aiuto di Castruccio assediarono Portovenero per mare e per terra; e poi appresso coll'aiuto del marchese dal Finale assediarono la città d'Albingano che teneano quegli di Genova. Per la qual cosa il re Ruberto co' Genovesi d'entro armarono in Genova XXI galea, e in Proenza XII uscieri con CC cavalieri per levare il detto assedio. E vegnendo i detti uscieri di Proenza, per contrario tempo non poterono porre i cavalieri in terra al Bingano, ma se ne vennero in Genova. L'armata de le XVII galee sì disarmarono e lasciarono l'assedio di Portovenero, ma perciò non lasciarono quello d'Albingane. I Genovesi per altra volta caricarono gli uscieri di loro cavalieri per porre al Bingano, e per contrario tempo non poterono prendere terra. Per la qual cosa la detta terra di Albingano, molto stretta di vittuaglia, e non soccorsa, s'arendé poi agli usciti di Genova e al marchese dal Finale a patti, a dì XIII di dicembre vegnente.
<B>CLXXI</B>
<I>Come papa Giovanni fece battere moneta fatta come il fiorino d'oro.</I>
Nel detto tempo e anno papa Giovanni fece fare in Vignone una nuova moneta d'oro fatta del peso e lega e conio del fiorino d'oro di Firenze sanza altra intransegna, se non che da·lato del giglio diceano le lettere il nome del papa Giovanni; per la qual cosa gli fue messa grande riprensione, a fare dissimulare sì fatta moneta come il fiorino di Firenze.
<B>CLXXII</B>
<I>Come il re di Francia lasciò la prima moglie, e prese la figliuola che fue d'Arrigo imperadore.</I>
Nel detto anno MCCCXXII e mese di settembre Carlo il giovane re di Francia, lasciata la prima sua moglie figliuola che fu del conte di Borgogna, perché si trovòe in avolterio, prese per moglie la figliuola che fue dello 'mperadore Arrigo e serocchia del re Giovanni di Boemmia. Compensò il papa il detto matrimonio opponendosi per la petizione che la madre della prima moglie, figliuola che fu del conte Artese, aveva tenuto a battesimo il detto re. Questa pruova si disse che fu falsa, e che a la contessa d'Artese il convenne assentire per iscampare la figliuola di morte; e così del detto mese di settembre a Tresi in Campagna sposò la detta seconda moglie vivendo la prima.
<B>CLXXIII</B>
<I>Come il re Ruberto volle esser morto a Vignone.</I>
Nel detto anno e mese il re Ruberto essendo co la corte di papa a Vignone, volle essere morto per suoi famigliari, a petizione di messere Ugo di Palizzo di Borgogna, per cagione che il re gli contradisse a moglie la prenzessa della Morea; e dissesi che' tiranni di Lombardia e di Toscana di parte ghibellina aveano procacciato ciò. Non se ne seppe il vero. I detti famigliari furono presi e distrutti; intra gli altri fue uno Fiorentino.
<B>CLXXIV</B>
<I>Come i Fiorentini rifeciono Casaglia, e ripresono le ville e popoli d'Ampinana in Mugello.</I>
Nel detto anno e mese di settembre i Fiorentini feciono rifare il castello di Casaglia sopra l'alpe, il quale avea fatto guastare il conte a Battifolle a Sinibaldo Donati, quand'era in bando al tempo de' Bianchi, e levarono uno passaggio, che 'l detto conte vi facea ricogliere. E in quello medesimo tempo il detto Comune di Firenze riprese la signoria d'undici popoli di più di M uomini, i quali furono sotto il castello d'Ampinana in Mugello, i quali fedeli erano stati del conte Guido da Raggiuolo, e per suo lascio succedeano a' figliuoli del conte a Battifolle. Il Comune di Firenze vi cusava ragione, che infino nel MCCLXXXXII essendo a l'assedio de la detta Ampinana, dal conte Manfredi che v'era entro la comperarono IIIM fiorini d'oro, e posseduto alcuno tempo. Per la qual cosa in Firenze venne il conte Simone da Battifolle e 'l conte Ruggieri da Doadola, domandando al Comune che si commettesse a ragione la quistione in giudice comune; non furono uditi, e così si partirono male appagati da' Fiorentini.
<B>CLXXV</B>
<I>Come l'eletto d'Ostericchi fu sconfitto da quello di Baviera.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, martedì a dì XXVIIII di settembre, nella duchea di Baviera in Alamagna fue grande assembiamento e battaglia tra il re Federigo d'Ostericchi e il re Lodovico di Baviera, amendue eletti re de' Romani. La quale battaglia durò dal sole levante insino al tramontare, però che non v'avea pedoni, e combatteano a riprese a modo di torniamenta; e fu sì aspra e sì dura, che più di IIIIm combattitori a cavallo vi furono morti tra dall'una parte e dall'altra, e più di VIm cavalli morti. A la fine la vittoria e la signoria del campo rimase al re Lodovico di Baviera; e 'l sopradetto Federigo re e Arrigo dogio d'Ostericchi suo fratello con molti baroni furono presi in forza del detto re Lodovico; e quasi tutta la gente del re Federigo rimasono tra morti e presi, infra' quali rimasono più di MM cavalieri ungari che Carlo Umberto re d'Ungaria avea mandati in aiuto al detto re Federigo suo parente. Il duca Lupoldro d'Ostericchi, il quale venia con MD cavalieri a elmo in aiuto al fratello ed era presso già a XV miglia a l'oste, non giunse a tempo a la battaglia, però che quello di Baviera sentendo sua venuta affrettò saviamente la battaglia, e passò la riviera. Il re Federigo, per isdegno di sua potenza e grandezza non curando il nimico né essendo ordinato, per lo modo detto fue sconfitto.
<B>CLXXVI</B>
<I>Come il re d'Ungaria venne sopra il re di Rassia.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, del mese di settembre, Carlo Umberto re d'Ungaria con più di XXm Ungari a cavallo corse sopra le terre del re di Rassia in Ischiavonia, e venne presso a Giadra a due giornate guastando il paese, per cagione che gli Schiavi no·llo ubbidieno; per la qual cosa si temette per que' di Schiavonia, e ancora per gli Viniziani, ch'eglino non prendessono infino a le marine. A la fine il detto re di Rassia fece le sue comandamenta, e ancora per la sconfitta di sua gente in Baviera si ritornò adietro in Ungaria. Questo Carlo Umberto fue figliuolo di Carlo Martello, che fu figliuolo di Carlo secondo re di Cicilia e di Puglia; e se 'l padre non fosse in prima morto che 'l detto Carlo secondo, gli succedea il reame, il quale succedette poi al re Ruberto suo secondo fratello; ma però il detto Carlo non ne fu mai contento.
<B>CLXXVII</B>
<I>Come gli Ubaldini si diedono a la signoria de' Fiorentini.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, del mese d'ottobre, i signori Ubaldini per iscandalo che surse tra·lloro, l'una parte e l'altra a gara insieme, eglino e' loro fedeli si diedono a la signoria del Comune di Firenze, il quale Comune loro promise di trarre d'ogni bando, e fecegli esenti di gravezze per due anni; il quale acquisto fu di più di IIIm distrettuali; ma come per addietro sono usati, poco stettono fedeli de' Fiorentini per la guerra di Castruccio.
<B>CLXXVIII</B>
<I>Come messer Vergiù di Landa rubellò Piagenza a messer Galeasso Visconti di Milano.</I>
Nel detto anno MCCCXXII Obizzo chiamato Vergiù de la casa di Landa di Piagenza, tutto fosse Ghibellino, discacciato di quella città da messer Galeasso Visconti di Milano signore di Piagenza, per cagione di vergogna fatta per lo detto messer Galeasso a la donna del detto Vergiù, e ancora lui battuto, e toltogli Ripalta suo castello, si·ssi rubellò, e andonne al cardinale legato per la Chiesa. Ed essendo messer Galeasso a Milano, il detto Vergiù subitamente con IIIIc cavalieri di quegli della Chiesa venne a Piagenza, e per suoi amici dentro una porta gli fu aperta, e così con questa gente entrò nella città a dì VIIII d'ottobre, e corse la terra, e di quella prese la signoria sanza contasto: fu fatto vicaro per la Chiesa, e fecesi fare cavaliere, e caccionne Azzo figliuolo del detto messer Galeasso che n'era signore, e rimise in Piagenza tutti gli usciti guelfi. Per la qual cagione ebbe appresso in Lombardia grandi commutazioni. E del mese di novembre venne il legato cardinale in Piagenza, e fue ricevuto a grande onore, e poco appresso i Piagentini racquistarono tutte le loro castella, che tenea la gente di messer Galeasso.
<B>CLXXIX</B>
<I>Di grande fortuna che fue in mare e in terra.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, dì XXVI d'ottobre, fu delle maggiori fortune di vento a greco e tramontana con neve che si ricordasse per niuno che allora vivesse; e fece maggiori pericoli in mare di rompere navi e galee e altri legni in più parti del mondo, spezialmente nel golfo di Vinegia; e simigliante fue in terra, che in più parti divelse grandissimi alberi, e ruppene innumerabile quantità, e molte case fece cadere in Toscana, onde più genti ne moriro.
<B>CLXXX</B>
<I>Come gli Scotti sconfissono gl'Inghilesi.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, a l'uscita del detto mese d'ottobre, essendo il re d'Inghilterra tornato di Scozia con sua oste con grande vergogna e dammaggio, come adietro fa menzione, e essendo di là da Vervicche a la badia di Rivalse, e i suoi baroni erano dimorati più innanzi a le frontiere della Scozia per contrastare gli Scotti che non passassono, ed erano in numero di Vc cavalieri e IIIm uomini d'arme a piede; gli Scotti gli asaliro, e gl'Inghilesi per tema si ritrassono in su uno monte per essere forti; gli Scotti assediarono il detto monte, e ismontati da cavallo assalirono gl'Inghilesi, e quegli misono in isconfitta, e quasi la maggiore parte furono tra morti e presi; intra' quali furono presi Gianni di Brettagna, il conte di Riccemonte, il signore di Sugli, e più altri baroni. Il re d'Inghilterra, sentita la detta sconfitta, quasi solo con poca compagnia si fuggì de la detta badia vituperosamente.
<B>CLXXXI</B>
<I>Come messer Galeasso Visconti fu cacciato di Milano.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, del mese di novembre, dopo la rubellazione che quegli di Piagenza aveano fatta di messer Galeasso Visconti, i nobili e 'l popolo di Milano veggendosi scomunicati e in sentenza della Chiesa per la signoria di messer Maffeo Visconti e de' figliuoli, sì elessono XII de' migliori de la città, grandi e popolani, che trattassono accordo dal Comune di Milano al legato cardinale, i quali più volte furono al legato con volontà del capitano di Milano, promettendo di lasciare la signoria, acciò che·lla città di Milano avesse sua pace colla Chiesa. La quale promessa fatta infintamente per messer Galeasso, non volendo assentire all'accordo, si levò a romore la città di Milano a petizione de' detti XII caporali, volendo che messer Galeasso lasciasse la signoria, come aveano promesso al cardinale; e recaro da·lloro parte grande parte de le masnade de' Tedeschi per impromesse e danari diedono loro, e per cagione che più tempo messere Galeasso non gli avea pagati, e a·ffurore il popolo e' cavalieri corsono al palazzo gridando "Pace, pace, e viva la Chiesa!". Messer Galeasso, credendosi riparare co' soldati italiani e altri che gli erano rimasi, si mise al contasto, e in tre parti nella città ebbe battaglia, e in ciascuna parte ebbe il peggiore con danno di sua gente: veggendo che non potea durare, con poca di sua gente si partì di Milano, e andossene a Lodi a dì VIII di novembre, e de la città di Milano rimasono signori i detti XII, i quali erano messer Luis Visconti consorto di messer Galeasso, messer Giacomino da Postierla, messere Simone Cravelli, messer Francesco da Barbagnano e altri grandi cattani e varvassori, che non sapemmo di tutti il nome. Di questa mutazione di Milano ebbe in Firenze grande allegrezza, e fecesene grande festa e belle giostre, istimando che la guerra di Lombardia avesse fine. Ma se avessono saputo la mutazione futura e contraria che fue assai di presso, e quello danno che ne seguì a' Fiorentini, come innanzi si potrà vedere, avrebbono non fatta festa, ma il contrario; e però di felicità mondana non si dee l'uomo troppo allegrare, né d'aversità troppo turbare, però ch'ell'è fallace, e con diverse e varie mutazioni.
<B>CLXXXII</B>
<I>Come Moncia fu presa e corsa per quegli di Milano.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, del mese di novembre, essendo Galeasso Visconti e' suoi seguaci cacciati di Milano, quegli della terra di Moncia con séguito d'amici di quegli de la Torre feciono raunanza per venire a Milano. Per gli XII rettori di Milano fu mandato a quegli di Moncia che cessassono la detta raunata, però che voleano riformare prima la città per gli patti ordinati co la Chiesa; e di vero, tutto fosse Galeasso cacciato di Milano, per gli detti XII si reggea la città a parte d'imperio e non di Chiesa. Quelli di Moncia per troppa volontà disubedienti, furono assaliti da le masnade di Milano e dal popolo, e per forza presa la terra e rubata tutta, e cacciarne la detta raunanza con danno di più di CC uomini morti.
<B>CLXXXIII</B>
<I>Come certi de la casa de' Tolomei feciono grande guerra nel contado di Siena.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, del mese di dicembre, messer Deo de' Tolomei co' suoi seguaci ribelli di Siena, coll'aiuto e trattato del vescovo d'Arezzo e di certi loro amici di Firenze, con danari e impromesse corruppono V conastaboli oltramontani co·lloro masnade in quantità di CC a cavallo, i quali erano al soldo del Comune di Firenze, i quali sanza saputa del detto Comune si partirono da Fucecchio, e andarne in Valdichiane, e congiunti col detto messer Deo e co la gente del vescovo d'Arezzo e con C cavalieri d'Orbivieto, presono il castello d'Asinalunga e quello di Torrita, e corsono per lo contado di Siena guastando e rubando sanza nullo riparo; e facevansi chiamare la Compagna, ed erano bene Vc cavalieri e gente a piè assai sanza ordinato soldo, vivendo di ratto e di ruberia; per la qual cosa in Siena n'ebbe grande paura e gelosia: mandarono per soccorso a' Fiorentini, i quali vi mandarono CCC cavalieri e M pedoni, e 'l capitano del popolo con grande ambasceria per trattare accordo, il quale da' Sanesi non fue inteso, temendo che' Fiorentini in servigio di quegli della casa de' Tolomei non avessono fatta ismuovere la detta gente; ma feciono più confinati della casa de' Tolomei e di loro amici, e fortificarsi di soldati assai, e feciono loro capitano di guerra il conte Ruggieri da Doadola de' conti Guidi. E stando la detta Compagna nel contado di Siena, per gli Sanesi furono contastati di guerra guerriata, non assicurandosi d'aboccarsi a battaglia, sì come a gente disperata; e così stettono tutto il verno. A la fine la detta Compagna per più difetti non possendo durare, si partirono a dì XVI di febbraio MCCCXXII, e sbarattarsi nella Marca e in più parti, e così per buona sostenenza i Sanesi rimasono liberi di quella afflizzione, e sì riconobbono che quella ismossa di gente non fu con volontà del Comune di Firenze, anzi gli sbandirono come traditori i detti soldati.
<B>CLXXXIV</B>
<I>Come messer Galeasso Visconti ritornò in Milano.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, del mese di dicembre, essendo i XII rettori della città di Milano in istretto trattato col legato cardinale di dargli la signoria della città di Milano, e d'esser ricomunicati da la Chiesa, e la maggior parte de' detti nobili si voleano dare liberamente; e mandati loro ambasciadori e sindachi a Piagenza al cardinale che venisse in Milano, la parte de' Visconti ch'era rimasa in Milano, ond'era capo messer Lodovico Visconti, non piacendogli il detto accordo, mandò segretamente a Lodi per Galeasso Visconti e per gli frategli, che venissono col loro isforzo a la terra; e in Milano corruppe le masnade tedesche, i quali erano stati a cacciare Galeasso, che fossono in suo aiuto, e loro promise Xm fiorini d'oro; e 'l detto Galeasso venuto di notte, gli fue data e aperta la porta de' Sonagli, e per quella entròe in Milano sabato a l'alba del giorno, dì XI di dicembre, e corse la terra. Per la qual cosa quasi tutti i nobili di Milano ch'erano stati contra Galeasso e al trattato della Chiesa, col loro séguito uscirono di Milano, e poi il detto Galeasso si fece fare signore de la terra a grido di popolo, dì XXVIIII di dicembre nel detto anno. E così in corto termine si cambiò la sua fortuna per accrescimento di maggiori mali in Milano e in Lombardia per punizione de' peccati, come innanzi faremo menzione.
<B>CLXXXV</B>
<I>Come Luis d'Universa fu fatto conte di Fiandra.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, del mese di gennaio, Luis d'Universa, figliuolo del figliuolo del conte di Fiandra, fu fatto conte di Fiandra con volontà delle buone ville di Fiandra per asseguire i patti della pace; messer Ruberto di Fiandra suo zio, volendo esser conte egli, perché il padre di Luis era prima morto che 'l conte suo avolo, onde piato fu a Parigi dinanzi al re di Francia, e per sentenzia fu renduto per oservazione de' patti della pace che 'l detto Luis fosse conte, e non messer Ruberto.
<B>CLXXXVI</B>
<I>D'uno grande freddo che fue in Italia e carestia.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, del mese di novembre e dicembre e gennaio, fue in Italia la maggiore vernata, e di più nevi che fosse grande tempo passato; e in Puglia fu sì grande secco, che più di mesi VIII stette che non vi piovve, per la qual cosa grandissimo struggimento e carestia di tutti i beni fue nel paese; e così seguì quasi in tutta Italia, spezialmente in Pisa e in Lucca e Pistoia, grandissima fame e carestia, onde tutti i poveri di loro contado fuggirono per la fame a Firenze, e in Firenze medesimo fu caro; le II e mezzo staia di grano uno fiorino d'oro.
<B>CLXXXVII</B>
<I>Come i Fiorentini mandarono loro gente in Lombardia sopra Milano.</I>
Nel detto anno, in calen di febbraio, a richesta del detto papa Giovanni i Fiorentini mandarono in Lombardia in aiuto del legato e a l'oste della Chiesa CC cavalieri con loro capitani e ambasciadori, e altrettanti ne mandaro i Bolognesi, e' Parmigiani C, e i Reggiani C, e' Romagnuoli simigliante, per andare sopra la città di Milano, e per abattere i tiranni e ribegli di santa Chiesa della casa de' Visconti.
<B>CLXXXVIII</B>
<I>Come gli usciti di Genova furono sconfitti e levati dall'assedio di Genova.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, dì XVII di febbraio, essendo ancora gli usciti di Genova ad assedio della città ne' borghi di Prea (come addietro fa menzione, stati all'assedio di Genova presso di V anni tra due volte con piccolo intervallo), quegli della città feciono uscire di notte delle masnade del re Ruberto CL uomini a cavallo e mille a piè per combattere la fortezza del monte di San Bernardo, e saliti al poggio combattero co' nimici, e sconfissongli, e cacciandogli infino a' borghi. Quegli della città sentendo la detta rotta uscirono della terra per la porta de le Vacche, e per forza entrarono ne' borghi; e seguendo la detta caccia e sconfitta racquistarono i detti borghi con tutte le fortezze. E degli usciti furono morti alquanti, ma più presi, e guadagnarono di robe e avere ch'era ne' detti borghi più di libbre CCm di genovini, però che gli usciti stavano ne' detti borghi con loro famiglie, e faceano l'arti e mercatantie come ne la città. Quegli che scamparo fuggirono a Saona e a Volteri; per la qual cosa la forza degli usciti molto affiebolìo, e fu tenuto miracolo di Dio, che per piccola rotta perderono quello che per tutta la forza del re Ruberto e del Comune di Genova prima per tanto tempo non si poté acquistare.
<B>CLXXXIX</B>
<I>Come il re di Tunisi cacciato ricoverò la signoria.</I>
Nel detto anno e mese il re di Tunisi, che 'l giugno passato era stato cacciato della signoria, come adietro fa menzione, racquistò la signoria e caccionne l'altro. E così mostra che i detti Saracini abbiano piccola stabilità in loro signorie, che tre volte in due anni mutata la detta signoria per due re.
<B>CXC</B>
<I>Come la città di Tortona s'arendé a la Chiesa e al re Ruberto.</I>
Nel detto anno MCCCXXII, dì XVIIII di febbraio, messer Ramondo di Cardona con Vc cavalieri e cogli usciti guelfi della città di Tortona in Lombardia, per trattato fatto per lo legato cardinale entrò nella detta città, la quale gli fu data da' cittadini, e fattone signore; e la signoria e masnade che v'erano per lo capitano di Milano, a pochi dì appresso renduta la città del poggio co la rocca, a patti se n'uscirono salve le persone, e più castella del contado di Pavia si renderono a messer Ramondo.
<B>CXCI</B>
<I>Come l'oste di Milano furono sconfitti da quegli della Chiesa in sul fiume d'Adda.</I>
Nel detto anno, del mese di febraio, essendo cavalcata la cavalleria e l'oste della Chiesa da Piagenza in sul contado di Milano ne la contrada de la Graradadda al castello di Cravazzo, il quale si teneva per gli nuovi usciti di Milano, là si trovarono tra soldati della Chiesa e l'amistà di Lombardia e di Toscana più di IIm cavalieri d'arme e popolo assai, ond'era capitano messer Castrone nipote del legato e messer Vergiù di Landa. Messer Marco Visconti con VIIIc cavalieri de le masnade di Milano e popolo assai era venuto in su la riva del fiume d'Adda a la villa di Trinazzo e a Basano per contrastare il passo a la detta oste de la Chiesa. Avenne che venendo, XXV di febbraio MCCCXXII, messer Vergiù di Landa cogli usciti di Milano con Vc cavalieri, dilungandosi alquanto dall'oste su per la riva d'Adda passarono il fiume; messer Marco con sua gente andò contra loro, e assaligli vigorosamente per modo che gli avea quasi sconfitti; e già morto il fratello di messer Vergiù, e messer Simonino Cravelli, e messer Francesco da Garbagnana usciti di Milano e più altri; l'altra oste de la Chiesa ch'era in su la riva, veggendo la detta battaglia per lo capitano e conastaboli e insegna del Comune di Firenze, ch'era messer Filippo Gabbrielli d'Agobbio, e messer Urlimbacca tedesco, prima messi a passare l'Adda e l'altra gente appresso, con grande contasto de' nimici nel fiume, e alla riva combattendo vittoriosamente passaro, e trovando la gente di messer Marco sparta e travagliata gli misono in isconfitta; ove grande quantità ne rimasono morti e presi, e fuggito il detto messere Marco col rimaso di sua gente a Milano, l'oste della Chiesa presono Trinazzo e più ville e castella; e a dì XXVII di febbraio presono la terra di Moncia presso a Milano VIII miglia, e incontanente più gente cittadini uscirono di Milano a cavallo e a piè, e vennono a la detta oste.
<B>CXCII</B>
<I>Come i Padovani si pacificaro insieme co' loro usciti.</I>
Nel detto anno MCCCXXII e mese di febbraio i Padovani, i quali erano sotto la signoria del dogio di Chiarentana, si pacificaro insieme, e rimisono in Padova tutti i loro usciti; la quale cosa non seppono fare innanzi, quand'erano in migliore e maggiore stato e in loro libera signoria.
<B>CXCIII</B>
<I>Come Castruccio racquistò certe castella di Carfagnana che gli erano fatte rubellare per gli Fiorentini.</I>
Nel detto anno, del mese di marzo, Castruccio signore di Lucca fece oste sopra il castello di Lucchio in Carfagnana che gli s'era rubellato, e sopra le terre de la montagna di Pistoia; e quegli abandonati da' Pistolesi, per tema che Castruccio non rompesse loro le triegue, mandarono a Firenze per aiuto. I Fiorentini per farlo spendere e consumare vi mandarono LXXV cavalieri e CCCC pedoni per la guardia di quelle terre. Castruccio vigorosamente, non guardando a le nevi ch'erano grandi a la detta montagna, assalì in persona le dette terre ch'erano sopra Lucchio con suo séguito di cavalieri a piè. Quegli che v'erano a la guardia abandonaro i passi, e si ridussono a le fortezze, i quali poco apresso s'arrenderono, e salve le persone se n'andarono; e partita la detta gente, il detto castello di Lucchio fortissimo si rendé a patti, dì XVII di marzo. I Fiorentini per lo soccorso del detto castello di Lucchio trattato feciono d'avere il ponte e 'l castello di Cappiano in su la Guisciana: essendo Castruccio a oste in Carfagnana, vi cavalcaro le cavallate e' soldati di Firenze infino a Empoli, e non vegnendo fornito il tradimento, si ritornarono in Firenze con grande riprensione dell'una impresa e dell'altra.
<B>CXCIV</B>
<I>Come pace fu tra l'eletto imperadore di Baviera e quello d'Ostericchi.</I>
Nel detto anno e mese il re Lodovico di Baviera eletto re de' Romani fece grande parlamento in Alamagna di tutti i suoi baroni, e in quello si fece l'accordo da·llui al duca d'Ostericchi, e trasselo di pregione sotto certi patti e saramento di non chiamarsi re, e di non essergli incontro; ma poco l'attenne.
<B>CXCV</B>
<I>Come Allessandra in Lombardia si rendé al legato del papa e al re Ruberto.</I>
Nell'anno MCCCXXIII, a dì II d'aprile, essendo stato trattato da quelli della città d'Allessandra in Lombardia al legato cardinale, si rendero a la signoria de la Chiesa e del re Ruberto; e messer Ramondo di Cardona v'entrò, e prese la signoria con IIIIc cavalieri, e caccionne quegli che v'erano per lo capitano di Milano. E in quegli giorni messer Arrigo di Fiandra, maliscalco che fu dello 'mperadore Arrigo, non possendo riavere la contea di Lodi, che gli avea privileggiato lo 'mperadore, e teneala il capitano di Milano, venne al servigio della Chiesa e del legato, il quale gli confermò per la Chiesa la detta signoria, e privilegiò e fecelo capitano nell'oste di tutti gli oltramontani.
<B>CXCVI</B>
<I>Come il dogio di Baviera eletto imperadore mandò al legato in Lombardia che non guerreggiasse le terre dello 'mperio.</I>
Nel detto anno e mese d'aprile Lodovico eletto re de' Romani a richesta e sommossa de' Ghibellini di Toscana e di Lombardia, per soccorrere il signore di Milano, mandò tre ambasciadori in Lombardia, Bertoldo conte di Niferi e Bertoldo conte... e uno suo mastro scrivano di sua corte, i quali furono a Piagenza al legato cardinale, a richiederlo e pregarlo che non gravasse il signore né la città di Milano, però ch'erano a lo 'mperio. Il legato rispuose che, quando fosse imperio legittimo, non s'intendea per la Chiesa d'occupargli nulla sua ragione, ma di conservarla e mantenerla; ma che si maravigliava che il loro signore volesse difendere e favorare gli eretici; e domandò loro per iscritto e con suggegli il mandato ch'aveano dal loro signore. Quellino accorgendosi che se per iscritto mostrassono che il loro re favorasse i ribelli della Chiesa, cadea in indegnazione di quella, incontanente negaro che di ciò ch'aveano detto non aveano mandato dal loro signore, e chiesono perdono al legato, e partirsi: e l'uno di loro venne a Lucca e a Pisa, e gli altri andarono a Mantova e Verona con loro ambasciata.
<B>CXCVII</B>
<I>Come la città d'Orbino si rubella a la Chiesa.</I>
Nel detto anno e mese d'aprile il popolo d'Orbino si levò a romore, e cacciarono della città la signoria che v'era per lo marchese e per la Chiesa, per soperchi e incarichi che faceano loro.
<B>CXCVIII</B>
<I>Come giudice d'Alborea di Sardigna si rubellò da' Pisani a petizione del re d'Araona.</I>
Nel detto anno e mese d'aprile, faccendo il re d'Araona grande apparecchiamento di navile e di cavalieri per venire a prendere l'isola di Sardigna, la quale gli fu privileggiata per papa Bonifazio VIII, il Comune di Pisa, che de la detta isola teneano grande parte, avendo fatta murare Villa di Chiesa e più altre fortezze, e mandatovi gente a cavallo e a piè al loro soldo, e a soldo di giudice d'Alborea per contastare al detto re d'Araona, avenne che 'l detto giudice, il quale tenea ed era signore d'Arestano e bene del terzo di Sardigna, a di XI d'aprile tradì i Pisani, e si rubellò da·lloro per trattati fatti da·llui al re d'Araona, e fece mettere a morte quanti Pisani e loro soldati che si trovarono in sue terre, e eziandio i Pisani suoi famigliari e soldati. E fatto questo malificio, incontanente mandò suoi ambasciadori al re d'Araona, che venisse per la terra. La cagione del detto rubellamento si disse che fece perché i Pisani il trattavano male, e che quando il detto giudice prese la signoria, i Pisani oppuosono ch'egli era bastardo, e convennesi ricomperare dal Comune di Pisa per avere la signoria Xm fiorini d'oro sanza il privato costo de' cittadini di Pisa; per la qual cosa poi non fu loro amico di cuore.
<B>CXCIX</B>
<I>Come messer Marco Visconti di Milano fu sconfitto da la gente de la Chiesa.</I>
Nel detto anno, martidì a dì XVIIII d'aprile, messer Marco de' Visconti si partì di Milano con M cavalieri e IIm pedoni, molto buona gente d'arme, per prendere e guastare il ponte da Vaveri e quello da Casciano sopra il fiume d'Adda, acciò che vittuaglia non potesse venire a l'oste de la Chiesa ch'era a Moncia. Sentendo ciò i capitani de la detta oste, messer Arrigo di Fiandra, e messer Gianni de la Torre, e messer Castrone nipote del legato, e messer Vergiù di Landra, e messer Filippo Gabbrielli capitano de' soldati del Comune di Firenze, co·loro masnade in numero di MCC cavalieri e da IIIm pedoni si partirono da Moncia per contrastare il detto Marco Visconti e sua gente. E scontratisi insieme al luogo detto la Gargazzuola, quasi in sul tramontare del sole, la battaglia fu aspra e dura d'una parte e d'altra, però che in ciascuna parte era la migliore cavalleria de le dette osti; e grande pezzo durò la battaglia, che non si sapea chi avesse il migliore. A la fine Marco Visconti e sua gente furono rotti e sconfitti, e di sua gente a cavallo vi rimasono tra morti e presi intorno IIIIc, e rimasonvi XVII bandiere, sanza quegli da piè in gran quantità; e cavagli vi rimasono morti tra dell'una parte e de l'altra VIIIc e più; di quegli de la Chiesa vi rimasono da XXV a cavallo tra morti e presi, e uno Tedesco conostabole de' Fiorentini con III altri conostaboli della Chiesa vi rimasono presi ne la lunga caccia; la notte si trovaro partiti da' suoi infra' nimici, e furono ritenuti. E così Marco Visconti col rimanente di sua gente si tornò a Milano; ma se non fosse la notte, la detta guerra era finita, ché de la gente di Marco Visconti pochi ne scampavano.
<B>CC</B>
<I>Come il conte da Gurizia morì per veleno.</I>
Nel detto anno MCCCXXIII, il dì di calen di maggio, il conte da Gurizia essendo in Trivigi stato a nozze e a festa, subitamente morì: dissesi che messere Cane di Verona il fece avelenare; fue uomo molto valoroso in arme.
<B>CCI</B>
<I>Come il conte Novello venne in Firenze per capitano di guerra.</I>
Nel detto anno, a dì XV di maggio, il conte di Montescheggioso e d'Andri, detto il conte Novello, venne da Napoli a Firenze con CC cavalieri al soldo del detto Comune, e per essere capitano di guerra de' Fiorentini.
<B>CCII</B>
<I>Come grande scandalo fu nell'oste della Chiesa a Moncia.</I>
Nel detto anno e mese di maggio grande scandalo e zuffa fue nell'oste della Chiesa ch'era a Moncia tra' Tedeschi e' Latini, ove n'ebbe morti più di L uomini di cavallo; e il figliuolo di messere Simonino Crevelli con certi si partì de la detta oste e si tornò in Milano; per le quali novità, e per non avere nell'oste uno sovrano capitano, grande sturbo fu a la detta oste.
<B>CCIII</B>
<I>Ancora di grande scandalo che fu in Piagenza tra la gente della Chiesa.</I>
Nel detto anno MCCCXXIII, del mese di maggio, simigliante fue nella città di Piagenza grande scandalo tra' Guelfi e' Ghibellini, e ebbevi più micidi fra' cittadini, essendo la città in arme e a romore; e ciò adivenne per sospetto che messer Vergiù di Landa era andato a parlamentare con messer Cane della Scala e con messer Passerino da Mantova sanza coscienza del cardinale legato; e tornato lui in Piagenza, o ch'avesse intenzione di rimutare stato ne la terra, o si pentesse per animo di parte d'avere data la terra a la Chiesa, o perché gli paresse che' Guelfi avessono presa troppa signoria, fue il cominciamento del detto scandalo. E temendo il cardinale, mandò ad Ortona per messer Ramondo di Cardona, il quale vi venne con Vc cavalieri, e riformossi la città a parte di Chiesa, e messer Vergiù lasciò la signoria, e 'l cardinale il mandò a corte al papa per ambasciadore, e messer Ramondo mandò nell'oste a Moncia per capitano generale.
<B>CCIV</B>
<I>Come i Fiorentini per lettere di papa feciono imposta al chericato.</I>
Nel detto anno e mese di maggio per commessione di lettere di papa Giovanni, tratte per ambasciadori del Comune di Firenze, i Fiorentini impuosono al chericato del vescovado dì Firenze XX fiorini d'oro per aiuto alle mura della città, de' quali con grande scandalo si ricolsono la metade, e per bisogno del Comune si convertirono in altre spese; e poi per lettere di papa di contramando, per istudio del vescovo e del chericato, non se ne ricolsero più danaio per lo Comune.
<B>CCV</B>
<I>Come gli Aretini feciono oste sopra le terre d'Uguiccione da Faggiuola.</I>
Nel detto anno e mese di maggio il Comune d'Arezzo e quello del Borgo a Sansipolcro con CC cavalieri e IIIm pedoni feciono oste sopra le terre d'Uguiccione da Faggiuola, perché s'aveano fatto privileggiare al re de' Romani il detto borgo e Castiglionaretino e più castella; in quella andata vi ricevettono danno e vergogna. E poi i detti figliuoli d'Uguiccione feciono lega co' Guelfi di Romagna e co' conti Guidi guelfi incontro agli Aretini. Nel detto anno, a dì XX di maggio, la notte vegnente scurò la luna, quasi le due parti nel segno del Sagittario.
<B>CCVI</B>
<I>Come lunga triegua fu fatta dal re d'Inghilterra e quello di Scozia.</I>
Nel detto anno, a l'uscita di maggio, triegua fu fatta tra·re d'Inghilterra e quello di Scozia per XIII anni, la quale si fece per lo male stato ch'avea il re d'Inghilterra, che per suo male reggimento quasi tutti i baroni del paese l'aveano abandonato; e come il padre Adoardo fu re di grande senno e prodezza e temuto, così questo Adoardo suo figliuolo fu il contradio. Per la qual cosa Ruberto di Bristo cavaliere di scudo fattosi re de li Scotti, però ch'era nato d'una delle figliuole d'Alepandro re di Scozia, co la sua gente a piè più ch'a cavallo lo sconfisse, e prese de l'Inghilterra, e in più modi gli fece danno e vergogna; e per non potere meglio, fece il re d'Inghilterra la detta ontosa triegua.
<B>CCVII</B>
<I>Come i Perugini tornarono all'assedio di Spuleto.</I>
Nel detto anno, a l'uscita di maggio, i Perugini per comune tornarono a l'assedio de la città di Spuleto, ove aveano loro battifolli; e tutto intorno assediarono la detta città, sì che nullo vi potea entrare né uscire sanza grande pericolo.
<B>CCVIII</B>
<I>Come il capitano de' soldati friolani, ch'erano co' Fiorentini, se n'andò a Castruccio.</I>
Nel detto anno MCCCXXIII, avendo i Fiorentini fatta ordine co·lloro amistà e co·lloro isforzo di fare oste sopra Castruccio signore di Lucca, e' Genovesi d'entro per terra e per mare doveano venire a richesta de' Fiorentini in Lunigiana sopra quello di Lucca, e con trattato d'avere il castello di Buggiano e altre castella di Valdinievole; il detto Castruccio non pigro scoperse i detti trattati, e XII di Buggiano impiccò, e cercò tradimento con Iacopo da Fontanabuona capitano de' soldati friolani, ch'erano al soldo de' Fiorentini, promettendogli molti danari; il quale traditore sanza nulla cagione da la parte de' Fiorentini, se non che gli era scemato soldo, e partita sua masnada a più bandiere, e colle sue masnade in numero di CC cavalieri, essendo in Fucecchio, e faccendo vista di cavalcare sopra i nimici, a dì VII di giugno se n'andò a Lucca, il quale da Castruccio fu bene ricevuto. Per lo quale tradimento e partita i Fiorentini rimasono molto sconfortati, però ch'era la migliore masnada ch'avessono, e sturbò loro tutta la detta impresa.
<B>CCIX</B>
<I>Come Castruccio fece oste a le castella di Valdarno di ponente.</I>
Incontanente il detto Castruccio con sua gente, e co' detti Friolani, e con aiuto di certe masnade di Pisa, con quantità di VIIIc cavalieri e VIIIm pedoni, a dì XIII del detto giugno passò la Guisciana al ponte a Cappiano, e puosesi a oste a piè di Fucecchio, e quello in parte guastò; e poi fece il simigliante al castello di Santa Croce e quello di Castello Franco; e poi passò l'Arno, e guastò a piè di Montetopoli, e poi tornò in su l'Elsa, e guastò a piè di Samminiato e tornossi a Lucca con grande onore, dì XXIII di giugno. I Fiorentini mandarono per loro amistà, ma però non cavalcarono contra il detto Castruccio, se non che intesono a fare guardare le frontiere; e così quello ch'aveano ordinato di fare a Castruccio, per suo senno e prodezza fece a' Fiorentini con loro vergogna.
<B>CCX</B>
<I>Come Nanfus figliuolo del re d'Araona andò con sua armata in su l'isola di Sardigna.</I>
Nel detto anno MCCCXXIII, a dì VIII di giugno, Nanfus figliuolo primogenito del re d'Araona con armata di LXX galee, e con più cocche e legni grossi e sottili, in numero di CC vele, e con MD cavalieri e gente a piè grandissima arrivò in Arestano in Sardigna, il quale dal giudice d'Alborea fu ricevuto onorevolemente, e da tutti i Sardi come loro signore; e tutte le terre che teneano i Pisani si rubellaro, e s'arrendero al figliuolo del re d'Araona, salvo Villa di Chiesa, e Castello di Castro, e Terranuova, e Acquafredda, e la Gioiosa Guardia. Il quale si mise l'assedio a Villa di Chiesa e a Castello di Castro; e dimorandovi tutta la detta state e 'l verno, di sua gente e di quella de' Pisani vi morì in grandissima quantità di più di XIIm uomini; e però non cessò l'assedio. I Pisani, del mese d'ottobre nel detto anno, armarono XXXII galee per levare la detta oste, e andarono infino nel golfo di Calleri; incontanente la gente del re d'Araona n'armarono altrettante, e trassonsi fuori per combattere. I Pisani non si vollono mettere a la battaglia, ma si tornarono in Pisa, e disarmarono co·lloro danno e vergogna.
<B>CCXI</B>
<I>Come messer Ramondo di Cardona co la gente de la Chiesa e de la lega di Toscani e Lombardi puose oste a la città di Milano.</I>
Nel detto anno MCCCXXIII, a dì XI del mese di giugno, messer Ramondo di Cardona, capitano generale dell'oste della Chiesa, con quantità di XXXVIIIc di cavalieri tra soldati della Chiesa e del re Ruberto, colla gente del Comune di Firenze, e di Bologna, e di Parma, e di Reggio, e usciti di Milano, e con più cavalieri tedeschi fuggiti di Milano, e ancora de' presi in battaglia, a·ccui il legato avea fatti francare e rendere loro l'arme e' cavagli e dato il soldo, e con gente a piè innumerabile si partì da la terra di Moncia per andare all'assedio de la città di Milano. E giunti a la villa di Sesto presso di Milano, Galeasso e Marco Visconti signori di Milano con loro cavalleria e popolo uscirono di Milano intorno di MM cavalieri, faccendo segno di volere la battaglia. Messer Ramondo, ordinate sue schiere francamente, non rifusando la battaglia, si ristrinse verso la città; quegli di Milano per sospetto de' cittadini rimasi dentro, o per tema di soperchi nimici, si ritornarono in Milano con danno e vergogna. Messer Ramondo con sua gente pugnando contra loro prese per forza i borghi di porta Nuova, e quello di porta Lenza, e quello di porta Tomasina; e arsi i primi due borghi, in quello di porta Tomasina s'acampò con sua oste, a dì XVIIII di giugno, e quello afforzando, la città molto strinse, e tolse l'acqua di Tesinello, con intendimento di lasciare battifolle da quella parte, e al monistero di Santo Spirito da porta Vercellina che per lui si tenea, e mutare l'oste tra porta Romana e quella di Pavia per chiudere al tutto la città: nel quale oste i Fiorentini il dì di santo Giovanni di giugno feciono correre il palio, onde i Melanesi si recarono a grande disdegno, e poi ne feciono bene vendetta, come innanzi farà menzione.
<B>CCXII</B>
<I>Come la città di Milano fue soccorsa, e come l'oste della Chiesa se ne partì.</I>
Nel detto anno e mese di giugno quegli di Milano, veggendosi a mal punto, si mandarono per soccorso al signore di Verona, e a quello di Mantova, e a l'altre terre ghibelline di Lombardia, e ancora agli ambasciadori del re Lodovico di Baviera ch'erano in Lombardia, mandando a dire, se non dessono loro sùbito aiuto, che renderebbono la città di Milano a la Chiesa. I quali non oservando patti né saramenti fatti al legato, e promesse di non soccorrere i ribegli de la Chiesa, sì vi mandarono i detti ambasciadori con titolo d'imperio con CCCC loro soldati. E giunti in Milano i detti ambasciadori e cavalieri, quello Bertoldo conte di Niferi d'Alamagna si fece fittizziamente vicario d'imperio, e a Galeasso Visconti fece lasciare il titolo de la signoria, e rafforzò lo stato della città; ma per ciò non s'ardiro d'uscire a campo contra l'oste della Chiesa, la quale era molto possente. Apresso, a dì XX di luglio, i detti signori di Mantova e di Verona e' marchesi da Esti, che allora erano di loro lega contra la Chiesa, mandando ancora in aiuto di quello di Milano Vc cavalieri e M pedoni; e passando il fiume del Po, per trattati fatti, credettono i detti cavalieri torre la città di Parma a petizione de la parte di Gian Quirico; il quale trattato scoperto con danno di loro, non venne loro fatto; e credettono ancora prendere Firenzuola, e con danno di loro si partirono, e andarne a Milano. In quello assedio di Milano trattati avea assai da quegli di Milano a quegli dell'oste della Chiesa, tutti coverti di tradimenti dall'una parte e da l'altra; e credendosi messer Ramondo e gli altri capitani dell'oste della Chiesa, con ispendio di moneta assai e grandi promesse trattando co' Tedeschi ch'erano nel campo, che facessono co' Tedeschi ch'erano ne la città, che dessono loro l'entrata de la città, o almeno l'abandonassono e venissono nel campo da la loro parte, avenne tutto il contradio: che X bandiere di Tedeschi ch'erano nell'oste della Chiesa in quantità di Vc a cavallo subitamente si partirono dell'oste e entraro in Milano. Per la qual cagione, e ancora perché grande infermeria si cominciava nell'oste, gli usciti di Milano, isbigottiti e colla paura del tradimento, quasi tutti si partirono dell'oste e si ritrassono a·lloro castella e a la terra di Moncia. Messer Ramondo veggendosi rimaso pur co' soldati del re e de la Chiesa e degli altri Comuni, in quantità di MMD cavalieri, si ricolse con sua oste, e mise innanzi prima la salmeria e popolo minuto, dando battaglia a la città: colle schiere fatte si partì da Milano e dì XXVIII di luglio, e se n'andò a Moncia sano e salvo, che per sua levata quegli di Milano non ardirono d'uscire loro dietro a battaglia, overo per più savia capitaneria. E così è da notare che i·niuna forza umana si può avere ferma speranza, che in sì piccolo tempo sì possente e vittoriosa oste, com'era quella della Chiesa, per gli sopradetti avenimenti si partì isbarattata dal detto assedio di Milano.
<B>CCXIII</B>
<I>Come quegli di Milano assediaro l'oste della Chiesa in Moncia, ma levarsene in isconfitta.</I>
Nel detto anno, dì VIII d'agosto, quegli di Milano uscirono ad oste sopra la terra di Moncia con IIIm cavalieri e popolo grandissimo. In Moncia era messer Ramondo di Cardona coll'oste della Chiesa rimaso con MM uomini di cavallo. Quivi si puosono ad assedio, e dimoraronvi infino al primo dì d'ottobre; e essendo ne la detta oste grandissima infermeria e mortalità, e molta gente di quella oste partita, uscendo fuori la gente a piè de la Chiesa con balestrieri venuti da Genova per assalire il campo, quegli dell'oste sanza riparo di battaglia si partiro a piè e a cavallo, chi meglio e più tosto si poté guarentire; e così rimase il campo e tutti i loro arnesi a la gente della Chiesa. Poca gente vi fu morta e presa, se non degl'infermi, perché l'asalto fu sproveduto e sanza la cavalleria, sì che poca fue la caccia e tardi, che già i Melanesi s'erano ricolti.
<B>CCXIV</B>
<I>Come Castruccio venne ad oste a Prato, e come i Fiorentini vi cavalcarono, e le novità che ne furono in Firenze.</I>
Nel detto anno MCCCXXIII Castruccio signore di Lucca prese audacia e baldanza de la cavalcata che poco dinanzi aveva fatta sopra le terre del Valdarno sanza contasto de' Fiorentini: il dì di calen di luglio subitamente cavalcò in sul contado del castello di Prato, perché i Pratesi non gli voleano dare tributo come i Pistolesi, e puosesi a campo a la villa d'Aiuolo presso a Prato a poco più d'uno miglio con VIcL uomini a cavallo e con IIIIm pedoni, con tutto si credesse in Firenze che fossero presso a due cotanti genti. I Fiorentini incontanente saputa la novella, serrate le botteghe e lasciata ogni arte e mestiere, cavalcarono a Prato popolo e cavalieri isforzatamente; e ciascuna arte vi mandò gente a piede e a cavallo, e molte case di Firenze grandi e popolani vi mandaro masnade a piè a loro spese; e per gli priori si mandò bando che qualunque isbandito guelfo si rassegnasse ne la detta oste sarebbe fuori d'ogni bando; il quale bando non saviamente fatto, ne seguì poi grande pericolo a la città. Avenne poi appresso che il dì seguente si trovarono i Fiorentini in Prato MD cavalieri e ben XXm pedoni, che i IIIIm e più erano isbanditi, molto fiera gente; e ordinarono il seguente dì d'uscire a battaglia contra Castruccio, e spianando le vie il detto Castruccio, la mattina III dì di luglio si levò da campo, e con grande paura de' Fiorentini, e ancora di tradimento de' Pistolesi, si partì d'Aiuolo, e colla preda ch'avea fatta in sul contado di Prato passò l'Ombrone, e sanza arresto, e di buono andare di galoppo, si ridusse a Serravalle: e con tutto che Castruccio n'andasse a salvamento per la discordia de' Fiorentini, fu tenuta la sua venuta folle condotta. Che se i Fiorentini avessono mandata di loro gente, come poteano, tra Serravalle e l'oste di Castruccio, a certo Castruccio e sua gente rimanevano morti e presi; ma a cui Idio vuol male gli toglie il senno. I Fiorentini rimasi in Prato con poca ordine e con difettuoso capitano, e per vizio de' nobili, che non voleano vincere la guerra in onore e stato di popolo, scisma e discordia nacque ne la detta oste; che il popolo tutto volea seguire dietro a Castruccio, o almeno andare a oste in su quello di Lucca, e' nobili quasi tutti non voleano, assegnando loro ragioni ch'era il peggio. Ma la cagione era perché parea loro esser gravati degli ordini della giustizia, che non voleano essere tenuti l'uno per lo malificio dell'altro; la qual cosa per lo popolo non s'aconsentia, e per questa cagione più dì stettono in quello errore, e mandarono a Firenze ambasciadori per la diliveragione del cavalcare o tornare l'oste in Firenze. Consigliando sopra ciò in Firenze in sul palazzo del popolo, simigliante errore nacque tra nobili e popolani, e adurando di pigliare partito di consiglio in consiglio, il popolo minuto ch'era di fuori, cominciando da' pargogli fanciugli, raunandosi in quantità innumerabile di gente, gridando: "Battaglia, battaglia, e muoiano i traditori!", e gittando pietre a le finestre del palazzo, essendo già notte, per tema del detto romore del popolo i signori priori col detto consiglio, quasi per nicessità e per acquetare il popolo minuto a romore, stanziaro che l'oste procedesse. Questo fu a dì VII di luglio. E fatta la detta diliberazione, tornati gli ambasciadori a l'oste a Prato, si partì la detta oste di Prato, dì VIIII di luglio, con mala voglia e infinta per gli nobili, se n'andarono per la via di Carmignano a Fucecchio, e giunti a Fucecchio, sanza niuno buono fare, od onore del Comune di Firenze: ma se in Prato avea errore tra' nobili e 'l popolo del cavalcare, maggiore fue a Fucecchio di non valicare né entrare in sul contado di Lucca. E sì era cresciuta l'oste e crescea tutto dì, che 'l Comune di Bologna vi mandò CC cavalieri, e 'l Comune di Siena altri CC; e oltre a quegli tutti i nobili de le case di Siena a gara, chi meglio meglio, vennono in quantità di CCL a cavallo molto bella gente, e i Conti e altre terre e amici; onde l'oste era sì possente, se vi fosse stato l'accordo, ch'a l'assedio di Lucca e più innanzi poteano con salvezza andare, che Castruccio s'era ritratto a la guardia di Lucca con grande paura, e poca di sua gente mandati a guardare i passi sopra la Guisciana. Ma sempre ov'è la discordia è il minore podere, tutto sia più gente; e ancora per difetto del non sofficiente duca, il conte Novello, che non era capitano a conducere sì fatto esercito, per necessità convenne tornassono a Firenze sanza nulla fare, con grande onta e vergogna di loro e del Comune di Firenze. E oltre a questo, crescendo peggio al male, che certi nobili scommossono gli sbanditi, che non sarebbono dal Comune tratti di bando, onde a bandiere levate vennono i detti isbanditi innanzi a la città, credendo per forza entrare dentro, la sera, dì XIIII di luglio. Sentendo ciò il popolo a suono di campane s'armò, e trassono a la guardia de la città, del palazzo del popolo; e tutta la notte guardaro francamente, temendo di tradimento dentro ordinato per gli detti certi de' nobili. Gli sbanditi perduta la speranza, e la mattina vegnente, dì XV di luglio, tornando la cavalleria e l'altra oste, si fuggirono i detti isbanditi, e la città si racquetò con molta riprensione. Avemo seguito per ordine questo processo de' Fiorentini, perché siamo di Firenze e fummo presenti, e il caso fu nuovo e con più contrari, e per quello seguì apresso, per dare esemplo a' nostri successori per lo nanzi d'esser più franchi e più interi e di migliore consiglio, vogliendo onore e stato de la repubblica e di loro.
<B>CCXV</B>
<I>Come il vescovo d'Arezzo prese il castello di Rondine.</I>
Nel detto anno, a dì XVII di luglio, s'arrendé il castello di Rondine al vescovo d'Arezzo, e gli Aretini che v'erano stati ad assedio più mesi. Stando que' d'entro a speranza che' Fiorentini gli soccorressono, nol vollono fare, tra per non potere per le cagioni di su dette, e per non rompere pace agli Aretini.
<B>CCXVI</B>
<I>Come Castello Franco si rubellò a' Bolognesi, e come lo riebbono.</I>
Nel detto anno, a dì XVIIII di luglio, si rubellò per tradimento del signore di Modona Castello Franco de' Bolognesi, i quali Bolognesi subitamente vi trassono per comune; e per lo sollecito soccorso, e che quegli di Modona non v'erano ancora giunti, racquistarono il castello, e' traditori strussono.
<B>CCXVII</B>
<I>Come X galee de' Genovesi furono prese da' Turchi per tradimento.</I>
Nel detto anno e mese di luglio X galee di Genovesi guelfi andarono in corso in Romania rubando amici e nimici, e presono tanta roba che si stimava IIIc milia fiorini d'oro, e feciono compagnia col cerabi di Sinopia, uno grande amiraglio di Turchia; e corseggiato tutto il mare Maggiore, tornati al porto di Sinopia, per quello amiraglio nobilemente ricevuti, e fatta gran festa e conviti per trargli in terra, e dato loro uno ricco desinare, al levare delle tavole gli fece assalire a' suoi Turchi, e uccidere e prendere, e simigliante le galee e la roba ch'era in porto; e così perderono l'avere male acquistato, e le persone: che de le X galee e di tutta la ciurma non iscamparono che III galee; e rimasorvi XL e più de' maggiori nobili di Genova, e bene MD altri per lo tradimento del detto Saracino.
<B>CCXVIII</B>
<I>Come santo Tommaso d'Aquino fue canonizzato da papa Giovanni.</I>
Nel detto anno MCCCXXIII, all'uscita di luglio, per lo sopradetto papa Giovanni e per gli suoi cardinali apo Vignone, fue canonizzato per santo frate Tommaso d'Aquino dell'ordine di san Domenico, maestro in divinità e in filosofia, e uomo eccellentissimo di tutte scienze, e che più dichiarò le sacre Scritture che uomo che fosse da santo Agostino in qua, il quale vivette al tempo di Carlo primo re di Cicilia. E andando lui a corte di papa al concilio a Leone, si dice che per uno fisiziano del detto re, per veleno gli mise in confetti, il fece morire, credendone piacere al re Carlo, però ch'era del legnaggio de' signori d'Aquino suoi ribelli, dubitando che per lo suo senno e virtù non fosse fatto cardinale; onde fu grande dammaggio a la chiesa di Dio: morì a la badia di Fossanuova in Campagna, dì... E quando venne alla sua fine, prendendo <I>Corpus Domini</I>, fece questa santa orazione con grande divozione "Ave pretio mee redemptionis, ave viatico mee peregrinationis, ave premio future vite in cui mano commendo anima et spiritum meum"; e passò in Cristo.
<B>CCXIX</B>
<I>Di grande novitade ch'ebbe in Firenze per cagione degli sbanditi.</I>
Nel detto anno e tempo, essendo gli sbanditi di Firenze, i quali erano stati nell'oste a Prato e a Fucecchio, in isperanza d'esser ribanditi per la promessa loro fatta e per lo bando mandato per gli priori, non si trovò via per gli forti ordini che potessono essere ribanditi. Per la qual cosa VIII di loro caporali, ch'erano in Firenze a sicurtà per sollecitare d'essere ribanditi, veggendo che la loro speranza era fallita, sì ordinaro congiurazione e tradimento ne la città col favore di certi nobili de le case, ond'erano di quegli isbanditi; e la notte di santo Lorenzo, dì X d'agosto MCCCXXIII, vennero a le porte de la città da più parti, in quantità di LX a cavallo e più di MD a piè, con iscuri assai per tagliare la porta che vae verso Fiesole. Sentendosi la sera a tardi loro venuta, non per certo, ma per alcuno indizio, la città fue ad arme e in grande tremore, dubitandosi il popolo non tanto degli sbanditi di fuori, che piccolo podere era il loro a la potenza della città, quanto di tradimento dentro si facesse per gli grandi. Per la qual cosa la città si guardò la notte con grande sollecitudine, e per la buona guardia nullo s'ardì a scoprire dentro di tradimento. Gli sbanditi ch'erano di fuori, veggendo la grande guardia e luminare sopra le mura, e che nullo rispondea loro dentro, si partirono in più parti, e così per la grazia di Dio e di messere santo Lorenzo iscampò la città di Firenze di grande pericolo e rivoluzione; che di vero si trovò che doveano correre la città e ardere in più parti, e rubare e fare micidi in assai buoni uomini, e abbattere l'uficio de' signori priori e gli ordini della giustizia, che sono contra i nobili, e tutto il pacefico stato della città sovertere; e cominciato per gli sbanditi il male, quasi tutti i nobili doveano essere co·lloro per disfare il popolo. E così si trovò; ma perché l'opera era grave a pulire, tanti n'erano colpevoli, si rimase di fare giustizia per non peggiorare stato, ché·ll'una setta e parte del popolo, i quali non reggeano la città, voleano pur che giustizia si facesse, perché si volgesse stato nella città. Quegli che reggieno, perché scandalo non crescesse onde nascesse mutazione ne la città, sì la passarono il più temperatamente che poteano. E essendo a la fine opposto per la fama del popolo per gli più caporali di nobili, ch'avessono aconsentito a la detta congiura, a messer Amerigo Donati, e a messer Tegghia Frescobaldi, e a messer Lotteringo Gherardini, ma non si trovò nullo ch'acusasse; ma nel consiglio de' priori e del popolo per dicreto convenne ciascuno in polizze scrivesse chi gli parea fosse colpevole: trovossi per gli più i tre cavalieri nomati; che fu nuova legge e modo. I quali tre cavalieri dinunziati per lo modo e sorte che detto avemo, essendo richesti per messer Manno de la Branca d'Agobbio, allora podestà, a sicurtà privata di loro persone, compariro e confessarono che sentirono il trattato ma non vi si legaro; ma perché nol palesarono a' priori, furono condannati ciascuno in libbre MM, e a confini per VI mesi fuori della città e contado XL miglia. Per molti si lodò di passarla per questo mezzo per non crescere scandalo ne la città; e per molti si biasimò, che giustizia non si fece de' detti e di molti nobili che si diceva che v'aveano colpa a la detta congiurazione. E per questa novità, e per fortificare il popolo, a dì XXVII d'agosto MCCCXXIII sì diedono LVI pennoni della 'nsegna de le compagnie, III per gonfalone e tali IIII, e così a quegli de la setta che non reggeano come a quegli che reggeano, mischiatamente; e tutti i popolani a sesto a sesto si congregarono insieme, e promisono d'essere a una concordia a la difensione del popolo; per la qual cagione poi nacque mutazione in Firenze, e si criò nuovo stato, come innanzi farà menzione.
<B>CCXX</B>
<I>Come Castruccio guastò le castella di Valdarno di sotto.</I>
Nel detto anno, a dì XXIIII d'agosto, essendo per quegli del castello di Montetopoli fatta preda e danno a quegli del castello di Marti, Castruccio signore di Lucca a richiesta de' Pisani mandò CCC cavalieri, e fece guastare le vigne di Montetopoli e ciò che v'era scampato, ch'egli non avea guasto quando vi fu a oste; e simigliante feciono a Castello Franco e a quello di Santa Croce sanza niuno contasto o soccorso de le masnade de' Fiorentini, ch'erano in maggiore quantità di cavalieri in Valdarno, onde fu grande vergogna a' Fiorentini. E tutto ciò avenia per le divisioni de la città.
<B>CCXXI</B>
<I>Come quegli di Bruggia in Fiandra presono e arsono il porto delle Schiuse.</I>
Nel detto anno e mese d'agosto, essendo quistione tra 'l conte di Fiandra e quegli di Bruggia col conte di Namurro suo zio, il quale tenea la villa e 'l porto delle Schiuse, e quella terra era molto cresciuta e multiplicata per lo buono porto, il detto conte di Fiandra, ciò fu il giovane Luis, con quegli di Bruggia andarono ad oste sopra le dette Schiuse, e per forza l'acquistaro, e uccisono e presono gente assai; e 'l conte di Namurro fu preso; e poi rubarono e arsono la detta villa e porto, che v'aveva più di MD abitanti sanza i forestieri navicanti.
<B>CCXXII</B>
<I>D'uno vento pestilenzioso che fu in Italia e in Francia.</I>
Nel detto anno MCCCXXIII, a l'uscita d'agosto e a l'entrar di settembre, fu uno vento a favognano, per lo quale amalorono di freddo con alquanti dì con febbre e dolore di testa la maggiore parte degli uomini e de le femmine in Firenze: e questa pestilenza fu generale per tutte le città d'Italia, ma poca gente ne morì; ma in Francia ne morirono assai.
<B>CCXXIII</B>
<I>Come quegli di Bergamo furono sconfitti dalla gente de la Chiesa.</I>
Nel detto anno e mese di settembre gente di Bergamo in buona quantità a cavallo e a piè, vegnendo in servigio di que' di Milano a l'oste e assedio ch'era a Moncia, per la gente de la Chiesa furono scontrati e sconfitti, e rimasonne tra morti e presi D e più.
<B>CCXXIV</B>
<I>Come i mercatanti viniziani sconfissono gl'Inghilesi in mare.</I>
Nel detto anno e mese di settembre, essendo partite VII galee de' Viniziani di Fiandra cariche di mercatantia, XXXIIII cocche d'Inghilesi l'assaliro per rubare, le quali galee francamente difendendosi, quelle cocche sconfissono, e presonne X, e uccisonvi molti Inghilesi.
<B>CCXXV</B>
<I>Come i Fiorentini perderono il castello della Trappola co·lloro vergogna.</I>
Nel detto anno e mese di settembre il castello della Trappola in Valdarno, il quale teneano i Pazzi, si diede a' Fiorentini: mandovisi per lo Comune di Firenze gente e guernimento; e stando a sicurtà con mala guardia quegli che v'erano entro, i Pazzi e Ubertini, per tradimento fu loro data l'entrata del castello, e quanti Guelfi vi trovarono in su le letta gli uccisono, in numero più di XL gagliardi fanti di Castello Franco. Sentendo ciò i Fiorentini, vi mandarono CC cavalieri e pedoni assai. Quegli ch'erano nella Trappola per tema se ne partiro, e rubarono il castello e misonvi fuoco, e ridussonsi nel castello di Lanciolina. La gente de' Fiorentini seguendogli, gli assediarono nel detto castello per più giorni; poi i Pazzi e Ubertini con gli Aretini isforzatamente con più di CC cavalieri e popolo assai venieno al soccorso; per la qual cosa la gente de' Fiorentini sanza attendere se ne partirono dall'asedio, e con grande vergogna se ne tornarono a Firenze.
<B>CCXXVI</B>
<I>Come il vescovo d'Arezzo ebbe la Città di Castello per tradimento.</I>
Nel detto anno, a dì II d'ottobre, signoreggiando la Città di Castello messer Branca Guelfucci a guisa di tiranno, e i più de' migliori Guelfi cacciati della terra, certi di quegli che v'erano rimasi popolani sì feciono trattato col vescovo d'Arezzo per cacciare messer Branca, il quale vi mandò CCC uomini a cavallo con Tarlatino suo fratello. E' detti traditori gli diedono la notte una de le porte, e come gli Aretini furono dentro, co' figliuoli di Tano da Castello degli Ubaldini e più altri Ghibellini, corsono la terra, e per forza ne cacciarono il detto messer Branca, ed eziandio tutti quegli Guelfi che aveano loro data la terra, e ben IIIIc altri Guelfi caporali, e in tutto si riformò a parte ghibellina. Per la qual cosa i Perugini, e Agobbini, e Orbitani, e Sanesi, e Bolognesi, e conti Guidi guelfi mandarono ciascuno a Firenze loro ambasceria, e in Firenze fermarono taglia di M cavalieri, e capitano il marchese da Valiana per guerreggiare la Città di Castello e 'l vescovo d'Arezzo. E fermarono compagnia di IIIm cavalieri per tre anni a richesta del capitano della taglia, che 'l terzo e più ne toccò a' Fiorentini. Piuvicossi la detta compagnia in Firenze in Santo Giovanni a dì XXI di marzo MCCCXXIII.
<B>CCXXVII</B>
<I>Come il papa scomunicò Lodovico di Baviera eletto imperadore.</I>
Nel detto anno MCCCXXIII, a dì VIII d'ottobre, papa Giovanni sopradetto apo Vignone in Proenza, in piuvico concestoro diede sentenzia di scomunicazione contra Lodovico dogio di Baviera, il quale si dicie re de' Romani, però ch'avea mandato aiuto di sua gente a Galeasso Visconti e frategli, che teneano la città di Milano e più altre città di Lombardia contra la Chiesa, opponendogli che non gli era licito d'usare l'uficio dello imperio infino che non fosse approvato degno e confermato per la Chiesa, dandogli termine tre mesi, ch'egli dovesse avere rinunziata la sua elezione dello imperio, e personalmente venuto a scusarsi di ciò, ch'avea favoreggiati gli eretici e sismatici e ribegli di santa Chiesa: e privò tutti i cherici che al detto Lodovico dessono consiglio, aiuto o favore, se disubbidisse. Il quale Lodovico com'ebbe il detto processo, con savio consiglio appellò al detto papa o suo successore e al concilio generale, quando egli fosse a la sedia di San Piero a Roma; e mandò a corte grande ambasceria di prelati e d'altri signori scusandosi al papa, e faccendo promettere di non essere contra la Chiesa; gli fu prolungato termine tre altri mesi, e secondo che aoperasse, così si procederebbe contra lui.
<B>CCXXVIII</B>
<I>D'una grande tempesta che fu nel mare Maggiore.</I>
Nel detto anno e mese d'ottobre fu sì grande tempesta nel mare Maggiore di là da Gostantinopoli, che ben cento legni grossi vi periro; onde fue grande danno a' mercatanti di Vinegia e di Genova e di Pisa e ancora de' Greci, che molto avere e mercatantia e gente vi si perdero.
<B>CCXXIX</B>
<I>Di novità che furono in Firenze per cagione degli ufici e de le sette.</I>
Nel detto anno, a l'uscita d'ottobre, i priori e gonfaloniere che allora erano a la signoria di Firenze, e erano de' maggiori popolani de la città, presono balìa di fare priori per lo tempo avenire, e feciongli per XLII mesi avenire, e mischiarono de la gente che non avea retta la terra dal tempo del conte a Battifolle allora, due in tre per uficio di priorato, per mostrare di raccomunare la terra per la novità degli sbanditi ch'era stata l'agosto dinanzi, e' detti eletti priori misono i bossoli ordinati di trargli di due in due mesi; onde poi nacque novità innanzi che finisse l'anno, come innanzi farà menzione.
<B>CCXXX</B>
<I>Come Castruccio volle pigliare Pisa per tradimento.</I>
Nel detto anno MCCCXXIII, a dì XXIIII d'ottobre, si scoperse in Pisa uno tradimento ch'avea ordinato Castruccio signore di Lucca con messer Betto Malepa de' Lanfranchi e con IIII conastaboli tedeschi, di fare uccidere il conte Nieri e 'l figliuolo e più altri che reggeano la città, e correre la terra, e dare la signoria a Castruccio; per la qual cosa fu tagliata la testa al detto messer Betto, e presi i detti conostaboli e cacciata la loro gente; e d'allora innanzi il conte con quegli che reggeano in Pisa si palesarono nimici di Castruccio, e feciono dicreto che chi l'uccidesse avesse dal Comune di Pisa Xm fiorini d'oro, e tratto d'ogni bando. Questo tradimento scoperse uno de' Guidi e Bonifazio de' Cerchi rubegli di Firenze, che dimoravano in Lucca e in Pisa; e guadagnarne danari da' Pisani.
<B>CCXXXI</B>
<I>Come la gente de la Chiesa ebbono danno a Carrara in Lombardia.</I>
Nel detto anno e mese d'ottobre, essendo nella villa di Carrara nel contado di Milano CCC cavalieri di quegli della Chiesa, messere Marco con Vc cavalieri di Milano subitamente assalì la detta villa; quella poco forte e male fornita, abbandonata da' soldati de la Chiesa, presono e rubarono e arsono con alcuno danno de' loro nimici, partendosi la gente della Chiesa in isconfitta. E poi nel detto anno, a dì XII di novembre, il detto messer Marco con MD cavalieri venne all'assedio, a la rocca e ponte di Basciano in su il fiume d'Adda, il quale era molto bene fornito e di vittuaglia e di gente per la Chiesa. Non avendo soccorso da messer Ramondo e da la sua gente ch'erano a Gargazzuola, vilmente s'arrendero, e chi dice per moneta; che n'era capitano uno oltramontano. E tornato messer Marco in Milano, dissensione nacque tra la sua gente dagli Alamanni di sopra a quegli di sotto, cioè di Valdireno, per invidia che quegli di Soavia erano più di presso al signore, e meglio pagati; e ben Vc a cavalio se ne partirono, e parte se n'andarono in Alamagna, e parte vennono nell'oste de la Chiesa sotto la bandiera di messer Arrigo di Fiandra. Di questo è fatta menzione per la poca fede de' Tedeschi.
<B>CCXXXII</B>
<I>Come il popolo minuto di Fiandra si rubellarono contra i nobili e distrussongli.</I>
Nel detto anno e mese di novembre il popolo minuto del Franco di Bruggia in Fiandra, cioè i paesani d'intorno a Bruggia, si rubellarono contra i nobili de la contrada, e feciono uno capitano il quale appellavano il Conticino, e a furore corsono il paese, e arsono e guastarono tutti i manieri e fortezze di nobili, e molti ne presono e incarceraro. E la cagione fu perché i nobili gli gravavano troppo de la taglia ch'aveano a pagare per la pace al re di Francia; e crebbe tanto la detta congiura, che contaminarono tutto il paese di Fiandra, e non ubbidieno al conte di Fiandra loro signore; e a la fine, a dì XXI di febbraio vegnente, entrarono in Bruggia per forza coll'aiuto del popolo minuto di Bruggia, e corsono la terra, e uccisono a·ffurore molti grandi borgesi, e mutarono lo stato e signoria de la terra a·lloro volontà.
<B>CCXXXIII</B>
<I>Come Castruccio prese Fucecchio, e incontanente ne fu cacciato in isconfitta.</I>
Nel detto anno MCCCXXIII, a dì XVIIII di dicembre, Castruccio signore di Lucca subitamente con suo isforzo si partì da Lucca, e la notte vegnente venne intorno a Fucecchio per prendere la terra; e per alcuno di quegli d'entro di piccolo essere fue ismurata una piccola postierla, la quale era in luogo solitaro presso a la rocca, e per quella entraro molti di sua gente di Castruccio, che non furono sentiti, perché piovea diversamente, e Castruccio in persona v'entrò con più di CL uomini a cavallo e Vc a piè. E combattendo la notte la terra e' presene una parte, e prese la rocca che v'aveano cominciata a fare i Fiorentini, salvo la torre; e credendosi avere vinta la terra, e già n'avea scritto a Lucca, quegli di Fucecchio feciono la notte cenni di fuoco per soccorso a le castella vicine, ov'era la guernigione de' soldati de' Fiorentini; per gli quali cenni soccorso vi venne de le masnade fiorentine, ch'erano a Santa Croce, e a Castello Franco, e a Samminiato, e vegnente il giorno, vigorosamente combattero con Castruccio e sua gente, il quale era abarrato a le bocche de le vie d'in su la piazza, e per forza gli sconfissono e cacciarono de la terra; e 'l detto Castruccio fu fedito nel volto, e a grande pena scampò, e più vi rimasono morti e presi in quantità di CL uomini tra a cavallo e a piede, e quasi tutti i loro cavagli ch'aveano condotti dentro vi rimasono, perché si fuggirono a piè; e se fossono stati seguiti, era finita la guerra castruccina a' Fiorentini. Grande allegrezza n'ebbe in Firenze, però che al cominciamento aveano la terra per perduta, e più bandiere di Castruccio e de' suoi conastaboli co' cavagli presi ne vennono a Firenze.
<B>CCXXXIV</B>
<I>D'uno grande miracolo ch'aparve in Proenza.</I>
Nel detto anno MCCCXXIII, il giorno de la Befania, apparve in Proenza in una terra c'ha nome Alesta uno spirito d'uno uomo di quella terra, il quale di poco era morto, e con sentore quando venia scortamente parlando, dicendo grandi cose e maravigliose dell'altra vita e delle pene di purgatorio; e 'l priore de' frati predicatori, uomo di santa vita, con più de' suoi frati e con più di C buoni uomini della terra il venne a disaminare e scongiurare, recando seco privatamente <I>Corpus Domini</I>, per tema non fosse spirito maligno e fittizio, il quale incontanente conobbe, e confessò quello esser vero Iddio, dicendo al priore: "Tu hai teco il salvatore del mondo"; e per la virtù di Cristo scongiurandolo, più secrete cose disse, e come per l'aiuto e meriti del detto priore e suoi frati tosto avrebbe requia eternale.
<B>CCXXXV</B>
<I>Come il vescovo d'Arezzo ebbe e prese la rocca di Caprese.</I>
Nel detto anno, a dì VII di gennaio, il vescovo d'Arezzo ebbe la rocca di Caprese del conte da Romena, a la quale era stato ad assedio più di tre mesi; e per lo detto conte e per gli Fiorentini tardi fu soccorsa, onde al detto vescovo crebbe podere di più di Vc fedeli di Valdicapresi, ch'erano tutti Guelfi.
<B>CCXXXVI</B>
<I>Come gli usciti di Piagenza furono sconfitti da la gente della Chiesa.</I>
Nel detto anno, dì X di gennaio, messer Manfredi di Landa uscito di Piagenza, che tenea Castello Aquaro, con CC cavalieri e gente a·ppiè venne verso il borgo a San Donnino per levare preda e mercatantia ch'andava a Piagenza: sentendosi in Piagenza, IIIIc cavalieri di quegli del legato cavalcarono contra loro, e tra Firenzuola e San Donnino gli sconfissono; e gran parte ne furono presi e menati in Piagenza.
<B>CCXXXVII</B>
<I>Come i Pisani furono sconfitti in Sardigna da lo 'nfante d'Araona.</I>
Nel detto anno MCCCXXIII, a l'uscita di gennaio, i Pisani feciono una armata di LII tra galee e uscieri, con Vc cavalieri tra Tedeschi e Italiani, e con IIm balestrieri pisani, ond'era capitano messer Manfredi figliuolo del conte Nieri naturale, e si partirono di Pisa a dì XXV di gennaio per andare in Sardigna per soccorrere Villa di Chiesa ch'era assediata da don Anfus figliuolo del re d'Araona, il quale era in su la Sardigna per conquistarla, come adietro è fatta menzione. E per contradio tempo soggiornò la detta armata al porto di Lungone in Elba infino a dì XIII di febbraio, e in Sardigna arivarono a dì XXV di febbraio a capo di terra nel golfo di Caseri, e trovarono che Villa di Chiesa s'era renduta al detto don Anfus a dì VII di febbraio, il quale v'era stato ad assedio VIII mesi, e venuto era con sua oste ad assediare Castello di Castro. I Pisani scesi in terra co·lloro oste andando verso Castello, e la gente di Castello venieno per congiugnersi co·lloro, e dì XXVIIII di febbraio s'afrontarono a battaglia col detto don Anfus, e combattendo aspramente, a la fine la gente de' Pisani furono sconfitti e morto il loro capitano e degli altri, e morirne assai de' Tedeschi a cavallo: la maggiore parte de' Pisani che poco ressono a la battaglia si fuggirono in Castello di Castro. E dopo la detta sconfitta e perdita le galee di don Anfus, ch'erano nel porto di Castello incatenate per contradiare il porto e la scesa a' Pisani, si scatenaro e vennono contra l'armata de' Pisani. Quegli incontanente si misono a la fugga, e lasciarono tutti i loro legni grossi carichi di vittuaglia e d'arnese d'oste, i quali furono presi da le galee di Raonesi. E ciò fatto, il detto don Anfus puose l'assedio per terra e per mare a Castello di Castro. Per questa sconfitta e perdita di Villa di Chiesa fu grande abassamento de' Pisani, che più di CCm fiorini d'oro costava già loro la detta guerra, onde rimasono in male stato e in grande discordia dentro per le sette che v'erano nella città, e con grande sospetto di Castruccio ch'era loro contradio, e allegato col re di Raona.
<B>CCXXXVIII</B>
<I>Come i Fiorentini mandarono in Francia per cavalieri.</I>
Nel detto anno, del mese di gennaio, i Fiorentini mandarono in Francia ambasciadori per Vc cavalieri franceschi, che venissono al soldo del detto Comune.
<B>CCXXXIX</B>
<I>Come messer Ramondo di Cardona fue sconfitto da quegli di Melano, e preso.</I>
Nel detto anno, a dì XXVIIII di febbraio, messer Ramondo di Cardona capitano dell'oste della Chiesa in Lombardia si partì da Moncia con M cavalieri e con gente a piè assai, e venne e prese il castello e 'l ponte di Vavri in sul fiume d'Adda. Galeasso e Marco Visconti incontanente vi cavalcarono da Milano con XIIc di cavalieri tedeschi e popolo assai a piè, e misonsi a l'assedio del detto castello di Vavri. Messer Ramondo non essendo fornito di vittuaglia uscì fuori al campo co la sua gente, e affrontossi a battaglia con quegli di Milano, la quale fu aspra e forte. A la fine per soperchio di gente il detto messer Ramondo co l'oste della Chiesa furono sconfitti, e preso il detto messer Ramondo e più altri conastaboli, intra' quali due di quegli che v'erano per lo Comune di Firenze vi rimasono, e menati presi in Melano; messer Simonino di messer Guidetto della Torre, uomo di gran valore, anegò nel fiume d'Adda, e più altra buona gente vi rimasono presi e morti; e messer Arrigo di Fiandra vi fu preso, ma riscattossi da' Tedeschi che l'aveano, e co·lloro insieme e con gli altri ch'erano scampati de la battaglia ne venne in Moncia. E poi il detto messer Ramondo essendo preso in Milano co le guardie, del mese di novembre scampò e venne a Moncia.
<B>CCXL</B>
<I>Come il vicaro del re Ruberto fu cacciato da' Pistolesi.</I>
Nel detto anno MCCCXXIII, dì III di marzo, tornando a Pistoia per patti il vicaro del re Ruberto, che n'era stato cacciato, con XXX a cavallo de la masnada del conte Novello, per gli Pistolesi fu assalito e sconfitto sotto a Tizzano, e fattagli grande vergogna; e ciò fu opera di messer Filippo Tedici, che volea per tirannia signoreggiare la terra.
<B>CCXLI</B>
<I>Come i Tarteri di Gazzeria corsono Grecia.</I>
Nel detto anno, del mese di febbraio, il Tartero de la Gazzeria e Rusia, ch'aveva nome... con esercito di CCCm d'uomini a cavallo vennono in Grecia infino a Gostantinopoli e più qua più giornate, consumando e guastando ciò che innanzi si trovaro; e dimorarvi infino a l'aprile vegnente con grande consumazione e distruzione de' Greci d'avere e di persone, che più di CLm di persone, tra' morti, e' ne menarono in servaggio. A la fine per difetto di vittuaglia per loro e di loro bestiame furono costretti a dipartirsi, e tornarono in loro paese. Per questo avenimento ancora si mostra il fragello di Dio a coloro che non sono suoi amici, che gli fa perseguitare a' peggiori di loro. E non si maravigli chi leggerà di tanta quantità di gente a cavallo; però che ciascuno Tartero vae a cavallo; e' loro cavagli sono piccoli e sanza ferri e con brettine sanza freno, e la loro pastura è d'erbaggio e di strame sanza biada; e' detti Tartari vivono di pesce e carne mal cotta, con poco pane, e di latte di loro bestiame, che ne' loro eserciti menano grandissima moltitudine; e sempre stanno a campo, e poco in cittadi e in castelli o ville abitano, se non sono gli artefici.
<B>CCXLII</B>
<I>Come papa Giovanni ancora fece processi contro l'eletto di Baviera.</I>
Nel detto anno, a dì XXII del mese di marzo, papa Giovanni XXII apo Vignone fece e piuvicò nuovi processi contra Lodovico dogio di Baviera eletto re de' Romani, per cagione de l'aiuto dato a' Visconti di Milano contra la Chiesa, e scomunicollo se personalmente non venisse a la sua misericordia infra tre mesi apresso, e ordinò perdono di croce, perdonando colpa e pena chi andasse o mandasse per tempo d'uno anno al servigio della Chiesa in Lombardia contra i Visconti signori che teneano Milano.
<B>CCXLIII</B>
<I>Come l'oste di Milano si partì dall'assedio di Moncia co·lloro danno.</I>
Nell'anno MCCCXXIIII, a dì XXVIII del mese di marzo, essendo il signore di Milano Galeasso Visconti a oste a Moncia, e per più giorni data battaglia a la terra, quegli ch'erano per la Chiesa in Moncia, ond'era capitano messer Arrigo di Fiandra, uscirono fuori a combattere le torri e altri ingegni de' nimici, e quegli per forza di battaglia arsono e presono con gran danno di quegli dell'oste. Per la qual cosa tutta l'oste si ritrasse da l'assedio de la terra per ispazio d'uno miglio e più, lasciando il campo con gran danno di loro; poi apresso a due dì si partirono e ritornarono in Milano. E intra l'altre cagioni, però che 'l capitano della detta oste, che v'era per lo eletto di su detto re de' Romani, per lettere del suo signore per non fare contra la Chiesa si partì, e tornossi con sue genti in Alamagna.
<B>CCXLIV</B>
<I>Come i Perugini coll'aiuto de' Toscani ebbono la città di Spuleto.</I>
Nel detto anno, a dì VIIII d'aprile, essendo la città di Spuleto assediata per gli Perugini e per lo duca di Spuleto che v'era per la Chiesa, per II anni e più, e aveavi intorno XIIII battifolli, per tale modo l'aveano afflitta e distretta di vittuaglia, che s'arenderono liberamente a la Chiesa e al Comune di Perugia sanza nullo patto, salve le persone; e i primi per patti che entrarono nella città, acciò che non si corresse né guastasse, furono i cavalieri ch'erano nella detta oste del Comune di Firenze e di quello di Siena, ch'erano CCL, i quali guarentirono la terra; poi v'entrarono i Perugini sanza nullo malificio fare; e riformarono la terra a·lloro signoria in parte guelfa, e sì come terra loro distrettuale, e come loro suditi.
<B>CCXLV</B>
<I>Di certi ordini fatti in Firenze contra gli ornamenti delle donne, e di trarre di bando li sbanditi.</I>
Nel detto anno MCCCXXIIII, del mese d'aprile, albitri furono fatti in Firenze, i quali feciono molti capitoli e forti ordini contra i disordinati ornamenti de le donne di Firenze. Feciono dicreto ch'ogni isbandito potesse uscire di bando pagando certa piccola cosa al Comune, e rimanendo in bando al suo nimico, salvo i rubelli, e quegli che furono condannati per la venuta ch'aveano fatta a le porte l'agosto dinanzi per essere ribanditi. Non fu per gli più lodato il dicreto, però che la città non era in bisogno né iscadimento, ch'e' bisognasse ribandire i malfattori. Ma fecesi per la promessa fatta loro nell'oste a Prato, come dinanzi si fece menzione.
<B>CCXLVI</B>
<I>Come il papa scomunicò il vescovo d'Arezzo.</I>
Nel detto anno, dì XII d'aprile, papa Giovanni apo Vignone in piuvico concestoro scomunicò e privò il vescovo d'Arezzo, ch'era di quegli della casa da Pietramala d'Arezzo, a condizione, se infra due mesi non avesse fatta ristituire la Città di Castello nel primo stato a parte di Chiesa e guelfa, e lasciata la signoria temporale d'Arezzo, e venuto personalmente in sua presenza fra tre mesi; la qual cosa non attenne, e rimase in contumacia della Chiesa.
<B>CCXLVII</B>
<I>Come il conte Novello prese Carmignano.</I>
Nel detto anno, a dì XXI d'aprile, il conte Novello capitano di guerra de' Fiorentini co la sua gente e usciti di Pistoia guelfi subitamente prese Carmignano, salvo la rocca, sanza saputa de' Fiorentini, per vendetta dell'onta che que' che teneano Pistoia feciono al vicario del re e a la sua gente, e non si volea partire se non avesse la rocca. Per questa cagione Castruccio signore di Lucca a richesta dell'abate da Pacciano che tenea Pistoia venne a Serravalle con Vc cavalieri; e faccendo segni di volere rendere Pistoia a Castruccio, i Fiorentini feciono partire il conte da Carmignano per tema e gelosia di Pistoia, e perché il conte avea fatta la 'mpresa sanza loro saputa.
<B>CCXLVIII</B>
<I>Come il re di Francia venne in Proenza per procacciare d'esser l'imperadore.</I>
Nel detto anno e mese d'aprile Carlo re di Francia venne in tolosana con la reina sua moglie, figliuola che fu d'Arrigo imperadore, e col re Giovanni di Boemmia suo cognato, con più baroni e signori; e per gli più si credette che venisse al papa a Vignone per farsi eleggere imperadore. Tornossi adietro in Francia, e tornando, la detta reina morì sopra partorire, ella e la creatura; e per gli più si disse ch'avenne perch'egli l'avea tolta per moglie vivendo la sua prima, onde è fatta menzione.
<B>CCXLIX</B>
<I>Come il re Ruberto si partì di corte di papa e andonne a Napoli.</I>
Nel detto anno e mese il re Ruberto si partì da corte di papa e di Proenza con LVI tra galee e uscieri e CCC cavalieri, e arrivò in Genova dì XXII d'aprile, e in Genova dimorò più giorni; e per gli Genovesi gli fu fatto grande onore, e cresciuta la signoria di Genova per VI anni, oltre al primo termine gli s'erano dati. Poi rassettata la terra a sua signoria, si partì di Genova del mese di maggio, e puose a Porto Pisano, e fece uno cavaliere di casa i Bardi di Firenze, e da' Pisani ebbe grandi presenti e onore, e poi si tornò a Napoli co la moglie del duca suo figliuolo, la quale era figliuola di messer Carlo di Valos di Francia; a grande onore la sposò a Napoli.
<B>CCL</B>
<I>Come gente di Milano furono sconfitti da messer Arrigo di Fiandra.</I>
Nel detto anno, a dì XXVIII d'aprile, essendo partito di Milano messer Vercellino Visconti con CCC cavalieri e Vc pedoni, e presa la villa di Decimo, e quella intendea d'aforzare, acciò che vittuaglia non entrasse in Moncia, messere Arrigo di Fiandra si partì di Moncia con Vc cavalieri, e subitamente sorprese la detta gente di Milano e sconfisse, e pochi ne camparono, che non fossono morti o presi.
<B>CCLI</B>
<I>Come i Pisani furono sconfitti un'altra volta in Sardigna.</I>
Nel detto anno, a l'entrante di maggio, i Pisani ch'erano in Castello di Castro, con tutta loro cavalieria e Tedeschi, uscirono un'altra volta fuori a battaglia con don Anfus figliuolo de·re d'Araona, i quali furono sconfitti, e tra morti e presi più di IIIc cavalieri; il rimanente si fuggirono in Castello; e pochi dì apresso il rimanente delle galee e tutto il navile de' Pisani si partirono di Sardigna e tornarono a Pisa per tema di XXV galee sottili che 'l re di Raona avea mandate in Sardigna in aiuto a don Anfus suo figliuolo, onde i Pisani rimasono in Sardigna disperati d'ogni salute. Nel detto anno, a dì VIIII di maggio, scurò la luna in gran parte in sulla sera nel segno dello Scarpione.
<B>CCLII</B>
<I>Come gente di Castruccio ricevettono danno a Castello Franco.</I>
Nel detto anno, a dì XXII di maggio, vegnendo la gente di Castruccio signore di Lucca a Castello Franco in quantità di CL a cavallo, i soldati de' Fiorentini intorno di CXX a cavallo uscirono di Castello Franco, e vigorosamente s'affrontarono insieme; e durò la battaglia per più di tre ore, che poco avea vantaggio dall'uno all'altro. A la fine sopravenne da Fucecchio in soccorso de' soldati di Firenze de la gente del conte Novello intorno di C cavalieri. Per la qual cosa i soldati di Lucca si misono in rotta, e rimasonne morti X a cavallo. De la gente del conte trascorsono tra' nemici Porcelletto d'Arli e uno suo compagno, e tanto andarono innanzi, che furono presi da' nemici.
<B>CCLIII</B>
<I>Come i Fiorentini mandarono aiuto a' Perugini sopra la Città di Castello.</I>
Nel detto anno, a dì XXVIII di maggio, i Fiorentini mandarono a Perugia per fare guerra a la Città di Castello la parte loro de la taglia, che furono CCCXL cavalieri soldati, onde fu capitano messer Amerigo de' Donati; e simigliante feciono i Sanesi, e' Bolognesi, e l'altre città che tennono a la taglia, che furono M cavalieri.
<B>CCLIV</B>
<I>Come il conte Novello si tornò a Napoli.</I>
Nel detto anno, in calen di giugno, il conte Novello, ch'era al soldo de' Fiorentini con CC cavalieri, si tornò con sua gente a Napoli, e poco onore e meno ventura di guerra ebbe in uno anno che dimorò al servigio de' Fiorentini e capitano di guerra.
<B>CCLV</B>
<I>Come il duca d'Ostericchi e quello di Chiarentana passarono in Lombardia contra messere Cane.</I>
Nel detto anno, a l'entrante di giugno, il duca di Chiarentana e il duca Otto d'Ostericchi con molti altri baroni, e con più di VIm cavalieri con più di XIIm cavalli e con arcieri ungari vennono ne la Marca di Trevigi e a Padova per fare guerra a messer Cane della Scala signore di Verona, per cagione che tenea Vincenza e molte castella de' Padovani; e' Padovani s'erano dati al dogio di Chiarentana. Ed erano tanta gente e sì disordinata, che distruggeano amici e nimici, e per gl'Italiani erano chiamati barbanicchi. Messer Cane prima con grande paura del detto esercito e poi con gran senno si ritenne a le fortezze, e tenne trattati co' detti Tedeschi menandoli più tempo in isperanza di fare i loro comandamenti, per modo ch'a·lloro fallì vittuaglia, e cominciò mortalità in loro oste; per la qual cosa feciono triegua con messer Cane, e per moneta che diede a' consiglieri de' detti signori, infino a la seguente Pasqua di Risoresso, e tornarsi in loro paese con peggioramento dello stato de' Padovani e' Trevigiani, e assaltamento del detto messer Cane.
<B>CCLVI</B>
<I>De la grandezza e edificazione de la città di Firenze a le nuove cerchia e mura.</I>
Nel detto anno MCCCXXIIII si stanziarono per lo Comune di Firenze e si cominciarono i barbacani a le mura nuove de la città di Firenze, a fargli a costa a le dette mura e al di fuori de' fossi; e simigliante s'ordinò che in ogni CC braccia di muro avesse e si facesse una torre alta XL braccia e larga braccia XIIII per fortezza e bellezza della detta città. E acciò che sempre sia memoria de la grandezza de la detta città, e ad altre genti che non fossono stati di Firenze che vedessono questa cronica, sì faremo menzione ordinatamente dell'edificazione de le dette mura, e la misura come furono diligentemente misurate ad istanzia di noi autore, essendo per lo Comune uficiale sopra le mura. Prima in su la fronte di levante di costa al fiume d'Arno da la parte di settantrione, ove sono le V sestora de la città, si ha una torre alta LX braccia fondata sopra una pila di ponte ordinato a ivi edificare, il quale si dee chiamare il ponte Reale. Di presso a quella torre a LXXXX braccia si ha una porta con una torre alta LX braccia, che si chiama porta Reale, e chi la chiama porta di Santo Francesco, perch'è dietro a la chiesa de' frati minori. Da la detta porta Reale a CCCCXLII braccia, una torre in mezzo, si ha poi un'altra grossa torre alta simigliantemente LX braccia e larga braccia XXII con una porta che si chiama porta Guelfa. Da la detta porta conseguendo la detta frontiera e linea di muro a CCCLXXXIIII braccia, un'altra torre in mezzo, e poi si ha una torre di simile altezza con una porta chiamata de la Croce overo di Santo Ambruogio, porta mastra, onde si vae in Casentino. Da la detta porta conseguendo la detta frontiera di levante, si hae VIcXXX braccia, infra le quali hae tre torri infino a una grossa torre con cinque faccie alta LX braccia, sanza porta; ivi fa il muro gombito, overo angolo, e si mostra verso tramontana, e da quella torre chiamata la Guardia del Massaio a la porta detta Fiesolana, e chi la chiama da Pinti, che si guarda in verso Fiesole, con una simigliante torre alta LX braccia, si ha di misura braccia VIIIIcXXV, e cinque torri. E da la detta porta e torre Fiesolana a un'altra torre e porta detta per nome di Servi Sante Marie, per uno munistero de' frati così chiamati, si ha braccia VIc, con una torre in mezzo. Da la detta porta e torre de' Servi conseguendo la linea del muro infino a la mastra porta e torre dal ponte a San Gallo, da la quale esce la strada da Bologna, e di Lombardia, e quella di Romagna, si ha braccia VIIIcXLII e IIII torri in mezzo. E da la detta porta fa gombito, overo angolo, a le dette mura, mostrandosi al segno di maestro; e da la detta porta di San Gallo a quella si dice di Faenza, per uno munistero di donne ch'è di fuori che si chiamano di Faenza, si ha braccia MVIIIcXLVIII, e nove torri; e ivi fa gombito il muro e discende al ponente. E da la detta porta e torre di Faenza infino a quella che vae in Polverosa si ha braccia CCCXX, e una torre in mezzo. E da la detta porta di Polverosa infino a la porta mastra del Prato d'Ognesanti, ond'esce la strada che vae a Prato e a Pistoia e a Lucca, si ha braccia MLXX, e V torri in mezzo. E da la detta porta e torre del Prato infino a una torre ch'è in su la gora d'Arno ha braccia CCLXXV, e una torre in mezzo. E de la detta torre infino a la riva d'Arno, la quale gira l'isola de la gora al fiume, che si chiama la Sardigna, ordinata di chiudere di mura, ha braccia da CCCLXX. E così troviamo che 'l detto spazio de le cinque sestora de la città di Firenze, a le nuove cerchia di mura, sono co la testa di Sardigna VIImVIIc braccia, sanza la larghezza dell'Arno ch'è da braccia Vc da la Sardigna a Verzaia: e havi VIIII porte con torri di LX braccia alte, molto magne, e ciascuna con antiporto, che le IIII sono mastre e le V postierle; e havi in tutto torri XLV con quelle de le porte, murata la frontiera di Sardigna. E da la torre de la Sardigna su per la riva d'Arno infino a la torre Reale, dove cominciammo di verso levante, si ha braccia IIIImVc, ch'è miglio uno e mezzo. Avemo diterminata la città di qua dal fiume d'Arno; diremo apresso del sesto d'Oltrarno, che per sé è di grandezza e potenza come un'altra buona cittade, e seguiremo il primo trattato. E trovammo che da la torre de la Sardigna, ch'è in su la riva d'Arno da la parte di ponente, infino da l'altra riva d'Arno da la contrada detta Verzaia, l'ampiezza del fiume d'Arno si è braccia CCCL. Bene nonn-è la detta torre de la Sardigna apunto a lo 'ncontro a la torre de le mura d'Oltrarno, ch'è fondata in sul fiume d'Arno, però che la lunghezza del sesto d'Oltrarno, il qual è murato, nonn-è tanto quanto quello de le cinque sestora, anzi è più adietro da... braccia; ma la ritondità de la città e circuito pigliamo solamente a la latitudine del fiume d'Arno, come avemo detto di sopra, braccia CCCL.
<B>CCLVII</B>
<I>Ancora de l'edificazione delle mura d'Oltrarno.</I>
Nel detto anno si cominciò il muro in su la riva d'Arno da la coscia del ponte a la Carraia Oltrarno andando insino a Verzaia, ove si fece una torre fondata in sul fiume (la detta torre fece rovinare poi il fiume d'Arno per uno diluvio) ove fa capo il muro che chiude il sesto d'Oltrarno; e da quella torre a la porta da Verzaia, overo detta di San Friano, la quale strada vae a Pisa, si ha braccia di muro CCL, e una torre in mezzo. E da la detta porta andando al diritto verso mezzogiorno infino a una torre a V facce, ove fa canto, overo angulo, il detto muro, si ha braccia VIc, torri V, compitando la detta porta e la detta torre coll'altre. E da la detta torre si volge il muro verso il segno di scilocco assai bistorto e male ordinato, e con più gomiti; e ciò si prese per fretta, e fondossi in su' fossi sanza adirizzarsi, e havi di misura infino a la porta Romana, overo detta di San Piero Gattolino, braccia MCCL, e torri VIIII. E per me' la via dinanzi a la chiesa di Camaldoli si ha una postierla con torre; e quella porta Romana è molto magna, e alta braccia..., ed è in su la strada che vae a Siena e a Roma. E da la detta porta andando al diritto, quasi verso levante verso la villa di Bogole, salendo al poggio infino a una torre a cinque facce, che fa canto a le mura, hae braccia MVc, e torri X. E da la detta torre andando le mura su per Bogole infino a la vecchia torre e porta di San Giorgio al poggio che vae in Arcetri si ha braccia CCCC, e torri... Poi da la detta porta di San Giorgio seguono le mura vecchie fatte al tempo de' Ghibellini, scendendo verso levante a la postierla che vae a Samminiato, si ha braccia M, e torri... E poi seguono le mura di sopra del borgo di San Niccolò infino a lo 'ncontro de la torre Reale di qua da l'Arno, ove dee essere una ricca porta, le quali mura sono di spazio di braccia da VIIcL, con... torri, quando fieno compiute, da la porta di Samminiato a quella di fuori dal borgo di Sa·Niccolò; sì che la parte d'Oltrarno si ha tre porte mastre e tre postierle e... torri; e poi la larghezza del fiume d'Arno dal detto luogo a lo 'ncontro de la torre fondata sopra la pila del ponte Reale di qua da l'Arno si ha braccia CCCXL: e in questo spazio è stanziato uno ponte. Sicché raccogliendo le dette misure, sono in somma braccia... che sono da V miglia. E tanto gira la cittade dentro, cioè le mura sanza i fossi e le vie di fuori; che braccia XXXV sono larghi i fossi di qua da Arno, e XXX que' di là da Arno, e la via di fuori braccia XVI, e altrettanto quella dentro, e le mura di qua da l'Arno grosse braccia III e mezzo, sanza i barbacani, e alte braccia XX co' merli, e quelle d'Oltrarno furono grosse pur braccia III, sanza i barbacani; ma agiunsevi per amenda gli arconcelli al corridoio di sopra. E così gira la nostra città di Firenze migliaia XIIII, e CCL braccia; che le IIIm braccia a la nostra misura fanno uno miglio. Puossi ragionare giri cinque miglia al di fuori; ma rimase dentro assai del voto di casamenti con più orti e giardini. La larghezza e croce de la detta città facemmo misurare, e trovammo che da la porta a la Croce, overo di Santo Ambruogio, ch'è da levante, infino a la porta del Prato d'Ognesanti in sul Mugnone, ch'è dal ponente, andando per la via diritta onde si corre il palio, hae braccia IIIImCCCL; e da la porta di San Gallo in sul Mugnone, ch'è di verso tramontana, infino a la porta Romana di San Piero Gattolino Oltrarno, ch'è dal mezzogiorno, si ha braccia Vm; e da la sopradetta porta a la Croce a Gorgo infino a mezzo Mercato Vecchio, si ha da braccia MMCC; e dal detto mercato infino a la porta del Prato d'Ognesanti si ha quasi altrettanto; e da la porta di San Gallo infino in Mercato Vecchio hae braccia MMCC, e da la porta Romana di San Piero Gattolino in Mercato Vecchio si ha da braccia MMVIIIc; sicché mostra che 'l punto della croce e del centro del giro della cittade si ha in su la Calimala, quasi ov'è oggi la casa de' consoli dell'arte de la lana, ch'è tra Calimala e la piazza e loggia d'Orto Sammichele. La detta città di Firenze hae sopra il fiume d'Arno IIIl ponti di pietra: quello si chiama Rubaconte, e il ponte Vecchio, e quello di Santa Trinita, e quello da la Carraia, sanza quello ordinato di fare a la fronte di levante detto Reale. E nella detta città si hae da C chiese, tra cattedrali, e badie, e monisteri, e altre cappelle, dentro a le dette mura; e a l'uscita quasi d'ogni porta n'hae una chiesa, o monistero, o spedale. Lasceremo omai del sito de la cittade di Firenze, ch'assai n'avemo detto, e torneremo a nostra materia.
<B>CCLVIII</B>
<I>Come gente de la Chiesa furono sconfitti da quegli di Milano.</I>
Nel detto anno MCCCXXIIII, a dì VIII di giugno, partendosi de la terra di Moncia in Lombardia messer Passerino de la Torre uscito di Milano, con VIc cavalieri di quegli della Chiesa, per andare a..., da messer Marco Visconti colla gente di Milano fue assalito e sconfitto, e rimasonne ben CC a cavallo, tra morti e presi, di quegli de la Chiesa.
<B>CCLIX</B>
<I>Come i Pisani feciono pace co lo 'nfante d'Araona in Sardigna.</I>
Nel detto anno, a dì XVIII di giugno, essendo la gente de' Pisani strettamente assediati in Castello di Castro in Sardigna da don Anfus figliuolo del re d'Araona, come adietro fa menzione, non possendo più durare, avute due sconfitte, e per difetto di vittuaglia, s'arrenderono, e pace feciono per lo Comune di Pisa col detto don Anfus in questo modo: che riconoscieno il detto re d'Araona per signore e re dell'isola di Sardigna, e promisogli che ciò che' Pisani singulari e il Comune avessono posessione in Sardigna, di tenerle da·llui e fargline omaggio, e Castello di Castro riconoscere da·llui, dandogline l'anno libbre MM di genovini d'omaggio, rimanendo la terra a' Pisani; ma ciò attenne loro poco apresso, ch'al tutto volle la signoria di Castello. E essendo a l'assedio il detto don Anfus di Castello di Castro, avea fatta una terra murata e acasata in su la riva del porto di Calleri a piè di Castello di Castro, e popolata di Raonesi e Catalani, a la quale puose nome Aragonetta, e chi Bonaria. E per tanto lasciò loro la terra di Castello però che nulla persona vi poteva entrare sanza la volontà di quegli de la terra di Raonetta di sul porto. E altri dissoro che come i Pisani erano a misagio dentro a castello, così e più erano di fuori i Catalani per pestilenzia d'infermità e di mortalità, e però ne prese ogni patto che ne poté avere. Ma con tutto il danno che 'l detto don Anfus vi sostenesse di perdita di sua gente, che per corruzzione d'aria vi morirono XVm e più Catalani, egli per forza d'arme e con grande senno e provedenza vinse e conquise la detta isola di Sardigna sopra i Pisani in uno anno; onde tutti gl'Italiani si maravigliarono come ciò potea essere. Partissi di Sardigna il detto don Anfus a dì XVI di luglio con LVI tra galee e uscieri, e tornossi in Catalogna, lasciando fornite le fortezze dell'isola, per cagione che...
<B>CCLX</B>
<I>Come il legato ebbe Castello Aquaro.</I>
Nel detto anno, a dì VIII di luglio, Castello Aquaro del contado di Piagenza, forte e nobile castello, s'arrendé al legato cardinale e al Comune di Piagenza per difetto di vittuaglia, e non avea soccorso. Ebbene messer Manfredi di Landa, il quale il tenea, Vm fiorini d'oro dal legato; eravi stata l'oste de la Chiesa e del Comune di Piagenza più tempo all'assedio.
<B>CCLXI</B>
<I>Come messer Filippo Tedici di Pistoia tolse la terra a l'abate da Pacciano suo zio.</I>
Nel detto anno, a dì XXIII di luglio, messer Filippo de' Tedici di Pistoia levò a romore la città di Pistoia, e tolse la signoria a l'abate da Pacciano suo zio, e fecesi chiamare signore per uno anno. I Fiorentini mandandovi i loro cavalieri, non gli lasciò entrare dentro a la terra, ma incontanente riformata la terra a sua guisa, sì rifermò triegua con Castruccio signore di Lucca, dandogli l'anno IIIm fiorini d'oro di trebuto; e questa mutazione della signoria di Pistoia per molti si disse che fu di tacito consenso dell'abate da Pacciano, perché messer Filippo potesse meglio fornire i suoi conceputi tradimenti, come innanzi si farà menzione.
<B>CCLXII</B>
<I>Come il re di Francia tolse per moglie la cugina.</I>
Nel detto anno MCCCXXIIII, a dì V di luglio, Carlo il giovane re di Francia sposò e tolse per moglie la figliuola che fu di messer Luis di Francia, fratello di padre, ma non di madre, che fu del re Filippo suo padre, e sua cugina carnale, per dispensazione di papa Giovanni; la qual cosa per tutti i Cristiani fu tenuta sconcia e laida cosa, e ancora vivendo la sua prima moglie.
<B>CCLXIII</B>
<I>Come si cominciò guerra in Guascogna tra 'l re di Francia e quello d'Inghilterra.</I>
Nel detto tempo il detto Carlo re di Francia cominciò guerra in Guascogna contra il re d'Inghilterra, per cagione che la gente del re di Francia avendo cominciata una bastita, overo una nuova terra, in su i confini de la Guascogna infra le terre de la giuridizione del re d'Inghilterra, quegli del paese col balio del re d'Inghilterra presono la detta bastita, e disfeciono e guastarono, e 'l balio e gli sergenti che v'erano per lo re di Francia impiccarono in sul detto luogo; per la quale cosa il re di Francia isdegnato vi mandò messer Carlo di Valos suo zio con più di IIIm cavalieri franceschi a fare guerra, e per bisogno di danari peggiorò la sua buona moneta d'argento XIIII e più per C, e fece medaglie e bianche d'argento a guisa del re Filippo suo padre, e fece prendere e ricomperare tutti gl'Italiani che prestavano in suo reame, e fargli finare per moneta.
<B>CCLXIV</B>
<I>Come papa Giovanni scomunicò Lodovico di Baviera eletto re de' Romani.</I>
Nel detto anno, a dì XIII di luglio, papa Giovanni apo Vignone in Proenza diede ultima sentenzia contra Lodovico dogio di Baviera eletto re de' Romani, dispognendolo d'ogni benificio di lezione d'imperio, sì come ribello di santa Chiesa, e fautore e sostenitore degli eretici di Milano in Lombardia, e di mastro Gian di Gandone, e di mastro Marsilio di Padova, grandi maestri in natura e astrolagi, ma di certo eretici in più casi; e comandò che innanzi calen di ottobre prossimo fosse venuto il detto Lodovico personalmente dinanzi da·llui a misericordia, e a·ffare penitenzia del misfatto, o dal termine innanzi procederà contra lui e' suoi beni, sì come scismatico e eretico.
<B>CCLXV</B>
<I>Come i Malatesti da Rimine furono sconfitti a Orbino.</I>
Nel detto anno, a dì XI d'agosto, essendo i signori Malatesti da Rimine posti ad oste ad Orbino, e fatti loro VI cavalieri a grande onore, e con loro isforzo e del Comune da Rimine posti ad oste ad Orbino, e pognendo una fortezza e battifolle in su uno poggetto chiamato Cavallino presso a Orbino, i Ghibellini de la Marca co lo sforzo del vescovo d'Arezzo e di que' de la Città di Castello subitamente vi cavalcarono con più di VIIIc cavalieri e popolo assai, e per forza presono la detta fortezza ancora non compiuta, e non si prendeano guardia, e sconfissongli e misono in rotta; e rimasonne di quegli da Rimine tra morti e presi più di VIIc, i più pedoni.
<B>CCLXVI</B>
<I>Come i Ghibellini di Romagna vollono pigliare Cesena.</I>
Nel detto anno, a dì XVI d'agosto, i Ghibellini di Romagna, coll'aiuto di parte de la detta gente che levarono il battifolle ad Orbino, per tradimento entrarono in Cesena. A la fine, combattendo, da quegli de la terra ne furono per forza cacciati con grande danno di quegli che v'erano entrati.
<B>CCLXVII</B>
<I>Come il re di Francia si credette essere eletto imperadore.</I>
Nel detto anno MCCCXXIIII, essendo il re Carlo re di Francia stato in grande speranza e trattato col papa e con più baroni de la Magna d'essere eletto re de' Romani per le dissensioni de' due eletti re d'Alamagna, e co la detta speranza parlamento avea ordinato a Bari sovr'Alba in Borgogna a le confini de lo 'mperio, ove dovea essere il re di Buemme suo cognato, e gran parte de' elettori dello 'mperio, e più altri signori e prelati d'Alamagna, al detto Bari andò con molta di sua baronia, e al giorno nomato del detto parlamento del mese di luglio, al quale parlamento nullo de' detti baroni né prelati vi venne, se non il dogio Lupoldro d'Osteric. Per la qual cosa il re si tornò in Francia molto aontato, e con poco onore de la detta impresa, veggendo la difalta che gli aveano fatta i baroni de la Magna.
<B>CCLXVIII</B>
<I>Come messer Carlo di Valos acquistò parte di Guascogna.</I>
Nel detto anno, del mese d'agosto e di settembre, messer Carlo di Valos, ch'era ito coll'oste del re di Francia in Guascogna, più terre de la Guascogna di sotto ebbe a' suoi comandamenti, e la città di Regola ebbe a patti, e fece triegua co la gente del re d'Inghilterra sotto trattato d'accordo, e tornossi in Francia del mese d'ottobre.
<B>CCLXIX</B>
<I>Come i Pistolesi feciono triegua con Castruccio contra volere de' Fiorentini.</I>
Nel detto anno, a dì XXXI d'agosto, Castruccio signore di Lucca venne con suo isforzo di cavalieri e pedoni nel piano di Pistoia presso a la città, e poi si puose a campo a piè de le montagne, e cominciò a fare riporre il castello di Brandelli, e puosegli nome Bello Isguardo, perché del luogo si vede non solamente Pistoia, ma Firenze e tutto il piano di Firenze. I Pistolesi mandarono per soccorso a' Fiorentini, i quali vi cavalcarono, popolo e cavalieri; e essendo a Prato, mandando innanzi di loro gente per entrare in Pistoia. Messer Filippo, che n'era signore, non si fidò che nullo Fiorentino entrasse nella terra, ma voleva che andassono di fuori contro a Castruccio. Per la qual cosa i Fiorentini isdegnati si tornarono in Firenze sanza andare più innanzi; e' Pistolesi rifermarono la triegua con Castruccio a la sua volontà, e con loro vergogna e crescimento di tributo. Per lo detto isdegno i Fiorentini cercarono uno trattato co l'abate da Pacciano e con uno loro conastabole guascone ch'era in Pistoia a la guardia della terra, e dovea dare a' Fiorentini una delle porte; ma tutto ciò era inganno e tradimento. I Fiorentini, a dì XXII di settembre, di notte vi feciono cavalcare di loro soldati, e come furono a le porte di Pistoia, il detto conastabole avendo rivelato il trattato al signore di Pistoia, la terra fue in arme, e fu preso il detto abate dal nipote; e ambasciadori che v'avea del Comune di Firenze, e tutti i Fiorentini che dentro v'erano, furono a gran periglio. Riposossi il romore, e que' ch'aveano cavalcato si tornarono a Firenze molto scornati.
<B>CCLXX</B>
<I>Come il signore di Milano riprese Moncia.</I>
Nel detto anno e mese di settembre Galeasso Visconti signore di Milano con sua gente andò ad oste sopra la terra di Moncia, la quale si tenea per la Chiesa, ed eravi dentro per capitano messer Vergiù di Landa con CCC cavalieri e M pedoni, strignendo la detta terra per modo che sanza grande scorta e periglio non si potea fornire. A la fine per difalta di vivanda s'arendéo a quegli di Milano a patti, se non avessono soccorso dal legato cardinale infra X dì. Il quale cardinale non avendo forza di fargli soccorrere, si renderono, salve le persone e l'avere: a dì X di dicembre nel detto anno, con gran vergogna della Chiesa e del detto legato, lasciarono Moncia a que' di Milano.
<B>CCLXXI</B>
<I>Come si mutò stato di reggimento in Firenze.</I>
Nel detto anno MCCCXXIIII, del mese di settembre, certi caporali grandi e popolani che reggeano la città di Firenze (parea che tra·lloro medesimi avea certi di quegli che nel reggimento volessono più che parte, ciò erano detti Serraglini, ch'erano i Bordoni, e altri loro seguaci) vennono in divisione; e la maggiore parte di loro che si teneano migliori popolani, acostandosi con quegli che non aveano retto per adietro né essuti di loro setta, che n'avea alquanti tra priori; e i loro XII consiglieri, che allora erano a la signoria della città, copertamente e con ordine fatta feciono pendere balìa a' detti priori e' dodici consiglieri, a correggere e a riformare a·lloro volontà la lezione de' priorati fatti l'anno dinanzi, e quelle lezioni trovando assai bene fatte, no·lle mutarono, ma arrosono gente nuova per VI priorati, e mischiarsi insieme con gli altri, e mettendovi dell'altra setta che non avea retto, sotto colore di raccomunare la città, e dare parte a' buoni uomini. E conseguendo il detto processo, il seguente priorato, del mese di novembre seguente, feciono lezione per XLII mesi di tutti gli ufici che doveano venire, sì de' gonfalonieri de le compagnie, e simigliante de' dodici consiglieri segreti de' priori, e de' condottieri de le masnade di soldati, a trargli a le lezioni, come venieno, di sei in sei mesi, e mischiarono assai presso ch'ebbene di ciascuna setta, e misorgli in bossoli. E simigliante corressono le lezioni de le capitudini dell'arti, pognamo non facessono di loro più ch'una elezione. E così si rinovellò nuovo stato in Firenze, sanza niuna novità o pericolo di città, mischiatamente della setta ch'avea retta la città dal tempo del conte a Battifolle infino allora, e di quella gente che non avea retto, rimagnendo quegli ch'aveano retto in assai buona parte de la signoria. Avemo di questa mutazione fatta menzione per assempro a quegli che sono a venire, e perché nullo viva in isperanza che le cose comuni e signorie, spezialmente in Firenze, abbiano fermo stato, ma sempre siamo in mutazioni; ché faccendo ragione, la detta setta che si criò al tempo del detto conte a Battifolle, non compié di durare VIII anni interi, vincendo ancora de le loro opere assai il meglio.
<B>CCLXXII</B>
<I>Come il Comune di Firenze acquistòe il castello di Lanciolina.</I>
Nel detto anno, in calen d'ottobre, s'arendé al Comune di Firenze il castello di Lanciolina in Valdarno per cagione che guerreggiando il contado di Valdarno Aghinolfo figliuolo di Bettino Grosso degli Ubertini, con sua masnada che dimorava in Lanciolina fue sconfitto e preso da quegli di Castello Franco e di loro; e per riavere il detto Aghinolfo renderono il detto castello, e donarne ogni ragione al Comune di Firenze, il quale avea avuto per retaggio de la madre dal conte Allessandro da Romena suo zio.
<B>CCLXXIII</B>
<I>Come in Mugello si fece una terra.</I>
Nel detto anno e mese d'ottobre si cominciò per lo Comune di Firenze a fare una terra nuova in Mugello presso ove fu Ampinana e le terre che s'erano racquistate per lo detto Comune da' Conti, e puosesi nome Vico.
<B>CCLXXIV</B>
<I>Dell'appello che l'eletto di Baviera fece contro al papa.</I>
Nel detto anno, del mese d'ottobre, Lodovico di Baviera eletto re de' Romani, per cagione del processo e scomunica e privazione che papa Giovanni avea fatta contro a·llui, sì fece in Alamagna uno grande parlamento, nel quale si discusò del processo che 'l papa avea fatto contra lui, come gli facea torto, e appellò a le dette sentenzie al concilio generale a Roma, opponendo contra il detto papa XXXVI capitoli, come non era degno papa; e 'l detto appello mandò del mese di novembre a la corte a Vignone; onde il detto papa e tutta la Chiesa ebbe grande turbazione.
<B>CCLXXV</B>
<I>Come i marchesi da Esti tolsono Argenta a la Chiesa.</I>
Nel detto anno, a dì XXXI d'ottobre, i marchesi da Esti, che teneano Ferrara, tolsono per tradimento la terra d'Argenta in Romagna a la Chiesa di Roma, sanza fare danno o micidio niuno ne la terra.
<B>CCLXXVI</B>
<I>De la venuta de' cavalieri franceschi in Firenze.</I>
Nel detto anno MCCCXXIIII, a dì XX di novembre, giunsono in Firenze Vc cavalieri franceschi, i quali il Comune di Firenze avea fatti soldare in Francia, e furono molto bella gente e nobili, tutti gentili uomini, intra' quali avea più di LX cavalieri di corredo. I capitani e conostaboli furono il siri di Basentino, il siri di Ciavigni, il siri d'Ipria, il siri di Giaconte, messer Miles d'Alzurro, messer Guiglielmo di Noren messer Gian di Curri, messer Uttaso d'Ombrieres, Raolino Lanieri, messer Prezzivalle di..., Rinaldo di Fontana, Raolino di Rocciaforte, e vennono per Lombardia armati e con bandiere levate. E messer Passerino signore di Mantova, che tenea la città di Modona per parte d'imperio, a richesta de' Fiorentini e Bolognesi largì il passo per lo contado di Modona presso a la città, pagando certa gabella per cavallo; con tutto che per forza d'arme fossono passati, sì erano ridottati.
<B>CCLXXVII</B>
<I>Come il legato cardinale credette avere la città di Lodi, e furono sconfitti.</I>
Nel detto anno, a dì VIII di dicembre, sentendo il legato cardinale che la terra di Moncia non si potea tenere, cercò trattato con certi de la città di Lodi che gli dovessono tradire la terra, e doveanne avere VIIIm fiorini d'oro: fece cavalcare da Piagenza cavalieri e gente a piè assai, e fu per gli traditori rotto del muro de la terra, e entrarono dentro parte de la gente della Chiesa. Sentiti da quegli de la città, per forza gli ruppono e sconfissono con grande danno di quegli che v'erano entrati, e vergogna de la Chiesa.
<B>CCLXXVIII</B>
<I>Come il papa scomunicò chi facesse contrafare i fiorini d'oro.</I>
Nel detto anno e mese di dicembre papa Giovanni fece grandi processi e scomunica contra chiunque facesse battere o battesse fiorini d'oro contrafatti e falsi a la forma di que' di Firenze, però che per molti signori erano fatti falsificare, com'era il marchese di Monferrato e Spinoli di Genova. Ma il papa per sue scomuniche corresse altrui, ma in questa parte non corresse sé medesimo, ché fece fare i fiorini a la lega e conio di quegli di Firenze, e non v'avea altra differenza, se non che dal lato de la 'mpronta di santo Giovanni diceano le lettere: "papa Giovanni", e per intrasegna, di costa al santo Giovanni una mitra papale, e dal lato del giglio diceano le lettere: "sancto Petro et Pauli".
<B>CCLXXIX</B>
<I>Come Carmignano si rendé al Comune di Firenze.</I>
Nel detto anno, a dì XIII di gennaio, i terrazzani del castello di Carmignano, conoscendo che messer Filippo Tedici che tenea Pistoia tirannescamente e a progiudicio di parte guelfa, si renderono di loro buona volontade a perpetuo al Comune di Firenze il castello e la rocca e la corte, sì come distrettuali e contadini di Firenze: e furono fatti franchi VII anni, e che a·lloro guisa chiamassono loro podestà di Firenze che fosse popolano ne' detti VII anni.
<B>CCLXXX</B>
<I>Come il re Ruberto volle essere morto i·Napoli.</I>
Nel detto anno, del mese di gennaio, sentendo il re Federigo che tenea Cicilia che 'l re Ruberto e 'l duca suo figliuolo faceano a Napoli grande apparecchiamento per fare armata per andare in Cicilia, ordinò con assessini catalani e toscani che in Napoli dovessono uccidere il re Ruberto e 'l duca, e mettere fuoco a la Terzana ov'era il navilio; il quale tradimento scoperto, gli assessini presi e giudicati ad aspra morte.
<B>CCLXXXI</B>
<I>Come il prenze de la Morea passò in Romania.</I>
Nel detto anno MCCCXXIIII, del mese di gennaio, messer Gianni fratello del re Ruberto, prenze de la Morea, si partì da Brandizio, con XXV galee armate e altri legni per andare in Romania a racquistare il principato de la Morea; e arrivando a l'isola di Cefalonia e del Giacinto, trovò che 'l conte di Cefalonia era stato morto per uno suo fratello, e avea rubellata l'isola. Il prenze per forza d'arme combatté co' ribelli, e sconfissegli e preseli, e le dette isole recò a sua signoria, disertando i detti ribelli; e poi passò a Chiarenza, e fuvi ricevuto come signore a grande onore.
<B>CCLXXXII</B>
<I>Come quegli della terra di Bruggia si rubellarono al conte di Fiandra.</I>
Nel detto anno, del mese di gennaio, quegli de la terra di Bruggia in Fiandra con quegli del Franco d'intorno, per cagione de le sette ch'avea il popolo minuto co' grandi borgesi, si rubellarono al conte Luis di Fiandra; per la qual cosa tutti i mercatanti si partirono di Bruggia, e que' di Bruggia faccendo guerra assediarono ne la terra d'Andiborgo la gente del conte, e per buono tempo molestando il paese. A la fine quegli di Guanto e d'Ipro feciono accordo tra quegli di Bruggia e 'l conte per moneta, a grande vergogna del conte e de' nobili.
<B>CCLXXXIII</B>
<I>Come in Firenze ebbe mutazione per cagione de le sette.</I>
Nel detto anno, del mese di gennaio, essendo per setta accusato Bernardo Bordoni e altri suoi compagni a l'esecutore della giustizia ch'avessono fatta baratteria a l'oficio della condotta di soldati, i suoi compagni comparirono e scusarsi; ma il detto Bernardo essendo a Carmignano per ambasciadore del Comune, il detto esecutore volendolo condannare, e parte dell'uficio de' priori il contastavano che l'aveano mandato in pruova a Carmignano, e Chele Bordoni suo fratello col favore e famiglia de' priori comparì a la condannagione, protestando a l'esecutore; zuffa e romore si cominciò tra la famiglia de' priori e quella de l'esecutore, onde tutta la città quasi romì. A la fine l'esecutore il condannò in libbre MM, e che non avesse mai uficio; e forse non sanza giusta cagione. E prese il detto Chele e più altri loro seguaci, e condannogli grossamente, e mandogli a' confini a torto, sanza altra ragione, con tutto ne fossono degni; non per questa cagione, ma per la loro soperchia arroganza, ch'erano i più prosuntuosi popolani di Firenze, e aveano guidata la terra assai tempo. Ma per abbattere loro e la loro setta, ch'erano chiamati Serraglini, fu loro fatto più che per giustizia. E per cagione di ciò uno che allora era de' priori loro amico e vicino, che gli aveva favorati, uscito del priorato, fu condannato da l'esecutore per contumacia sotto inquisizione di baratteria in libbre MVc a torto e sanza ragione, in abassamento e disinore dell'uficio del priorato. E tutto fu per cagione de le sette, però che 'l detto esecutore favoreggiava coloro ch'erano tornati in istato in Comune. Per la qual cosa l'uficio del detto esecutore, ch'avea nome Pietro Landolfo da Roma, montò in tanta audacia e tracotanza, che l'uficio de' priori avea per niente; e tanto crebbe, ch'avrebbe guasta la città a modo d'uno bargello; e già l'avea follemente cominciata, se non che poi raveduti i buoni popolani che guidavano la città che l'opera andava male, vi misono freno, e feciono dicreto che' priori potessono privare dell'uficio, podestà, e capitano, e esecutore, che non si portassono bene; per la qual cosa il detto esecutore si ritenne del suo folle intendimento. Di ciò avemo fatta menzione non tanto per lo piccolo fatto de' Bordoni, quanto per la mutazione che ne seguì, e per le sette di Firenze, e per assempro per l'avenire; però che per la cagione di questa novità al tutto fue atterrata quella setta de' Serraglini, e non fu piccola mutazione tra' popolani di Firenze.
<B>CCLXXXIV</B>
<I>Di mutazione mossa nella città di Siena.</I>
Nel detto anno MCCCXXIIII, a dì XVIII di febbraio, in Siena risurse la congiura de' giudici e de' beccari e altri popolani contra l'uficio de' nove che governavano la città, per rivolgere lo stato de la terra; la quale giura scoperta, ne furono presi alquanti e dicapitati, e molti condannati e fatti ribelli.
<B>CCLXXXV</B>
<I>Come Castruccio prese la Sambuca, e' Pistolesi s'accordarono co' Fiorentini.</I>
Nel detto anno, a dì XXV di febbraio, Castruccio signore di Lucca cavalcò la montagna di Pistoia, e più tenute prese; e poi andando al castello de la Sambuca, gli si rendéo, lo quale era fortissimo castello. Ma per gli più si disse che fu opera simulata per lo signore di Pistoia, per quello che ne seguì apresso. Rotta la detta triegua per Castruccio a' Pistolesi, mandarono a Firenze, e feciono accordo co' Fiorentini, e promisono d'essere a la guerra co' Fiorentini contra Castruccio, rimanendo messer Filippo Tedici signore in Pistoia con più altri patti, promettendo i Fiorentini di rendere loro Carmignano, e di fare che 'l papa promoverebbe il vescovo di Pistoia in altro benificio, ch'era contrario di messere Filippo; e vollono a la guardia di Pistoia C cavalieri soldati di quegli di Firenze con capitano, cui quegli di Pistoia seppono eleggere. E tutto ciò che seppono domandare a' Fiorentini ebbono, salvo che domandava moneta il detto messer Filippo, e era opera simulata; però che grossamente gli fu proferta per gli Fiorentini, lasciando la signoria, e no·lla vollono e' poi dare. I soldati de' Fiorentini entrarono in Pistoia il dì di Risoresso, a dì VII d'aprile, onde i Fiorentini tenendosi poi al sicuro di Pistoia, si trovarono ingannati, però che tutto fu opera di tradimento del detto messer Filippo Tedici, come innanzi farà menzione.
<B>CCLXXXVI</B>
<I>Come la taglia de' cavalieri ch'erano a Castello cavalcarono sopra gli Aretini.</I>
Nel detto anno, a dì XXVIII di febbraio, il capitano de la taglia ch'era sopra la Città di Castello, il qual era messer Ferrante de' Malatesti d'Arimino, con tutta sua gente cavalcò sopra Castiglione Aretino, che per tradimento gli si dovea rendere; il quale tradimento scoperto, e perduta la speranza, levarono gran preda, e feciono gran danno e arsione intorno, e per lo contado di Cortona, perché i Cortonesi erano scesi contra loro.
<B>CCLXXXVII</B>
<I>Come si trassono de' grandi certe schiatte di Firenze.</I>
Nel detto anno, a l'entrare di quaresima, si feciono in Firenze albitri sopra gli ordini, e statuti correggere e fare di nuovo. Intra l'altre cose che feciono si trassono del numero de' grandi e potenti X casati menimi e 'mpotenti di Firenze, e XXV schiatte de' nobili di contado, e recargli a popolo. Per certi fu lodato; ma per molti biasimato, però che delle schiatte di popolani possenti e oltraggiosi erano degni di mettere tra' grandi per bene di popolo.
<B>CCLXXXVIII</B>
<I>Come Azzo Visconti di Milano prese il borgo San Donnino.</I>
Nel detto anno, a dì XV di marzo, essendo i Parmigiani e' Piagentini ad assedio ad uno castello che si chiamava Castiglione, s'arrendéo loro a patti. E in quello stante Azzo figliuolo di Galeasso signore di Milano passò il fiume di Po con MD cavalieri per soccorrere il detto castello, ma non venne a tempo; ma in quello trattò d'avere il borgo a San Donnino, quale a dì XVIII di marzo gli s'arendéo, e iv'entro si dimorò co la maggiore parte di sua gente, faccendo grande guerra a' Piagentini, e a la gente de la Chiesa, e a' Parmigiani.
<B>CCLXXXIX</B>
<I>Come Castruccio volle fare uccidere il conte Nieri di Pisa.</I>
Nel detto anno MCCCXXIIII, dì XX di marzo, Castruccio signore di Lucca mandò suoi assessini in Pisa per fare uccidere il conte Nieri e più altri maggiorenti che reggeano la città, perché non si voleano tenere a sua lega; i quali presi, furono distrutti: onde crebbe maggiormente la mala volontà da·llui a quegli che reggeano Pisa.
<B>CCXC</B>
<I>Come nuova moneta picciola si fece in Firenze.</I>
Nell'anno MCCCXXV, in calen di aprile, si fece in Firenze nuova moneta picciola de la lega e peso dell'altra, mutando il conio con san Giovanni più lungo, e 'l giglio mezzo a la francesca, sanza fioretti, però che l'altra era molto falsificata. Ma molti indovinarono che non dovea bene avenire a la città, avendo levati i fioretti dentro a' gigli, come sempre erano stati.
<B>CCXCI</B>
<I>Di miracolosa neve che venne in Toscana.</I>
Nel detto anno, a dì XI d'aprile, in tutta Toscana cadde una grande neve molto piena, e durò per più di quattro ore; non si prese nella città, ma di fuori per tutto; e credettesi ch'avesse guaste tutte le frutta e tutte le vigne, e non fece quasi danno niuno.
<B>CCXCII</B>
<I>Come Castruccio ordinò tradimento in Firenze.</I>
Nel detto anno MCCCXXV, del mese d'aprile, Castruccio signore di Lucca, sentendo che' Fiorentini s'apparecchiavano di fargli guerra, fece cercare tradimento in Firenze, e in Pistoia, e in Prato per rompere l'ordine de' Fiorentini. In Firenze per uno suo famigliare, ch'era congiunto di Tommaso di Lippaccio di messer Lambertuccio Frescobaldi, il quale Tommaso cercò di corrompere le masnade francesche con uno messer Cristiano monaco, il quale il papa avea dato a' Franceschi per loro penitenziere, e ch'egli assolvesse colpa e pena. Questi con uno cavaliere de la bandiera di messer Guiglielmo di Nore seguirono il trattato; e prometteano il detto messer Guiglielmo e messer Miles d'Alzurro conastaboli, e degli altri, tornare da Castruccio. Il quale trattato si scoperse: e ancora che 'l detto Tommaso dovea rubellare al Comune di Firenze Capraia e Montelupo. Furono presi il detto monaco e 'l detto cavaliere: Tommaso si fuggì. E ritrovato il tradimento, al detto cavaliere fu tagliato il capo, e 'l detto monaco in perpetuale carcere, e Tommaso condannato come traditore, e disfatti i ben' suoi; e messer Guiglielmo di Nore si scusò ch'era malato, e disse che non sentì il trattato, ma veramente ne fue colpevole, come innanzi si scoprì. Il trattato di Prato era per messer Vita Pugliesi cavaliere della terra. Scopersesi, e furonne dicapitati, ed elli e' suoi cacciarono di Prato. A quello di Pistoia diede compimento, come innanzi farà menzione.
<B>CCXCIII</B>
<I>Come alcuno accordo fu tra gli eletti de la Magna.</I>
Nel detto anno e mese d'aprile il dogio di Baviera eletto re de' Romani trattato fece di pace con Federigo dogio d'Osterlicche simigliante eletto, il quale avea in sua pregione, e co' suoi fratelli sotto certi patti, faccendogli rinunziare a la sua lezione dello 'mperio, salvo che 'l duca Lupoldro suo fratello non volle aconsentire al detto accordo, ma s'alegò colla Chiesa e col re di Francia, e facea gran guerra al detto eletto di Baviera; e però non si compié allora il detto trattato, ma poi per certo modo, come diremo innanzi nel... capitolo.
<B>CCXCIV</B>
<I>Come Castruccio signore di Lucca ebbe la città di Pistoia.</I>
Nel detto anno, domenica mattina anzi il giorno, dì V di maggio MCCCXXV, messer Filippo de' Tedici che tenea Pistoia diede compimento al suo tradimento, che mise in Pistoia Castruccio signore di Lucca con tutta sua gente, e corse la terra; e' soldati che v'erano a la guardia per gli Fiorentini, e altri Guelfi della terra che si levarono a la difensione de la terra, furono presi e morti, e tolto loro l'arme e' cavalli. Sentendosi la novella in Firenze, non però al certo, ch'al tutto fosse perduta la terra, faccendosi per lo Comune e popolo una grande festa, che la mattina aveano fatto cavaliere uno Pietro Landolfi da Roma esecutore degli ordini della giustizia del popolo, e Urlimbacca conastabole tedesco, per loro meriti, e essendo i priori co' detti cavalieri novelli e tutte signorie, e buona parte de la migliore gente di Firenze, a tavola a mangiare nella chiesa di San Piero Scheraggio, ove si faceva la corte, s'abbatterono le tavole, e ogni gente fu a l'arme, e cavalcossi infino a Prato, credendo che parte de la terra si tenesse, per aiutarla ricoverare. Sentendo il vero, come al tutto per lo detto tradimento era perduta, si tornarono in Firenze con gran dolore e tema. Di questo tradimento ebbe il detto messer Filippo da Castruccio Xm fiorini d'oro, e la figliuola del detto Castruccio per moglie; e incontanente Castruccio vi fece cominciare a murare uno grande castello dentro a la città da la porta Lucchese in sul prato di Pistoia. E intanto di questa perdita di Pistoia s'ebbono a riprendere i Fiorentini, che più volte avrebbono avuta la signoria de la terra dal detto messer Filippo, dandogli la detta somma di moneta, o meno; ma per certi trattatori fiorentini, o volendolo ingannare, o della detta moneta per loro propietà guadagnare, non si compié il trattato; ma trattando più volte cercarono via, e feciono fare cavalcate infino a Pistoia per torre la terra, onde il detto messer Filippo con disperato tradimento si condusse a darla a Castruccio; la qual cosa fu cominciamento di molti mali e pericoli che ne seguirono a' Fiorentini e a parte guelfa in Toscana. E il dì medesimo apparve in aria due cerchietti congiunti così: (, di due colori, quasi a modo d'arco, apparenti molto, e duraro assai; onde si disse per molti che non era sanza grande significazione di future novitadi.
<B>CCXCV</B>
<I>Come messer Ramondo di Cardona venne in Firenze per capitano di guerra.</I>
Nel detto anno, il seguente dì che si perdé Pistoia, dì VI di maggio, in su la terza giunse in Firenze subitamente messer Ramondo di Cardona eletto capitano di guerra per gli Fiorentini, che venia da corte per mare per la via da Talamone, onde i Fiorentini si riconfortarono molto; e il dì medesimo in sul vespro giurò l'uficio in su la piazza di San Giovanni, con grande trionfo e parlamento. E incontanente i Fiorentini cavalcarono e puosono assedio al castello d'Artimino, ch'era de' Pistolesi, e di poco tempo rimurato e afforzato per gli Pistolesi.
<B>CCXCVI</B>
<I>Come il duca di Calavra con grande armata andò sopra la Cicilia.</I>
Nel detto anno, a dì VIII di maggio MCCCXXV, Carlo duca di Calavra e figliuolo primogenito del re Ruberto, apparecchiata una grande armata di CXX galee e uscieri, e legni di carico in grande quantità, con MMD cavalieri e popolo grandissimo, si partì di Napoli per andare in Cicilia; ma per contrario tempo dimorò a l'isola d'Ischia infino a XXII dì di maggio; poi fatta vela arrivò a Palermo il dì de la Pentecosta, dì XXVI di maggio, e puose assedio a la detta città di Palermo, e dièvi più battaglie di dì e di notte, e faccendo minare de le mura, ma niente v'aquistò altro che di guastarla intorno, e dimoròvi a l'assedio infino a dì XVIII di giugno. Poi partita l'oste, al terzo dì rovinarono delle mura di Palermo più di CCC braccia da la parte ov'era stata l'oste. Nota a che pericolosa fortuna furono i Palermitani, e come fu corta la felicità del duca. E partito il duca, fece la via per terra da Coriglione con sua oste, e 'l navilio per mare, guastando Trapali e tutto il paese d'intorno, e tutta Valle di Mazzara, e poi Seragosa e Cattania, e poi a dì VII d'agosto si puose a Messina da la contrada detta Taurnabianca, infino presso a la città a II miglia, guastando tutto sanza riparo o contasto nullo. E a dì XX d'agosto si partì dell'isola sano e salvo con tutta sua oste e navilio, e arrivò in Calavra; e a dì... di... tornò in Napoli.
<B>CCXCVII</B>
<I>Di segno ch'apparve in aria.</I>
Nel detto anno, dì XXI di maggio, dopo il suono de le tre venne uno grandissimo tremuoto in Firenze, ma durò poco, e la sera vegnente, XXII di maggio, uno grandissimo raggio di vapore di fuoco si vide volare sopra la città, e chi sentì e vide i detti segni dubitò di futuro pericolo e novità.
<B>CCXCVIII</B>
<I>Come i Fiorentini ebbono il castello d'Artimino.</I>
Nel detto anno, dì XXII di maggio, s'arrendé il castello d'Artimino a l'oste de' Fiorentini, salve le persone, vegnendo quegli che v'erano dentro presi a Firenze, che furono CCVII tra terrazzani e Pistolesi: ma poi furono lasciati, e fecionsi abattere le mura e le fortezze, e recossene la campana del Comune d'Artimino.
<B>CCXCIX</B>
<I>Come la gente del marchese de la Marca fu sconfitta a Osimo.</I>
Nel detto anno MCCCXXV, a dì XXX maggio, essendo l'oste del marchese de la Marca intorno di Vc cavalieri e popolo grande d'intorno e guastando la città d'Osimo, quegli di Fermo e di Fabbriano venuti chiusamente la notte dinanzi in Osimo, e l'oste de la Chiesa essendo sparti al guasto, assaliti da quegli d'Osimo, furono sconfitti; onde vi rimasono di quegli della Chiesa più di CC a cavallo, e più di M a piè tra morti e presi.
<B>CCC</B>
<I>L'apparecchiamento dell'oste de' Fiorentini.</I>
Nel detto anno, a dì VIII di giugno, i Fiorentini ordinaro di fare oste sopra Pistoia e contra Castruccio signore di Lucca: diedono loro insegne d'oste, e puosolle a San Piero a Monticelli. Castruccio sentendo ciò, non istando ozioso, a dì XI di giugno uscì di Pistoia, e venne in sul castellare del Montale, e quello con istudio fece riporre e afforzare. I Fiorentini sentendo ciò, mercolidì mattina, a dì XII di giugno, feciono cavalcare messer Ramondo di Cardona capitano di guerra con tutti i soldati a Prato, e il giuovidì vegnente cavalcarono tutte le cavallate di Firenze, e ogni gente, popolo e cavalieri, e sonando le campane del Comune: intra l'altre sonava una campana che fu già del castello del Montale recata per gli Fiorentini quando l'aquistarono; cominciando a sonare si ruppe, onde per molti si dubitò di segno di mala fortuna. Ma perché cresce materia di grandi cose da' Fiorentini a Castruccio, lasceremo ogn'altra ricordanza d'altre novità di diversi paesi infino che sia tempo e luogo, per seguire ordinatamente quelle de' Fiorentini. E prima faremo menzione dell'ordine dell'oste, che mai per lo Comune di Firenze per sé propio no·lla fece maggiore, sanza aiuto d'amistà; che della città v'andarono IIIIc cavalieri di cavallate de' migliori della città, grandi e popolani, che co·lloro compagni furono più di Vc uomini a cavallo d'arme ben montati, che più di C erano a grandissimi destrieri. Soldati avea, e vi furono XVc che bene VIc erano Franceschi, con più grandi signori e gentili uomini, e CC Tedeschi molto buona gente e isprovata, e CCXXX n'avea messer Ramondo di Cardona capitano dell'oste tra·llui e 'l suo maliscalco, ch'avea nome messer Bornio di Borgogna, che i cento erano Borgognoni e gli altri Catalani. E oltre a' detti soldati n'avea da CCCCL tra Franceschi, e Guasconi, e Fiamminghi, e Provenzali, e Italiani, iscelti di tutte le masnade vecchie, pochi per bandiera. Gente a piè furono tra contadini e cittadini più di XVm bene armati; ed ebbono i Fiorentini in loro oste VIIIc e più trabacche e padiglioni e tende di panno lino; e andavano con una campana in sul carro, al suono de la quale si mutava l'oste e s'armava; e non era nullo dì, che non costasse a' Fiorentini IIIm fiorini d'oro e più. E aveva nella detta oste, tra cittadini e signori forestieri, più di CCC grandissimi destrieri di valuta da CL fiorini d'oro in su, tutti a briglie, e tra ogni cavallo, ronzino e somieri, più di VIm, sanza quegli dell'amistadi che vennono poi.
<B>CCCI</B>
<I>Come l'oste de' Fiorentini andò a Pistoia, e come presono il passo della Guisciana.</I>
Nel detto anno MCCCXXV, lunidì, dì XVII di giugno, così nobile oste e così fornita, agiuntivi CC cavalieri di Siena, si partirono di Prato, e puosonsi ad Agliana a campo in su quello di Pistoia, guastandogli intorno da le più parti, abattendo molte fortezze e con gran prede, e mutandosi per sei campi, e il dì di san Giovanni feciono correre palio di sciamito velluto presso a la porta di Pistoia. Castruccio essendo dentro a la terra di Pistoia con VIIc cavalieri e popolo grandissimo, non s'ardì a uscire fuori a nullo avisamento, ma intendea pure a la guardia della terra. Poi a dì IIII di luglio si puose l'oste a Tizzano, e a quello messer Ramondo fece rizzare dificii e cominciare a cavare da più parti, faccendo vista di volere il castello; e così stando, a dì VIIII di luglio messer Ramondo e 'l suo consiglio de' capitani dell'oste feciono la notte dinanzi cavalcare il suo maliscalco con Vc cavalieri de' migliori dell'oste a Fucecchio; e acciò che Castruccio non si prendesse guardia, la notte medesima fece un'altra cavalcata presso a Pistoia, guastando. Giunti i detti cavalieri a Fucecchio cogli usciti di Lucca, ch'erano da CL a cavallo e a piè assai, e dell'altre castella di Valdarno gente assai, ond'erano capitani messer Attaviano Brunelleschi e messer Bandino de' Rossi di Firenze, apparecchiato uno ponte di legname, la notte vegnente di furto per loro fu posto in su la Guisciana al passo di Rosaiuolo, e chiavato; e passati i detti cavalieri e popolo assai di là, anzi che quegli di Cappiano e di Montefalcone se n'accorgessono. E poi quel dì medesimo, dì X di luglio, messer Ramondo con tutta l'oste subitamente si partiro dall'assedio di Tizzano e valicarono il poggio del monte di sotto, e la sera medesima furono acampati cogli altri cavalieri prima andati di là da Guisciana intorno al castello di Cappiano, che fue uno bello e proveduto e sùbito acquisto di guerra, che mai per forza né per altro modo quel passo non s'era potuto acquistare per gli Fiorentini. Castruccio ciò sentendo, e appena credendolo, come stordito si partì di Pistoia con tutti i Pistolesi, lasciando la terra fornita di sua gente, e venne in Valdinievole, e si puose in su Vivinaia con sua oste; e mandò per soccorso a Lucca e a Pisa e a tutti i suoi amici, il quale ebbe dal vescovo d'Arezzo CCC cavalieri, e de la Marca e di Romagna CC, e di Maremma da' conti a Santa Fiore e altri baroncelli ghibellini da CL; sì che si trovò da XVc di cavalieri e popolo grandissimo, e in su Vivinaia e Montechiaro, e i·lluogo detto il Cerruglio s'afforzò, e ripuose Porcari, e fece fare uno fosso dal poggio al padule, e steccare e guardare con molta sollecitudine di dì e di notte. Ma da' Pisani nullo aiuto ebbe, perché il conte Nieri e quegli che reggeano la terra si teneano suoi nimici, per quello ch'egli avea operato contra loro.
<B>CCCII</B>
<I>Come i Fiorentini ebbono Cappiano e 'l ponte, e poi Montefalcone.</I>
I Fiorentini essendo ad oste a Cappiano, a dì XIII di luglio s'arrenderono a·lloro le torri e 'l ponte da Cappiano, ch'era molto forte; e a dì XVIIII di luglio s'arrendé Cappiano, salve le persone, per tema di cave e di difici. E a dì XXI di luglio si puose l'oste a Montefalcone, e a dì XXVIIII di luglio s'arrendé a patti, salve le persone. Essendo i Fiorentini in vittoria, tutti gli amici mandarono soccorso: i Sanesi oltre a CC primi cavalieri mandarono altri CC cavalieri e VIc balestrieri, e C cavalieri delle case cittadini di Siena, e C soldati; Perugia tra due volte CCLX cavalieri; Bologna CC cavalieri; Camerino L cavalieri; Agobbio L cavalieri; Grosseto XXX cavalieri; Montepulciano XL cavalieri; il conte Asartiano da Chiusi XV cavalieri; Colle XL cavalieri; San Gimignano XL cavalieri; Sammmiato XL cavalieri; Volterra XXX cavalieri; Faenza e Imola C cavalieri tra due mandate; quegli da Logliano XV cavalieri e gente a piè; i conti a Battifolle XX cavalieri e Vc pedoni; e gli usciti di Lucca erano più di C cavalieri; e gli usciti di Pistoia da XXV; sì che l'oste de' Fiorentini crebbe in più di IIIm cavalieri. Si ritrovarono a dì IIII d'agosto, che si puosono ad assedio ad Altopascio, il quale era molto forte di mura e torri e fossi e steccati. Bene avenne a l'oste de' Fiorentini pestilenzia, che per lo dimoro ch'aveano fatto in su la Guisciana molti n'amalarono e molti ne morirono, pure de' più cari cittadini di Firenze e altri forestieri assai, onde l'oste affiebolì molto. Stando l'oste ad Altopascio, Castruccio fece cercare e rinnovare il trattato e tradimento nell'oste de' Fiorentini con due conastaboli franceschi, ciò fu messer Miles d'Alzurro e messer Guiglielmo di Noren d'Artese poveri cavalieri, il quale tradimento si scoperse essendo malato il detto messer Miles, e vegnendo a morte; e fu preso per messer Ramondo il detto messere Guiglielmo, ma per tema degli altri Franceschi non fu giustiziato, ma datoli commiato: faccendo vista d'andare a Napoli al re, da Montepulciano per Maremma si tornò da la parte di Castruccio, e poi fece molto di male a' Fiorentini. E essendo ancora l'oste ad Altopascio, Castruccio fece cavalcare da Pistoia CC de' suoi cavalieri e pedoni in sul contado di Prato, e in su quello di Firenze infino a Lecole a dì X d'agosto, ardendo e guastando sanza niuno contasto, levando grande preda. E poi a dì XXIII d'agosto fece fare un'altra cavalcata in su Carmignano di CL cavalieri e M pedoni, credendo prendere la terra e fare levare l'oste d'Altopascio; e già entrati nella villa, alquanti Fiorentini con quegli di Campi e di Gangalandi e' Guelfi di Carmignano vi cavalcarono, e co' cavalieri bolognesi ch'erano in Firenze, e sconfissongli, e bene CCCCL ne furono morti e presi assai, onde l'oste di Castruccio molto isbigottìo.
<B>CCCIII</B>
<I>Come il castello d'Altopascio si rendé a' Fiorentini.</I>
Sentendo quegli di Altopascio la rotta da Carmignano, e essendo da·lloro assai malati, e vegnendo tra·lloro a riotta dentro, sì s'arenderono a' Fiorentini a dì XXV d'agosto MCCCXXV, salve le persone, che v'aveva dentro Vc fanti, e fornito per due anni. Preso Altopascio, nell'oste de' Fiorentini e ancora in Firenze ebbe contasto o d'andare più innanzi o di tornare all'assedio a Santa Maria a Monte, e in questo bistentaro, e ristettono ad Altopascio, poi che·ll'ebbono, infino a dì VIIII di settembre, con grande spendio e scemamento dell'oste de' Fiorentini, sì per molti infermi che v'avea, e a' più era rincresciuto l'osteggiare sì lungamente, e d'altra parte per la baratteria che messer Ramondo facea al suo maliscalco, di dare parola per danari a chi si volea partire dell'oste, onde molto scemò l'oste de' Fiorentini; e 'l detto messer Ramondo non v'avea la metà di sua gente: di questi difetti accorgendosi i savi, e di Firenze ch'erano nell'oste capitani, com'era impossibile di passare in verso Lucca per le fortezze e ripari di Castruccio, consigliavano che 'l porsi a Santa Maria a Monte, e l'afforzare il campo, e avicendare i cittadini e' forestieri; e di fermo era il migliore, e sanza guari indugio s'avea il castello per difetto d'infermità che v'era stata dentro. Altri cittadini grandi e popolani che menavano messer Ramondo e l'oste a·lloro guisa (ciò fu etc.; per loro prosunzione e vanagloria) si fermarono s'andasse infino a Lucca anzi che l'oste tornasse in Firenze e così si prese partito del peggiore; e il detto dì VIIII di settembre si partì d'Altopascio, e per arrota al primo fallo si puosono a la badia a Pozzevere in sul pantano di Sesto, che si poteano porre a la piaggia tra Vivinaia e Porcari, e avevano rotte l'osti de' nimici, e conquiso Castruccio; ma a cui Idio vuole male gli toglie il senno. E con questo crebbe giusta cagione, che messere Ramondo con quegli caporali fiorentini che 'l guidavano per modo di setta si credea essere signore di Firenze, e non volendo porre l'oste a Santa Maria a Monte, né cavalcare e porre l'oste come potea in sul poggio, per quistioni ch'avea mosse a' Fiorentini di volere balìa così nella città, tornato lui, come nell'oste, condusse sé e l'oste de' Fiorentini a pericolo e gran vergogna e dammaggio, come appresso faremo menzione.
<B>CCCIV</B>
<I>Come i Fiorentini furono sconfitti ad Altopascio da Castruccio.</I>
Castruccio d'altra parte, con tutto che l'oste de' Fiorentini fosse affiebolita, egli medesimo e la sua oste era mancata molto, sì per infermità, e sì per lunga dura, e che gli fallia lo spendio, che apena si potea rimedire; tuttavia come franco duca ritenea la sua oste con molto affanno in isperanza, tegnendo guerniti e afforzati tutti i poggi da Vivinaia, e Montechiaro, e Cerruglio, e Porcari, poi infino al pantano di Sesto, acciò che l'oste de' Fiorentini non potesse a valicare a Lucca. Ma dottandosi ancora che per sé non potesse durare, e ancora conoscendo che l'oste de' Fiorentini era condotta in luogo dov'egli avea l'avantaggio del combattere, s'avesse aiuto di più gente, sì mandò al capitano di Milano messer Galeasso che gli mandasse il figliuolo Azzo con gente ch'era nel borgo a San Donnino, e mandogli Xm fiorini d'oro, promettendogli più moneta. Il quale Azzo con comandamento del padre s'apparecchiò di venire con VIIIc cavalieri, e per difalta del legato e dell'oste della Chiesa, ch'erano a oste a San Donnino, che gli lasciarono partire, e ebbe danari il maliscalco del legato, si partì co la detta gente per venire a Lucca, e messer Passerino signore di Mantova e di Modana gline mandò CC cavalieri, sì che sùbito soccorso e aiuto ebbe da M cavalieri tedeschi e oltramontani.
<B>CCCV</B>
<I>Di quello medesimo.</I>
Essendo l'oste a Pozzevero, messere Ramondo volendo amendare il fallo che si fece di dovere porre l'oste in su la piaggia tra Montechiaro e Porcari, radoppiò il fallo sopra fallo, che mandandovi il suo maliscalco e messer Urlimbacca tedesco, forse con C cavalieri cogli spianatori, per fare spianare, a dì XI di settembre, di lungi a l'oste più d'uno miglio, Castruccio ch'era al disopra del poggio ordinatamente mandò gente in più schiere per partite, a cominciare a' detti guardatori degli spianatori badalucco, ed egli poi con tutta sua gente e schiere fatte si calò giù a la valle. Cominciato il badalucco si cominciò a 'ngrossare, che dell'oste de' Fiorentini vi trassono di volontà sanza ordine più di CC cavalieri, tra Franceschi, e Tedeschi, e Fiorentini, de' migliori dell'oste, e simigliante di quegli di Castruccio, e fu la più bella e ritenuta battaglietta che fosse anche in Toscana, che durò per ispazio di parecchie ore, e più di quattro volte fu rotta l'una parte e l'altra, rannodandosi e tornando a la battaglia a modo di torniamento; e la gente de' Fiorentini, ch'erano pochi più di IIIc a cavallo, sostennero e ripinsono quegli di Castruccio, ch'erano più di VIc; e aveasi la sera la vittoria per gli Fiorentini, se messer Ramondo avesse mandata più gente in aiuto a' suoi, o colle schiere grosse fosse mosso contra nemici; ma condussele in capo del piano, che v'avea uno fosso con piccolo spazio di spianato, per modo che bene commodamente le schiere fatte non poteano sanza spartirsi valicare, e con periglio. Castruccio che per l'avantaggio del poggio vedea tutto pinse colla sua schiera contra i Fiorentini, e fu sostenuto e ripinto gran pezzo, e scavallato in persona, e fedito egli e più de' suoi per virtù de' buoni cavalieri ch'erano da l'altra parte; ma a la fine tra per lo soperchio di gente, e perché s'anottava, que' de' Fiorentini si ritrassono alle schiere loro, ma sì vi rimasono di loro da XL cavalieri tra morti e presi pure de' migliori, intra' quali fu messere Urlimbacca cavaliere tedesco preso con XII di sua bandiera, e messer Francesco Brunelleschi cavaliere novello, e Giovanni di messer Rosso della Tosa, e di Franceschi, e molti fediti nel volto. E simigliante di quegli di Castruccio ne furono morti assai, ma non però presi, però che Castruccio al fine soprastette i·lluogo ove fu la battaglia; ma più di C cavagli de' suoi voti tornarono nel campo de' Fiorentini, però che tennono al fuggire tutti al piano. E la sera ritratti l'una oste e l'altra, infino a notte stettono schierati ciascuno trombando appetto l'uno dell'altro per sostenere l'onore del campo; ma la notte dipartì, e ciascuno tornò a le sue logge. Ma di certo dal giorno innanzi que' dell'oste de' Fiorentini non furono coraggiosi né avolontati di combattere, com'erano prima, per difalta di quella mala condotta, e per lo danno che ricevettono; e Castruccio, come quegli che non dormia, avendo presa baldanza di quella cotanta vittoria ch'avea avuta, e attendendo suo soccorso e aiuto di Lombardia, e conoscendo il male sito ove i Fiorentini erano acampati, con sagace inganno fece tenere i·falsi trattati messer Ramondo e 'l suo consiglio con più di quelle castella di Valdinievole, per fargli indugiare che non si partissono e levassono il campo, come tutto dì erano infestati sì da Firenze e da' savi dell'oste, che conosceano il male luogo ov'erano acampati; e tra che fu tempo piovoso, e lo 'nganno de' trattati, gli venne fatto suo intendimento.
<B>CCCVI</B>
<I>Di quella materia medesima.</I>
Come que' dell'oste de' Fiorentini sentirono che Azzo Visconti con sua gente era venuto di Lombardia in aiuto a Castruccio, ch'erano VIIIc cavalieri tedeschi, e quegli di messer Passerino, domenica mattina dì XXII di settembre si levarono da campo da la badia a Pozzevero schierati e ordinati, e puosonsi ad Altopascio dal lato di qua, che agiatamente potea venirne l'oste di qua da Guisciana, o almeno si fossono posti in su Gallena, erano signori del combattere a·lloro volontà; ristettono ad Altopascio per fornirlo. Castruccio, che non ne stava ozioso, veggendo l'oste de' Fiorentini levata per tema e paura, la domenica medesima venne in Lucca per sollecitare Azzo che cavalcasse con sua gente, e a tutte le belle donne di Lucca co la moglie insieme il fece pregare: egli per riposarsi, e che volea la moneta che gli fu promessa, non si volea partire di Lucca, onde Castruccio con grande fatica l'accivì, tra di danari e di promesse di mercatanti, di VIm fiorini d'oro, e promisegli di cavalcare lunidì mattina. Castruccio lasciò la donna sua coll'altre donne che 'l sollecitassono, ed egli la domenica a notte ritornò in sua oste, che gran paura avea che l'oste de' Fiorentini si partissono sanza battaglia, veggendo suo vantaggio. I·lunidì mattina l'oste de' Fiorentini si levò e misonsi in ischiere, ed erano rimasi intorno di IIm cavalieri e non più, per gli malati e partiti dell'oste, e gente a piè da VIIIm, e tutti ad agio si poteano partire e venire a Gallena; ma per aroganza si misono a roteare colle schiere loro verso l'oste di Castruccio, trombando e drappellando richeggendo di battaglia. Castruccio incontanente con sua oste armato, ch'era con MCCCC cavalieri, cominciò a scendere il poggio e tenere a badalucco i Fiorentini, tanto che Azzo con sua gente venisse, e così gli venne fatto, che in su l'ora di terza Azzo giunse colla sua gente; e incontanente che fu venuto si calarono di Vivinaia al piano a la battaglia, i quali furono da XXIIIc di cavalieri in tutto que' dell'oste di Castruccio; ma il popolo suo lasciò al poggio, che pochi ne scesono al piano a la battaglia. L'oste de' Fiorentini molto bene ordinata in ischiere s'afrontò coll'oste di Castruccio, e una piccola schiera de' Franceschi e de' Fiorentini e d'altri intorno di CL a cavallo, ch'erano al dinanzi a la schiera de' feditori, fedirono vigorosamente, e trapassarono le schiere d'Azzo. Gli altri feditori ch'erano ordinati, ch'erano da VIIc, ond'era guidatore messer Bornio maliscalco di messer Ramondo, veggendo cominciata la battaglia, non resse, ma incontanente volse la sua bandiera. Gli altri dell'oste veggendo volgere le 'nsegne de' feditori, isbigottiti, incominciarono a temere, e parte a fuggire: che se messer Ramondo colla schiera grossa avesse ancora pinto dietro a' primi feditori, avea vinta la battaglia, ma istando fermo, e la gente per la mala vista del maliscalco cominciando a fuggire, prima furono da' nimici assaliti che dessono colpo, ma parvono storditi e amaliati; ma il popolo a piè cominciaro a sostenere francamente, ma la cavalleria non resse quasi niente, e così in poca d'ora che durò l'assalto furono rotti e sconfitti: e ciò fu i·lunidì in su la nona, a dì XXIII di settembre MCCCXXV.
La quale sconfitta di certo si disse, che 'l detto Bornio maliscalco per tradimento ordinato si mise prima a fuggire che a·ffedire; e ciò si trovò, ch'egli era stato cavaliere per mano di messer Galeasso Visconti padre del detto Azzo, e stato lungamente a' suoi soldi; e come tornò in Firenze, mai non si lasciò trovare, anzi si partì di nascoso. Il dammaggio de' morti a l'afrontata prima fu piccolo, per lo poco reggere che fece l'oste de' Fiorentini, ma poi a la fugga ne furono morti e presi assai, però che Castruccio mandò incontanente di sua gente a prendere il ponte a Cappiano, il quale sanza assalto per que' v'erano dentro in su le torri, fue abbandonato; onde i Fiorentini e loro amistà che fuggieno ricevettono maggiore danno di morti e di pregioni, che non feciono ne la battaglia. Rimasonne morti in tutto da... tra a cavallo, che furono pochi, e a piè, che non furono XXV de le cavallate di Firenze: morti e presi ne furono in tutto intorno di... intra quali fue messer Ramondo di Cardona capitano dell'oste, e 'l figliuolo, e più baroni franceschi, che alquanto ressono la battaglia; ebbevi da XL de' migliori di Firenze grandi e popolani a cavallo, e da L oltramontani buona gente e di rinnomo, la maggior parte cavalieri, e da XX uomini di rinnomo d'altre terre di Toscana. Tutti gli altri scamparono, chi per una via e chi per altra; ma il campo e la salmeria di tende e arnesi quasi tutti si perdero; e pochi dì appresso s'arrendé il castello di Cappiano e quello di Montefalcone; e poi a dì VI d'ottobre s'arrendé Altopascio, e andarne pregioni a Lucca, ch'erano più di Vc; ed era fornito per più tempo e fortissimo. E così in poca d'ora si mutò la fallace fortuna a' Fiorentini, che in prima con falso viso di filicità gli avea lusingati in tanta pompa e vittoria. Ma di certo fu giudicio di Dio per soperchi peccati d'abattere tanta superbia potenza, e così nobile cavalleria e valente popolo, come furono a la prima i Fiorentini ne la detta oste, per più vili di loro e scomunicati; e così nonn-è d'avere speranza in forza umana altro che nel piacere e volontà di Dio e la sua disposizione. Lasceremo al presente alquanto de le sequele e aversità che per la detta sconfitta avennono a' Fiorentini, perché n'è di necessità per trattare dell'altre novità state infra 'l detto tempo per l'universo mondo in più parti, e raccontate quelle, torneremo a nostra materia, in seguire delle storie e fatti de' Fiorentini, ch'assai ne cresce materia di dire.
<B>CCCVII</B>
<I>Come a Cortona fu ristituito il vescovado.</I>
Nel detto anno MCCCXXV, del mese di giugno, papa Giovanni con suo concestoro rendé il vescovado suo a la città di Cortona, che lungamente era vacato, perch'aveano morto il loro vescovo anticamente, e sottomiselo al vescovado d'Arezzo: e ciò fatto per affiebolire la grandezza del vescovo d'Arezzo, che bene il terzo di suo vescovado gli scemò, e fecene vescovo uno degli Ubertini. Per la qual cosa il vescovo d'Arezzo fece in Arezzo abattere le case degli Ubertini, e Montuozi loro castello, onde gli Ubertini rubellarono al vescovo Laterino, e di loro vennono a Firenze per allegarsi co' Fiorentini; ma come fu la sconfitta, s'accordarono col vescovo, e renderono Laterino.
<B>CCCVIII</B>
<I>Come il legato del papa fece fare oste al borgo a San Donnino.</I>
Nel detto anno, a l'uscita di giugno, il legato del papa ch'era in Lombardia coll'oste della Chiesa e aiuto de' Piagentini e Parmigiani, vennono ad oste sopra il borgo a San Donnino con MMD cavalieri e popolo assai, il quale s'era rubellato, ed eravi dentro Azzo Visconti con grande cavalleria di ribegli di santa Chiesa, e distrinselo sì, che poco v'aveano a mangiare. La lega de' ribelli, cioè messer Cane della Scala signore di Verona, e messer Passerino signore di Mantova e di Modana, e' marchesi d'Esti da Ferrara, si raunarono a Modana bene MD cavalieri per soccorrere e fornire quegli del borgo a San Donnino, e grande navilio con vittuaglia e con gazzarre armate misono su per lo fiume di Po, le quali scontrandosi col navilio della Chiesa, da·lloro furono sconfitti e presi. Veggendo la lega de' Ghibellini di Lombardia che non poteano fornire il borgo a San Donnino per quel modo, si puosono ad assedio a Sassuolo, uno forte castello del contado di Modana, ed ebbello a patti, e Fiorano un altro castello di que' signori da Sassuolo, e avuti i detti castelli si dipartì di Modona la detta raunata, e ciascuno si tornò a casa. Ver è che parte n'andarono per la via di Chermona, e entrarono nel borgo a San Donnino con vittuaglia, però che·ll'assedio dell'oste della Chiesa e de' Parmigiani era molto dilungata dal borgo, e però si francò il borgo, e Azzo de' Visconti e sua gente per serbarsi a soccorrere Castruccio e isconfiggere l'oste de' Fiorentini, come ne' passati capitoli avemo stesamente fatta menzione.
<B>CCCIX</B>
<I>Come il re d'Araona ricominciò guerra a' Pisani.</I>
Nel detto anno e mese di giugno il re d'Araona mandò in Sardigna XII galee armate con IIIc cavalieri, e trovarono nel golfo di Calleri due cocche de' Pisani cariche di vittuaglia, ch'andavano per fornire Castello di Castro; quelle presono, e uccisono tutti i Pisani, onde ricominciarono la guerra a' Pisani: per la qual cosa tutti i Catalani mercatanti e altri che furono trovati in Pisa, furono presi con tutta loro mercatantia e roba.
<B>CCCX</B>
<I>Come il conte di Fiandra fue sconfitto e preso a Coltrai da quegli di Bruggia.</I>
Nel detto anno MCCCXXV, a dì XII di giugno, essendo il giovane Luis conte di Fiandra a Ipro, ne fece cacciare tutti i caporali de' tesserandoli e folloni, e popolo minuto, perché gli erano incontro con quegli di Bruggia; e poi andòe a Coltrai con più di CL gentili uomini a cavallo, e là facea raunata e s'afforzava per fare guerra a que' di Bruggia, che gli s'erano ribellati; e per volere fare prendere certi caporali di Bruggia ch'erano venuti a Coltrai per fargli impiccare, fuggiti in una casa nel borgo di verso Bruggia, la gente del conte vi misono fuoco, e arse tutto il detto borgo, e eziandio passò il fiume de la Liscia, e arse la metà e più della terra. Per la qual cosa que' di Coltrai, veggendosi così arsi e guasta la terra, si raunarono armati con certi che v'erano di Bruggia, e combatterono in su la piazza col conte e con sua gente, e sconfissongli, e presono il conte, e fediro e uccisonne più di XL nobili uomini, intra' quali morti fu il siri di Ruella e quello di Terramonda, figliuolo di messer Guiglielmo de la casa di Fiandra, e il conte di Namurro fedito a morte. E venuti que' di Bruggia a Coltrai, ne menaro il conte preso a Bruggia, e a mezzo il cammino in sua presenza tagliarono la testa a XXVII suoi famigliari gentili uomini, ch'erano presi co·llui, che fu una grande crudeltà per vili genti e fedeli fare al loro signore; e menato il conte in pregione, sì feciono rubellare il popolo minuto d'Ipro, e cacciarne i grandi borgesi che teneano col conte. Quegli de la villa di Guanto per soccorrere il loro signore lo conte, del mese d'agosto vegnente, andando ad oste contra quegli di Bruggia, i quali da quegli di Bruggia sconfitti furono, e morti e presi assai; e tornati in Guanto que' che scamparono, il popolo minuto, tesserandoli e folloni, vollono uccidere tutti i grandi borgesi di Guanto a richiesta di quegli di Bruggia, onde in Guanto tra·lloro ebbe battaglia; ma i gran borgesi e la parte del conte si trovarono più forti, onde il popolo minuto furono sconfitti, e molti morti e presi, e giustiziati di villana morte.
<B>CCCXI</B>
<I>De' fatti di Firenze.</I>
Nel detto anno, a dì XXVII di luglio, s'apprese fuoco in Firenze in Parione di costa a la chiesa di Santa Trinita, e arsonvi XIIII case, e morirvi V persone. Il dì di calen di agosto del detto anno si pubblicò in Firenze il processo e scomunica fatta per papa Giovanni contra Castruccio, siccome rubello e persecutore della Chiesa, e fautore d'eretici per più articoli contro a fede.
<B>CCCXII</B>
<I>Come il conte di Savoia fue sconfitto dal Dalfino di Vienna.</I>
Nel detto anno, a dì VII d'agosto, fue grande battaglia in viennese tra il Dalfino di Vienna e 'l conte di Savoia apresso del castello di..., che la gente del conte v'era ad assedio con... cavalieri e popolo assai, e... fue con cavalieri...; e dopo la gran battaglia il conte di Savoia fue sconfitto, e furonne morti assai, e preso il conte d'Alzurro, e 'l fratello del duca di Borgogna, e 'l siri di Belgiù, e più di CL tra cavalierie e sergenti gentili uomini ch'erano col conte di Savoia.
<B>CCCXIII</B>
<I>Come il conte Alberto da Mangone fue morto, e suo contado rimase a' Fiorentini.</I>
Nel detto anno, a dì XVIIII del mese d'agosto, il conte Alberto da Mangone fu morto a ghiado per tradigione in sua camera per Ispinello bastardo suo nipote e per uno di quegli di Coldaia a petizione degli Ubaldini e di messer Benuccio Salimbeni di Siena, che tenea Vernia e avea per moglie la figliuola che fu del conte Nerone, perché gli faceva guerra del detto retaggio. Per la qual cosa il castello di Mangone e la corte fue per lo detto Spinello renduto al Comune di Firenze, e ebbene per lasciare la rocca XVIIc di fiorini d'oro dal Comune, con tutto che di ragione succedea al Comune di Firenze e Mangone e Vernia, per testamento fatto per lo conte Allessandro padre d'Alberto e Nerone, e poi ratificato per lo detto Alberto e Nerone, che se rimanessono sanza reda di figliuoli maschi legittimi, ne fosse reda il Comune di Firenze. E ancora il Comune di Firenze v'avea su ragione per censi vacati, i quali doveano per patti di molti tempi adietro. Nel detto anno, a dì XXVIII d'agosto, CC cavalieri di quegli ch'erano nel borgo a San Donnino, andando per foraggio, furono sconfitti al ponte a Lensa da quegli di Parma.
<B>CCCXIV</B>
<I>Come il Monte a San Savino fu distrutto.</I>
Nel detto anno, del mese di settembre, poi che fu la sconfitta de' Fiorentini, quegli del Monte a San Savino si renderono al vescovo d'Arezzo, il quale fece abattere le mura a la detta terra, perch'erano molto Guelfi, e aveano mandato aiuto di loro gente a l'oste de' Fiorentini. E poi a dì XI di maggio vegnente vi cavalcò il vescovo con sua gente, e trasse del castello tutti gli abitanti, e arse e fece disfare tutta la terra, che non vi rimase pietra sopra pietra; e sì v'avea più di M abitanti, che tutti gli disperse qua e là, acciò che mai non potessono rifare la terra.
<B>CCCXV</B>
<I>Come si compié pace tra lo re di Francia e d'Inghilterra per la guerra di Guascogna.</I>
Nel detto anno, del mese di settembre, Adoardo figliuolo del re d'Inghilterra venne in Francia, e per trattato della reina d'Inghilterra sua madre e serocchia del re di Francia si compié la pace dal re di Francia a quello d'Inghilterra de la guerra cominciata in Guascogna, e 'l detto figliuolo del re d'Inghilterra ne fece omaggio al re di Francia in persona del padre re d'Inghilterra, e lasciò al re di Francia le terre che messer Carlo di Valos avea conquistate in Guascogna, e rimase in Francia co la madre, e non vollono tornare in Inghilterra, però che 'l re d'Inghilterra si reggea male, e contro a·lloro volere si guidava per messer Ugo il Dispensiere.
<B>CCCXVI</B>
<I>Come i due eletti d'Alamagna feciono accordo insieme, e Federigo d'Osteric fu tratto di pregione.</I>
Nel detto anno, del mese d'ottobre a l'uscita, il duca di Baviera eletto re de' Romani diliberò di sua pregione Federigo duca d'Osteric, perch'era altressì eletto re de' Romani, e fece pace co·llui, e promisegli di rinunziare sua lezione, e di dargli le sue boci. Poi furono a parlamento a l'ottava anzi Natale, e non furono in accordo, però che Lupoldro fratello del duca d'Osteric non volea che 'l suo fratello rinunziasse. E poi furono a un altro parlamento, e furono inn-accordo, che quello di Baviera dovesse passare in Italia, e 'l duca Lupoldro d'Osteric co·llui e per suo generale vicario, e quello d'Osteric rimanere re ne la Magna; e di questo si promisono con lettere e suggegli. Gli elettori dello 'mperio a petizione del papa e del re di Francia contradissono, opponendo che·ll'uno e l'altro avea perduta la lezione, perché a·lloro non era licito di ragione che l'uno potesse dare a l'altro boce sanza fare per gli elettori nuova lezione. In questo mezzo il duca Lupoldro d'Osteric, il quale trattava co·re Ruberto, e con quello di Francia, e ancora co' Fiorentini, e quello accordo dissimulava per essere egli signore in Italia, sì si morì a dì XXVII di febbraio MCCCXXV, e dissesi che fue avelenato; per la qual morte tutto quello esordio e accordo rimase sospeso e anullato.
<B>CCCXVII</B>
<I>Come Castruccio con sua oste venne in sul contado di Firenze presso a la città, ardendo e guastando.</I>
Nel detto anno, tornando a nostra materia lasciata adietro de' fatti di Castruccio e de' Fiorentini, come Castruccio ebbe la vittoria della battaglia, mandati i pregioni e le spoglie del campo a Lucca, non tornò a Lucca in persona, ma posto l'assedio ad Altopascio, sì fece disfare le torri e 'l ponte a Cappiano, e poi il castello di Cappiano e di Montefalcone, per non avere in quella parte a guardare, e se ne venne a Pistoia per guerreggiare i Fiorentini, e per dilungare la tornata sua in Lucca, perché non v'avea da sodisfare i suoi cavalieri soldati di loro paghe passate d'assai, e de le doppie per la vittoria, e per nutricargli sopra le prede de' Fiorentini. E a dì XXVII di settembre fece uscire ad oste a Carmignano messer Filippo Tedici co' Pistolesi, e incontanente fue abbandonato da coloro che v'erano per gli Fiorentini, salvo la rocca. Poi a dì XXVIIII di settembre Castruccio con tutta sua oste venne a Lecore in sul contado di Firenze, e il dì seguente puose il suo campo in su i colli di Signa. I cavalieri e' pedoni de' Fiorentini ch'erano in Signa, faccendola afforzare, veduta l'oste di Castruccio abandonarono la terra, e furono sì vili, che non ardirono a tagliare il ponte sopra l'Arno. Poi il dì di calen di ottobre Castruccio puose suo campo a San Moro, ardendo e rubando Campi, Brozzi, e Quaracchi, e tutte le villate d'intorno; e a dì II d'ottobre venne in Peretola, e la sua gente scorrendo infino presso a le mura di Firenze, e là dimorò per III dì, faccendo guastare per fuoco e ruberia dal fiume d'Arno infino a le montagne, e infino a piè di Careggi in su Rifredi, ch'era il più bello paese di villate, e 'l meglio acasato e giardinato, e più nobilemente, per diletto de' cittadini, che altrettanta terra che fosse al mondo. E poi il dì di san Francesco, dì IIII d'ottobre, fece in dispetto e vergogna de' Fiorentini correre III pali[i] da le nostre mosse infino a Peretola, l'uno a gente a cavallo, e l'altro a piede, e l'altro a femmine meretrici; e non fue ardito uomo d'uscire della città di Firenze; ma i Fiorentini molto inviliti, e storditi di paura e sospetto che dentro a la città non avesse tradimento, con tutto avessono cavalieri assai e gente a piè innumerabile, si tennono dentro in arme di dì e di notte con grande affanno e sollecitudine a guardare la città e le mura e le porte; e sgombravasi tutto il contado, recando dentro così bene que' da San Salvi e da Ripole e di quelle contrade, come de le villate ch'erano verso i nimici.
<B>CCCXVIII</B>
<I>Della materia medesima.</I>
Poi il sabato mattina, dì V d'ottobre, si levò da Peretola, e arse tutta la villa e quello d'intorno, e presono e arsono il castello di Capalle e quello di Calenzano sanza riparo niuno, che que' che v'erano dentro gli abandonaro. Ancora i Fiorentini dentro pareano per paura amaliati; e ritornatosi Castruccio con sua oste la sera in Signa, la domenica apresso, dì VI d'ottobre, fece correre e ardere, sì come avea fatto di qua, di là da Arno Gangalandi, e Sa·Martino la Palma, e 'l castello de' Pulci, e tutto il piano di Settimo. E poi il martidì, dì VIII d'ottobre, venne con tutta sua oste infino a Grieve, e' suoi scorridori infino a San Piero a Monticelli, e salirono in Marignolla infino a Colombaia, rubando e levando grandi prede sanza contasto niuno; che' Fiorentini temeano molto da quella parte, perché i borghi di San Piero Gattolino e quello di San Friano, e d'intorno al Carmino e a Camaldoli non erano murati; ma rimettendo i fossi e faccendo steccati con C bertesche, in XV dì lavorando di dì e di notte con grande sospetto e paura. In somma l'assedio e guasto che lo 'mperadore Arrigo avea fatto a la città di Firenze fu quasi niente a comparazione di questo, consumando ciò ch'era da le porte in fuori da quelle parti, con levando ogni dì grandissime prede di gente e di bestiame e di loro arnesi. E così feciono infino a Torri in Valdipesa, e infino a Giogoli, e poi infino a Montelupo, e arsono il borgo, e così quello di Puntormo, e la villa di Quarantola, e più altre villate. E poi, a dì XI d'ottobre, s'arendé la rocca di Carmignano, e poi il castello degli Strozzi, ch'era ivi presso molto forte e bene fornito, chiamato Torrebecchi; e andò poi con sua oste scorrendo intorno a Prato.
<B>CCCXIX</B>
<I>Come Castruccio con Azzo di Milano ritornò co·lloro oste a la città di Firenze.</I>
Come Azzo Visconti di Milano, ch'era a Lucca con sua gente, fue pagato di XXVm di fiorini d'oro che Castruccio gli aveva promessi per la vittoria e per la sua parte de' pregioni e preda, i quali danari il Comune di Lucca improntarono a usura dagli usciti di Genova che dimoravano in Pisa, sì ne venne il detto Azzo con sua gente a Signa, e per fare la vendetta de' Fiorentini del palio che feciono correre a le porte di Milano coll'oste di messer Ramondo, come dicemmo adietro. E a dì XXVI d'ottobre con Castruccio insieme, con bene IIm cavalieri, vennono infino a Rifredi, e di qua in su una isola d'Arno, che si vedea apertamente di Firenze, fece correre uno palio di sciamito; e poi la sera si ricolsono a Signa. Ma se prima s'ebbe paura e dotta in Firenze, a questa ritornata s'ebbe maggiore, per paura non avessono trattato di tradimento dentro per gli amici e parenti de' cittadini presi a la sconfitta, il quale mai non si sentì di vero; ma certamente d'acordo assai per riavere i pregioni, ma non furono uditi né intesi, ma tenuti a sospetto dagli altri cittadini; ma i buoni uomini di Firenze, così i Guelfi e così i Ghibellini ch'erano in Firenze, erano favorevoli e solleciti a la guardia della città, e a l'entrate continuamente di dì e di notte per tema della città. E poi il seguente dì Azzo se n'andò con sua gente a Lucca e poi a Modana in Lombardia. Il contado di Firenze in verso il ponente ove Castruccio guastò e corse rimase tutto diserto, e le genti scampate rifuggiti in Firenze per gli disagi ricevuti v'adussono infermità e mortalità grande, la quale s'apiccò a' cittadini; e tutto quello anno ebbe ne la città grande mortalità di gente sì fatta, che s'ordinò che banditore non andasse per morti, acciò che la gente inferma non isbigottisse di tanti morti; e così per le peccata de' Fiorentini seguì la pestilenzia a la disaventurata fortuna ch'egli aveano ricevuta.
<B>CCCXX</B>
<I>Dello stato di Firenze medesimo.</I>
I Fiorentini essendo in tanta afflizzione di guerra e così isprovati dal tiranno Castruccio loro nimico, mandarono per soccorso al re Ruberto a Napoli e a' vicini e agli amici, ma da nullo n'ebbono sùbito aiuto, se non da' Samminiatesi LXXX cavalieri e da' Colligiani XXV e C fanti. E feciono, per paura che non valicasse Castruccio da l'altra parte de la città, afforzare la rocca di Fiesole, però che n'avea minacciati i Fiorentini, e avea grande volontà di riporre Fiesole per assediare meglio la città; e avrebbelo fatto, se' signori Ubaldini l'avessono seguito, come aveano promesso. E ancora per paura di Castruccio i Fiorentini feciono afforzare la badia di Samminiato a Monte, e in ciascuno luogo misono gente e guernigione; e ancora per tema che gli sbanditi non facessono raunata né rubellazione dentro a la città o di fuori d'alcuno castello feciono ordine e dicreto che ciascuno potesse uscire di bando chente e per che misfatto si fosse, pagando al Comune certa piccola gabella, salvo quegli delle case escettati per Ghibellini o Bianchi rubelli. E feciono capitano di guerra messer Oddo da Perugia, ch'era venuto per lo suo Comune capitano, e messer Guasta da Radicofani a la guardia de la città. E così come gente ismarrita e sconfitta si sostentaro, intendendo solamente a la guardia della città, ogni onori abandonando.
<B>CCCXXI</B>
<I>Come il conte Ugo da Battifolle ritolse certo contado a' Fiorentini in Mugello.</I>
Nel detto anno, in calen di ottobre, essendo ancora i Fiorentini in tanto affanno e pericolo, il conte Ugo figliuolo del conte Guido da Battifolle riprese per suoi cinque popoli e villate di sotto ad Ampinana in Mugello, i quali s'erano renduti più tempo addietro al Comune di Firenze, e succedeano al Comune di ragione per compera fatta quando s'ebbe Ampinana, secondo che si diceva. Onde il popolo di Firenze forte si tennero gravati dal conte Ugo, e maggiormente perch'era stato il padre e egli amico, e faccendo sì fatta novità veggendo i Fiorentini in tanta aversità: con tutto che il detto conte dicea ch'erano suoi per retaggio e di ragione, opponendo che la vendita che fece il conte Manfredi quando vendé Ampinana fu solamente per lasciare il castello di fatto a Fiorentini, e voleala commettere di ragione in giudice comune, ma per lo modo sconcio non s'acettò per gli Fiorentini. Ma ragione o non ragione ch'avesse il conte, fue condannato per l'esecutore degli ordinamenti de la giustizia, a l'uscita del mese di dicembre del detto anno, in libbre XXXm, a condizione se non avesse ristituiti i detti popoli ne lo stato primo infra X dì; la qual cosa perciò non fece, e rimase in bando e in contumace del Comune di Firenze, con tutto che fosse sostenuta sua parte in Firenze per suoi amici e parenti grandi e popolani. Ma poi a la venuta del duca in Firenze il conte Ugo il venne a servire in persona con XX cavalieri e CC pedoni per III mesi; per la qual cosa il duca il fece cancellare di bando, ma i più de' Fiorentini ne furono crucciosi.
<B>CCCXXII</B>
<I>Come Castruccio venne a oste a Prato.</I>
Nel detto anno, a dì XVIIII d'ottobre, Castruccio con sua oste venne intorno a Prato, istandovi a campo per VIIII dì, guastandolo intorno intorno, e poi per pioggia non potéo per la via diritta tornare a Signa; ma a dì XXVIII d'ottobre si tornò in Pistoia, e poi l'altro dì ritornò in Signa; e a dì XXX d'ottobre fece ancora da due parti correre sua gente infino a Rifredi, e di là da Arno infino a Grieve; e simigliante fece a dì III di novembre, faccendo ardere infino a Giogoli. E poi a dì V di novembre cavalcò con sua oste, forse con VIIc cavalieri e MD pedoni, in Valle di Marina; e albergòvi una notte, faccendo grandissimo guasto. I Fiorentini sentendo com'era entrato in forte passo, e che i Mugellesi erano raunati a la Croce a Combiata per ripararlo che non passasse in Mugello, sì vi cavalcarono CC cavalieri e IIm pedoni per richiudergli il passo dinanzi di là da la pieve a Calenzano; e fatto l'avrebbono per lo stretto e forte luogo, se non che per ispie infino di Firenze gli fu fatto assapere; onde si ricolse e uscì del passo, anzi che la gente de' Fiorentini vi giugnesse, e andonne a Signa a salvamento, e con gran preda, e con CXXX pregioni; e a più dispetto de' Fiorentini fece battere moneta picciola in Signa co la 'mpronta dello 'mperadore Otto, e chiamarsi i castruccini.
<B>CCCXXIII</B>
<I>Come Castruccio tornò in Lucca con grande trionfo per la sua vittoria.</I>
Nel detto anno Castruccio guasto e arso sì fattamente il contado di Firenze e quello di Prato per lo modo che detto è di sopra, avendo tra più volte avuti più pregioni, e maggiore preda che non ebbe alla sconfitta, e quasi inestimabile, lasciata guernita Signa degli usciti di Firenze e di CCC cavalieri, e rimandati al vescovo d'Arezzo CCC suoi cavalieri ch'avea avuti continui a la detta guerra, ricchi delle prede de' Fiorentini, a dì X di novembre si tornò in Lucca per fare la festa di Sammartino con grande trionfo e gloria, vegnendoli incontro grande processione, e tutti quegli della città, uomini e donne, sì come a uno re; e per più dispregio de' Fiorentini si fece andare innanzi il carro colla campana che' Fiorentini aveano nell'oste, coperto i buoi dell'arme di Firenze, faccendo sonare la campana, e dietro al carro i migliori pregioni di Firenze, e messer Ramondo con torchietti accesi in mano ad offerere a sa·Martino. E poi a tutti diede desinare, che furono da cinquanta de' maggiorenti, e le 'nsegne reali del Comune di Firenze a ritroso in su il detto carro: e poi gli fece rimettere in pregione, gravandoli d'incomportabili taglie, faccendo loro fare tormenti e grandi misagi sanza niuna umanità; e alquanti de' più ricchi per fuggire i tormenti si ricomperarono grande somma di moneta. E di certo Castruccio trasse de' nostri pregioni e de' Franceschi e forestieri presso a Cm fiorini d'oro, onde fornì la guerra.
<B>CCCXXIV</B>
<I>Come i Fiorentini essendo in male stato si providono di moneta e di gente.</I>
Nel detto anno e mese, intrante novembre, i Fiorentini, veggendosi in grandi spese e in così pericolosa guerra, non si disperarono, ma francamente s'argomentarono a·lloro difensione, e ordinarono e feciono nuove gabelle, che montarono LXXm fiorini d'oro l'anno, oltre a quelle che prima aveano, che montavano CLXXXm fiorini d'oro, per fornire la detta guerra castruccina; e mandarono per cavalieri in Alamagna e a Padova, e feciono riporre e afforzare il poggio di Combiata e quello di Montebuono, acciò che Castruccio non potesse valicare in Mugello né in Valle di Grieve; e mandarono CC cavalieri in aiuto a' Bolognesi, onde furono capitani messer Amerigo Donati e messer Biagio Tornaquinci; ch'allora fu uno grande fatto a' Fiorentini, essendo col nimico tiranno a l'uscio, a mandare soccorso a l'amico. Lasceremo al presente del male stato de' Fiorentini, e diremo delle aversità che ne' detti tempi avennero a' Bolognesi per la forza de' tiranni di Lombardia.
<B>CCCXXV</B>
<I>Come i Bolognesi furono sconfitti da messer Passerino signore di Mantova e di Modana.</I>
Nel detto anno, del mese di luglio, i Bolognesi feciono oste per contastare la raunata di messer Passerino signore di Mantova e di Modana e degli altri tiranni di Lombardia ch'erano nel contado di Modana, acciò che non potessono mandare aiuto a Castruccio né al borgo a San Donnino; ma più per tema che non entrassono nel loro contado; e però non mandarono aiuto a l'oste de' Fiorentini che CC cavalieri. E sentita loro partita, la raunata di Modana sì valicarono la Scoltenna, e intorno a Modana feciono danno assai per più cavalcate, e tornarsi in Bologna. Ma come i Fiorentini furono sconfitti ivi a pochi dì, cioè a dì XXX di settembre, ribelli di Bologna di casa Galluzzi e' figliuoli di Romeo de' Peppoli, colla forza di messer Passerino rubellarono a' Bolognesi il castello di Monteveglio a la montagna. I Bolognesi vi cavalcaro, popolo e cavalieri, e puosonvi l'assedio, e richiesono tutti i loro amici di Toscana e di Romagna, e rifeciono il fosso che si chiama la Mucia, di qua dalla Scoltenna, che tiene dal monte al pantano, per loro sicurtade, ed erano l'oste de' Bolognesi bene XXIIc di cavalieri co le loro cavallate, e bene XXXm pedoni, che per comune v'erano quegli della città. Messer Passerino fece sua raunata, che vi venne la gente di messer Cane da Verona con VIc cavalieri, e' marchesi d'Esti con IIIIc, sì ch'avea bene XVIIIc di cavalieri, ed erano a campo di là dal fosso e da la Scoltenna, badaluccandosi spesso per fornire il castello e passare il fosso, e' Bolognesi si teneano francamente. A l'uscita d'ottobre Azzo Visconti che se n'andava a Milano con sua gente si dimorò in servigio di messer Passerino, e ancora Castruccio gli mandò CC cavalieri, sì che con XXVIIIc di cavalieri furono i tiranni di Lombardia, quasi i più Tedeschi. I Bolognesi veggendosi così stretti, e da l'assedio del castello non si voleano partire, ancora mandarono per aiuto. I Fiorentini non guardando al loro grande bisogno mandarono loro CC cavalieri, e mandarono pregando per ambasciadori che si ritraessono e non si mettessono a battaglia: fecionsene beffe, rimprocciando i Fiorentini di loro viltade. Poi a dì III di novembre quegli di messer Passerino valicarono la Scoltenna, e in parte ruppono il fosso, e valicarne di loro; ma per forza dal popolo di Bologna furono ripinti, e non poterono fornire il castello.
<B>CCCXXVI</B>
<I>Di quello medesimo.</I>
Veggendo messer Passerino e gli altri capitani che non poteano passare la raunata, feciono vista di partire l'oste, e gran parte tornarono a Modana; poi feciono vista di porre assedio al ponte a Santo Ambruogio. I Bolognesi lasciarono a la rotta del fosso i Romagnuoli e' Fiorentini, ch'erano da cavalieri, e vennono parte di loro cavalieri verso il ponte. Messer Passerino e sua gente avendogli spartiti, cavalcarono astivamente di là da la Scoltenna verso il castello, e' Bolognesi da la loro parte seguendo; ma prima di Bolognesi giunsono i loro nimici ov'era stata la rottura del fosso e più fiebole; e' Romagnuoli e' Fiorentini che v'erano a guardia mandando a la cavalleria di Bologna per aiuto, lentamente vi vennono. La gente di messer Passerino per forza valicarono il passo, e cominciarono la battaglia. I Bolognesi veggendo l'assalto poco ressono, ma incontanente si misono a la fugga, e que' cotanti che ressono, che furono i Romagnuoli e' cavalieri de' Fiorentini e usciti di Modana, furono malmenati, che più di CCCL a cavallo e più di MD a piè vi rimasono tra presi e morti. I Bolognesi piccolo danno v'ebbono a comparazione de la loro grande oste, che' cavalieri si fuggirono verso Bologna, e il popolo a le montagne e a' loro castelli; ma da XXVII de' buoni de la terra e la loro podestà vi rimasono presi, e messer Malatestino e quattro de' migliori usciti di Modana capitani. E questa sconfitta fu a piè di Monteveglio venerdì dopo nona, dì XV di novembre.
<B>CCCXXVII</B>
<I>Come messer Passerino signore di Mantova e di Modana venne a oste a la città di Bologna.</I>
I Bolognesi tornarono in Bologna con grande vergogna e con grande danno, e messer Passerino con gli altri Lombardi valicarono il fosso de la Muccia, e tutti vennono ad oste sopra Bologna, e puosonsi al borgo a Panicale in sul fiume del Reno, e tolsono l'acqua a le loro mulina, vegnendo infino a le porte di Bologna, e salirono in su Santa Maria a Monte di sopra a uno miglio a la città. Il popolo di Bologna a furia voleano uscire fuori, ma da·loro capitano furono ritenuti, acciò che non compiessono la loro infortuna d'essere afatto isconfitti, e perdessono la terra; ma si misono a la difensione della città, e più assalti ebbono a la città da' Lombardi; e se non fosse l'aiuto de' forestieri si perdea la terra. A la fine vi feciono correre III pali, uno messer Passerino, e uno Azzo, e uno i marchesi. E sentendo che la gente della Chiesa, da MD cavalieri, erano venuti verso Reggio, si levarono da oste dì XXIIII di novembre, e tornarono in Modana; ma prima ebbono il castello di... E così mostra che·lle infortunate pianete di Saturno e di Marte ci attenessono la 'mpromessa delle loro congiunzioni istate in questo anno di tante battaglie e pericoli in questo nostro paese e altrove, come per noi è fatta e farà menzione.
<B>CCCXXVIII</B>
<I>Come Castruccio fece trattare falsa pace co' parenti fiorentini de' suoi pregioni.</I>
Nel detto anno MCCCXXV, dì VII di novembre, i Fiorentini furono in grande sospetto dentro tra·lloro, temendo l'uno dell'altro di tradigione, e spezialmente di certi grandi e popolani possenti, i quali aveano loro figliuoli e fratelli in pregione a Lucca: sì feciono uno dicreto sotto grande pena, che nullo cittadino ch'avesse pregione a Lucca potesse essere castellano di nullo castello, o vicaro di lega o di gente, o richesto a nullo consiglio di Comune; però che sotto colore di pace, a petizione e mossa de' pregioni, teneano trattati con Castruccio contra il volere delli altri cittadini; e non fu sanza gran pericolo, se non che per gli savi cittadini fue riparato.
<B>CCCXXIX</B>
<I>Dell'assedio e perdita di Montemurlo.</I>
Nel detto tempo, a dì XVIII di novembre, ancora la gente di Castruccio vennono scorrendo e guastando infino a Giogoli sanza nullo riparo, per ispaventare i Fiorentini; e a dì XXIIII di novembre Castruccio ritornò a Signa con suo isforzo; e a dì XXVII di novembre si puose all'assedio al castello di Montemurlo, e fecevi intorno più battifolli, e il dì seguente ebbe per patti la fortezza degli Strozzi che si chiamava Chiavello, e fecela abattere e tagliare dal piè, e l'altro dì ebbe per forza la torre a Palugiano ch'era de' Pazzi, e morirvi più di XXX uomini, e fecela disfare. E stando all'assedio di Montemurlo lo steccò tutto intorno, e con più difici vi gittava, e fece cavare il castello da la parte de la rocca, e fece cadere molto de le mura. Dentro v'erano per castellani Giovanni di messer Tedici degli Adimari e Neri di messer Pazzino de' Pazzi con CL buoni fanti di masnade; il castello era molto fornito di vittuaglia, ma male fornito d'arme e di gente a sì grande circuito e a tanto affanno di battaglie e di difici e di cave; e più volte mandarono per soccorso a Firenze, almeno che fossono forniti di gente che dentro gli atasse a la guardia. Queglino che·ll'aveano affare, ch'erano all'uficio della condotta de' soldati, per negrigenzia, overo per miseria di spendio, s'indugiarono tanto a fornirlo che quando vollono non ebbono il podere, né altro soccorso non si fece per gli Fiorentini; e si potea fare, che più volte Castruccio non v'avea IIIc cavalieri, e per le grandi nevi e freddure molto straccata la sua gente; ma la viltà e la disaventura era tanta de' Fiorentini, e con esso la discordia, che no·ll'ardirono a·ssoccorrere quando si potea. Quegli del castello veggendosi abandonati da' Fiorentini, avendogli per più volte richesti di soccorso, e veggendo per le cave cadere le mura, e per gli molti difici fragellati, sì cercarono loro patti con Castruccio, e renderono il castello a dì VIII di gennaio MCCCXXV, salve per persone, con ciò che ne potessono trarre, e salvi i terrazzani che vi volessono dimorare; con tutto che malvagiamente trattò i terrazzani, che quasi tutti gli sperse, e recolla a gente di masnade a la guardia, rafforzando il castello molto di rocca e girone di mura e di torri, e murò di fuori la fronte: la quale perdita fu grande vergogna e sbigottimento a' Fiorentini, e fece aspra guerra al contado di Firenze e a quello di Prato.
<B>CCCXXX</B>
<I>Di gente che mandò 'l re Ruberto a' Fiorentini.</I>
Nel detto anno, il dì di calen di dicembre, giunsono in Firenze CCC cavalieri che·cci mandò il re Ruberto di Puglia, la metà a nostro soldo. Furono cattiva gente, e niente di bene ci adoperaro. Che se a la loro venuta fossono stati valorosi, coll'altro aiuto de' Fiorentini e loro masnade poteano di leggere levare l'assedio da Montemurlo, ma o per loro viltà, o per comandamento del re, conoscendo la infortuna de' Fiorentini, non vollono fare una cavalcata, ma istarsi in Firenze a la guardia della terra.
<B>CCCXXXI</B>
<I>Della sconfitta che' Pisani ebbono in mare in Sardigna dal re d'Araona, e come feciono pace.</I>
Nel detto anno MCCCXXV, in calen di dicembre, si partirono di Porto Pisano XXXIII galee, le quali i Pisani aveano armate per soccorrere e fornire Castello di Castro in Sardigna, ed erano gran parte degli usciti di Genova al loro soldo, e amiraglio messer Guasparre d'Oria; e a dì XXVIIII di dicembre si combatterono coll'armata del re d'Araona nel golfo di Calleri, ch'erano XXXI galea, e XL barche imborbottate, e VII cocche. A la fine de la dura battaglia l'armata de' Pisani furono sconfitti, e prese de le loro VIII galee, e molta gente morta e presa. I Pisani avendo perduta ogni speranza di potere soccorrere Castello di Castro, cercarono accordo col re d'Araona, e mandargli loro ambasciadori in su una galea con lettere e messi di nostro signore lo papa. A la fine la pace si compié, che' Pisani renderono a·re di Raona Castello di Castro e ogni fortezza ch'aveano in Sardigna, e egli gli quetò della rendita del tempo che l'aveano tenuta, poi ch'egli ne fu eletto signore, e l'uno a l'altro renderono i pregioni, e piuvicossi in Pisa la detta pace a dì X di giugno MCCCXXVI.
<B>CCCXXXII</B>
<I>Come la gente di Castruccio ch'erano in Signa corsono infino a la città di Firenze.</I>
Nel detto anno MCCCXXV, a dì X di dicembre, le masnade di Castruccio ch'erano in Signa, intorno di CC cavalieri, corsono infino a San Piero a Monticelli, e venienne infino a le porte di Firenze: uscì una masnada di Fiamminghi a combattere con loro; e se per lo capitano della guerra fossono seguiti, aveanne la vittoria; ma per lo soperchio di gente furono rotti e malmenati da quegli di Castruccio. In Firenze si levò il romore, e sonarono le campane, e popolo e cavalieri furono in arme e uscirono fuori, e corsono infino a Settimo sanza ordine niuna. I nimici per lo soperchio si ritrassono a Signa sanza danno niuno; e la gente de' Fiorentini, ch'erano più di VIIIc cavalieri e popolo innumerabile, si tornarono la sera di notte in Firenze. La tratta fu gagliarda e di volontà, ma male ordinata, e per gli savi di guerra fu forte biasimata; che se Castruccio fosse stato in aguato pur con Vc cavalieri, avea sconfitti i Fiorentini, e presa combattendo la città.
<B>CCCXXXIII</B>
<I>Come i Fiorentini stanziarono di dare la signoria de la città e contado al duca di Calavra figliuolo del re Ruberto.</I>
Nel detto anno, a dì XXIIII di dicembre, i Fiorentini veggendosi così affritti dal tiranno e in male stato, e con questo male ordinati e peggio in concordia, per cagione de le parti e sette tra' cittadini, e vivendo in paura grande di tradimento, temendo di coloro ch'aveano i loro figliuoli e frategli pregioni in Lucca, i quali erano possenti e grandi in Comune, e la forza del nimico era ogni dì a le porte per lo battifolle di Montemurlo e di Signa; i popolani guelfi, che reggeano la città col consiglio di gran parte de' grandi e possenti, non veggendo altro iscampo per la città di Firenze, sì elessono e ordinarono signore di Firenze e del contado Carlo duca di Calavra, primogenito del re Ruberto re di Gerusalem e di Cicilia, per tempo e termine di X anni, avendo la signoria e aministrazione de la città per suoi vicari, osservando nostre leggi e statuti, ed egli dimorando in persona a fornire la guerra, tenendo fermi M cavalieri, il meno, oltramontani; dovea avere CCm di fiorini d'oro l'anno, pagandosi di mese in mese sopra le gabelle, e avendo uno mese di venuta e uno di ritorno; e fornita la guerra, per vittoria o per onorata pace, potea lasciare uno di sua casa o altro grande barone in suo luogo con IIIIc cavalieri oltramontani, e avere Cm fiorini d'oro l'anno. In questa forma con più altri articoli gli si mandò la lezione a Napoli per solenni ambasciadori; il quale duca, col consiglio del re Ruberto suo padre e de' suoi zii e d'altri de' suoi baroni, accettò la detta signoria a dì XIII gennaio; e saputa l'acettagione in Firenze n'ebbe grande allegrezza, sperando per la sua venuta essere vendicati e diliberi da la forza del tiranno Castruccio, e messi in buono stato. E partissi di Napoli per venire a·fFirenze a dì XXXI di maggio MCCCXXVI.
<B>CCCXXXIV</B>
<I>Come quegli di Bruggia in Fiandra furono sconfitti, e trassono il loro conte di pregione.</I>
Nel detto anno MCCCXXV, all'uscita del mese di novembre, parte della gente di Bruggia in Fiandra avendosi rubellati dal loro signore, come addietro è fatta menzione, guerreggiando il paese furono sconfitti tra Bruggia e Guanto dal conte di Namurro e da quegli di Guanto, e morti più di VIc. E poi a pochi giorni quegli del Franco di Bruggia furono sconfitti dal detto conte e da quegli di Guanto, e rimasorne morti più di VIIIc; per le quali sconfitte e abassamento che fu fatto di loro, fu trattato accordo, e quegli di Bruggia trassono di pregione Luis il giovane loro conte e loro signore.
<B>CCCXXXV</B>
<I>Come lo 'nfante figliuolo del re d'Araona tolse le decime del papa.</I>
Nel detto anno, del mese d'ottobre, Anfus detto infante d'Araona tolse a' collettori del papa che tornavano di Spagna tutti i danari ricolti di decime e di sovenzioni; e dissesi che furono CCm di fiorini d'oro la valuta; onde il papa si crucciò forte. Il re d'Araona mandò a corte suoi ambasciadori, dicendo come la detta moneta volea in presto per la guerra di Sardigna, e volea darne pegno più castella a la Chiesa, e accordossene col papa. Del mese di novembre presente VI galee del re d'Araona ch'andavano in Sardigna si combatterono con VII di Genovesi, e quelle de' Catalani furono sconfitte, e presane l'una, con grande danno di loro gente.
<B>CCCXXXVI</B>
<I>Come i Fiorentini feciono loro capitano di guerra messere Piero di Narsi.</I>
Nel detto anno MCCCXXV, in calen di gennaio, i Fiorentini feciono loro capitano di guerra messer Piero di Narsi cavaliere banderese della contea di Bari de·Loreno, il quale tornando d'oltremare dal Sipolcro, il settembre dinanzi per sua prodezza e valore volle essere a la battaglia, ove i Fiorentini furono sconfitti, ed egli vi fu preso, e 'l figliuolo morto, e di sua gente assai; e tornato lui di pregione per sua redenzione, fu eletto capitano; e presa lui la signoria, con molta prodezza e sollecitudine si resse, tenendo Castruccio assai corto de la guerra, e per suo senno fece trattato con certi conastaboli di suo paese ch'erano con Castruccio di fare uccidere Castruccio e di rubellargli Signa e Carmignano, e tornare da la parte de' Fiorentini con più di CC cavalieri. Iscoperto per Castruccio il detto trattato, a dì XX di gennaio fece tagliare la testa a III conastaboli, due Borgognoni e uno Inghilese, e VI Tedeschi, che teneano mano al tradimento, per la qual cosa molto si turbarono i soldati e masnade di Castruccio; e diede commiato a tutti i Franceschi e Borgognoni ch'avea, intra gli altri a messere Guiglielmo di Noren ch'avea traditi i FiorentIni, ed era di quella giura, onde molto si scompigliaro le masnade di Castruccio.
<B>CCCXXXVII</B>
<I>Come per gli Ghibellini de la Marca fu presa la Roccacontrada.</I>
Nel detto anno, a dì XII di gennaio, quegli di Fabbriano con gente ghibellina de la Marca e masnade d'Arezzo presono per tradimento con forza il castello della Roccacontrada, e uccisonvi molti di quegli che teneano la parte della Chiesa, pur de' maggiori de la terra, uomini e donne e fanciugli.
<B>CCCXXXVIII</B>
<I>Come Castruccio arse San Casciano e venne infino a Peretola, e poi arse e abandonò Signa.</I>
Nel detto anno, a dì XXX di gennaio, messer Piero di Narsi capitano di guerra in Firenze cavalcò a Signa con IIIIc cavalieri subitamente, e tornò la sera; poi per gelosia di perdere la fortezza vi venne Castruccio in persona a dì III di febbraio, e menonne presi VII conastaboli tra a cavallo e a piè. E per questa cagione de la cavalcata di messer Piero, e per dispetto di ciò, avendo i Fiorentini per niente, Castruccio tornò in Signa con VIIc cavalieri e IIm pedoni a dì XVIIII di febbraio, e cavalcò a Torri in Valdipesa, e guastò e arse tutta la villa levando gran preda; e poi a dì XXII di febbraio fece un'altra cavalcata infino a San Casciano, e arse il borgo e tutta la contrada, e la sera tornò in Signa. Il capitano de' Fiorentini co' cavalieri ch'avea cavalcò il dì in sul poggio di Campaio; ma se fossono iti a la Lastra per lo piano, e preso il passo, Castruccio e sua gente erano sconfitti: si tornarono straccati e male in ordine per l'affanno e lungo cammino ch'aveano fatto il giorno.
<B>CCCXXXIX</B>
<I>Di quello medesimo.</I>
E poi, a dì XXV di febbraio, Castruccio per fare più onta a' Fiorentini venne con VIIIc cavalieri e IIIm pedoni infino a Peretola, e incontanente si tornò in Signa, ma per ciò di Firenze non uscì uomo a la difesa. E poi, a dì XXVIII di febbraio, ricolta sua gente fece ardere Signa e tagliare il ponte sopra l'Arno, e abbandonò la terra, e ridussesi a Carmignano, e quello fece crescere e afforzare, e riducere a la guardia de' rubelli di Firenze e di Signa e di tutta la contrada. La cagione perch'abandonò Signa si disse perché gli era di gran costo a mantenerla, e di grande rischio, quando i Fiorentini fossono stati valorosi, essendo così di presso a la città, e sentendo come il duca s'aparecchiava di mandare gente a·fFirenze, temendo che la gente che tenea in Signa non fosse soppresa. Ma bene ebbe tanto ardire Castruccio e tanto gran cuore, che istando in Signa cercò con grandi maestri se si potesse alzare con mura il corso del fiume d'Arno a lo stretto della pietra Golfolina per fare allagare i Fiorentini, ma trovarono i maestri che 'l calo d'Arno da Firenze infino là giù era CL braccia, e però lasciò di fare la 'mpresa.
<B>CCCXL</B>
<I>Come i Bolognesi feciono pace con messer Passerino.</I>
Nel detto anno, in calen di febbraio, i Bolognesi feciono pace con messer Passerino signore di Mantova e di Modana, e per patti riebbono tutti i loro castelli e fortezze e Monteveglio, perché furono sconfitti, e tutti i loro pregioni: e per sicurtà della pace diedono XL stadichi, giovani garzoni figliuoli di buoni uomini di Bologna.
<B>CCCXLI</B>
<I>Come certe masnade d'Arezzo furono sconfitte da quelle de' Perugini.</I>
Nel detto anno, a dì XVII di febbraio, CCC soldati del vescovo d'Arezzo ch'erano a la Città di Castello, andando a guastare il castello de la Fratta, si scontrarono colle masnade de' Perugini, e combattersi insieme aspramente; e se non fosse ch'era presso a notte grande dammaggio si faceano insieme. A la fine quegli d'Arezzo n'ebbono il peggiore.
<B>CCCXLII</B>
<I>Come la gente de la Chiesa, capitano messer Vergiù di Landa, cominciaro guerra a Modana.</I>
Nel detto anno, a dì X di marzo, messer Vergiù di Landa venne sopra Modana con VIIIc cavalieri di quegli della Chiesa, e ripuose Sassuolo; e poi del mese di maggio prese Castelvecchio, e più castelletta e villaggi de' Modanesi. E' Fiorentini vi mandarono in aiuto della Chiesa CC cavalieri; e con questa gente e co' figliuoli di messere Ghiberto da Coreggia messer Vergiù vinse per forza, a dì XV di giugno MCCCXXVI, l'isola di Sezzana ch'era steccata e guernita di bertesche, e avevavi CC cavalieri e IIIm pedoni a guardia per lo signore di Mantova, i quali furono sconfitti, e presa la fortezza del ponte a Borgoforte di qua da Po, iscorrendo il mantovano con grande danno de' ribelli della Chiesa. E poi a dì II di luglio presono per forza gli antiporti e' borghi di Modana, ch'erano affossati e steccati; e' cavalieri de' Fiorentini furono de' primai ch'entrarono a l'antiporta, e poco fallì che non ebbono la città; e stettono tutto luglio a l'assedio di Modana tenendola molto stretta. A l'uscita di luglio messer Passerino colla lega de' Ghibellini di Lombardia per tema di perdere Modana si partirono dall'assedio d'uno castello de' marchesi Cavalcabò in chermonese, e feciono al Po ponte di navi. Messer Vergiù e sua gente sentendo il soperchio de' nimici misono fuoco ne' borghi di Modana e se ne partiro, e tornarono a Reggio, e guastarla intorno.
<B>CCCXLIII</B>
<I>Come 'l vescovo d'Arezzo fece disfare Laterino.</I>
Nell'anno MCCCXXVI, del mese di marzo, il vescovo d'Arezzo fece disfare il castello di Laterino, che non vi rimase pietra sopra pietra, e eziandio fece tagliare il poggio in croce, acciò che mai non vi si potesse su fare fortezza; e tutti gli abitanti fece andare in diverse parti, ch'erano bene Vc famiglie; e ciò fece per dispetto degli Ubertini, e acciò che nol potessono rubellare, perché sentì che alcuno di loro venne a Firenze per trattare di dare il detto Laterino a' Fiorentini e allegarsi co·lloro, però che 'l vescovo gli avea cacciati d'Arezzo, perch'egli cercavano in corte col papa che 'l proposto d'Arezzo, ch'era degli Ubertini, avesse il vescovado d'Arezzo.
<B>CCCXLIV</B>
<I>Come i Ghibellini della Marca corsono la città di Fermo, e ruppono la pace ordinata colla Chiesa.</I>
Nel detto anno, a dì XXVI di marzo, essendo trattato accordo da quegli della città di Fermo colla Chiesa, e quegli della terra faccendone festa e ballando per la città uomini e donne, quegli d'Osimo con certi caporali ghibellini de la Marca, non piaccendo loro l'accordo, entrarono nella città e corsonla, e uccisonne de' caporali che voleano l'accordo, e nel palagio del Comune misono fuoco, essendovi il consiglio per lo detto accordo compiere; e molta buona gente vi morì, e furono arsi e magagnati.
<B>CCCXLV</B>
<I>Come Castruccio con sua gente cavalcò in Creti e infino a Empoli.</I>
Nel detto anno Castruccio, avendo di poco avuta la castellina di Creti, che uno de' Frescobaldi che·ll'avea in guardia per moneta la rendé, sì si distese poi Castruccio e sua gente per lo Creti, e diede battaglia a Vinci e a·cCerreto e a Vitolino, e passò Arno infino a Empoli. E poi a dì V d'aprile ebbe il castelletto di Petroio sopra Empoli, e quello guernì: e co la castellina gran danno faceano alla strada e a tutto il paese. Ma poi a dì XXV di giugno abandonò Petroio e disfecelo, per tema della venuta del duca d'Atene e gente del re Ruberto.
<B>CCCXLVI</B>
<I>Come il vescovo d'Arezzo fu privato dello spirituale per lo papa, e come fu eletto legato per venire in Toscana.</I>
Nel detto anno, a dì XVII d'aprile, papa Giovanni in concestoro di tutti i cardinali apo Vignone dispuose il vescovo d'Arezzo de' Tarlati dello spirituale del vescovado, e concedettelo in guardia al proposto della chiesa d'Arezzo, ch'era degli Ubertini; ma per ciò non lasciò, e non ubbidette a' mandati del papa. E in quello concestoro elesse il papa per legato in Toscana e terra di Roma, per richesta e petizione de' Fiorentini e del re Ruberto, messer Gianni Guatani degli Orsini dal Monte cardinale, e fecelo paciaro in Toscana, acciò che mettesse consiglio e pace nelle discordie di Toscana, dandogli grande autoritade di procedere spiritualmente a chi fosse disubbidiente a la Chiesa.
<B>CCCXLVII</B>
<I>Come si ricominciò guerra in Romagna.</I>
Nel detto anno MCCCXXVI, del mese d'aprile, si cominciò guerra in Romagna tra Forlì e Faenza, e rubellossi per gli Ghibellini il castello di Lucchio. Quegli di Faenza e' Guelfi l'assediaro, e' Ghibellini di Romagna e di Lombardia vi vennono a fornirlo con gran forza; e di Firenze e di Toscana v'andò gente in servigio de' Guelfi. A la fine per accordo s'arrendé a' signori di Faenza.
<B>CCCXLVIII</B>
<I>Come Castruccio cavalcò in su quello di Prato, e fece fare una fortezza al ponte Agliana.</I>
Nel detto anno, del mese d'aprile, Castruccio avendo molto molestati i Pratesi, e sostenea uno battifolle fatto in Valdibisenzo chiamato Serravallino, e un altro presso a l'Ombrone verso Carmignano, sì ne puose un altro a ponte Agliana tra Prato e Pistoia per guerreggiare i Pratesi, e perché i Pistolesi potessono lavorare le loro terre: le quali fortezze furono tutte abandonate e disfatte alla venuta del duca d'Attene luogotenente del duca di Calavra.
<B>CCCXLIX</B>
<I>Come Azzo Visconti fece guerra a' Bresciani, e tolse loro più castella.</I>
Nel detto tempo, del mese di marzo e d'aprile, Azzo Visconti co le masnade di Milano fece gran guerra a' Bresciani, e tolse loro più castella e fortezze.
<B>CCCL</B>
<I>Come messer Piero di Narsi capitano de' Fiorentini fu isconfitto da la gente di Castruccio, e poi mozzo il capo.</I>
Nel detto tempo, a dì XIIII di maggio, messer Piero di Narsi capitano di guerra de' Fiorentini per fare alcuna valentia innanzi che la gente del duca venisse, si cercò uno trattato con certi conastaboli borgognoni e di suo paese ch'erano con Castruccio, d'avere il castello di Carmignano; e segretamente, sanza sentirlo niuno Fiorentino, si raunò di tutte le masnade CC de' migliori cavalieri e con gente a piè da Vc, e subitamente si partì di Prato, e passò l'Ombrone scorrendo la contrada; il quale da' detti conastaboli fu tradito, ch'eglino colla gente di Castruccio aveano messo inn-aguato in due luogora IIIIc cavalieri e popolo assai, e uscirono adosso al detto messer Piero e sua gente, il quale co' primi combattendo vigorosamente, e ruppegli; ma poi sopravegnendo l'altro aguato, fu rotto e sconfitto e preso, egli e messer Ame di Guberto e messer Utasso, conostaboli franceschi, e bene XI cavalieri di corredo, e XL scudieri franceschi e gente a piè assai; onde in Firenze n'ebbe gran dolore, con tutto se n'avesse colpa per la sua troppa sicurtà e non volere consiglio. Avuta questa vittoria Castruccio, venne in Pistoia e fece tagliare la testa al detto messere Piero, opponendogli come gli avea giurato, quando si ricomperò di sua pregione, di non essergli incontro; ma non fu vero, che messer Piero era leale cavaliere e pro', e di lui fu gran dammaggio; ma fecelo morire Castruccio per crescere più l'onta de' Fiorentini, e per ispaurire i Franceschi loro soldati.
<B>CCCLI</B>
<I>Come il duca d'Atene venne in Firenze vicaro del duca di Calavra.</I>
Nel detto anno MCCCXXVI, a dì XVII di maggio, giunse in Firenze il duca d'Atene e conte di Brenna con IIIIc cavalieri, per vicario del duca di Calavra, e tutte le signorie fece giurare sotto la signoria del duca di Calavra e sua; e cassò tutte lezioni fatte de' priori per lo innanzi, e' primi priori a mezzo giugno fece a sua volontà. Il detto signore mandò il re Ruberto innanzi, perché il granduca indugiava più sua venuta, per cagione dell'armata ch'aparecchiava per mandare in Cicilia; e i detti cavalieri vennono a mezzo soldo del re, e l'altro mezzo del Comune di Firenze. E quello tanto tempo che 'l detto duca d'Atene tenne la signoria, ciò fu infino a la venuta del duca di Calavra figliuolo del re, la seppe reggere saviamente e fu signore savio e di gentile aspetto, e menò seco la moglie figliuola del prenze di Taranto e nipote del re Ruberto: albergò a casa de' Mozzi Oltrarno; e a dì XXII di maggio fece piuvicare in Firenze lettere papali, come la Chiesa avea fatto il re Ruberto vicario d'imperio in Italia vacante imperio.
<B>CCCLII</B>
<I>Come l'armata del re Ruberto andò in Cicilia, e poi come tornò in Maremma e nella riviera di Genova.</I>
Nel detto tempo, a dì XXII di maggio, si partì di Napoli l'armata del re Ruberto, la quale furono LXXXX tra galee e uscieri e più altri legni passaggeri con M cavalieri; de la quale armata fu ammiraglio e capitano il conte Novello conte d'Andri e di Montescheggioso de la casa del Balzo; e a dì XIII di giugno arrivarono in Cicilia ne la contrada di Patti, e guastarono infino a Palermo, e poi nel piano di Melazzo; e poi si ricolsono a galee, e valicarono per lo Fare, e guastarono intorno a Cattana e Agosta e Seragosa, e tornaro infino a le mura di Messina; e poi si ricolsono in galee, e rivalicarono per lo Fare sanza contasto niuno, e ripuosonsi ancora nel piano di Melazzo. Allora il figliuolo di don Federigo, che si chiamava il re Imperio, vi cavalcò con VIIc cavalieri; ma il conte s'era già ricolto con suo stuolo a galee, sì che non v'ebbe battaglia, ma grandissimo danno e guasto feciono all'isola di Cicilia. Poi, a dì XIIII di luglio, tornati all'isola di Ponzo, e rinfrescati di vittuaglia, si partirono, e com'era ordinato di venire nella riviera di Genova e in Lunigiana, la detta armata per guerreggiare gli usciti di Genova e Castruccio da quella parte, e 'l duca verso Firenze; e partendosi, arrivarono in Maremma, e a dì XX di luglio scesono in terra, e presono per forza il castello di Magliano, e quello di Colecchio, e più altre villate de' conti da Santa Fiore, levando grandi prede con grande danno de' detti conti. Poi si partirono di Maremma, e lasciarono guernito Magliano di C cavalieri per guerreggiare i detti conti; si partirono e arrivarono a Portoveneri, e là s'accozzarono coll'oste de' Genovesi per racquistare le terre della riviera e fare guerra a Castruccio, ma poco v'aprodaro di racquistare fortezza niuna, se non che arsono per forza combattendo i borghi di Lievanto e poi quegli di Lerice; e bistentando nel golfo della Spezia, non s'ardirono di scendere in Lunigiana, però che Castruccio v'era guernito di molti cavalieri e pedoni, e 'l duca di Calavra non era ancora uscito ad oste sopra quello di Lucca, com'era fatta l'ordine; sì che stando e operando invano, a l'uscita di settembre si dipartì la detta armata, e' Genovesi tornarono in Genova, e' Provenzali in Proenza, e l'altre a Napoli; ma il conte Novello scese in Maremma, e con C cavalieri venne al duca di Calavra ch'era in Firenze.
<B>CCCLIII</B>
<I>Come il legato del papa arrivò in Toscana e venne in Firenze.</I>
Nel detto anno MCCCXXVI messere Gianni degli Orsini cardinale e legato per la Chiesa arrivò a Pisa in su V galee de' Pisani a dì XXIII di giugno, e da' Pisani gli fu fatto grande onore, con tutto che in grande guardia e gelosia erano, sentendo in Firenze il duca d'Atene. E in quegli giorni IIIIc cavalieri provenzali, gentili uomini, vennono per mare in su X galee di Proenza a Talamone per venire in Firenze. Istando il legato in Pisa, Castruccio gli mandò lettere, dicendo in tinore che con tutto che·lla fortuna l'avesse fatto ridere s'acconciava di volere pace co' Fiorentini; ma furono parole vane e infinte, a quello che seguì poi. Dimorato il legato in Pisa alquanti giorni, si venne in Firenze a dì XXX di giugno, e da' Fiorentini fu ricevuto onorevolemente quasi come papa, e fattogli dono di M fiorini d'oro in una coppa. Albergò a Santa Croce al luogo de' frati minori, e a dì IIII di luglio piuvicò la sua legazione, e com'era legato e paciaro in Toscana, e nel Ducato, e nella Marca d'Ancona, e in Campagna e terra di Roma, e nell'isola di Sardigna, faccendo per sue lettere amonizione a tutte le città e signori di sua legazione che 'l dovessono ubbidire e dare aiuto e favore.
<B>CCCLIV</B>
<I>Come IIIc cavalieri di quegli del signore di Milano furono sconfitti a Tortona.</I>
Nel detto tempo, a dì XXVIIII di giugno, IIIc cavalieri di quegli di Galeasso signore di Milano con popolo assai uscirono di Pavia, e vennono per guastare Tortona; e guastando la contrada, e sparti d'intorno di Tortona, uscirono CL cavalieri di quegli del re Ruberto e della Chiesa, e tutti quegli della terra per comune, e sconfissongli con danno di loro, e assai morti e presi.
<B>CCCLV</B>
<I>Come Tano da Iegi sconfisse gente de' Ghibellini de la Marca, e come in Rimine fu fatto uno grande tradimento.</I>
Nel detto tempo, all'entrante di luglio, gente di Fabbriano e altri Ghibellini de la Marca, intorno di CCCL cavalieri e popolo assai, essendo cavalcati per prendere o guastare il castello di Murro, Tano signore d'Iegi coll'aiuto de' Malatesti di Rimine vennono al soccorso di Murro subitamente, e trovando sparti e sproveduti gl'inimici, gli misono in isconfitta con grande danno di loro. Essendo messer Malatesta con sua gente al detto Murro, messer Lamberto, figliuolo di Gianniciotto suo cugino, per signoreggiare Rimine sì ordinò uno laido tradimento, sì come pare costume di Romagnuoli; che fece invitare messer Ferrantino e 'l suo figliuolo suoi consorti, e a tavola mangiando co·llui gli fece assalire con arme, e prendere e ritenere, e quale di loro famiglia si mise a la difensione di loro signori fu morto e tagliato; e poi ciò fatto, corse la terra faccendosene signore. Sentendo ciò messer Malatesta ch'era a Murro, subitamente cavalcò con sua gente e con sua amistà a la città di Rimine, e là giugnendo fece tagliare una porta coll'aiuto de' suoi amici d'entro, e corse la terra, e riscosse i pregioni suoi cugini. Il traditore messer Lamberto veggendo la forza di messer Malatesta non si mise a difensione, ma fuggendo a gran pena scampò nel castello di Santangiolo in loro contrada.
<B>CCCLVI</B>
<I>Come il duca venne in Siena, ed ebbe la signoria V anni.</I>
Nel detto anno, a dì X di luglio, il duca di Calavra con sua baronia e cavalieri entrò nella città di Siena, e da' Sanesi fu ricevuto onorevolemente. Trovò la terra molto partita per la guerra ch'era intra' Tolomei e' Salimbeni, che quasi tutti i cittadini chi tenea coll'uno e chi coll'altro; e' Fiorentini temendo per quella discordia che la terra non si guastasse, e parte guelfa non prendesse altra volta per la detta discordia, sì mandarono per loro ambasciadori pregando il duca che per Dio non si partisse della terra infino che non gli avesse acconci insieme, e avesse la signoria della città; e 'l duca così fece, che tra le due case Tolomei e Salimbeni fece fare triegua con sofficiente sicurtà V anni, e fecevi molti cavalieri novelli, e dimorovvi infino a dì XXVIII di luglio; e in questa dimoranza tanto s'adoperò tra per paura e per amore, come sono le parti nella città divise, gli fu data la signoria di Siena per V anni sotto certo modo e ordine, e per questa stanza del duca in Siena, volle da' Fiorentini oltre a' patti XVIm fiorini d'oro, onde i Fiorentini si tennono male appagati.
<B>LIBRO UNDECIMO</B>
<B>I</B>
<I>Qui comincia lo XI libro, il quale conta de la venuta in Firenze di Carlo duca di Calavra figliuolo del re Ruberto, per la cui venuta fu cagione che lo re eletto de' Romani venne de la Magna in Italia.</I>
Carlo duca di Calavra e primogenito del re Ruberto re di Gerusalem e di Cicilia entrò nella città di Firenze mercolidì all'ora di mezzodì, dì XXX di luglio MCCCXXVI, co la duchessa sua moglie e figliuola di messere Carlo di Valos di Francia, cogl'infrascritti signori e baroni, cioè messer Gianni fratello del re Ruberto e prenze de la Morea colla donna sua, messer Filippo dispoto di Romania e figliuolo del prenze di Taranto nipote del re, il conte di Squillaci, messer Tommaso di Marzano, il conte di Sansoverino, il conte di Chiermonte, il conte di Catanzano e quello di Sangineto in Calavra, il conte d'Arriano, il conte Romano di Nola, il conte di Fondi nipote di papa Bonifazio, il conte di Minerbino, messer Guiglielmo lo Stendardo, messer Amelio dal Balzo, il signore di Berra e quello di Merlo, messer Giuffredi di Gianvilla, e messer Iacomo di Cantelmo, e Carlo d'Artugio di Proenza, e 'l signore del Sanguino, e messer Berardo di siri Grori d'Aquino, e messer Guiglielmo signore d'Ebole, e più altri signori e cavalieri francesci e provenzali e catalani e del Regno e napoletani, i quali furono in quantità, co' Provenzali che vennono per mare, da MD cavalieri, sanza quegli del duca d'Atene, ch'erano IIIIc; intra' quali tutti avea bene CC cavalieri a sproni d'oro, molto bella gente e nobile, e bene a cavallo, e in arme, e in arnesi, che bene MD some a muli a campanelle aveano. Da' Fiorentini fu ricevuto con grande onore e processione; albergò nel palagio del Comune di costa a la Badia, ove solea stare la podestà, e sì tenea ragione; e la signoria e le corti de la ragione andò a stare in Orto Sammichele ne le case che furono de' Macci. E nota la grande impresa de' Fiorentini, che avendo avute tante afflizzioni e dammaggi di persone e d'avere, e così rotti insieme, in meno d'uno anno col loro studio e danari feciono venire in Firenze uno sì fatto signore, e con tanta baronia e cavalleria, e il legato del papa, che fu tenuta grande cosa da tutti gl'Italiani, e dove si seppe per l'universo mondo. E dimorato il duca in Firenze alquanti dì, sì mandò per l'amistà. I Sanesi gli mandarono CCCL cavalieri, i Perugini CCC cavalieri, i Bolognesi CC cavalieri, gli Orbitani C cavalieri, i signori Manfredi da Faenza con C cavalieri, il conte Ruggieri mandò CCC fanti, e 'l conte Ugo in persona con CCC fanti, e la cerna de' pedoni del nostro contado; e per tutti si credette che facesse oste; e l'apparecchiamento fu grande, e fece imporre a' cittadini ricchi LXm fiorini d'oro. Poi, quale si fosse la cagione, non procedette l'oste: chi disse perché il re suo padre non volle, sentendo che tutti i tiranni di Lombardia e di Toscana s'apparecchiavano di venire in aiuto a Castruccio per combattere col duca; e chi disse che l'ordine fatto per lo duca sì dell'armata e sì d'altri trattati, e ancora i Fiorentini molto stanchi delle spese, non era bene disposta la materia; e per alcuno si disse che Castruccio era stato in trattato di pace col legato e col duca, e sotto il trattato trasse suoi vantaggi da la lega de' Ghibellini di Lombardia, e si fornì; e così ingannò il duca, e tornò in vano la 'mpresa; e a questa diamo più fede, che fummo presenti; con tutto che molti dissono che se 'l duca fosse stato franco signore, avendo tanta baronia e cavalleria, sanza porsi a soggiornare nella sua venuta né a Siena né a Firenze, e del mese di luglio e d'agosto che Castruccio fu forte malato, avendo cavalcato verso Lucca, avea vinta la guerra a·ccerto.
<B>II</B>
<I>Di quistioni che 'l duca mosse a' Fiorentini per istendere sua signoria.</I>
Poi a dì XXVIIII d'agosto sequente il duca volle dichiarare co' Fiorentini la sua signoria, e allargare i patti, spezialmente di potere liberamente fare priori a sua volontà, e simile ogni signoria e ufici e guardia di castella e in città e in contado, e a potere a sua volontà fare guerra e pace, e rimettere in Firenze isbanditi e ribelli, nonistante altri capitoli; e fecesi riconfermare la signoria per X anni, cominciandosi in calen di settembre, MCCCXXVI. E in questa mutazione ebbe grande gelosia in Firenze, però che' grandi e' potenti per rompere gli ordini della giustizia del popolo si raunarono insieme, e voleano dare la signoria libera al duca e sanza termine, e niuno salvo; e ciò non faceano né per amore né fede ch'al duca avessono, né che a·lloro piacesse sua signoria per sì fatto modo, ma solamente per disfare il popolo e gli ordini della giustizia. Il duca sopra·cciò ebbe savio consiglio, e tenne col popolo, il quale gli avea data la signoria, e così s'aquetò la città, e' grandi rimasono di ciò molto ispagati.
<B>III</B>
<I>Come il cardinale piuvicò processo contra Castruccio e 'l vescovo d'Arezzo.</I>
Nel detto tempo, a dì XXX d'agosto, il legato cardinale, veggendo che Castruccio e 'l vescovo d'Arezzo l'aveano tenuto in parole dell'accordo e fare i suoi comandamenti, sì piuvicò nella piazza di Santa Croce, ove fu il duca e tutta sua gente e' Fiorentini e' forestieri contra' detti, aspri processi contra Castruccio, sì come scomunicato per più casi, e sismatico e fautore degli eretici, e persecutore de la Chiesa, privandolo d'ogni sua dignità, e che ogni uomo lui e sua gente potesse offendere in avere e persone sanza peccato, iscomunicando chi gli desse aiuto o favore; e il vescovo d'Arezzo de' Tarlati scomunicò per simile modo, e 'l privò del vescovado, dello spirituale e temporale.
<B>IV</B>
<I>Del fallimento della compagnia degli Scali di Firenze.</I>
Nel detto tempo, a dì IIII d'agosto, fallì la compagnia degli Scali e Amieri e figliuoli Petri di Firenze, la quale era durata più di CXX anni, e trovarsi a dare tra cittadini e forestieri più di IIIIc migliaia di fiorini d'oro; e fue a' Fiorentini maggiore sconfitta, sanza danno di persone, che quella d'Altopascio, però che chi aveva danari in Firenze perdé co·lloro; sì che da ogni parte il detto anno i Fiorentini sì di sconfitte, sì di mortalità, sì di perdita di possessioni arse e guaste, e sì di pecunia, ebbono grande persecuzione; e molte d'altre buone compagnie di Firenze per lo fallimento di quella furono sospette con grande danno di loro.
<B>V</B>
<I>Come si murò il castello di Signa per gli Fiorentini.</I>
Nel detto anno MCCCXXVI, dì XIIII del mese di settembre, i Fiorentini veggendo che 'l duca loro signore non era acconcio di fare oste né cavalcata contra Castruccio signore di Lucca in quello anno, sì ordinarono di riporre ed afforzare Signa e Gangalandi, acciò che 'l piano e contado da quella parte si potesse lavorare; e così fu fatto, e Signa fu murata di belle mura e alte, e con belle torri e forti, de' danari del Comune di Firenze, e fu fatta certa immunità e grazia a quale terrazzano vi rifacesse le case; e Gangalandi s'ordinò di riporre per me' la pieve scendendo verso l'Arno sopra capo al ponte: fecionsi i fossi, ma non si compié allora.
<B>VI</B>
<I>Conta della prima impresa di guerra che 'l duca di Calavra fece con tra Castruccio.</I>
Nel detto anno, a l'entrante d'ottobre, il duca di Calavra signore di Firenze ordinò con Ispinetta marchese Malispina ch'egli entrasse nelle sue terre di Lunigiana a guerreggiare da quella parte Castruccio, e soldogli in Lombardia CCC cavalieri, e il legato di Lombardia gline diè CC di quegli della Chiesa, e C ne menò da Verona di quegli di messer Cane suo signore, e valicò da Parma l'alpi e venne nelle sue terre, e puosesi ad assedio del castello di Verruca Buosi, che Castruccio gli avea tolto. Da l'altra parte in quello medesimo tempo usciti di Pistoia a petizione del duca, sanza saputa o consiglio di niuno Fiorentino, rubellarono a Castruccio nell'alpe e montagne di Pistoia due castella, Cavignano e Mammiano. Castruccio veggendosi assalire per sì fatto modo, con tutto che l'agosto dinanzi fosse stato malato a moRte d'una sua gamba, come valente signore, vigorosamente e con grande sollecitudine s'argomentò a riparo, che incontanente fece porre campo e battifolli, overo bastite, molto forti a le dette due castella, ed egli cogli più della sua cavalleria venne a Pistoia per fornire la sua oste, e per istare a·ppetto al duca e a' Fiorentini, acciò che non potessono soccorrere le dette castella. Al duca e al suo consiglio parve avere fatta non savia impresa, ma perché avea promesso a quelle castella il suo soccorso, sì vi mandò la masnada de' Tedeschi, ch'erano CC cavalieri, i quali teneano i Fiorentini, e C altri soldati con Vc pedoni, e capitano di loro messer Biagio de' Tornaquinci di Firenze, i quali salirono a la montagna; ma per forti passi e per grandi nevi che vennono in quegli giorni non s'ardirono di scendere a fornire le castella; e sentendo l'assedio de la gente di Castruccio, ch'era grosso, il duca fece cavalcare a Prato quasi tutta sua gente e l'amistadi, che furono intorno di IIm cavalieri e pedoni assai. E da Prato si partì di questa gente messer Tommaso conte di Squillaci con CCC cavalieri scelti, e co·llui messer Amerigo Donati, e messere Giannozzo Cavalcanti con M pedoni, e salirono a la montagna per pugnare di fornire per forza le dette castella; e l'altra cavalleria e popolo ch'era in Prato cavalcarono infino a le porte di Pistoia, e poi si puosono a campo in sul castellare del Montale, e stettonvi III dì attendati; e in questa stanza fu il più forte tempo di vento e d'acqua, e a la montagna di nevi, che si ricordi di gran tempo; che per necessitade quelli ch'erano al Montale, non possendo tenere le tende tese, convenne che·ssi levassono e tornassono in Prato; e levati, tornaro sanza niuna buona ordine di guerra per tal modo che se Castruccio fosse stato in Pistoia, avrebbono avuto assai a·ffare. E la gente nostra ch'era a le montagne, per lo grande freddo e nevi appena poteano vivere, e falliva loro la vittuaglia sì che per necessità, e ancora perché Castruccio con tutta sua gente vi cavalcò da Pistoia e rafforzò l'oste e prese i passi che venieno a le dette castella, sì che la gente del duca in nulla guisa poterono fornire le dette castella, e furono in aventura d'essere sorpresi; e se poco avessono atteso che la gente di Castruccio si fossono ingrossati e stesi sopra i passi delle montagne, non ne scampava mai uno. E pur così ebbono assai a·ffare, e lasciarono per le montagne assai cavagli e somieri istraccati, e convenne loro per forza tornare per lo contado di Bologna. E partita la gente del duca, i detti due castelli, quegli che v'erano dentro, di notte si fuggirono; ma gli più di loro furono morti e presi, e la nostra gente tornarono in Firenze a dì XX d'ottobre con onta e con vergogna. Avute Castruccio le dette castella, sanza tornare in Pistoia o andarne a Lucca, come sollecito e valoroso signore sì traversò colla sua oste per le montagne di Carfagnana e di Lunigiana, per torre il passo e la vittuaglia a Spinetta e alla sua oste. Il detto Spinetta sentendo la venuta di Castruccio, e udendo com'egli avea prese le dette castella, e più, che·lle spie non vere rapportarono come la gente del duca era stata sconfitta a la montagna, si ritrasse con sua gente e lasciò la 'mpresa, e ripassò l'alpe, e ritornò in Parma. E di vero, se poco più vi fosse dimorato, sì v'era preso con tutta sua gente. E così la prima impresa del duca per non proveduto consiglio tornò in vano, e con vergogna. E ciò fatto, Castruccio fece disfare in Lunigiana le più delle fortezze che v'erano, perché non gli si rubellassono, e tornò in Lucca con gran trionfo, e fece ardere e guastare il suo castello di Montefalcone in su la Guisciana, e quello del Montale di Pistoia per avere meno a guardare, e perché la gente del duca non gli potessono prendere. Avemo sì lungamente detto sopra la materia, imperciò che furono nuovi e diversi avenimenti di guerra in pochi giorni. Lasceremo alquanto de' fatti della nostra guerra, e diremo di grandi e nuove cose ch'avennono in Inghilterra in quegli medesimi tempi.
<B>VII</B>
<I>Come la reina d'Inghilterra fece oste sopra il re suo marito, e preselo.</I>
Egli avenne, come adietro si fece in alcuna parte menzione, che la reina Isabella d'Inghilterra, serocchia del re di Francia, passò col suo maggiore figliuolo in Francia per compiere la pace dal marito al re di Francia della guerra di Guascogna, e per suo studio vi si diede compimento; e ciò fatto, si dolfe al re suo fratello e agli altri suoi parenti del portamento disonesto e cattivo che tenea il re Adoardo secondo d'Inghilterra suo marito, il quale co·llei non volea stare; ma tegnendo vita in avolterio e in lussuria in più disonesti modi, a la sodotta d'uno messer Ugo il Dispensiere suo barone, e guidatore del reame, e lasciandogli usare sua mogliera, la quale era nipote del re, e altre donne, acciò che la reina non degnasse vedere; e sì era delle più belle donne del mondo la reina. Il quale messer Ugo Dispensiere il nutricava in questa misera vita, e del tutto avea rovesciato in lui il governo di sé e di tutto il reame, mettendo adietro quegli di suo lignaggio e tutti gli altri gran baroni, e la reina e 'l figliuolo recati a niente. Questo messer Ugo era di piccolo lignaggio d'Inghilterra, e Dispensieri avea nome, però che l'avolo fu dispensiere del re Arrigo d'Inghilterra, e poi messer Ugo il padre fu dispensiere del re Adoardo primo, padre di questo re; ma per lo grande uficio e cattività del re era questo messer Ugo montato in grande signoria, e avea l'anno più di XXXm marchi di sterlini di rendita, e tutto il governo del reame in mano, e per moglie una nipote del re nata di sua suora; e per la sua disordinata trascotanza era montato in tanta superbia che si credea essere re, e la reina e' figliuoli del re non volea ch'avessono nulla signoria né stato. Per la qual cosa la donna non volendo tornare in Inghilterra, se 'l re non cessasse da sé il governo del detto messere Ugo il Dispensiere e de' suoi seguaci, e di ciò fece scrivere e mandare ambasciatori al re di Francia; ma però niente valse, e de la moglie e figliuolo si mise a non calere, sì era amaliato del consiglio del detto messere Ugo. Per la qual cosa la valente reina, data per moglie al figliuolo la figliuola del conte d'Analdo, e con aiuto di moneta del re di Francia suo fratello e d'altri suoi amici, ordinò in Olanda ne le terre del detto conte d'Analdo una armata di LXXX tra navi e cocche picciole e grandi, e soldò tra d'Analdo e di Brabante e di Fiandra VIIIc cavalieri, e ricolti in su la detta armata ella e 'l figliuolo co la detta gente, onde fece capitano messer Gianni fratello del conte d'Analdo, e partìsi d'Olanda del mese di settembre, gli anni di Cristo MCCCXXVI, faccendo disfidare il marito e chi 'l seguisse; e fece intendere e dare boce in Inghilterra ch'ella fosse allegata cogli Scotti e nimici del re, e là a le confini d'Inghilterra e di Scozia farebbe porto co la sua armata per accozzarsi cogli Scotti.
<B>VIII</B>
<I>Di quello medesimo.</I>
Lo re Adoardo sentendo l'aparecchiamento del navilio e de' cavalieri che gli venia adosso co la moglie e col figliuolo, col consiglio del detto messer Ugo si ritrasse con sua gente d'arme verso le marce e' confini di Scozia per non lasciare la detta armata porre in terra. Ma il capitano de la detta armata maestrevolemente procedendo, non andarono al luogo ove aveano data la boce, ma puosono a Giepsivi presso di Londra a LXX miglia, a dì XV d'ottobre MCCCXXVI. Incontanente ch'ebbono posto in terra, il popolo di Londra si levò a romore, e corsono la terra, gridando: "Viva la reina e il giovane re, e muoiano i dispensieri e i loro seguaci"; e presono il vescovo di Silcestri, ch'era aguzzetta del detto messer Ugo, e tagliargli la testa; e tutti i famigliari e' seguaci de' dispensieri che trovarono uccisono; e le case della compagnia de' Bardi loro mercatanti rubarono e arsono, e più giorni durò la città ad arme e disciolta infino a la venuta della reina; e simile quasi tutti i baroni d'Inghilterra si ridussono co la reina, e abandonarono lo re. E giunta la reina in Londra fu ricevuta a grande onore, e riformata la terra, non s'intese ad altro che perseguitare i dispensieri e lo re. E in questo mese fu preso messer Ugo il vecchio, padre di messer Ugo il giovane il Dispensiere che guidava il re, e fu tranato co le sue armi indosso, e poi impiccato. E ciò fatto, la reina e 'l figliuolo con sua oste seguirono il re e messer Ugo infino in Guales, ch'erano nel castello chiamato Carfagli, gli assediarono più tempo, il quale era molto forte di selve e di marosi. A la fine s'accordò il re col detto messer Ugo, e comunicarsi insieme di mai non abbandonarsi, e armarono uno battello, e di notte uscirono del castello per andarsene in Irlanda con uno loro seguace ch'avea nome il Baldotto, prete e roffiano, e più altri famigliari. Ma come piacque a Dio, non erano sì tosto infra mare XX miglia, che 'l vento e tempesta di fortuna e la corrente gli recava a terra, e questo fu per più volte; e veggendo che non poteano passare, sì scesono in terra nel profondo e salvatico di Gales per venire al castello di Carsigli ov'era il figliuolo del detto messer Ugo, quasi con poca compagnia e sconosciuti. Il conte di Lancastro cugino del re, e fratello di colui a cui fece tagliare la testa con gli altri baroni, come inn-altra parte facemmo menzione, sì gli faceva a sua gente perseguitare il re e messere Ugo tanto, che gli trovarono presso di Meti in Guales: gli sorpresono; e 'l re domandando s'erano amici, dissono di sì, e che l'aveano per loro signore, e inginocchiarsi a·llui, ma che voleano messer Ugo; allora disse il re: "Non siete con meco, se voi siete contra costui"; e lo re tenendo messer Ugo accostato a·llui, e 'l braccio in collo per guarentillo, nullo gli ardia a porre mano adosso per prenderlo; ma il capitano di quella gente sagacemente richiese il re di parlarli in segreto per suo grande bene. Il re iscostandosi da messer Ugo per parlare a colui, un altro della compagnia... disse al detto messere Ugo, se volea scampare il seguisse; e così fece.
Incontanente dal Guales il traviarono per boschi di lungi bene XXX miglia; e lo re veggendosi così ingannato si dolfe molto, ma poco gli valse; che cortesemente fu menato egli e 'l Baldotto e gli altri ch'erano co·lloro presi. Come il conte sentì come lo re e sua compagnia erano presi, sì cavalcò in quella parte, e trovando traviato messer Ugo, andò in verso la casa di colui che l'avea preso; trovando, lo menò; e partito da' compagni, e' prese la moglie e' figliuoli, e minacciogli d'uccidere, o gl'insegnassono quegli ch'aveano messer Ugo. Quivi patteggiò e vollene il Gualese libbre M di sterlini. Incontanente il conte lo fece pagare per averlo. E ciò fatto, furono menati messer Ugo, e 'l Baldotto suo prete, e Sime di Radinghe presi con grandi grida e molti corni dinanzi a la reina, ch'era ad Eriforte; e poco appresso messer Ugo coll'armi sue a ritroso fue tranato, e poi impiccato, e poi tagliata la testa e squartato, e mandato ciascuno quartiere in diverse parti del reame, e ivi penduti, e le 'nteriora arse. E ciò fu del mese di novembre MCCCXXVI, a dì XXIIII. E per questo modo la valente reina si vendicò del suo nimico ch'avea guasto il re suo marito e tutto il reame. Lo re fu menato per lo conte di Lancastro a Gudistocco, e in quello castello fu tenuto cortesemente pregione; poi i baroni raunati a parlamento richiesono lo re ch'egli perdonasse a la reina e al figliuolo e a chiunque l'avea perseguito, e giurasse e promettesse di guidare il reame per consiglio de' suoi baroni; e se ciò non volesse fare, e' farebbono re Adoardo suo figliuolo. Lo re aontato de la vergogna a·llui fatta, in nulla guisa volle vedere la moglie né 'l figliuolo, né dimettere, né perdonare; innanzi volle essere disposto re ed essere pregione. Per la qual cosa i baroni feciono coronare re Adoardo il terzo suo figliuolo, e ciò fu il dì della Candellora, anno MCCCXXVI. E la reina veggendo che 'l re no·lle volle perdonare, né tornare a esser re, mai poi non fue allegra; ma come vedova si contenne in dolore, e volentieri avrebbe ritratto ciò ch'ella avea fatto. E poi il detto re Adoardo stando in pregione, per dolore infermò, e morìo del mese di settembre, gli anni di Cristo MCCCXXVII, e per molti si disse che fu fatto morire; e dianvi fede. E così i laidi peccati, chi gli segue contra Idio, hanno mali cominciamenti, e mali mezzi, e dolorosa fine. Lasceremo de' fatti d'Inghilterra, che assai n'avemo detto, e torneremo alquanto a' nostri di Firenze e d'Italia.
<B>IX</B>
<I>Come i Parmigiani e poi i Bolognesi diedono la signoria al legato del papa.</I>
Nel detto anno MCCCXXVI, in calen di ottobre, il Comune di Parma diede la signoria al legato del papa messer Ramondo dal Poggetto cardinale, il qual era in Lombardia per la Chiesa di Roma, e in Parma dimorò alquanto con sua corte, e avea a suo comandamento le masnade de' cavalieri della Chiesa, ch'erano bene IIIm cavalieri, la maggiore parte oltramontani, buona gente d'arme; ma poco d'onore o di stato feciono a santa Chiesa o a sua parte in aquisto di terre, o danno di nimici ribelli della Chiesa; e di ciò tutta la colpa si dava al detto legato, che 'l papa vi mandava moneta infinita, e male erano pagate le masnade, e nullo bene poteano fare. Poi per iscandalo che' Bolognesi aveano tra·lloro, per simile modo diedono la signoria a la Chiesa e al detto legato, il quale venne in Bologna a dì...
<B>X</B>
<I>Come il re Ruberto e 'l duca mosse i primi patti a' Fiorentini.</I>
Nel detto anno, del mese di dicembre, lo re Ruberto mandò al Comune di Firenze che oltre al primo patto che' Fiorentini aveano fatto al duca, come addietro è fatta menzione, volea che' Fiorentini stessono a pagare la taglia di VIIIc cavalieri oltramontani; per gli quali avea mandati in Proenza e in Valentinese e in Francia, e l'altre città amici di Toscana, come sono Perugini e' Sanesi e l'altre terre d'intorno, acciò che 'l duca in su la guerra fosse meglio acompagnato; e se ciò non si facesse per gli Fiorentini, mandò al duca che si partisse di Firenze e tornassene a Napoli. Per la quale richesta i Fiorentini si turbarono molto, imperciò che assai parea loro essere caricati di spese, e parea loro, ed era vero, che 'l re rompéo loro i patti; e mal partito aveano di lasciare partire il duca di Firenze, e le terre vicine male voleano concorrere alla spesa, onde il più del carico tornava sopra il Comune di Firenze. Per la qual cosa per lo meno reo partito i Fiorentini feciono composizione col duca di dargli XXXm fiorini d'oro per gli detti cavalieri, e' Sanesi ne diedono anche parte, e l'altre piccole terre d'intorno, ma i Perugini non vollono stare alla spesa. Ma come s'andasse la spesa, infra uno anno che 'l duca era venuto in Firenze, tra per lo suo salario e l'altre spese opportune che fece portare a' Fiorentini, più di IIIIcL migliaia di fiorini d'oro si trovò speso il Comune di Firenze, usciti di gabelle e d'imposte e libbre e altre entrate di Comune; che fu tenuta grande cosa e maravigliosa, e molto se ne doleano i Fiorentini. E oltre a questo, per lo consiglio de' suoi aguzzetti savi del regno di Puglia, si recò al tutto la signoria da la piccola cosa a la grande di Firenze, e avilì sì l'uficio de' priori, che nonn-osavano fare niuna cosa quanto si fosse piccola, eziandio chiamare uno messo; e sempre stava con loro uno de' savi del duca, onde a' cittadini, ch'erano usati di signoreggiare la città, ne parea molto male: ma grande sentenzia di Dio fu che per le loro sette passate fosse avilita la loro giuridizione e signoria per più vile gente e men savi di loro.
<B>XI</B>
<I>Come a le donne di Firenze fue renduto certo ornamento.</I>
Nel detto anno MCCCXXVI, e del detto mese di dicembre, il duca a priego che le donne di Firenze fatto a la duchessa sua moglie, sì rendé a le dette donne uno loro spiacevole e disonesto ornamento di trecce grosse di seta gialla e bianca, le quali portavano in luogo di trecce di capegli dinanzi al viso, lo quale ornamento perché spiacea a' Fiorentini, perch'era disonesto e trasnaturato, aveano tolto a le dette donne, e fatti capitoli contro a·cciò e altri disordinati ornamenti, come adietro è fatta menzione: e così il disordinato appetito de le donne vince la ragione e 'l senno degli uomini.
<B>XII</B>
<I>Come il papa fece nuovo vescovo d'Arezzo.</I>
Nel detto anno e mese di dicembre papa Giovanni fece vescovo d'Arezzo uno degli Ubertini, possenti e gentili uomini del contado d'Arezzo, acciò che co' suoi fosse contro a Guido Tarlati disposto per lui del vescovado d'Arezzo; ma però poco aprodò, ché 'l nuovo eletto, con tutto l'aiuto del papa e del legato cardinale ch'era in Firenze, non avea uno danaio di rendita, che tutto il temporale e spirituale d'Arezzo tenea per forza il detto Guido Tarlati, ed erane tiranno e signore.
<B>XIII</B>
<I>Come Castruccio volle torre a' Pisani Vico loro castello.</I>
Nel detto anno MCCCXXVI, a dì V di gennaio, Castruccio signore di Lucca essendo nimico di quelli che reggeano Pisa, sì ordinò di torre a' Pisani il castello di Vicopisano, e mandòvi messer Benedetto Maccaioni de' Lanfranchi rubello di Pisa con CL cavalieri di sue masnade, e Castruccio con gran gente venne ad Altopascio per soccorrere, se bisognasse. Il quale messer Benedetto entrato la mattina per tempo per tradimento in Vico, corse la terra; ma i terrazzani levati, presono l'arme, e cominciarsi a difendere, e per forza ne cacciarono il detto messer Benedetto e la gente di Castruccio, e più di L ve ne rimasono tra presi e morti, onde i Pisani maggiormente s'inanimarono contra Castruccio.
<B>XIV</B>
<I>Come più terre di Toscana si diedono al duca.</I>
Nel detto anno MCCCXXVI, del mese di gennaio e di febbraio, i Pratesi e' Samminiatesi e quegli di San Gimignano e di Colle diedono la signoria al duca di Calavra figliuolo del re Ruberto in certo tempo e sotto certi patti, salvo che' Pratesi per loro discordia si diedono a perpetuo al duca e a sue rede.
<B>XV</B>
<I>Di cavalcata fatta sopra Pistoia.</I>
Nel detto anno, a dì XXI di gennaio, il conte Novello colla gente del duca, in quantità di VIIIc cavalieri de la migliore gente, cavalcarono infino a le porte di Pistoia e ruppono l'antiporto, e poi guastarono e arsono tutta Valle di Bura, e guastarono le mulina con grande danno di preda de' Pistolesi.
<B>XVI</B>
<I>De' fatti degli usciti di Genova.</I>
Nel detto anno, a l'entrante di febbraio, gli usciti di Genova con gente di Castruccio presono il castello di Siestri; e poi a dì III d'agosto vegnente, anni MCCCXXVII, i detti usciti per inganno presono il forte castello di Monaco, e tolsollo al Comune di Genova.
<B>XVII</B>
<I>Dell'estimo fatto in Firenze.</I>
Nell'anno MCCCXXVII, del mese d'aprile, si trasse in Firenze uno nuovo estimo ordinato per lo duca, e fatto con ordine per uno giudice forestiere per sesto, a la isaminazione di VII testimoni segreti e vicini, stimando ciò che ciascuno avea di stabile e di mobile e di guadagno, pagando certa cosa per centinaio del mobile, e certa cosa per centinaio lo stabile, e così del procaccio e guadagno. L'ordine si cominciò bene; ma gli detti giudici corrotti, cui puosono a ragione, e a cui fuori di ragione, onde grande ramarichio ebbe in Firenze; e così mal fatto, se ne ricolse LXXXm fiorini d'oro.
<B>XVIII</B>
<I>Come la parte ghibellina feciono venire in Italia Lodovico duca di Baviera eletto re de' Romani.</I>
Negli anni di Cristo MCCCXXVI, del mese di gennaio, per cagione della venuta del duca di Calavra in Firenze i Ghibellini e' tiranni di Toscana e di Lombardia di parte d'imperio mandarono loro ambasciadori in Alamagna a sommuovere Lodovico duca di Baviera eletto re de' Romani, acciò che potessono resistere e contastare a la forza del detto duca e de la gente della Chiesa, ch'era in Lombardia; e con grandi impromesse il detto Lodovico con poca gente condussono col duca di Chiarentana insieme a uno parlamento a Trento a' confini de la Magna di là da Verona; e al detto parlamento fu messer Cane signore di Verona con VIIIc cavalieri, e andovvi così guernito di gente d'arme per tema del detto duca di Chiarentana, con cui avea avuta briga per la signoria di Padova; e fuvi messer Passerino signore di Mantova, e uno de' marchesi d'Esti, e messer Marco, e messer Azzo Visconti di Milano, e fuvi Guido de' Tarlati che si chiamava vescovo d'Arezzo, e ambasciadori di Castruccio e de' Pisani e degli usciti di Genova e di don Federigo di Cicilia, e d'ogni caporale di parte d'imperio e Ghibellini d'Italia. Nel quale parlamento prima si fece l'accordo di triegua dal detto duca di Chiarentana a messer Cane di Verona. Apresso, a dì XVI di febbraio, il detto eletto re de' Romani, il quale volgarmente Bavero era chiamato da coloro che non voleano essere scomunicati, sì promise e giurò nel detto parlamento di passare in Italia, e venire a Roma sanza tornare in suo paese; e' detti tiranni e ambasciadori de' Comuni ghibellini gli promisono di dare CLm fiorini d'oro come fosse a Milano, salvo ch'a la detta lega non si legarono i Pisani, ma cercavano da parte di dargli danari assai, acciò che promettesse di non entrare in Pisa. E nel detto parlamento piuvicò non dovutamente papa Giovanni XXII essere eretico e non degno papa, apponendogli sedici articoli incontro; e ciò fece con consiglio di più vescovi e altri prelati e frati minori e predicatori e agostini, i quali erano sismatici e ribelli di santa Chiesa per più diversi casi, e co·lloro era il maestro della magione degli Alamanni, e tutta la sentina degli apostici e sismatici di Cristianità. E intra gli altri più forte e maggiore capitolo che opponesse contro al detto papa sì rinovò la quistione mossa in corte che Cristo nonn-ebbe propio, dicendo come il papa e la chericia amavano propio, ed erano nimici de la santa povertà di Cristo, e intorno a·cciò più articoli di scandalo in fede; e piuvicamente egli scomunicato, e simile i suoi prelati, continuo facea celebrare l'uficio sacro, e scomunicare papa Giovanni; e per diligione il chiamavano il papa prete Giovanni, onde grande errore se ne commosse in Cristianità. E ciò fatto, a dì XIII di marzo, si partì da Trento con poca di sua gente, e poveramente e bisognoso di danari, che in tutto non avea VIc cavalieri: e per le montagne ne venne a la città di Commo, e poi di là venne e entrò in Milano, a dì... d'aprile MCCCXXVII.
<B>XIX</B>
<I>Come l'eletto di Baviera detto Bavero si fece coronare in Milano.</I>
E poi, a dì XXXI di maggio, anni di Cristo MCCCXXVII, il dì della Pentecosta, quasi all'ora di nona, si fece coronare in Milano il detto Bavero della corona del ferro nella chiesa di Santo Ambruogio per mano di Guido de' Tarlati disposto vescovo d'Arezzo, e per mano di... di quegli di casa Maggio disposto vescovo di Brescia, e scomunicati; e già l'arcivescovo di Milano, a cui pertenea la coronazione, non vi volle essere in Milano. E a la detta coronazione fu messer Cane signore di Verona con VIIc cavalieri, e' marchesi da Esti ribelli della Chiesa con IIlc cavalieri, e 'l figliuolo di messere Passerino signore di Mantova con IIlc cavalieri, e più altri caporali di parte d'imperio e Ghibellini di Italia vi furono; ma però piccola festa v'ebbe. E rimase in Milano infino a dì XII d'agosto per avere moneta e gente. Lasceremo alquanto di lui, incidendo lo suo avento, per dire de le sequele e novitadi che s'apparecchiarono in Italia per la detta sua venuta.
<B>XX</B>
<I>Di novitadi che fece il popolo di Roma per l'avento del Bavero che si chiamava loro re.</I>
Per la venuta del detto Bavero eletto re de' Romani, incontanente, e in quello medesimo tempo, si commosse quasi tutta Italia a novitade; e' Romani si levarono a romore e feciono popolo, perché nonn-aveano la corte del papa né dello 'mperadore, e tolsono la signoria a tutti i nobili e grandi di Roma e le loro fortezze; e tali mandarono a' confini: ciò fu messer Nepoleone Orsini e messer Stefano de la Colonna, i quali di poco per lo re Ruberto erano fatti cavalieri a Napoli, per tema che non dessono la signoria di Roma al re Ruberto re di Puglia; e chiamaro capitano del popolo di Roma Sciarra della Colonna che reggesse la cittade col consiglio di LII popolani, IIII per rione; e mandarono loro ambasciadori a Vignone in Proenza a papa Giovanni, pregandolo che venisse colla corte a Roma, come dee stare per ragione; e se ciò non facesse, riceverebbono a signore il loro re de' Romani, detto Lodovico di Baviera; e simile mandarono loro ambasciadori a sommuovere il detto Lodovico chiamato Bavero; e la mossa loro fue simulata sotto quella cagione di rivolere la corte del papa per trarne grascia, come per antico erano usati; ma poi riuscì con maggiori sequele come innanzi si farà menzione. Il papa rispuose a' Romani per suoi ambasciadori, ammonendoli e confortandogli che non ricevessono il Bavero per loro re, però ch'egli era eretico e scomunicato e perseguitatore di santa Chiesa, e ch'egli a tempo convenevole, e tosto, verrebbe a Roma. Ma però non lasciarono i Romani il loro errore, trattando col papa e col Bavero e col re Ruberto, dando a ciascuno intendimento di tenere la città di Roma per loro, reggendosi a signoria di popolo, e dissimulando quasi a parte ghibellina e d'imperio.
<B>XXI</B>
<I>Come il re Ruberto mandò il prenze della Morea suo fratello con M cavalieri ne le terre di Roma.</I>
Lo re Ruberto, sentendo la venuta del detto Bavero in Lombardia, mandò messer Gianni prenze de la Morea suo fratello con M cavalieri a l'Aquila per avere a sua signoria le terre ch'erano in su i passi, e dell'entrate del Regno; e ebbe Norcia del Ducato a sua guardia, e poi la città di Rieti, ne la quale lasciò il duca d'Atene con gente d'arme; e poi fornì tutte le terre di Campagna con rettore che v'era per lo papa, a sua guardia e de la Chiesa. E poi credette potere entrare in Roma co la forza de' nobili; ma da' Romani non volle essere ricevuto. Per la qual cosa venne a oste a Viterbo, e guastogli intorno e prese assai del loro contado, perché non gli vollono dare la terra. E infra 'l detto tempo che 'l prenze de la Morea guerreggiava le terre di Roma lo re Ruberto mandò in Cicilia contra don Federigo LXX galee con Vc cavalieri, la quale armata partì di Napoli a dì VIII di luglio anni MCCCXXVII, e all'isola di Cicilia in più parti feciono danno assai, e presono più legni de' nimici. In questa stanza V galee di Genovesi de la detta armata per mandato del re Ruberto vennono a la guardia de la foce del fiume del Tevero, acciò che grascia e vittuaglia non entrasse per la via di mare ne la città di Roma; le quali galee presono la cittadella d'Ostia a dì V d'agosto nel detto anno, e rubarla tutta. Per la qual cosa il popolo di Roma furiosamente e non ordinati vi corsono parte di loro a Ostia, e assalendo la terra molti ne furono fediti e morti di moschetti di balestri di Genovesi, e ritornarsi in Roma. E ciò fatto, i Genovesi misono fuoco ne la terra e partirsi, e tornarono a loro galee; de la qual cosa il popolo di Roma molto si turbò contra il re Ruberto, e certi trattati ch'aveano co·llui d'accordo ruppono; onde il legato cardinale ch'era in Firenze n'andò verso Roma a dì XXX d'agosto nel detto anno per riconciliare i Romani col re Ruberto, e per entrare in Roma con messer Gianni prenze della Morea e co' nobili di Roma, che n'erano fuori a' confini; ma il popolo di Roma nulla ne volle udire. Onde veggendo che per accordo non poteano entrare in Roma, sì ordinarono d'entrarvi per inganno e forza; onde lunidì notte, a dì XXVIII di settembre nel detto anno, il detto prenze [...]
<B>XXII</B>
<I>Come il prenze della Morea fratello del re Ruberto e il legato cardinale entrarono in Roma, e furonne cacciati con onta e danno.</I>
[...] il legato cardinale degli Orsini e messer Nepoleone Orsini feciono rompere le mura del giardino di San Piero de la città detta Leonina, e entrarono in Roma con Vc cavalieri e altrettanti pedoni; ma messer Stefano della Colonna non vi volle entrare; e la detta gente presono la chiesa di San Piero, e la piazza e 'l borgo de' rigattieri, e uccisono tutti i Romani che la notte v'erano a la guardia, e feciono barre al detto borgo verso Castello Santo Angiolo. Ma faccendosi giorno, la parte de' Romani ch'aveano promesso di cominciare battaglia ne la terra a·ppetizione degli Orsini non ne feciono niente, né la gente del prenze e del legato non si trovarono nullo séguito da' Romani, ma il contradio. Il popolo di Roma, sonando la campana di Campidoglio a stormo, la notte furono a l'arme, e vennero assalire il detto prenze e·legato e loro gente, e a le sbarre fatte ebbe gran battaglia e fuvi morto uno degli Anibaldeschi, e altri assai Romani; ma a la fine soprastando il popolo, e crescendo in forza da tutte parti, la gente del prenze, ch'erano da C cavalieri e pedoni assai a difendere le sbarre, furono sconfitti e rotti, e morìvi messer Giuffrè di Gianville, e altri cavalieri intorno di XX, e a piè assai. E ciò veggendo il prenze e·legato, ch'erano schierati coll'altra cavalleria nella piazza di San Piero, feciono mettere fuoco nel detto borgo, acciò che 'l popolo non premesse loro adosso, ch'altrimenti tutti erano morti e presi, e si ricolsono salvamente, e partirsi di Roma con danno e disinore, e si ritornaro ad Orti; e ciò fu a dì XXVIII di settembre. Lasceremo de' fatti del re Ruberto e del prenze e de' Romani, e torneremo adietro a raccontare de' nostri fatti di Firenze e di Toscana e di Lombardia, che furono nell'avento del detto Bavero.
<B>XXIII</B>
<I>Come al duca di Calavra nacque uno figliuolo in Firenze.</I>
Nel detto anno MCCCXXVII, a dì XIII d'aprile, nacque in Firenze uno figliuolo al duca di Calavra de la sua donna figliuola di messer Carlo di Valos di Francia, il quale fu fatto Cristiano per messer Simone della Tosa e per Salvestro Manetti de' Baroncelli sindachi fatti per lo Comune e popolo di Firenze, e fu chiamato Martino; e grande festa e armeggiare se ne fece per gli Fiorentini; ma all'ottavo dì di sua natività si morì e soppellì a Santa Croce, onde grande cordoglio n'ebbe in Firenze.
<B>XXIV</B>
<I>Come la città di Modana si rubellò dalla signoria di messere Passerino di Mantova.</I>
Nel detto anno, a dì IIII di giugno, il popolo della città di Modana per trattato del legato di Lombardia si levò a romore gridando pace, e cacciarne fuori la signoria e' soldati che v'erano per messer Passerino signore di Mantova, e acconciarsi col detto legato, rimagnendo la terra a·lloro parte ghibellina, prendendo signoria dal legato, e rendendo i loro beni agli usciti loro guelfi, istandone certi caporali a' confini, e avendo gli amici de la Chiesa per amici, e' nimici per nimici. E di questo accordo si disse che vi spese la Chiesa a certi cittadini XVm fiorini d'oro; sì che con senno e con danari si recarono in pacefico stato i Modanesi, ch'erano molto aflitti d'assedio e di guerra e di tirannica signoria.
<B>XXV</B>
<I>Di novità fatte in Pisa per la coronazione del Bavero.</I>
Nel detto tempo, a l'entrare di giugno, venuta in Pisa la novella e l'olivo della coronazione del Bavero in Milano, se ne fece falò e festa per certi usciti di Firenze e d'altre città, e alcuno popolano minuto pisano gridando: "Muoia il papa e 'l re Ruberto e' Fiorentini, e viva lo 'mperadore!". Per la qual cosa coloro che allora reggeano Pisa, ch'erano i migliori e' più possenti e ricchi popolani della città, e per setta nimici di Castruccio, e non voleano la venuta del Bavero, ma al continuo trattavano col papa e col re Ruberto, sì cacciarono di Pisa quasi tutti i forestieri usciti di loro cittadi, e mandarono a' confini de' maggiori cittadini sospetti al loro stato, e ch'amavano la venuta del Bavero e la signoria di Castruccio; e tutti i soldati tedeschi mandarono via e tolsono loro i cavagli per sospetto; e quasi si teneano più a·reggimento di parte di Chiesa che ghibellina, onde grande novità ne seguì in Pisa a la venuta del Bavero, sì come innanzi faremo menzione.
<B>XXVI</B>
<I>D'uno trattato che 'l duca ordinò per torre la città di Lucca a Castruccio, e fu discoperto.</I>
Nel detto anno MCCCXXVII il duca di Calavra signore di Firenze avendo menato segretamente uno trattato con certi della casa de' Quartigiani di Lucca ch'eglino co·lloro seguaci rubellerebbono la città di Lucca a Castruccio, per soperchi ricevuti da la sua tirannesca signoria, e per molta moneta che vi spendea il duca e 'l Comune di Firenze; e ciò fu ordinato in questo modo: che la gente del duca doveano cavalcare in sul terreno e a l'assedio di Pistoia, e come Castruccio uscisse de la città colla sua cavalleria per soccorrere Pistoia, doveano trarre bandiere e pennoni dell'arme della Chiesa e del duca da più parti della terra, le quali insegne erano mandate di Firenze segretamente; e levato il romore in Lucca e presa alcuna porta, la gente del duca e de' Fiorentini, che in buona quantità n'avea a Fucecchio e nelle terre di Valdarno, incontanente per cenno doveano cavalcare a Lucca, e prendere la terra. E veniva fatto, se non che lo 'ndugio de la cavalcata de la gente del duca si tardò, e in questo mezzo alcuno de la casa medesima de' Quartigiani per viltà e paura lo scoperse a Castruccio. Per la qual cosa Castruccio subitamente fece serrare le porte di Lucca, e corse la terra con sue genti, e fece pigliare XXII di casa i Quartigiani e più altri, e trovare le dette insegne. Messer Guerruccio Quartigiani con III suoi figliuoli fece impiccare co le dette insegne a ritroso, e altri di loro fece propagginare, e tutti gli altri de la casa de' Quartigiani, ch'erano più di C, gli cacciò de la città di Lucca e del contado. E questo fu a dì XII di giugno nel sopradetto anno. E ciò fu grande sentenzia e giudicio di Dio che gli detti della casa de' Quartigiani anticamente guelfi furono caporali a dare la città e signoria di Lucca a Castruccio, e tradendo i Guelfi, per lui furono morti e disertati per lo simile peccato di tradimento. E trovato Castruccio il detto tradimento, il quale era con tanti seguaci buoni cittadini di Lucca e del contado, non s'ardì a scoprirlo più innanzi, ma vivendo in tanta paura e gelosia, che non s'ardia a uscire della città. E di certo per lo male volere de' suoi cittadini, e per la forza del duca e de' Fiorentini, tosto avrebbe perduta la terra, se non fosse il soccorso brieve e venuta del Bavero, come innanzi farà menzione.
<B>XXVII</B>
<I>Come il legato cardinale piuvicò in Firenze i processi fatti per lo papa sopra il Bavero.</I>
Nel detto anno MCCCXXVII, il dì de la festa di santo Giovanni di giugno, messer Gianni Guatano degli Orsini cardinale, legato in Toscana, a la detta festa ne la piazza di San Giovanni piuvicò nuovi processi venuti dal papa contra Lodovico duca di Baviera eletto re de' Romani, sì come contra eretico e persecutore di santa Chiesa: e poco appresso dimorò in Firenze, che n'andò verso Roma per rimuovere i Romani per lo modo che dicemmo addietro.
<B>XXVIII</B>
<I>Della rubellazione di Faenza in Romagna, il figliuolo al padre.</I>
Nel detto anno, a dì VIII di luglio, Alberghettino figliuolo di Francesco de' Manfredi signore di Faenza rubellò e tolse la signoria de la detta città di Faenza al padre e a' frategli, e cacciogline fuori, e egli se ne fece signore; e così mostra che non volesse tralignare e del nome e del fatto di frate Alberigo suo zio, che diede le male frutta a' suoi consorti, faccendogli uccidere e tagliare al suo convito, sì che Francesco Manfredi, che fu a·cciò fare, ricevette in parte del detto peccato guidardone dal figliuolo.
<B>XXIX</B>
<I>De' fatti di Firenze.</I>
Nel detto anno, a dì XI di luglio, la notte vegnente s'aprese fuoco in Firenze in borgo Santo Appostolo nel chiasso tra' Bonciani e gli Acciaiuoli, e arsonvi VI case e 'l palagio di Giotti, sanza danno di persone.
<B>XXX</B>
<I>Come il duca e' Fiorentini feciono oste sopra Castruccio, e presono per forza il castello di Santa Maria a Monte.</I>
Nel detto anno, a dì XXV di luglio, si partì l'oste di Firenze ordinata per lo duca e per lo detto Comune, e rassegnaronsi e feciono mostra la cavalleria ne la piazza di Santa Croce; e furono la gente del duca MCCC a cavallo, e' Fiorentini C caporali con II o III compagni ciascuno, molto nobile gente e bene in arme e a cavallo; e nell'isola dietro a Santa Croce si rassegnarono i pedoni, che furono più di VIIIm. E avuta la benedizione dal legato cardinale e date le 'nsegne per lo duca, si mossono e andarono la sera, e puosonsi a campo a piè di Signa in su l'Ombrone; e stettonvi III dì, che niuno non sapea dove l'oste si dovesse andare, onde molto si maravigliavano i Fiorentini; ma ciò fu fatto cautamente acciò che Castruccio non si prendesse guardia ove l'oste si dovesse porre, o a Pistoia, o andare in sul contado di Lucca, e acciò che gli convenisse partire la gente sua in due parti. E ciò fatto, subitamente di notte si levarono, e lasciarono tutte le tende tese infino la mattina a terza, acciò che' nimici non s'accorgessono che l'oste fosse levata, e tutta la notte cavalcarono per lo cammino di Montelupo, e l'altro giorno anzi l'ora di nona passarono la Guisciana a uno ponte che fu posto la detta notte al passo di Rosaiuolo; e passati innanzi CCCC cavalieri ch'erano in Valdarno, e' subitamente si puosono all'assedio al castello di Santa Maria a Monte. E poi s'agiunse a la detta oste messer Vergiù di Landa con CCCL cavalieri che mandò il Comune di Bologna, e·legato ed altre amistà, sì che 'l giorno appresso v'ebbe intorno MMD cavalieri, e più di XIIm pedoni, de la quale oste era capitano il conte Novello di Montescheggioso e d'Andri, che il duca era rimaso in Firenze con Vc cavalieri, però che non fu oste generale, e non era onore del duca di porsi a oste a uno castello. Il detto castello era molto forte di tre gironi di mura co la rocca, e di vittuaglia assai fornito, e gente v'avea da Vc uomini, e non più; però che temendo Castruccio che l'oste non andasse a Carmignano, vi mandò CC de' migliori masnadieri che fossono in Santa Maria a Monte. E dato termine a quegli del castello d'arendersi, non obbedendo, domenica a dì II d'agosto si diede per la detta oste la battaglia da più parti al primo girone di sotto da' borghi; e' maggiori baroni e cavalieri dell'oste ismontarono da cavallo, e col pavese in braccio e elmi in capo si misono sotto le mura e per li fossi rizzando scale a le mura; e 'l popolo a piè veggendo ciò fare a' cavalieri, feciono maraviglie di combattere; e fu sì aspra battaglia da ogni parte, che di saettamento per gli balestrieri genovesi ch'erano all'assedio, sì de' Fiorentini e d'ogni altro assalto, che que' d'entro non poterono durare; e uno scudiere provenzale ch'avea nome... fu il primaio che salì in su le mura co le 'nsegne, e poi molti apresso, il quale dal duca fu fatto cavaliere, e donogli rendita in suo paese. E ciò veggendo i terrazzani, isbigottiti abbandonarono i borghi, e entrarono nel secondo girone. Ma i Fiorentini e la gente del duca entrati nel primo girone, sanza riposo o indugio incontanente si misono a combattere l'altro girone, e simile per forza e con iscale e con fuoco che misono, con grande affanno il dì medesimo il vinsono, e quanta gente vi trovarono dentro piccioli e grandi misono alle spade, se non alquanti che ricoverarono nella rocca, e 'l castello da più parti ardendo per lo fuoco prima messo per gli nostri a la battaglia, e poi la gente nostra rubando la preda, e togliendola gli oltramontani a' nostri acciò che no·ll'avessono salva, innanzi metteano i nostri fuoco nelle case e nella preda. E per questo modo non vi rimase casa piccola né grande che non ardesse; e' terrazzani, uomini e femmine e fanciugli ch'erano scampati e nascosi, non scamparono del fuoco, imperciò che molti se ne trovarono morti e arsi. E ciò fu grande giudicio di Dio e non sanza cagione, imperciò che quegli di Santa Maria a Monte sempre erano stati di parte guelfa, e aveano tradita la terra e data a Castruccio: e gli usciti di Lucca e di loro parte assai, e de' migliori ch'allora erano nel castello, per lo detto tradimento furono dati presi nelle mani di Castruccio. E oltre a·cciò dapoi che si rendé a Castruccio, era stata spilonca di tutte le ruberie e micidi e presure e villani peccati fatti in Valdarno e nel paese ne la detta guerra. E poi che la gente nostra ebbe il castello, si tenne la rocca VIII dì aspettando soccorso da Castruccio, il quale non s'ardì con sua gente d'uscire di Vivinaia ov'era a campo, e ciò fue a dì X d'agosto nel detto anno; e quegli ch'erano nella rocca n'uscirono, salve le persone. E avuta la rocca, l'oste nostra vi dimorò di fuori a campo VIII giorni per rafforzare la terra e rifare le bertesche e torri e case, e lasciarla poi guernita di C cavalieri e Vc pedoni. Avemo sì lungamente detto de la presura del detto castello, però ch'era il più forte castello di Toscana e meglio fornito, e ebbesi per forza di battaglia, per la virtù e vigoria de la buona gente ch'era ne la nostra oste, la quale simile vigoria non si ricorda fosse in Toscana a' nostri tempi; per la qual cosa Castruccio e sua gente forte isbigottiro, e in nulla parte s'ardivano a mettere né avisare poi co la nostra gente e con quella del duca.
<B>XXXI</B>
<I>Come l'oste de' Fiorentini e del duca ebbono per forza il castello d'Artimino.</I>
Avuto il castello di Santa Maria a Monte, si partì l'oste de' Fiorentini di là a dì XVIII d'agosto, e passarono la Guisciana, e accamparsi a piè di Fucecchio, e quivi dimorarono due giorni, acciò che Castruccio non si potesse avisare ove l'oste dovesse fedire, o nel contado di Lucca, o in quello di Pistoia; e ciò fatto, subitamente ripassarono la Guisciana, e andarono a campo a piè del Cerruglio apresso di Vivinaia, e ivi e a Gallena dimorarono per III dì, schierandosi e o trombando e richeggendo di battaglia Castruccio, il quale era in sul Cerruglio e Montechiaro con VIIIc cavalieri e più di Xm pedoni; e sarebbonsi messi a passare e andare in verso Lucca per forza, se non che·lla stanza bisognava grande ispendio e fornimento, e aveasi novelle che 'l Bavero detto re de' Romani di corto dovea passare in Toscana, sì che per lo migliore consiglio si ritornarono di qua da la Guisciana, e sanza restare la detta oste passò Monte Albano, e puosonsi ad assedio del castello d'Artimino, il quale era rimurato e molto afforzato per Castruccio, e bene fornito di vittuglia e di gente; e stettonvi ad assedio III giorni. Al terzo dì vi diedono la più forte battaglia tutto intorno che mai si desse a castello, e per gli migliori cavalieri dell'oste; e durò da mezzodì infino al primo sonno de la notte, ardendo gli steccati e la porta del castello; per la qual cosa quegli d'entro molto impauriti, e di saettamento i più fediti, sì dimandarono misericordia, e che si voleano arendere, salve le persone. E così fu fatto; e la mattina, a dì XXVII d'agosto, si partirono, e renderono il castello; ma con tutti i patti, partiti da·lloro i cavalieri che gli scorgeano, molti ne furono morti: e con quella vittoria l'oste intendeva di seguire e combattere Carmignano e Tizzano, e sanza dubbio gli avrebbono presi per lo sbigottimento de la battaglia di Santa Maria a Monte e d'Artimino; ma il duca ebbe ferme novelle come il Bavero con sua gente era a Pontriemoli, sì che, acciò che·lla sua gente non trovasse a campo, rimandò che l'oste tornasse in Firenze; e così tornò bene aventurosamente a dì XXVIII d'agosto del detto anno. E nota che poi che 'l duca venne in Firenze, che fu uno dì anzi calen d'agosto MCCCXXVI, infino a la tornata de la detta oste in Firenze, che fu pochi dì più d'uno anno, si trovò speso il Comune di Firenze cogli danari del salaro del duca più di Vc migliaia di fiorini d'oro, che sarebbe gran cosa a uno ricco reame. E tutti uscirono delle borse de' Fiorentini, onde ciascuno cittadino forte si dolea. Lasceremo alquanto de' nostri fatti di Firenze ritornando adietro, dicendo di quello che 'l Bavero, lui coronato a Milano, fece in Lombardia e poi in Toscana.
<B>XXXII</B>
<I>Come il Bavero dispuose della signoria di Milano i Visconti e misegli in pregione.</I>
Coronato in Milano Lodovico detto Bavero eletto re de' Romani, come adietro lasciammo, essendo in Milano e volea moneta come promessa gli fu al parlamento a Trento, Galeasso Visconti signore di Milano, il quale per sua superbia e signoria si tenea maggiore del detto Bavero in Milano, e avea a suo soldo bene XIIc di cavalieri tedeschi, essendoli domandata la detta moneta per lo Bavero, rispuose arrogantemente al signore, dicendo come imporrebbe la moneta, quando gli paresse luogo e tempo. E ciò non dicea sanza cagione, imperciò che tutti i nobili di Milano, e eziandio messer Marco suo fratello e gli altri suoi consorti, e quasi tutto il popolo di Milano odiavano la sua tirannesca signoria per gli soperchi incarichi e gravezze a·lloro fatte, e volea tutto e non parte, sì non s'ardia d'imporre i danari al popolo; e se fatto l'avesse non sarebbe ubbidito. E già molti de' maggiorenti de la sua signoria s'erano compianti al Bavero, per la qual cosa il detto signore rimandò per lo suo maliscalco e sua gente, ch'erano andati al soccorso di Voghiera, e fece parlare a tutti i conostaboli tedeschi ch'erano a messer Galeasso, e giurare segretamente a·llui; e venuto il suo maliscalco, il Bavero raunò uno grande consiglio, ove fu Galeasso e' suoi e tutti i migliori di Milano, e in quello dogliendosi del detto Galeasso e de' suoi, in prima gli fece rifiutare la signoria, e poi nel detto consiglio al detto suo maliscalco fece pigliare Galeasso e Azzo suo figliuolo, e Marco e Luchino suoi frategli; e ciò fu a dì VI del mese di luglio, gli anni di Cristo MCCCXXVII; per la qual cosa i nobili e 'l popolo di Milano furono molto allegri e contenti. E ciò fatto, riformò la terra di signoria d'uno suo barone vicario col consiglio di XXIIII de' migliori di Milano, i quali incontanente impuosono e ricolsono Lm fiorini d'oro, e diedongli al detto Bavero. E per questo modo la Chiesa di Dio fu vendicata de la superbia de' suoi nimici Visconti per lo suo nimico Lodovico di Baviera suo persecutore; sì che veramente s'adempié la parola di Cristo nel suo santo Vangelio, ove dice: "Io ucciderò il nimico mio col nimico mio etc.".
<B>XXXIII</B>
<I>Come il Bavero, fatto suo parlamento in Lombardia, passò in Toscana.</I>
Per la detta presura di Galeasso e de' suoi si maravigliarono e impaurirono tutti i tiranni ghibellini di Lombardia e di Toscana, imperciò che propio lo studio e podere e dispendio di Galeasso, e per suo consiglio, il detto Bavero s'era mosso d'Alamagna e venuto in Lombardia; ed egli prima l'avea abbattuto di signoria e messo in pregione. Per la qual cosa il detto Bavero ordinò di fare uno parlamento generale a uno castello di bresciana che si chiama Liorci, e fece sommuovere e richiedere tutti i caporali di parte d'imperio di Lombardia e di Toscana al detto parlamento; e Galeasso mandò legato in pregione nel castello di Moncia; e Marco lasciò, perché nol trovò in nulla colpa; e Luchino e Azzo gli tagliò in XXVm di fiorini d'oro per loro redenzione, de' quali pagaro XVIm, e menò seco presi cortesemente al detto parlamento. E partissi di Milano a dì XII d'agosto nel detto anno. E al detto parlamento fu messer Cane signore di Verona, e messer Passerino signore di Mantova, e Rinaldo de' marchesi d'Esti, e Guido Tarlati disposto vescovo d'Arezzo, e ambasciadori di Castruccio e di tutte le terre di parte d'imperio, nel quale parlamento palesò lettere di trattato che Galeasso mandava al legato del papa contra 'l detto Bavero, per mostrare la cagione perché preso l'avea. Chi disse che furono vere, e chi che furono false. E nel detto parlamento in dispetto di santa Chiesa fece tre vescovi, uno in Chermona e l'altro in Commo e l'altro, uno de' Tarlati, a la Città di Castello. E ciò fatto, ordinò suo passaggio in Toscana; e truovasi ch'ebbe infino allora da' Milanesi e tiranni e terre ghibelline d'Italia CCm fiorini d'oro; e bisognavangli, però ch'egli e sua gente erano molto poveri di danari. E partito il detto parlamento, Marco e Luchino e Azzo Visconti si fuggirono e entrarono nel castello di Liseo, e poi feciono guerra a Milano. Il Bavero venne a Chermona, e di là passò per lo ponte il fiume del Po a dì XXIII d'agosto, gli anni di Cristo MCCCXXVII, e venne al borgo a San Donnino con MD cavalieri de' suoi, con quegli ch'avea trovati in Milano, e CCL di quegli di messer Cane, e CL di messer Passerino, e C di quegli de' marchesi d'Esti; e sanza nullo contasto passò per lo contado di Parma le montagne apennine, e capitò a Pontriemoli in calen di settembre nel detto anno. E sì avea il legato che in Lombardia era per la Chiesa più di IIIm cavalieri soldati, e non si mise a contastarlo, ch'assai era leggere per li forti passi; onde il detto legato molto fu abbominato di tradimento da' fedeli di santa Chiesa di Toscana, ed iscusavasi come non avea dal papa i danari di loro paghe, e però non poteva fare cavalcare la sua gente.
<B>XXXIV</B>
<I>Come il Bavero si puose ad assediare la città di Pisa.</I>
Come il Bavero e la donna sua, la quale era figliuola del conte d'Analdo, furono passati in Toscana, Castruccio con grande compagnia e grandi doni e presenti e rinfrescamento di vittuaglia andò loro incontro infino a Pontriemoli, e acompagnogli in più giorni infino a Pietrasanta nel contado di Lucca, e là s'arestò, e non volle entrare in Lucca, se prima non avesse la città di Pisa, la quale da certi che·lla reggeano, i quali erano i più ricchi e possenti di Pisa e aversari di Castruccio, in nulla guisa voleano ubbidire il detto Bavero per tema di Castruccio e de le gravezze de le spese, dando cagione di non voler fare contra la Chiesa, imperciò che 'l Bavero era scomunicato, e non era imperadore con autorità di santa Chiesa; e ancora non voleano i Pisani rompere pace al re Ruberto e a' Fiorentini. E mandato il Bavero suoi ambasciadori, non gli lasciarono entrare in Pisa, ma si fornirono di gente e di vittuaglia, e afforzarono la città, e cacciarne i soldati tedeschi ch'aveano, e tolsono loro i cavagli; onde il detto Bavero molto s'aontò, e fermossi di non passare più innanzi, se prima non avesse Pisa a suo comandamento. E in questo intervallo di tempo Guido Tarlati disposto vescovo d'Arezzo si mise mezzano, e venne a Ripafratta, e mandò che' Pisani gli mandasson loro ambasciadori, i quali vi mandarono tre de' maggiori di Pisa, ciò fu messer Lemmo Guinizzelli Sismondi, e messer Albizzo da Vico, e ser Iacopo da Calci; e stati più giorni in trattato, e accordandosi i Pisani di dare al Bavero LXm fiorini d'oro, e s'andasse a suo viaggio sanza entrare in Pisa; il quale accordo in nulla guisa volle accettare. E partendosi i detti ambasciadori a rotta del trattato, Castruccio passò il fiume di Serchio con gente d'arme, e prese i detti ambasciadori; e poi il Bavero con sua gente passò simigliante, e il suo maliscalco con anche gente venne da Lucca, e puosono oste a la città di Pisa a dì VI di settembre, gli anni di Cristo MCCCXXVII, e la persona del signore si mise a Sammichele degli Scalzi.
<B>XXXV</B>
<I>Come il Bavero ebbe la città di Pisa.</I>
I Pisani veggendosi traditi de la 'mpresa de' loro ambasciadori, e così subitamente venuto il Bavero e Castruccio all'assedio della città, isbigottirono assai; ché se ciò avessono creduto, di certo avrebbono prima mandato per soccorso in Firenze al duca di cavalieri e di gente, con tutto ch'a la 'nfinta stessono in trattato co·llui, e ebbono da' Fiorentini arme e saettamento assai. Ma veggendosi così assaliti francamente, ripresono vigore e buono ordine di guardia della città, rimurando tutte le porte, e guardando le mura. Il secondo dì il Bavero passò Arno, e puosesi nel borgo di San Marco, e Castruccio rimase dal lato de la città di verso Lucca con sua oste, e poi si stese l'oste a la porta di San Donnino e a quella della Legatia sanza contasto niuno, e in pochi dì feciono uno ponte di legname dal borgo a San Marco a San Michele de' Prati, e un altro ne fece fare in su barche dal lato di sotto a la Legatia, sì che in pochi giorni tutta ebbono assediata la città intorno intorno; ne la quale oste avea il Bavero, tra di sua gente e di quella di Castruccio e d'altri Ghibellini di Toscana e di Lombardia, IIIm cavalieri o più, male a cavallo, e popolo grandissimo del contado di Lucca e di Pisa medesimo, e di quello di Luni e della riviera di Genova; e di presente ebbono Porto Pisano; e poi faccendo cavalcare per lo contado co' caporali degli usciti di Pisa, in pochi giorni ebbe a suo comandamento tutte le castella e terre di Pisa. Onde ciò sappiendo i Pisani che teneano la città, molto isbigottiro: né già però non mandarono per soccorso al duca, se non di moneta, per pagare i loro soldati ch'erano a la guardia della terra, perché non s'ardivano a fare gravezza a' cittadini, perché il popolo minuto non si levasse contro a·lloro; e 'l duca vi mandò moneta per lettere di compagnie di Firenze ch'erano dentro, e più ve ne avrebbe mandati, se non ch'egli sentì ch'eglino stavano in trattato col Bavero, avegna che a la difensa fossono uniti e feroci. E più assalti e battaglie diede a le porte, e fece cavare sotto le mura, e più difici strani levare per dare battaglia a la città; ma tutto era niente, si era forte e bene guernita. E così vi stette il Bavero all'assedio con grande affanno e con più difalte più d'uno mese. Ma come piacque a Dio, per pulire i peccati de' Pisani, disensione nacque tra coloro che governavano la terra, e de' primi fu il conte Fazio figliuolo del conte Gaddo, giovane uomo, e Vanni di Banduccio Bonconti, che per lettere e promesse di Castruccio dissono di volere pace, e gli altri che co·lloro reggeano la terra, temendo, dissono il simigliante; e feciono trattato d'acordo, e di dargli la città, LXm fiorini d'oro, rimanendo in loro giuridizione e stato, e che Castruccio né' loro usciti non potessono entrare in Pisa sanza loro volontà, stando a' confini. E compiuto e giurato per lo Bavero il detto falso accordo, gli diedono la terra a dì VIII d'ottobre, gli anni della incarnazione di Cristo MCCCXXVII al nostro corso; e la domenica dì XI d'ottobre appresso v'entrò il Bavero e la donna sua con tutta sua gente paceficamente sanza nulla novità fare; e Castruccio e sua gente e gli usciti di Pisa rimasono di fuori. Ma al terzo giorno i Pisani medesimi per piacere al signore, e per paura, non potendo altro per lo popolo minuto, arsono i patti scritti del loro trattato, e liberamente sanza niuno <I>nisi</I> da capo gli diedono la signoria de la città, e rivocarono Castruccio e tutti i loro usciti i quali di presente tornarono in Pisa. E nulla novità v'ebbe, se non che uno ser Guiglielmo da Colonnata, il qual era stato bargello in Pisa, menandolo al Bavero uno suo conastabole, e il popolo minuto gli venia gridando dietro, il detto conastabole l'uccise ne la piazza in presenza del signore, credendoli piacere; per la qual cosa il detto Bavero per mostrare giustizia fece prendere il detto, ch'avea nome messer Currado de la Scala tedesco, e fecegli tagliare il capo, e fece mandare bando che ogni maniera di gente potesse andare e venire sano e salvo per Pisa e per lo contado, pagando la gabella di danari VIII per libbra d'ogni mercatantia: e ciò fece perché i mercatanti non si partissono di Pisa, e per avere maggiore entrata, e i Pisani civanza di moneta. E ciò fatto, fece una colta sopra i Pisani di LXm fiorini d'oro per pagare suoi cavalieri, e appena fu cominciata di pagare, che ne puose sopra quella una di Cm fiorini d'oro per fornire suo viaggio a Roma; onde i Pisani si tennono morti e consumati, imperciò che per la perdita di Sardigna e per quella guerra erano molto assottigliati d'avere; e chiunque avea niente in Pisa, si pentea forte dell'accordo, che di certo se si fossono sostenuti un altro mese, come poteano, aveano diliberi del Bavero loro e tutta Italia, ma dopo volta si ravidono co·lloro danno e struggimento. Del detto accordo da' Pisani al Bavero s'ebbe grande dolore per gli Fiorentini e per tutti coloro che teneano a la parte della Chiesa, imperciò che come il Bavero era per istraccarsi durando l'assedio, per la impresa di Pisa fu esaltato e ridottato da tutte genti.
<B>XXXVI</B>
<I>Come quegli che fu vescovo d'Arezzo si partì male in accordo dal Bavero, e tornando ad Arezzo morì in Maremma.</I>
Nel detto anno Guido Tarlati signore d'Arezzo, e stato disposto vescovo, si partì di Pisa dal Bavero assai male contento, per grosse parole e rimprocci avuti da Castruccio dinanzi al detto signore; intra gli altri rimprocci che Castruccio il chiamò traditore, dicendo che quand'egli sconfisse i Fiorentini ad Altopascio, e venne con Azzo Visconti a Peretola, se 'l vescovo d'Arezzo fosse venuto colle sue forze verso Firenze per la via di Valdarno, la città di Firenze non si potea tenere; e in parte si potea appressare al vero. Il vescovo rispuose che traditore era egli ch'avea cacciato di Pisa e di Lucca Uguiccione da Faggiuola e tutti i grandi Ghibellini di Lucca che gli avevano data la signoria, sì come tiranno, e ch'egli non dovea rompere la pace a' Fiorentini, se non la rompessono a·llui, come avea fatto elli, rimproverandogli che se non fossono i suoi cavalieri e danari che gli mandò, non potea sostenere l'oste contra i Fiorentini, e per lui avea vinto. Per questi rimprocci il Bavero non gli avea fatto onore, né ripreso Castruccio, onde molto dispetto prese, e si partì di Pisa; e quando fu in Maremma, cadde malato al castello di Montenero, nel quale passò di questa vita a dì XXI del mese d'ottobre. E innanzi che morisse, in presenza di più genti, frati e cherici e secolari, o per isdegno preso o per buona coscienza, si riconobbe sé avere errato contro al papa e santa Chiesa, e confessò come papa Giovanni era giusto e santo, e 'l Bavero, che si facea chiamare imperadore, era eretico e fautore d'eretici, e sostenitore di tiranni, e non giusto né degno signore, promettendo e giurando (e di ciò a più notai fece fare solenni carte) che se Dio gli rendesse santade, che sempre sarebbe obediente a santa Chiesa e al papa, e nimico de' suoi ribelli; e con molte lagrime domandò penitenzia e misericordia: ebbe i sacramenti di santa Chiesa, e co la detta contrizione morì; onde fu tenuto gran fatto in Toscana. E lui morto, per gli suoi ne fu portato il corpo ad Arezzo, e là sepolto a grande onore, come quegli ch'avea molto acresciuta la città d'Arezzo e 'l suo vescovado. Per la sua morte l'oste d'Arezzo e di quegli di Castello, ch'erano con battifolli a l'assedio a Castello di Monte Sante Marie, se ne partirono come in isconfitta e tornarono ad Arezzo; e feciono gli Aretini signori de la terra per uno anno Dolfo e Piero Saccone da Pietramala.
<B>XXXVII</B>
<I>Come il papa diede alcuna sentenzia contro al Bavero.</I>
Nel detto anno MCCCXXVII, a dì XX d'ottobre, papa Giovanni apo Vignone diede ultima sentenzia di scomunica contro al Bavero, sì come a persecutore di santa Chiesa e fautore degli eretici, privandolo d'ogni dignità temporale e spirituale.
<B>XXXVIII</B>
<I>Come il Bavero fece Castruccio duca di Lucca e d'altre terre.</I>
Nel detto anno, a dì IIII di novembre, il Bavero per meritare Castruccio del servigio fattogli d'avere avuta per suo senno e prodezza la città di Pisa n'andò a la città di Lucca con Castruccio insieme, e fugli fatto da' Lucchesi grande festa e onore; e poi il menò Castruccio in Pistoia per mostrargli la città e contado di Firenze, e com'era a la frontiera e presso a guerreggiare la città di Firenze. E tornaro in Lucca per la festa di san Martino, per la quale con grande trionfo e onore il detto Bavero fece Castruccio duca de la città e distretto di Lucca, e del vescovado di Luni, e de la città e vescovado di Pistoia e di Volterra; e mutò arme a Castruccio, lasciando la sua propia della casa degl'Interminelli col cane di sopra, e fecelo armare a cavallo coverto, e bandiere a modo di duca, col campo ad oro, e al traverso una banda a scacchi pendenti azzurri e argento, sì come l'arme propia al tutto, co' detti scacchi del ducato di Baviera. E fatta la detta festa, si tornarono in Pisa a dì XVIII di novembre. E in quello brieve tempo che l'avea presa trasse il Bavero de la città di Pisa e del contado, che di libbre e che d'imposte, CLm di fiorini d'oro, e de' cherici di quella diocesia XXm fiorini d'oro, con grande dolore e torzioni de' Pisani, sanza quegli ch'ebbe da Castruccio quando il fece duca, che si dice che furono Lm fiorini d'oro. Lasceremo alquanto del processo del detto Bavero, che si riposa in Pisa e in Lucca, e rauna danari per fornire suo viaggio a Roma; e faremo incidenza d'altre cose che furono in Firenze e in altre parti del mondo in questi tempi, tornando poi a nostra materia per seguire il corso e andamento del detto Bavero.
<B>XXXIX</B>
<I>Come il re di Scozia corse in Inghilterra.</I>
Nel detto anno MCCCXXVII, del mese d'agosto, il re di Scozia con più di XLm Scotti passò infra l'Inghilterra per guastare il paese più giornate. Il giovane Adoardo terzo re d'Inghilterra con tutta sua cavalleria e forza di gente a piè gli andò incontro, e rinchiuse tutti i detti Scotti in uno parco del vescovo di Durem, e tutti gli avrebbe in quello morti o presi, se non fosse la viltà e tradimento de' suoi Inghilesi, che non faceano la guardia come si convenia, onde i detti Scotti di notte si partirono, e tutti n'andarono sani e salvi sanza battaglia o caccia niuna.
<B>XL</B>
<I>Come il popolo della città d'Imola fu sconfitto da la gente de la Chiesa.</I>
Nel detto anno, a dì VIII di settembre, messer Ricciardo de' Manfredi di Faenza con gente a cavallo, di quegli del legato cardinale ch'era a Bologna, essendo venuti nella città d'Imola, perché quegli della terra per trattato fatto con Alberghettino suo fratello che avea rubellata Faenza, ed egli con sua gente cavalcarono per avere Imola, il popolo d'Imola si levò a romore per cacciarne il detto messer Ricciardo e la gente de la Chiesa, onde si cominciò la battaglia in su la piazza d'Imola; e per forza d'arme il detto messer Ricciardo con gli Alidogi e loro fedeli, e colla detta cavalleria della Chiesa, ch'erano da Vc cavalieri, sconfissono e ruppono il popolo d'Imola, e uccisonne più di CCCC, che non v'ebbe buona casa che uomo non vi rimanesse morto; e poi corsono la terra e rubarla tutta, onde la piccola città d'Imola quasi rimase distrutta di buona gente, e disolata di preda.
<B>XLI</B>
<I>Come in Firenze fu arso maestro Cecco d'Ascoli astrolago per cagione di resia.</I>
Nel detto anno, a dì XVI di settembre, fu arso in Firenze per lo 'nquisitore de' paterini uno maestro Cecco d'Ascoli, il qual era stato astrolago del duca, e avea dette e rivelate per la scienza d'astronomia, overo di nigromanzia, molte cose future, le quali si trovarono poi vere, degli andamenti del Bavero e de' fatti di Castruccio e di quegli del duca. La cagione perché fu arso sì fu perché, essendo in Bologna, fece uno trattato sopra la spera, mettendo che nelle spere di sopra erano generazioni di spiriti maligni, i quali si poteano costrignere per incantamenti sotto certe costellazioni a potere fare molte maravigliose cose, mettendo ancora in quello trattato necessità alle infruenze del corso del cielo, e dicendo come Cristo venne in terra accordandosi il volere di Dio co la necessità del corso di storlomia, e dovea per la sua natività essere e vivere co' suoi discepoli come poltrone, e morire de la morte ch'egli morìo; e come Anticristo dovea venire per corso di pianete in abito ricco e potente; e più altre cose vane e contra fede. Il quale suo libello in Bologna riprovato, e ammonito per lo 'nquisitore che no·llo usasse, gli fu opposto che l'usava in Firenze; la qual cosa si dice che mai non confessò, ma contradisse a la sua sentenzia, che poi che ne fu ammonito in Bologna, mai no·llo usò; ma che il cancelliere del duca, ch'era frate minore vescovo d'Aversa, parendogli abominevole a tenerlo il duca in sua corte, il fece prendere. Ma con tutto che fosse grande astrolago, era uomo vano e di mondana vita, ed erasi steso per audacia di quella sua scienza in cose proibite e non vere, però che la 'nfruenza delle stelle non costringono necessitade, né possono essere contra il libero arbitrio dell'animo dell'uomo, né maggiormente a la proscienzia di Dio, che tutto guida, governa e dispone a la sua volontà.
<B>XLII</B>
<I>De la morte del gran medico maestro Dino di Firenze.</I>
Nel detto tempo, a dì XXX di settembre, morì in Firenze maestro Dino del Garbo grandissimo dottore in fisica e in più scienze naturali e filosofiche, il quale al suo tempo fu il migliore e sovrano medico che fosse in Italia, e più nobili libri fece a richesta e intitolati per lo re Ruberto. E questo maestro Dino fu grande cagione de la morte del sopradetto maestro Cecco, riprovando per falso il detto suo libello, il quale avea letto in Bologna, e molti dissono che 'l fece per invidia.
<B>XLIII</B>
<I>Come messer Cane della Scala ricominciò guerra a' Padovani.</I>
Nel detto tempo messer Cane de la Scala signore di Verona ricominciò guerra a' Padovani col figliuolo di messer Ricciardo da Cammino di Trivigi, e presono il castello d'Esti che teneano i Padovani, e grande danno feciono co·lloro oste intorno a Padova; per la qual cosa i Padovani mandarono per aiuto al duca di Chiarentana, a la cui signoria s'erano dati, il quale mandò in loro aiuto M cavalieri tedeschi, per la qual cosa messer Cane si levò da oste e tornossi a Verona.
<B>XLIV</B>
<I>Come i conti da Santa Fiore riebbono Magliano.</I>
Nel detto anno MCCCXXVII i Pancechieschi di Maremma, ch'aveano in guardia il castello di Magliano per lo duca di Calavra, per paura del maliscalco del Bavero, che cavalcò con grossa gente da Pisa in Maremma per andare verso Roma, temendo che' conti da Santa Fiore con quella gente non gli asediasse, misono fuoco nel detto castello, e vilmente se n'uscirono fuori, e abbandonarono, e' conti il si ripresono e racconciarono; e' loro mallevadori furono presi in Firenze per lo duca, e messi in pregione nelle Stinche.
<B>XLV</B>
<I>Come la gente de la Chiesa osteggiarono Faenza.</I>
Nel detto tempo la gente della Chiesa ch'era col legato in Bologna cavalcarono con messer Ricciardo Manfredi sopra la città di Faenza per raquistarla, la quale avea rubellata Alberghettino suo fratello, e guastarla intorno con grandissimo danno de la contrada, ma però non poté avere la terra.
<B>XLVI</B>
<I>Quando morì il re Giammo d'Araona.</I>
Nel detto anno, del mese d'ottobre, morì lo re Giammo d'Araona di suo male, e fue soppellito in Barzellona; e lo 'nfante Anfus suo figliuolo, il quale conquistò la Sardigna, ne fu fatto e coronato re d'Araona e di Sardigna. Il detto re Giammo fu savio e valoroso signore e di grandi opere e imprese, come per adietro le nostre croniche in più parti fanno menzione.
<B>XLVII</B>
<I>Come il Bavero diede a Castruccio più castella de' Pisani.</I>
Nel detto anno, a dì III di dicembre, i Pisani per comandamento del Bavero renderono a Castruccio, detto duca di Lucca, per guidardone del suo servigio il castello di Serrezzano e quello di Rotina in Versilia, e Montecalvoli e Pietracassa, onde i Pisani si tennono forte gravati.
<B>XLVIII</B>
<I>Come il duca fece cacciare uno popolano di Firenze, perché aringò contro a·llui.</I>
Nel detto anno, a dì VII di dicembre, uno popolano di Firenze chiamato Gianni Alfani, per cagione che in uno consiglio di dare aiuto al re Ruberto a richesta de' suoi ambasciadori il detto Gianni contradisse, il fece il duca condannare nell'avere e persona, e guastare i suoi beni; e con tutto che 'l detto Gianni fosse per sue ree opere degno di quello, e peggio, sì spiacque a tutti i popolani di Firenze per assempro di loro, e però ch'egli avea pure detto bene per lo Comune, e ragionevolemente, ma disselo con troppa audacia e prosunzione contra il signore. Avenne fatta menzione, non per lo detto Gianni, che non era degno di scrivere in cronica, ma per esemplo, e perché a' Fiorentini parve essere troppo fedeli del signore, per questa cagione recando in loro assempro che chi a uno offende a molti minaccia.
<B>XLIX</B>
<I>Come il Bavero si partì di Pisa per andare a Roma.</I>
Nel detto anno MCCCXXVII il Bavero essendo stato in Pisa, poi che la vinse, come adietro facemmo menzione, non intese a fare guerra niuna contra' Fiorentini, né contra il loro signore messer lo duca, ma solamente a raunare moneta per fornire suo cammino verso Roma, e da l'ottobre ch'egli prese Pisa infino a la sua partita trasse da' Pisani, con XXm fiorini d'oro che impuose al chericato di Pisa, che di libbre e d'imposte e di loro rendite e gabelle, CCm fiorini d'oro, con molti guai de' Pisani, che alla loro difensione contra al detto Bavero non ardirono a imporre Vm. E ciò fatto, a dì XV di dicembre nel detto anno, con sua gente in numero di IIIm cavalieri e con più di Xm bestie uscì della città di Pisa, e acampossi a la badia di Santo Remedio presso a Pisa a tre miglia, e di là mandò innanzi per la via di Maremma il suo maliscalco co' conti a Santa Fiore e con Ugolinuccio da Baschio con VIIc cavalieri e IIm pedoni, acciò che prendessono i passi di Maremma, e fornissono il cammino di vittuaglia. E nel detto luogo soggiornò il Bavero VI dì per attendere Castruccio duca di Lucca, il quale mal volentieri andava con lui a Roma, temendo di lasciare isguernita la città di Lucca e di Pistoia. A la file non vegnendo il detto Castruccio, e il Bavero avendo lettere e messaggi da' Romani, che avacciasse sua andata a Roma se volesse la terra, acciò che la parte degli Orsini e della Chiesa non vi mettessero prima la forza e gente del re Ruberto, si partì a dì XXI di dicembre, e fece la pasqua di Natale a Castiglione della Pescaia; e poi di là passò il fiume d'Ombrone a la foce di Grosseto con grande affanno, perché per le gravi piogge il detto fiume era molto grosso, e uno ponte apposticcio ch'aveano fatto fare il suo maliscalco co' detti Maremmani, per soperchio incarico di sua gente si ruppe, e assai di sua gente e loro cavagli annegarono, e convenne che 'l signore passasse a la foce a la marina con due galee e più barche che fece venire da Piombino. Il quale passaggio, se 'l duca di Calavra co la sua gente e co' Sanesi avesse voluto impedire, assai era loro leggere e sicuro; ma poi che 'l Bavero fu in Toscana, il detto duca nol volle vedere né lui né sua gente, o per viltà di cuore, o per senno e comandamento del padre lo re Ruberto, per non venire a la zuffa co' Tedeschi, che l'andavano caendo. E così passò il Bavero la Maremma con grande affanno e con male tempo e grande soffratta di vittuaglia, albergando per necessità i più de la sua gente a campo nel cuore del verno. E pochi giorni apresso Castruccio con IIIc cavalieri de la migliore gente ch'egli avea, e con M balestrieri tra Genovesi e Toscani, seguì il Bavero e giunselo a Viterbo, e lasciò in Lucca e in Pistoia e in Pisa da M cavalieri per guardia con buoni capitani. Il detto Bavero, faccendo la via di Santa Fiore, e poi da Corneto e da Toscanella, giunse nella città di Viterbo a dì II del mese di gennaio del detto anno; ne la quale fu ricevuto a grande onore, sì come loro signore, però che Viterbo si tenea a parte d'imperio, ed erane signore e tiranno di quella uno ch'avea nome Salvestro di Gatti loro cittadino.
Lasceremo alquanto gli andamenti del Bavero, e torneremo a·cciò che fece il duca di Calavra.
<B>L</B>
<I>Come il duca di Calavra si partì della città di Firenze, e andonne nel Regno per contradiare al Bavero.</I>
Sentendo il duca di Calavra ch'era in Firenze la partita del Bavero de la città di Pisa, e come già era entrato in Maremma, a dì XXIIII di dicembre nel detto anno fece uno grande parlamento in sul palagio del Comune ove abitava, ove furono i priori e' gonfalonieri e' capitani de la parte guelfa, e tutti i collegi degli uficiali di Firenze, e gran parte de la buona gente de la cittade, grandi e popolani; e quivi per suoi savi solennemente e con belle dicerie anunziò la sua partita, la quale a·llui era di necessità per guardare il suo regno e per contastare le forze del Bavero, confortando i Fiorentini che rimanessono in costanza e fedeli e con buono animo a parte di santa Chiesa e al padre e a·llui, e ch'egli lasciava loro capitano e suo luogotenente messer Filippo di Sangineto, figliuolo del conte di Catanzano di Calavra, e per suo consiglio messer Giovanni di Giovannazzo e messer Giovanni da Civita di Tieti, grandi savi in ragione e in pratica, e gente d'arme da M cavalieri, pagandogli CCm fiorini d'oro l'anno, com'egli ci fosse, per soldo de' detti cavalieri, promettendo che quando bisognasse egli in persona o altri di suo lignaggio verrebbe con tutte sue forze a l'aiuto e difensione di Firenze. A·cciò che fu proposto e detto per gli savi del duca, saviamente e con belle aringherie fornite di molte autoritadi fu fatta la risposta per gli Fiorentini per certi loro savi, mostrando doglia e pesanza di sua partita, però che con tutto non fosse stato vivo signore né guerriere, come molti Fiorentini avrebbono voluto, e come potea colle sue forze, sì fu pur dolce signore e di buono aiere a' cittadini, e nella sua stanza adirizzò molto il male stato di Firenze, ed ispense le sette ch'erano tra' cittadini, e con tutto che costasse grossamente la sua stanza in Firenze, che di vero si trovarono spesi per lo Comune, in XVIIII mesi che il detto duca fu in Firenze, co la moneta ch'egli aveva de' gaggi, più di DCCCCm di fiorini d'oro; e io il posso testimonare con verità, che per lo Comune fui a farne ragione, con tutto che' cittadini e tutti artefici guadagnarono assai da lui e da sua gente. E dilibero il detto parlamento, il dì apresso del Natale fece il duca grande corredo, e diè mangiare a molti buoni cittadini, e gran corte di donne, e con grande festa e danze e allegrezza; e poi il lunedì vegnente dopo terza, dì XXVIII di dicembre, si partì il detto duca di Firenze co la donna sua, e con tutti i suoi baroni, e con ben MD cavalieri de la migliore gente ch'avesse, e seguì suo cammino soggiornando in Siena e in Perugia e a Rieti; e a dì XVI di gennaio, anno detto, giunse a l'Aquila, e là si fermò con sua gente. Lasceremo alquanto del Bavero e del duca, faccendo incidenza per dire d'altre novità infra 'l detto tempo.
<B>LI</B>
<I>Come il borgo a San Donnino s'arendé a la Chiesa.</I>
Nel detto anno MCCCXXVII, del mese di dicembre, il borgo a San Donnino in Lombardia, che tanto avea fatto di guerra e di danno a la parte della Chiesa, partitane la cavalleria di Milano per l'altre guerre cominciate per la venuta del Bavero in Toscana, per certo trattato tra' terrazzani s'arendéo a' figliuoli di messer Ghiberto da Coreggio di Parma per lo legato del papa ch'era in Lombardia, e costò danari assai al detto legato.
<B>LII</B>
<I>Come fu fatto accordo tra' Perugini e la Città di Castello.</I>
Nel detto anno e mese si fece accordo da' Perugini a la Città di Castello, rimagnendo la signoria di Castello a' Tarlati d'Arezzo e a' figliuoli di Tano degli Ubaldini che n'erano signori, e a la parte ghibellina, rimettendo nella città certi usciti guelfi e parte rimanendo a' confini, riavendo il frutto di loro posessioni, e prendendo podestà e capitano di Perugia di parte ghibellina a·lloro volontà. E ciò feciono i Perugini perch'erano molto affannati de la detta guerra, e per la venuta del Bavero male potuti atare da' Fiorentini e dagli altri Toscani.
<B>LIII</B>
<I>Come il papa fece X cardinali.</I>
Nel detto anno, a dì XVIII di dicembre, per le digiune Quattro Tempora, papa Giovanni per riformare e rafforzare lo stato suo e della Chiesa per la venuta del Bavero, e per la nimistà che la Chiesa avea presa co·llui, appo Vignone in Proenza fece X cardinali, i nomi de' quali furono questi: messer l'arcivescovo di Tolosa, che l'arcivescovo di Napoli, che messer Anibaldo di quegli di Ceccano in Campagna, lo vescovo di Siponto, cioè fra Matteo degli Orsini di Campo di Fiore, lo vescovo d'Alsurro ch'è di Francia, lo vescovo di Ciarteri anche francesco, lo vescovo di Cartaina di Spagna, lo vescovo di Mirapesce di tolosana, lo vescovo di San Paulo anche di tolosana, messer Giovanni figliuolo di messer Stefano de la Colonna di Roma, messer Imberto di Ponzo di Caorsa parente del detto papa.
<B>LIV</B>
<I>Di certe novità che il legato del papa fece in Firenze.</I>
Nel detto anno, il dì apresso la Pifania, per mandato del cardinale degli Orsini legato in Toscana, il quale era in terra di Roma, in Firenze si celebrò tre dì continui processione per tutti i religiosi e secolari maschi e femmine che la vollono seguire, pregando Idio che desse il suo aiuto a santa Chiesa a la difensione del Bavero, e lui recasse a l'obedienza della Chiesa, e pace; e però diede grandi indulgenzie e perdono. E in questo tempo il papa diede al detto legato per sua mensa le rendite de la Badia di Firenze, ch'era morto l'abate, e vacava, il quale la prese, e poi non vi fu abate; e per gli monaci ch'erano X, con ogni fornimento di cappellani e della chiesa, lasciò Vc fiorini d'oro; e fu grande ragione, ché la Badia avea di rendita presso a IIm fiorini d'oro, ed ispendeasi fra X monaci e uno abate.
<B>LV</B>
<I>Come il Bavero si partì di Viterbo e andonne a Roma.</I>
Nel detto anno MCCCXXVII, essendo il Bavero giunto in Viterbo, in Roma nacque grande questione tra 'l popolo, e spezialmente tra' LII buoni uomini, chiamati IIII per rione a la guardia del popolo romano, che parte di loro voleano liberamente la venuta del Bavero sì come loro signore, e parte di loro parendo mal fare e contra santa Chiesa, e parte voleano patteggiare co·llui anzi che si ricevesse in Roma; e a questo terzo consiglio s'apresono nel palese per contentare il popolo, e mandargli solenni ambasciadori a·cciò trattare. Ma Sciarra della Colonna e Iacopo Savelli, ch'erano capitani del popolo, coll'aiuto di Tibaldo di quegli di Santo Stazio, grandi e possenti Romani, i quali tre caporali erano stati cagione de la revoluzione di Roma, e cacciati n'aveano gli Orsini e messer Stefano de la Colonna, e' figliuoli, tutto fosse fratello carnale del detto Sciarra, però ch'era cavaliere del re Ruberto e teneasi a sua parte; per la qual cosa tutti gli amici del re Ruberto per tema si partirono di Roma, e tolto fu agli Orsini Castello Santangiolo, e tutte le forze di Roma a·lloro e a·lloro seguaci, sotto la forza e guardia del popolo. I sopradetti tre capitani del popolo sempre nel segreto, dissimulando il popolo, ordinavano e trattavano la venuta del Bavero e di farlo re de' Romani, per animo di parte ghibellina, e per molta moneta ch'ebbono da Castruccio duca di Lucca, e da la parte ghibellina di Toscana e di Lombardia. Incontanente mandarono segreti messi e lettere a Viterbo al Bavero, che lasciasse ogni dimoranza, e venisse a Roma, e non guardasse a mandato o detto degli ambasciadori del popolo di Roma. I quali ambasciadori giunti a Viterbo, ed isposta solennemente la loro ambasciata co le condizioni e patti loro imposte per lo popolo di Roma, commise il Bavero la risposta dell'ambasciata a Castruccio signore di Lucca, il quale, com'era per lo segreto ordinato, fece sonare trombe e trombette, e mandò bando ch'ogni uomo cavalcasse verso Roma; "e questa", disse agli ambasciadori di Roma, "è la risposta del signore imperadore". I detti ambasciadori cortesemente ritenne, e fece ordinare e mandò scorridori innanzi prendendo ogni passo, acciò che ogni messaggio o persona ch'andasse verso Roma fosse arrestato e ritenuto. E così si partì il detto Bavero con sua gente de la città di Viterbo martidì a dì V di gennaio, e giunse in Roma il giuovidì vegnente, dì VII di gennaio MCCCXXVII, nell'ora di nona, e con sua compagnia bene IIIIm cavalieri, sanza contasto niuno, com'era ordinato per gli detti capitani, e da' Romani fue ricevuto graziosamente, ed ismontò ne' palazzi di Santo Pietro, e là dimorò IIII giorni; poi passò il fiume del Tevero per venire ad abitare a Santa Maria Maggiore; e il lunidì vegnente salì in Campidoglio, e fece uno grande parlamento, ove fu tutto il popolo di Roma, ch'amava la sua signoria, e degli altri; e in quello il vescovo d'Ellera dell'ordine degli agostini disse la parola per lui con belle autoritadi, ringraziando il popolo di Roma dell'onore che gli aveano fatto, dicendo e promettendo com'egli avea intenzione di mantenergli e innalzargli, e di mettere il popolo di Roma in ogni buono stato, onde a' Romani piacque molto, gridando: "Viva, viva il nostro signore e re de' Romani!". E nel detto parlamento s'ordinò la sua coronazione la domenica vegnente, e nel detto parlamento il popolo di Roma il feciono sanatore e capitano del popolo per un anno.
E nota che col detto Bavero vennono in Roma molti cherici e parlati e frati di tutte l'ordini, i quali erano ribelli e sismatici di santa Chiesa, e tutta la sentina degli eretici de' Cristiani per contradio di papa Giovanni; per la qual cosa molti de' cattolici cherici e frati si partirono di Roma, e fu la terra e la santa città interdetta, e non vi si cantava uficio sacro né sonava campana, se non che s'uficiava per gli suoi cherici sismatici e scomunicati. E 'l detto Bavero commise a Sciarra della Colonna ch'egli costrignesse i cattolici cherici che dicessono il divino uficio; ma per tutto ciò niente ne vollono fare; e il santo sudario di Cristo fu nascoso per uno calonaco di San Piero che l'avea in guardia, perché non gli parea degno si vedesse per gli detti sismatici, onde in Roma n'ebbe grande turbazione.
<B>LVI</B>
<I>Come Lodovico di Baviera si fece coronare per lo popolo di Roma per loro re e imperadore.</I>
Nel detto anno MCCCXXVII, domenica dì XVII gennaio, Lodovico duca di Baviera eletto re de' Romani fu coronato a Santo Pietro di Roma con grandissimo onore e trionfo, come diremo appresso; cioè ch'egli e la moglie con tutta sua gente armata si partirono la mattina da Santa Maria Maggiore, ove allora abitava, vegnendo a Santo Pietro, armeggiandogli innanzi IIII Romani per rione con bandiere, coverti di zendado i loro cavagli, e molta altra gente forestiera, essendo le vie tutte spazzate e piene di mortella e d'alloro, e di sopra a ciascuna casa tese e parate le più belle gioie e drappi e ornamenti che avessono in casa. Il modo come fu coronato, e chi il coronò, furono gl'infrascritti: Sciarra de la Colonna, ch'era stato capitano di popolo, Buccio di Proresso, e Orsino... stati sanatori, e Pietro di Montenero cavaliere di Roma, tutti vestiti a drappi ad oro; e co' detti a coronarlo sì furono de' LII del popolo, e 'l prefetto di Roma sempre andandogli innanzi, come dice il titolo suo, ed era adestrato da' sopradetti IIII capitani, sanatori e cavaliere, e da Giacopo Savelli, e Tibaldo di Santo Stazio, e molti altri baroni di Roma; e tuttora si facea andare innanzi uno giudice di legge, il quale avea per istratto l'ordine dello 'mperio. E col detto ordine si guidò alla sua coronazione. E non trovando niuno difetto, fuori la benedizione e confermazione del papa, che non v'era, e del conte del palazzo di Laterano, il quale s'era cessato di Roma, che secondo l'ordine dello 'mperio il doveva tenere quando prende la cresima a l'altare maggiore di Santo Pietro, e ricevere la corona quando la si trae, si providde, innanzi si coronasse, di fare conte del detto titolo Castruccio detto duca di Lucca. E prima con grandissima sollecitudine il fece cavaliere cignendogli la spada colle sue mani, e dandogli la collata; e molti altri ne fece poi cavalieri pur toccandogli co la bacchetta dell'oro, e Castruccio ne fece in sua compagnia VII. E ciò fatto, si fece consecrare il detto Bavero come imperadore, in luogo del papa o de' suoi legati cardinali, a sismatici e scomunicati, al vescovo che fu di Vinegia nipote che fu del cardinale da Prato, e al vescovo d'Ellera; e per simile modo fu coronata la sua donna come imperadrice. E come il Bavero fu coronato, si fece leggere tre decreti imperiali, prima della cattolica fede, il secondo d'onorare e reverire i cherici, il terzo di conservare le ragioni de le vedove e pupilli, la quale ipocrita dissimulazione piacque molto a' Romani. E ciò fatto, fece dire la messa; e compiuta la detta solennitade, si partirono di Santo Pietro, e vennono nella piazza di Santa Maria dell'Ariacelo dov'era apparecchiato il mangiare; e per la molta e lunga solennità fue sera innanzi che si mangiasse; e la notte rimasono a dormire in Campidoglio. E la mattina apresso fece sanatore e suo luogotenente Castruccio duca di Lucca, e lasciollo in Campidoglio; ed egli e la moglie se n'andarono a San Giovanni Laterano. In questo modo fu coronato a imperadore e re de' Romani Lodovico detto Bavero per lo popolo di Roma, a grande dispetto e onta del papa e della Chiesa di Roma, non guardando niuna reverenza di santa Chiesa.
E nota che presunzione fu quella del detto dannato Bavero, che non troverrai per nulla cronica antica o novella che nullo imperadore cristiano mai si facesse coronare se non al papa o a suo legato, tutto fossono molto contradi della Chiesa, o prima o poi, se non questo Bavero; la qual cosa fu molto da maravigliare. Lasceremo alquanto di dire ora più del Bavero, faccendo alcuna incidenza, però che rimane in Roma per ordinare e fare maggiori e più maravigliose cose. Ma come egli fu coronato, sanza soggiorno se fosse andato colla sua gente verso il regno di Puglia, nullo ritegno né difensione v'avea, con tutto che 'l duca di Calavra fosse a la frontiera a l'Aquila con MD cavalieri, e guernito Rieti, e Cepperano, e ponte Corbolo, e San Germano di gente d'arme; ma il detto Bavero si trovò in Roma a la detta sua coronazione più di Vm cavalieri, tra Tedeschi e Latini, buona gente d'arme e volonterosi di battaglia; ma a cui Idio vuole male gli toglie il buono consiglio, e così avenne a·llui, come inanzi nel suo processo faremo menzione.
<B>LVII</B>
<I>Come quegli da Fabbriano furono sconfitti da la gente de la Chiesa.</I>
Nel detto anno MCCCXXVII, di gennaio, essendo l'oste della Chiesa sopra il castello di Fornoli ne la Marca d'Ancona, quegli da Fabbriano ribegli de la Chiesa con IIIIc cavalieri e IIm pedoni per levare il detto assedio vennono e puosonsi ivi presso a un altro castello che teneano que' della Chiesa. Tano da Iegi capitano della gente della Chiesa gli asalì con sua gente e miseli in isconfitta, e rimasonvi VII bandiere di cavalieri, e da CLXX cavagli, e ben IIIc uomini morti e IIIIc presi.
<B>LVIII</B>
<I>Conta de' fatti di Firenze.</I>
Nel detto anno, a dì XXII di gennaio, si cominciò a fondare in Firenze la grande porta de la cittade sopra le mura che va verso Siena e verso Roma, presso al munistero de le Donne di Monticelli Oltrarno; e in quelli tempo si dificarono quelle mura nuove della cittade intorno a la detta porta verso il poggio di Bogoli. Domenica notte vegnente, a dì XXIIII di gennaio, s'apprese il fuoco in Firenze nel sesto di Borgo presso a la loggia de' Bondelmonti, e arsonvi due case sanza altro danno.
<B>LIX</B>
<I>Come la città di Pistoia fu presa per lo capitano del duca e de' Fiorentini.</I>
Nel detto anno MCCCXXVII, a l'uscita di gennaio, essendo messo innanzi segretamente a messer Filippo di Sangineto, capitano di guerra per lo duca rimaso in Firenze, per uno Baldo Cecchi e Iacopo di messer Braccio Bandini Guelfi usciti di Pistoia come potea avere la città di Pistoia per imbolìo e forza, se si volesse assicurare, il detto messer Filippo cautamente intese al trattato, e segretamente fece fare nel castello dello 'mperadore di Prato ponte di legname, e scale e bolcioni e altri difici da combattere terre; e mercolidì sera, a dì XXVII di gennaio, serrate le porte, si partì il detto messere Filippo di Firenze con VIc uomini di cavallo di sua gente, e non menò seco nullo Fiorentino, se non messer Simone di messer Rosso della Tosa, che ordinò il trattato col detto messer Filippo. E anzi mezzanotte giunsono a Prato, dov'erano apparecchiati i detti difici di legname, e caricandogli in muli e aportatori mandati di Firenze, si mise in via menando seco IIm fanti a piè tra Pratesi e soldati de' Fiorentini ch'erano ordinati in Prato; e giunse a Pistoia anzi il giorno di costa a la porta di San Marco da la parte ov'era il fosso con meno acqua, e il luogo de la terra più solitario e peggio guardato. I detti Baldo e Iacopo passaro il fosso su per lo ghiaccio, e con iscala salirono in su le mura che non furono da nulli sentiti, e ivi su misono le bandiere del duca e del Comune di Firenze, e per simile modo ne misono dentro da C fanti; e trovandogli l'uficiale ch'andava ricercando le guardie, levò il romore, e egli e sua compagnia furono morti di presente, e la terra fu tutta ad arme. In quello la gente di messer Filippo puosono il ponte sopra il fosso, e con più scale messe a le mura molta gente vi misono dentro, e co' bolcioni dentro e di fuori pertugiarono il muro in due parti, per modo che vi poteano mettere il cavallo, onde menando a mano più ve ne furono messi; e messer Filippo in persona con alquanti di sua gente v'entrò dentro, e incontanente seminarono triboli di ferro, ch'aveano portati, per le vie d'onde i nemici poteano loro venire adosso, per impedire loro e' loro cavagli; e come vi furono ingrossati dentro, la cavalleria e gente di fuori e quegli entrati dentro combatterono la torre de la porta a Sa·Marco, e misono fuoco nel ponte e porta dell'antiporta. La gente di Castruccio, che v'erano dentro da CL cavalieri e Vc pedoni soldati a la guardia, sanza i cittadini, francamente parte di loro rimagnendo armati in su la piazza, e parte vennono a combattere la gente ch'era entrata da le mura, e per forza gli ripinsono allo stretto e rottura de le mura, e molti se ne gittavano fuori, se non fosse la virtù e sollecitudine del detto messer Filippo e di sua compagna, ch'erano dentro già con centocinquanta cavalieri, i quali montando in su i loro cavagli con grande vigore percossono a' nemici e per due riprese gli rimisono in rotta; e intanto arsa l'antiporta, e per quelli ch'erano dentro tagliata la porta, e le guardie de la torre morti e fuggiti, tutta la cavalleria e gente di fuori con grande vigore e grida e spavento di trombe e di nacchere entrarono ne la terra. E ciò sentendo la gente di Castruccio, con due suoi figliuoli piccoli che dentro v'erano, Arrigo e Galerano, si ridussono al Prato nel castello fatto per Castruccio chiamato Bellaspera, il quale tutto non fosse compiuto era molto maraviglioso e forte. Gli spaventati cittadini, uomini e femmine di Pistoia, de la sùbita presa non proveduti, e ancora non era giorno, a nulla difesa della città intesono se non a lo scampo di loro e di loro cose, correndo come ismarriti qua e là per la terra. La cavalleria e gente del capitano, e' Fiorentini e' Pratesi la maggior parte, si sparsono per la terra a la preda e ruberia, che quasi il capitano e messer Simone non rimasono con LXXX a cavallo co le bandiere ducali e del Comune di Firenze, i quali traendo dietro a' nimici nel Prato, i Tedeschi di Castruccio vigorosamente percossono al capitano e a sua gente, e diedono loro molto a·ffare per più assalti; e furono in pericolo d'essere sconfitti e cacciati i nostri della terra per mala condotta de' Borgognoni soldati, che s'erano sparti per la città a la ruberia, e lasciate le bandiere e 'l capitano; ma ischiarando il giorno, la gente cominciò ad andare al Prato al soccorso del capitano. I nimici veggendo la gente nostra ingrossare, e già di loro e morti e presi, si rinchiusono nel castello, e intesono di quello per la porta Luccese co' detti figliuoli di Castruccio sanza ritegno scampare, e fuggendo verso Serravalle, e lasciando molti l'arme e' cavagli, e presine e morti alquanti. Ma se per lo capitano fosse stato meglio proveduto, o da' suoi cavalieri meglio obbidito, che parte di loro fossono cavalcati di fuori a la porta Luccese, i figliuoli di Castruccio e tutta sua gente erano morti e presi. In questo modo fu presa la città di Pistoia giuovidì a dì XXVIII di gennaio anni MCCCXXVII, e tutta fu corsa e rubata sanza nullo ritegno, e durò la ruberia più di X dì, rubando Guelfi e Ghibellini, onde molto fu ripreso il capitano; che se a·cciò avesse riparato, e co la sua gente e con Vc cavalieri della Chiesa, ch'allora erano in Prato, fosse di presente cavalcato, avrebbe avuto Serravalle, Carmignano, Montemurlo, e Tizzano, o alcuno de' detti castelli. Ma il vizio della covidigia guasta ogni buono consiglio. Raquetata la ruberia, il capitano riformò la terra per lo re Ruberto e per lo duca, e lasciòvi per capitano il detto messer Simone de la Tosa con CCL soldati e M pedoni al soldo del Comune di Firenze, e il detto messer Filippo tornò in Firenze, domenica a dì VII di febbraio, con grande onore e trionfo fattogli per gli Fiorentini d'armeggiatori con bandiere e coverti di zendadi, e andargli incontro co la cavalleria e popolani a piè, ciascuna compagnia col suo gonfalone, e fattogli palio per mettere sopra capo, ma ciò non volle acconsentire, ma fecevi mandare sotto innanzi a·llui il pennone dell'arme del duca, ch'elli usava portare sopra capo, che gli fu posto in gran senno e conoscenza, e menonne seco molti pregioni pistolesi e altri, e uno figliuolo del traditore messer Filippo Tedici e uno suo nipote piccoli garzoni, e più altri cari figliuoli de' Ghibellini di Pistoia, e molta roba, drappi, arnesi, e gioelli.
Avemo sì distesamente inarrato la presura della città di Pistoia, però che per sì fatto modo e così forte città di mura e di fossi e guernita di gente d'arme non fu presa in Toscana già fa grandissimo tempo, e ancora per la sequela ch'avenne poi della detta presura, come diremo appresso. E per l'aquisto di Pistoia a dì VI di febbraio s'arendé la castellina ch'è sopra Puntormo, la quale molta guerra avea fatta a la strada che vae a Pisa.
<B>LX</B>
<I>Come Castruccio si partì di Roma dal Bavero sì tosto come seppe la perdita di Pistoia.</I>
Essendo Castruccio in Roma col Bavero in tanta gloria e trionfo, come detto avemo, d'esser fatto cavaliere a tanto onore, e confermato duca, e fatto conte di palazzo e sanatore di Roma, e più ch'al tutto, era signore e maestro de la corte del detto imperadore, e più era temuto e ubbidito che 'l Bavero, per leggiadria e grandezza fece una roba di sciamito cremesi, e dinanzi al petto con lettere d'oro che diceano: "È quello che Idio vuole", e nelle spalle di dietro simili lettere che diceano: "E sì sarà quello che Idio vorrà". E così egli medesimo profetezzò in sé le future sentenzie di Dio. E stando lui in tanta gloria, come piacque a·dDio, prima perdé la città di Pistoia per lo modo che detto avemo. Come la gente di Castruccio ebbono perduta Pistoia, incontanente per terra e per mare mandarono messaggi e vacchette armate, sì che per la via di mare Castruccio seppe la novella in Roma in tre dì. Incontanente Castruccio fu al Bavero e re de' Romani detto imperadore, e dolfesi forte de la perdita di Pistoia, rimprocciando che se non l'avesse menato seco Pistoia non sarebbe perduta, mostrando grande gelosia della città di Pisa e di quella di Lucca, che nonn avessono mutazione. Incontanente prese congio da·llui, e partissi di Roma il primo dì di febbraio con sua gente. Ma Castruccio lasciò sua gente in cammino, ed egli con pochi con grande sollecitudine e rischio per gli passi di Maremma cavalcò innanzi, e giunse in Pisa con XII a cavallo a dì VIIII di febbraio, anni MCCCXXVII. E la sua gente, ch'erano Vc cavalieri e M pedoni a balestra, giunsono più giorni apresso. E nota che per la partita di Castruccio tutto l'osordio e imprese del Bavero ch'avea ordinate per passare nel Regno, gli vennono poi corte e fallite, come innanzi faremo menzione; però che Castruccio era di grande consiglio in guerra e bene aventuroso, ed egli solo più temuto dal re Ruberto e dal duca e da quegli del Regno, che 'l Bavero con tutta sua gente. Sì che per l'aquisto di Pistoia Castruccio si partì di Roma, onde allora il Bavero prolungò l'andare nel Regno, che se vi fosse ito sanza indugio e col senno di Castruccio e con sua gente, di certo il re Ruberto era in pericolo di potersi difendere, perché male s'era ancora proveduto a la difesa. Come Castruccio fue in Pisa, al tutto prese la signoria de la terra, e recò a sé tutte l'entrate e le gabelle de' Pisani; e oltre a·cciò gli gravò di più incarichi di moneta. E poco apresso per alcuno trattato credette avere Montetopoli per imbolìo, e cavalcòvi con sua gente una notte, e di sua gente per condotta del traditore entrarono infino a l'antiporta. La mattina per tempo quegli de la terra, e' soldati a cavallo e a piè che v'erano per lo Comune di Firenze, sentirono il tradimento, e vigorosamente difesono la porta, e uccisono il traditore, e coloro cu' egli avea già condotti dentro. Per la qual cosa Castruccio si tornò a Pisa, e poi in calen di marzo fece fare una grande cavalcata nel piano di Pistoia, ed egli medesimo venne a provedere Pistoia, come quegli che tutto suo animo era disposto in raquistarla; e fece fornire Montemurlo, e tornossi in Lucca sanza contasto niuno da' Fiorentini o dal capitano del duca.
Lasceremo alquanto de' processi di Castruccio, e diremo d'altre cose istrane ch'avennono ne' detti tempi.
<B>LXI</B>
<I>Come e quando morì Carlo re di Francia.</I>
Nel detto anno MCCCXXVII, il dì di calen di febbraio, morì Carlo re di Francia di sua malatia, e cogli altri re fu soppellito a San Donis a grande onore. Questi non lasciò nullo figliuolo, ma la reina sua moglie, la quale, come adietro facemmo menzione, era sua cugina carnale, rimase grossa, e fu fatto governatore del reame messer Filippo di Valos suo cugino, e figliuolo che fu di messer Carlo di Valos. Al detto termine la detta reina fece una figlia femmina, sì che de la signoria del reame fu fuori e di quistione, e il detto messer Filippo ne fu re, come innanzi faremo menzione. Questo re Carlo fu di piccola bontà, e al suo tempo non fece cosa notabile, e in lui finì l'eritaggio del reame del suo padre il re Filippo, e de' suoi fratelli, che co·llui furono IIII re: Luis e Giovanni suo piccolo figliuolo nato della reina Cremenza poi che morì il padre, che non vivette che XX dì, ma pur fu nel numero de' re; e morto il detto fanciullo succedette e fu re il zio, ciò fu il re Filippo, e poi il detto Carlo, e di niuno rimase reda maschio; ciò avenne loro la sentenzia che 'l vescovo d'Ansiona profetezzò loro, come dicemmo adietro nel capitolo della presura e morte di papa Bonifazio, come per lo detto peccato commesso per lo re Filippo loro padre egli e' suoi figliuoli avrebbono gran vergogna e abbassamento di loro stato, e i·lloro fallirebbe la signoria del reame. E così avenne, che come adietro facemmo menzione, vivendo il detto re Filippo padre, le donne de' suoi detti tre figliuoli furono trovate in avolterio con grande vergogna de la casa reale, e in loro fallì la signoria del reame, che di nullo di loro rimase reda maschio. E però è da guardare d'offendere chi è in luogotenente di Cristo, né a santa Chiesa, a diritto né a torto, che con tutto che' suoi pastori per loro difetti non sieno degni, l'offesa a·lloro fatta è dell'onnipotente Iddio.
<B>LXII</B>
<I>Come in tutta Italia fu corruzzione di febbre.</I>
Nel detto anno e mese di febbraio fu per tutta Italia una generale corruzzione di febbre mossa per freddo, onde i più de le genti ne sentirono, ma pochi ne morirono. Dissono gli astrolaghi naturali che di ciò fu cagione l'aversione di Mars e di Saturno.
<B>LXIII</B>
<I>Come il conte Guiglielmo Spadalunga prese Romena e poi la lasciò.</I>
Nel detto anno, a dì XXVI di febbraio, Guiglielmo Spadalunga, de' conti Guidi ghibellini, coll'aiuto di IIIc cavalieri tedeschi ch'ebbe dagli Aretini, prese il castello di Romena, salvo la rocca, il quale era de' suoi consorti guelfi figliuoli del conte Aghinolfo; onde in Firenze per cagione dell'essere del Bavero n'ebbe grande gelosia e paura; e cavalcarvi le masnade de' cavalieri, e gli altri conti Guidi guelfi si raunarono co·lloro isforzo per contradiare il detto conte Guiglielmo, il quale veggendo sì sùbito soccorso, ed egli mal proveduto di vittuaglia, lasciò la terra con alcuno danno di sua gente.
<B>LXIV</B>
<I>Come i Genovesi ripresono il castello di Volteri.</I>
Nel detto anno MCCCXXVII, a l'entrante di marzo, i Genovesi d'entro ripresono per forza e ingegno il castello di Volteri con grande danno di loro usciti che dentro v'erano, che molti ne furono morti e presi.
<B>LXV</B>
<I>Come si cominciò guerra tra' Viniziani e gli usciti di Genova e que' di Saona.</I>
Nel detto tempo si cominciò guerra in mare tra' Viniziani e quegli di Saona e gli usciti di Genova, per cagione che' detti usciti di Genova corseggiando in mare in Soria e in Romania, più cocche e galee cariche d'avere de' mercatanti di Vinegia presono tra più volte nel detto anno, in quantità di valuta di più di LXXm fiorini d'oro, e più di IIIc Viniziani per più riprese, e in più legni affrontandosi co·lloro a·bbattaglia furono morti. A la fine volendo gli Viniziani pigliare la guerra per comune, e ordinato, e già armate LX galee, Castruccio signore di Lucca per animo di parte, che·ll'una parte e l'altra erano Ghibellini, prese in mano la differenza, e accordogli insieme con amenda a' Viniziani di libbre M di viniziani grossi, e grande danno e vergogna de' Viniziani; ma feciollo per non perdere il navicare, e per tema di soperchia spesa; ma più gli vinse animo di parte e la loro viltade.
<B>LXVI</B>
<I>Come il Bavero fece cominciare guerra a la città d'Orbivieto.</I>
Nel detto anno il Bavero che si facea chiamare imperadore, essendo rimaso in Roma dopo la partita di Castruccio, mandò de' suoi cavalieri da MD a Viterbo, e fece cominciare guerra a la città d'Orbivieto, perché si teneano a la parte della Chiesa, e molte ville e castella di loro contado arsono e guastarono; e maggior danno avrebbono fatto, se non che a dì IIII di marzo in Roma nacque una grande zuffa tra' Romani e' Tedeschi, per cagione che di vittuaglia che prendeano non voleano dare danaio, onde molti Tedeschi furono morti, e furonne i Romani sotto l'arme, e abarrarsi in più parti in Roma. Per la qual cosa il Bavero ebbe sospetto di tradimento; s'afforzò in Castello Santo Angiolo, e tutta sua gente fece tornare ad abitare ne la contrada si chiama Portico di San Piero, e per la sua gente ch'era sopra Orbivieto rimandò, e fece ritornare in Roma. Alla fine s'aquetò la zuffa, e più Romani furono condannati, onde s'acrebbe la loro mala volontà contra il Bavero e sua gente.
<B>LXVII</B>
<I>Come il Bavero fece torre la signoria di Viterbo e il suo tesoro a Salvestro de' Gatti che n'era signore.</I>
Nel detto anno MCCCXXVII, del mese di marzo, il Bavero, essendogli detto che 'l signore di Viterbo avea grande tesoro di moneta, e egli di ciò molto bisognoso, mandò il suo maliscalco e 'l cancelliere con M uomini a cavallo a la città di Viterbo, e giunti nella terra, subitamente feciono pigliare Salvestro de' Gatti e 'l figliuolo, ch'era signore di Viterbo, e quegli che gli avea data l'entrata de la terra e la signoria, opponendogli che egli stava in trattato col re Ruberto di dare a sua gente Viterbo, e fecelo martoriare per farlo confessare ove avea suo tesoro; il quale confessato ch'era nella sagrestia de' frati minori, vi mandaro, e vi trovarono XXXm fiorini d'oro; e quegli presi, con essi n'andarono a Roma, menandone preso il detto Salvestro e 'l figliuolo; sì che il piccolo tiranno dal maggiore fue sanza colpa di quel peccato degnamente pulito, e toltagli la signoria de la terra, e il suo tesoro.
<B>LXVIII</B>
<I>Come il cancelliere di Roma si rubellò al Bavero.</I>
Nel detto anno, a dì XX di marzo, il cancelliere di Roma, ch'era nato degli Orsini, rubellò contra al Bavero la terra d'Asturi in su la marina, ch'era sua, e misevi le genti del re Ruberto, acciò che facessono guerra a Roma; per la qual cosa i Romani a furore corsono a disfare le case sue, e la bella e nobile torre ch'era sopra la Mercatantia a piè di Campidoglio, che si chiamava la torre del Cancelliere. E in questo tempo il Bavero fece in Roma una imposta di XXXm fiorini d'oro, per gran fame ch'avea di moneta; i Xm ne fece pagare a' Giudei, e gli altri Xm a' cherici di Roma, e gli altri a' laici romani; onde il popolo si turbò forte, perché non erano usati di così fatti incarichi, e attendeano dell'essere in Roma il Bavero avere grascia e non ispesa; per la qual cosa a' Romani cominciò a crescere la loro mala volontà e indegnazione contra il detto Bavero.
<B>LXIX</B>
<I>Di certe leggi che fece in Roma Lodovico di Baviera sì come imperadore.</I>
Negli anni di Cristo MCCCXXVIII, a dì XIIII del mese d'aprile, Lodovico di Baviera, il quale si facea chiamare imperadore e re de' Romani, congregato parlamento nella piazza dinanzi a Santo Pietro in Roma, ove avea grandi pergami in su i gradi de la detta chiesa, dove stava il detto Lodovico parato come imperadore, acompagnato di molti cherici e parlati e religiosi romani, e altri di sua setta che l'aveano seguito, e di molti giudici e avogadi, in presenza del popolo di Roma fece pubblicare e confermò le 'nfrascritte nuove leggi per lui nuovamente fatte, la sustanzia in brieve de le quali è questa: che qualunque Cristiano fosse trovato in eresia contro a Dio e contra a la 'mperiale maestà, che secondo ch'è anticamente per le leggi, dovesse essere morto, così confermò che fosse; e di ciò potesse essere giudicato e sentenziato per ciascuno giudice competente, o fosse stato richesto o non richesto; incontanente trovato in quello peccato dell'eretica pravità o de la lesa maestà, fosse e dovesse essere morto, nonostante le leggi fatte per gli predecessori suoi, le quali negli altri casi rimanessono in loro fermezza. E questa legge volle s'intenda a le cose passate e a le presenti, e a quelle che fossono pendenti, e che debbono avenire. Ancora fece comandare che ciascuno notaio dovesse mettere in ciascuna carta ch'egli facesse, posti gli anni <I>Domini</I>, e indizione, e il dì: "Fatta al tempo dell'eccellente e magnifico domino nostro Lodovico imperadore de' Romani, anno suo etc.", e che altrimenti non valesse la carta. <I>Item</I>, che ciascuno si guardasse di dare aiuto o consiglio ad alcuno ribello o contumace del sacro imperadore o del popolo di Roma, sotto la pena de' suoi beni, e che piacesse a la sua corte. Queste leggi furono pensatamente fatte e ordinate per lo detto Bavero e per lo suo maculato consiglio a fine che sotto queste volle partorire lo suo iniquo e pravo intendimento contra papa Giovanni e la diritta Chiesa, come apresso faremo menzione.
<B>LXX</B>
<I>Sì come il detto Lodovico diede sentenzia, e come potéo dispuose papa Giovanni XXII.</I>
Apresso, i·lunidì vegnente, a dì XVIII d'aprile del detto anno, il detto Lodovico per simile modo ch'avea fatto il giuovidì dinanzi fece parlamento, e congregare il popolo di Roma, cherici e laici, ne la piazza di San Piero, e in su i sopradetti pergami venne vestito di porpore, e co la corona in capo e la verga dell'oro ne la mano diritta, e la poma overo mela d'oro ne la manca, sì come imperadore; e puosesi a sedere sopra uno ricco trono rilevato, sì che tutto il popolo il potea vedere, intorniato di parlati e baroni e di cavalieri armati. E come fu posto a sedere, fece fare silenzio; e uno frate Niccola di Fabbriano dell'ordine de' romitani si fece al perbio, e gridò ad alte boci: "Ècci alcuno procuratore che voglia difendere prete Iacopo di Caorsa, il quale si fa chiamare papa Giovanni XXII?". E così gridò tre volte, e nullo rispuose. E ciò fatto, si fece al perbio uno abate d'Alamagna molto letterato e propuose in latino queste parole: "Hec est dies boni nuntii etc.", allegando sopra questa autoritade molto belle parole sermonando; e poi si lesse una sentenzia molto lunga e ornata di molte parole e falsi argomenti, inn-effetto di questo tenore. Prima nel proemio, come il presente santo imperadore, essendo avido dell'onore e di ricoverare lo stato del popolo di Roma, si mosse d'Alamagna lasciando il regno suo e' suoi figliuoli piccioli in adolescente etade, e sanza alcuna dimoranza era venuto a Roma, sappiendo come Roma era capo del mondo e de la fede cristiana, e che ella era vacua della sedia spirituale e temporale; e stando a Roma, dinanzi a·llui pervenne che Iacopo di Caorsa, il quale si faceva abusivamente dire papa Giovanni XXII, avea voluto mutare il titolo de' cardinalitichi, i quali sono a Roma, ne la città di Vignone, e non lasciò, se non perché i suoi cardinali non l'assentirono. E poi sentì che quello Iacopo di Caorsa avea fatto bandire le croce contro a' Romani, e queste cose fece asapere agli LII rettori del popolo di Roma e ad altri savi, come gli parve che si convenisse. Per la qual cosa per il sindaco della chericia di Roma, e per quello del popolo di Roma, costituiti da coloro che n'aveano balìa, fue isposto dinanzi a·llui e supplicato ch'egli procedesse sopra il detto Iacopo di Caorsa secondo eretico, e provedesse la Chiesa e 'l popolo di Roma di santo pastore e di fedele Cristiano, sì come altra volta fu fatto per Otto terzo imperadore. Onde volendo attendere a la piatà de' Romani e de la santa Chiesa di Roma, che rapresenta tutto il mondo e la fede cristiana, procedette sopra il detto Iacopo di Caorsa, trovandolo in caso di resia per gl'infrascritti modi, cioè, prima, che essendo il regno d'Erminia assalito da' Saracini, e volendo lo re di Francia mandarvi soccorso di galee armate, egli avea quella andata fatta convertire sopra i Cristiani, cioè sopra i Ciciliani. Ancora, che essendo egli pregato da' frieri di Santa Maria degli Alamanni ch'egli mandasse oste sopra i Saracini, avea risposto: "Noi avemo in casa i Saracini". Anche avea detto che Cristo avea avuto propio in comune co' suoi discepoli, il quale sempre amò povertade.
E appresso trovatolo in altri grandi peccati di resia, massimamente ch'egli s'avea voluto apropiare lo spirituale e 'l temporale dominio, di consiglio di Ioab, cioè di Ruberto conte di Proenza, faccendo contro al santo Vangelio, ove dice che Cristo, vogliendo fare distinzione dello spirituale dal temporale, disse: "Id quod est Cesaris Cesari, et quod est Dei Deo". E in altra parte del Vangelio disse: "Regnum meum non est de hoc mundo; et si de hoc mundo esset regnum meum, ministri mei etc.", e seguentemente: "Regnum meum non est hic". Sì che i detti e altri diversi e grandi peccati di resia ha commessi, anche ch'avea prosummito e avuto ardire contra la 'mperiale maestade, disponendo e cassando la sua elezione, la quale incontanente fatta, per quella medesima ragione è confermata, e non abisogna di confermagione alcuna, con ciò sia cosa che non sia sottoposto ad alcuno, ma ogni uomo e tutto il mondo è sottoposto a·llui. Onde avendo il detto Iacopo commessi cotali peccati, sì di resia e sì de la lesa maestade, nonostante ch'egli non sia stato citato, che non bisogna per la nuova legge fatta per lo detto imperadore, e per altre leggi canoniche e civili, rimovea, privava, e cassava il detto Iacopo di Caorsa da l'oficio del papato, e da ogni oficio e beneficio temporale e spirituale, e sommettendolo a ciascuno ch'avesse giuridizione temporale, che 'l potesse punire d'animaversione, secondo che eretico e commettitore de la lesa maestade; e che nullo re, prencipe, o barone, o comunità gli dovesse dare aiuto, consiglio, o favore, né averlo né tenerlo per papa, in pena di privazione d'ogni dignità, cherici e laici di cheunque stato fosse, e a pena d'essere condannato come fautore d'eretico, e di commettere peccato de la lesa maestà; e la metà della pena e condannagione fosse applicata a la camera dello 'mperadore, e l'altra metade al popolo di Roma, e chiunque gli avesse dato aiuto, consiglio o favore, da indi adietro cadesse in simile sentenzia, assegnando termine a scusarsi a chi contro a·cciò avesse fatto, a quegli d'Italia uno mese, e a tutti gli altri d'universo mondo infra due mesi, che si venissono a scusare. E data e confermata la detta sentenzia, disse il detto Lodovico Bavero che infra pochi giorni provederebbe di dare buono papa e buono pastore, sì che grande consolazione n'avrebbe il popolo di Roma e tutti i Cristiani. E queste cose disse ch'avea fatte di consiglio di grandi savi cherici e laici fedeli Cristiani, e de' suoi baroni e prencipi. De la detta sentenzia i savi uomini di Roma molto si turbarono; l'altro semplice popolo ne fece gran festa.
<B>LXXI</B>
<I>Come il figliuolo di messer Stefano della Colonna entrò in Roma, e piuvicò il processo del papa contro al Bavero.</I>
Apresso la detta sentenzia data per lo Bavero contro a papa Giovanni XXII, il venerdì, dì XXII del detto mese d'aprile e de la detta indizione, messer Iacopo figliuolo di messer Stefano della Colonna venne in Roma ne la contrada di Santo Marcello, e ne la piazza de la detta chiesa, in presenza di più di M Romani ivi raunati, trasse fuori uno processo scritto, fatto per papa Giovanni contra Lodovico di Baviera, e nullo era stato ardito di recarlo e piuvicarlo in Roma, e quello diligentemente lesse; e disse che agli orecchi del chericato di Roma era pervenuto che certo sindaco era comparito dinanzi a Lodovico di Baviera, il quale abusivamente si fa dire imperadore, e sposto contra il santo papa Giovanni XXII, e ancora il sindaco del popolo di Roma, il quale sindaco, cioè quello del chericato di Roma, mai non ispuose; e se alcuno fosse venuto come sindaco vero, non era, con ciò sia cosa che il chericato, cioè i calonaci di Santo Pietro, e quegli di Santo Giovanni Laterano, e di Santa Maria Maggiore, i quali sono i primi nel chericato di Roma, e gli altri maggiore cherici seguente loro, e' religiosi abati e' frati minori e predicatori, e gli altri savi degli ordini, erano, già sono più mesi, partiti di Roma per cagione de la gente scomunicata ch'era entrata in Roma; e chi v'era rimaso e avea celebrato era scomunicato, sì che di ragione non poteano fare sindaco; e se alcuno fosse stato sindaco innanzi, e fosse rimaso in Roma, ancora era scomunicato: onde egli contradicendo a quello ch'era stato fatto per lo detto Lodovico, dicendo che papa Giovanni era cattolico e giusto papa, e ragionevolemente fatto per gli cardinali di santa Chiesa, e questo che si dice imperadore, imperadore non essere, ma essere eretico e scomunicato, e' sanatori di Roma e' LII del popolo, e tutti coloro che consentivano a·llui, e dessono, o avessono dato aiuto o consiglio o favore, similemente erano eretici e scomunicati. E intorno a la materia molte altre parole disse, profferendo di ciò provare di ragione, e se bisognasse, colla spada in mano in luogo comune. E apresso diligentemente il detto processo scritto conficcò con sue mani ne la porta de la detta chiesa di Santo Marcello sanza nullo contasto; e ciò fatto, montò a cavallo con IIII compagni, e partissi di Roma, e andonne a Pilestrino. De le quali cose grande mormorio fue per tutta Roma; e fatto assapere al Bavero ch'era a Santo Pietro, gli mandò dietro genti d'arme a cavallo per prenderlo, ma già era assai dilungato. Per la detta bontade e ardire del detto messer Iacopo, come il papa il seppe, il fece vescovo di... e mandò ch'egli andasse a·llui, e così fece.
<B>LXXII</B>
<I>Come il Bavero e 'l popolo di Roma feciono legge contra qualunque papa si partisse di Roma.</I>
Il dìe sequente, ciò fu sabato, dì XXIII del detto mese d'aprile, richesti per bando i sanatori di Roma, e' LII del popolo, e' capitani di XXV, e' consoli, e' XIII buoni uomini, uno per rione, che fossono dinanzi a lo 'mperadore, e così fu fatto; e consigliarono assai sopra la novità fatta, come detto avemo, per messer Iacopo de la Colonna. E poi fue tratta fuori e pubblicata una nuova legge in questo tenore: che il papa, il quale lo 'mperadore e 'l popolo di Roma intendea di chiamare, e ogni altro che papa fosse, debbia stare ne la città di Roma, e non partirsi, se non tre mesi dell'anno, e non dilungarsi da Roma da due giornate in su, e allora co la licenza del popolo di Roma; e quando fosse asente da Roma, e fosse richesto per lo popolo di Roma, ch'egli tornasse in Roma; e se a le tre richeste non tornasse, s'intendesse essere casso del papato, e potessene chiamare un altro. E ciò fatto, sì perdonò il Bavero a tutti i Romani ch'erano stati e tratti a uccidere la sua gente a la zuffa e battaglia che fu al ponte dell'isola; e queste leggi e perdono fece il Bavero per contentare il popolo di Roma. E nota ingiusta e non proveduta legge, a imporre al pastore di santa Chiesa costituzioni e modi di stare o andare contra la libertà di santa Chiesa, e contra la somma podestà che deono avere, e sempre hanno avuta, i sommi pontefici.
<B>LXXIII</B>
Come Lodovico di Baviera col popolo di Roma elessono antipapa contro al vero papa. Negli anni di Cristo MCCCXXVIII, a dì XII di maggio, il dì dell'Ascensione la mattina per tempo, congregato il popolo di Roma, uomini e femmine che vi vollono andare, dinanzi a Santo Pietro, Lodovico di Baviera che si facea chiamare imperadore venne incoronato e parato coll'abito imperiale in su il pergamo, il quale era sopra le gradora di San Piero, con molti cherici e religiosi, e co' capitani del popolo di Roma, e intorno di lui molti de' suoi baroni; e fece venire dinanzi a·ssé uno frate Pietro da Corvara, nato de' confini tra 'l contado di Tiboli e Abruzzi, il quale era dell'ordine de' frati minori, inn-adietro tenuto buono uomo e di santa vita. E lui venuto, il detto Bavero si rizzò in su la sedia, e 'l detto frate Piero fece sedere sotto il solicchio. E ciò fatto, si levò frate Niccola di Fabbriano dell'ordine de' romitani, e propuose in suo sermone queste parole: "Reversus Petrus ad se dixit: "Venit angelus Domini, et liberavit nos de manu Erodis ed de omnibus factionibus Iudeorum'", appropiando il detto Bavero per l'angelo, e papa Giovanni per Erode; e intorno a·cciò molte parole. E fatto il detto sermone, venne innanzi il vescovo che fu di Vinegia, e gridò tre volte al popolo se voleano per papa il detto frate Pietro; e con tutto che 'l popolo assai se ne turbasse, credendosi avere papa romano, per tema rispuosono in gridando che sì. E poi si levò ritto il Bavero, e letta per lo detto vescovo in una carta il decreto che a confermazione del papa si costuma, l'appellò il detto Bavero Niccola papa quinto, e diedegli l'anello, e misegli adosso il manto, e puoselo a·ssedere da la mano diritta di costa a sé; e poi si levarono, e con grande trionfo entrarono nella chiesa di Santo Pietro; e detta la messa, con grande festa n'andarono a mangiare. Di questa lezione e confermagione del detto antipapa la buona gente di Roma forte si turbarono, parendo loro che 'l detto Bavero facesse contra fede e la santa Chiesa; e sapemmo poi di vero da la sua gente medesima, che quegli ch'erano savi, parve loro ch'egli non facesse bene; e molti per la detta cagione mai poi non gli furono fedeli come prima, spezialmente quegli de la bassa Alamagna ch'erano co·llui.
<B>LXXIV</B>
<I>Come la città d'Ostia fu presa per le galee del re Ruberto.</I>
Il sequente dìe che fue fatto l'antipapa XIIII galee armate del re Ruberto entrarono in Tevero, e presono la città d'Ostia con grande danno de' Romani; e alquante de le dette galee vennono su per lo fiume del Tevero infino a Santo Paolo, scendendo in terra, e ardendo case e casali, e levando grande preda di gente e di bestiame; onde i Romani molto isbigottirono, gittando molte rampogne al signore. Per la qual cosa vi fece cavalcare a la detta Ostia VIIIc cavalieri di sua gente e molti Romani a piè a soldo, i quali assalendo la terra, molti ne furono morti e più fediti per gli molti balestrieri delle galee ch'erano in Ostia, e così si tornarono in Roma con danno e con vergogna.
<B>LXXV</B>
<I>Come l'antipapa fece VII cardinali.</I>
A dì XV del mese di maggio del detto anno l'antipapa fatto per Lodovico di Baviera fece VII cardinali, i nomi de' quali furono questi: il vescovo che fu disposto di Vinegia per papa Giovanni, il quale fu nipote del cardinale da Prato; l'abate di Santo Ambruogio di Milano, il quale anche fu disposto; uno abate d'Alamagna, il quale lesse la sentenzia contra papa Giovanni; frate Niccola da Fabbriano de' romitani, il quale è stato nominato in questo, che sermonò contra papa Giovanni; l'altro fu messer Piero Orrighi e messer Gianni d'Arlotto popolani di Roma; l'altro, l'arcivescovo che fu di Modona; e alcuno altro Romano n'elesse, i quali non vollono accettare, avendo di ciò coscienza, ch'era contra Dio e contra fede. Tutti questi detti di sopra furono disposti di loro benifici per papa Giovanni, perch'erano sismatici e ribelli di Santa Chiesa, i quali furono confermati per lo detto Lodovico, sì come fosse imperadore; e egli fornì di cavagli e d'arnesi l'antipapa e' detti suoi sismatici cardinali. E con tutto che 'l sopradetto antipapa biasimava per via di spirito le ricchezze e onori ch'usava il diritto papa e' suoi cardinali e gli altri parlati de la Chiesa, e tenea l'oppinione che Cristo fue tutto povero e non ebbe propio comune, e così doveano fare i successori di santo Pietro: egli pur sofferse e volle co' suoi cardinali avere cavagli e famiglie vestite e cavalieri e donzelli e forniti d'arnesi, e usare larga mensa a mangiare sì come gli altri; e rimosse e diede molti benifici ecclesiastichi siccome papa, annullando quegli dati per papa Giovanni, e dando larghi brivilegi con falsa bolla e per moneta, però che con tutto che 'l Bavero l'avesse fornito, come avea potuto, egli da sé era sì povero di moneta, che per necessità convenne che 'l suo papa e' suoi cardinali e loro corte fosse povera, e per moneta desse brivilegi e dignità e benifici. E fatte le dette cose, il detto Bavero lasciò il suo papa ne' palagi di San Piero in Roma, e egli cogli più di sua gente si partì di Roma e andonne a Tiboli, a dì XVII del detto mese di maggio.
<B>LXXVI</B>
<I>Come Lodovico di Baviera si fece ricoronare e confermare imperadore al suo antipapa.</I>
Sabato, a dì XXI del sopradetto mese di maggio, il detto Bavero si partì da Tiboli, e venne a San Lorenzo fuori le Mura, e ivi albergò, e tutta sua gente intorno acampata. Poi la domenica mattina, il dì de la Pentecosta, entrò in Roma, e 'l suo antipapa co' suoi sismatici cardinali gli vennono incontro insino a San Giovanni Laterano, e poi ne vennono per Roma insieme col detto Bavero; e ismontati a Santo Pietro, il Bavero mise a l'antipapa la berriuola dello scarlatto in capo, e poi l'antipapa coronò da capo Lodovico di Baviera, confermandolo, sì come papa, a essere degno imperadore. E ciò fatto, il detto Bavero confermò la sentenzia data per Arrigo imperadore contra lo re Ruberto e contra i Fiorentini e altri. E il detto antipapa in quegli giorni fece marchese della Marca, e conte di Romagna, e conte in Campagna, e duca di Spuleto, e fece più legati ne' detti luoghi e in Lombardia. E poi il Bavero si partì di Roma e andonne a Velletri, e lasciò sanatore in Roma Rinieri, figliuolo che fu d'Uguiccione da Faggiuola, il quale martorizzò e fece ardere due buoni uomini, l'uno lombardo, e l'altro toscano, perché diceano che 'l detto frate Piero di Corvara non era né potea essere degno papa, ma era papa Giovanni XXII degno e santo.
<B>LXXVII</B>
<I>Come gente del Bavero furono sconfitti presso a Narni.</I>
Nel detto anno MCCCXXVIII, a dì IIII di giugno, IIIIc cavalieri di quegli del Bavero, venuti da Roma con MD pedoni, s'erano partiti da Todi per torre il castello di Santo Gemini. Sentendo ciò gli Spuletini, con loro isforzo e con CC cavalieri di Perugia ch'erano in Spuleto, ch'andavano in Abruzzi in servigio del re Ruberto, si misono in guato presso di Narni, e ivi ebbe grande battaglia e ritenuta per gli Tedeschi, ma per lo forte passo la gente del Bavero rimasono sconfitti e morti, e presi gran parte.
<B>LXXVIII</B>
<I>Come il Bavero adoperò con sua oste in Campagna per passare nel Regno, e come si tornò a Roma.</I>
Nel detto anno, a dì XI di giugno, il popolo di Roma co la gente del Bavero stati più tempo ad assedio al castello della Mulara, nel quale era la gente del re Ruberto, per difalta di vittuaglia s'arendé al popolo di Roma, andandone sani e salvi la gente del re, ch'erano IIIc cavalieri e Vc pedoni. E ciò fatto, il Bavero colla detta oste andò a Cisterna, e arendési a·llui, e' Tedeschi la rubarono tutta e arsono; e per caro di vittuaglia ch'ebbe nel campo del Bavero, che vi valse o danari XVIII provigini il pane, e non ve n'avea, i Romani si partirono tutti e tornarsi in Roma; e 'l Bavero tornando a Velletri, que' della terra non ve lo lasciarono entrare per paura non rubassono la terra e ardessono, come aveano fatto a Cisterna; per la qual cosa gli convenne stare di fuori a campo a grande misagio. E in quella stanza la gente del re Ruberto ch'erano in Ostia, per tema non v'andasse l'oste del Bavero, la rubarono tutta e arsono, e abandonarla. Ancora nel detto dimoro a campo tra la gente del Bavero ebbe grande dissensione, da' Tedeschi dell'alta Alamagna a quegli della bassa, per cagione della preda di Cisterna e per lo caro della vittuaglia; e armarsi in campo l'una parte e l'altra per combattersi; onde il Bavero con gran fatica e promesse gli dipartì, mandandone a Roma que' de la bassa Alamagna, ed egli cogli altri si tornò a Tiboli dì XX di giugno, e là dimorò intorno d'uno mese per cercare via e modo d'entrare nel Regno; ma per povertà di moneta, e per la carestia grande ch'era al paese, e' passi forti e guardati dal duca di Calavra e da sua gente, non s'ardì a mettere, e tornossi a Roma a dì XX di luglio. Lasceremo alquanto degli andamenti del Bavero, e torneremo adietro a raccontare d'altre novità avenute in questo tempo in Toscana e per l'universo mondo, che ne sursono assai.
<B>LXXIX</B>
<I>Come papa Giovanni aramatizzò di scomunica il Bavero e' suoi seguaci.</I>
Nel detto anno MCCCXXVIII, dì XXX di marzo, papa Giovanni appo Vignone aramatizzò di scomunica il Bavero e' suoi seguaci, e dispuose Castruccio del ducato di Lucca e di Luni, e Piero Saccone de la signoria d'Arezzo, ed ogni brivilegio ricevuto dal Bavero per sentenzia cassò e annullò.
<B>LXXX</B>
<I>Come fu pace tra·re d'Inghilterra e quello di Scozia.</I>
Nel detto anno e mese di marzo si compié l'accordo e pace tra·re d'Inghilterra e quello di Scozia, ch'era durata la guerra... anni, con grande danno e abassamento degl'Inghilesi; e feciono parentado insieme, che il giovane re d'Inghilterra diè per moglie la serocchia al figliuolo del re di Scozia.
<B>LXXXI</B>
<I>Come Castruccio fece rubellare Montemasso a' Sanesi.</I>
Nel detto anno, a dì X d'aprile, Castruccio prima fatto rubellare, e poi il fece fornire, Montemassi in Maremma, il quale certi gentili uomini maremmani, che v'aveano ragione, col favore di Castruccio l'aveano rubellato a dispetto de' Sanesi che v'erano ad oste, e con battifolle, e' Fiorentini vi mandarono in loro soccorso CCL cavalieri, ma giunsono tardi, sì che non poterono riparare a la forza della cavalleria di Castruccio. Per la qual cosa i Sanesi mandarono ambasciadori a Pisa a Castruccio, e dimandargli che non si travagliasse contro a·lloro. Castruccio per ischernie de' Sanesi non fece loro null'altra risposta, se non per una lettera bianca, ch'altro non dicea se non: "Levate via chelchello", in sanese, cioè il battifolle; onde i Sanesi forte ingrecaro, e rinforzarvi l'assedio coll'aiuto de' Fiorentini, che vi mandarono CCCL cavalieri, e per patti ebbono il detto Montemassi a dì... d'agosto MCCCXXVIII.
<B>LXXXII</B>
<I>Come fu preso e disfatto il castello del Pozzo sopra Guisciana.</I>
Nel detto anno, a dì XXVI d'aprile, le masnade de' Fiorentini ch'erano in Santa Maria a Monte, presono il castelletto del Pozzo in su Guisciana, il quale era molto rafforzato. Vegnendo la gente di Castruccio per fornirlo, e que' del castello uscendo incontro per loro ricevere, le masnade de' Fiorentini entrarono in mezzo tra 'l castello e loro, e misongli in isconfitta, e ebbono il Pozzo, il quale i Fiorentini feciono di presente diroccare infino a le fondamenta. Quello Pozzo Castruccio avea molto fatto afforzare e murare, e tenealo per suo luogo propio.
<B>LXXXIII</B>
<I>Come Castruccio corse la città di Pisa e fecesene fare signore.</I>
In questi tempi e mese d'aprile Castruccio essendo in Pisa, e non parendogli che la terra si reggesse bene a sua guisa, e convitando d'esserne al tutto signore, e certi grandi e popolani di Pisa, i quali a la venuta del Bavero erano de la setta di Castruccio, allora erano contra lui per non volerlo per signore, e aveano fatto trattato in Roma col Bavero ch'egli donasse la signoria a la 'mperadrice, acciò che Castruccio non avesse la signoria; e così fece per danari ch'ebbe da' Pisani (la quale donna mandò a Pisa per suo vicario il conte d'Ottinghe d'Alamagna, il quale da Castruccio infintamente fu ricevuto), ma due dì apresso Castruccio con sua cavalleria e con gente a piè assai del contado di Lucca corse la città di Pisa due volte, non riguardando reverenza o signoria del Bavero o de la moglie, e prese messer Bavosone d'Agobbio, il quale il Bavero v'avea lasciato per suo vicario, e messer Filippo da Caprona e più altri grandi e popolani di Pisa, e per forza si fece eleggere signore libero di Pisa per II anni, e ciò fu a dì XXVIIII d'aprile MCCCXXVIII; per la qual cosa il sopradetto conte d'Ottinghe si ritornò a Roma con onta e vergogna. Ben si disse che Castruccio il contentò di moneta, acciò che non si dolesse lui al Bavero né a la donna sua; ma di certo di questa novità nacque grande isdegno coperto dal Bavero a Castruccio, del quale sarebbe nato novità assai e diverse, se Castruccio fosse lungamente vivuto, come innanzi faremo menzione.
<B>LXXXIV</B>
<I>Come i Fiorentini renderono il castello di Mangone a messer Benuccio Salimbeni di Siena.</I>
Nel detto anno, a dì XXX d'aprile, i Fiorentini per volontà e comandamento del duca loro signore, e per certe rapresaglie e roba de' Fiorentini sostenute da' Sanesi, renderono contra loro buona voglia il castello di Mangone a messer Benuccio de' Salimbeni di Siena, che vi cusava ragione per la moglie, la quale fu figliuola del conte Nerone da Vernia, e nipote del conte Alberto da Mangone; ma per certe ragioni e testamenti fatti con patti infra i conti da Mangone, chi di loro rimanesse sanza reda maschio legittimo, rimanesse e Vernia e Mangone al Comune di Firenze, e morto Alberto nullo ve ne rimanea, e 'l Comune di Firenze n'avea ragione, e n'era in possessione. Per la qual cosa il popolo di Firenze molto si turbò di renderlo; ma per lo male stato del nostro Comune, e per non recarne i Sanesi a nimici, e non potere contastare a la volontà del duca, si rendé per lo meno reo, con patti che messer Benuccio ne dovesse con C fanti fare oste e cavalcate col Comune di Firenze, e mandare uno palio di drappo ad oro per la festa del beato Giovanni.
<B>LXXXV</B>
<I>Come Castruccio puose l'assedio a la città di Pistoia.</I>
Ne' detti tempi grande quistione nacque dal Comune di Firenze a messer Filippo di Sangineto, il quale il duca di Calavra avea lasciato in suo luogo e capitano di guerra in Firenze per cagione che oltre a' patti di CCm fiorini d'oro che 'l duca avea l'anno per la sua signoria e per tenere M cavalieri (che non ne tenea allora VIIIc), sì volea che' Fiorentini fornissono a loro spese la città di Pistoia e Santa Maria a Monte, e non bastava il costo de' soldati, che oltre a le masnade a cavallo pagati de' danari de' Fiorentini, teneano i Fiorentini in Pistoia M pedoni, e nel castello di Santa Maria a Monte Vc al loro soldo, sì volea il detto messer Filippo si fornisse di vittuaglia de la moneta del Comune le dette terre, e il duca ne volea e avea la signoria e dominazione libera de la detta città di Pistoia e di Santa Maria a Monte. Onde isdegno e gara nacque grande tra' rettori di Firenze e il detto messer Filippo e' suoi consiglieri; e non sanza giusta cagione de' Fiorentini, però che 'l detto messer Filippo quando prese Pistoia l'avea co la sua gente rubata e vota d'ogni sustanza, e no·lla volea fornire di vittuaglia de la pecunia che gli rimanea, pagati i suoi cavalieri, di CCm fiorini d'oro, che bene lo potea fare largamente, anzi gli rimandava al duca nel Regno. Onde i Fiorentini ingrecati e imbizzarriti per lo detto isdegno, s'acrebbe grossamente danno sopra danno e pericolo sopra vergogna, come innanzi faremo menzione; che per ispesa di IIIIm fiorini d'oro si trovava chi forniva la città di Pistoia, che costò poi a' Fiorentini più di Cm, con danno e vergogna del Comune di Firenze e del duca che n'era signore. Questa discordia sentendo Castruccio, e come Pistoia non era fornita per più di due mesi, co la grande volontà ch'aveva di riprenderla, e di vendicarsi di messer Filippo e de' Fiorentini de l'onta che·lline parea avere ricevuta de la perdita di quella, come sollecito e valoroso signore vi mandò la sua gente, in quantità di M cavalieri e popolo assai, a l'assedio, a dì XIII di maggio MCCCXXVIII, e egli rimase in Pisa a sollecitare di fornire la detta oste. E mandòvi i Pisani per comune, e col loro carroccio, i più contra loro volontà, e egli poi venne in persona nella detta oste a dì XXX maggio con tutto il rimaso di sua gente, e trovossi con XVIIc di cavalieri e popolo innumerabile, sì ch'elli cinse la città d'intorno intorno di sua oste e con più battifolli, sì che nullo vi potea entrare né uscire, avendo tagliate le vie e fatti i fossi e isbarre e steccati di maravigliosa opera, acciò che nullo potesse uscire di Pistoia, né' Fiorentini impedire né assalire sua oste da l'altra parte.
<B>LXXXVI</B>
<I>Come i Fiorentini feciono grande oste per soccorrere la città di Pistoia, e come Castruccio l'ebbe a patti.</I>
Istando Castruccio a l'assedio di Pistoia per lo modo ch'avemo detto di sopra, dando a la città sovente battaglie con gatti e grilli e torri di legname armate, e riempiendo in alcuna parte de' fossi, ma poco o niente vi poté fare, però che la terra era fortissima di mura con ispesse torricelle e bertesche, e poi steccata con dupplicati fossi, come Castruccio medesimo l'avea fatta afforzare, e dentro avea per lo Comune di Firenze CCC cavalieri e M pedoni, buona gente d'arme a la guardia e difensione, sanza i cittadini guelfi, i quali sovente uscivano fuori assalendo il campo con danno de' nimici; e le masnade de' Fiorentini ch'erano in Prato spesso assalivano l'oste; ma poco levava, sì avea Castruccio afforzato il campo. In questa stanza i Fiorentini feciono disfare e tagliare co' picconi la rocca e le mura e tutte case e fortezze del castello di Santa Maria a Monte, e misonvi fuoco, e feciolla rovinare a dì XV di giugno del detto anno, per non avere a fornire tante guardie di castella, e per la tenza ch'aveano de la detta guardia co la gente del duca, sì come dicemmo dinanzi, e per fare partire Castruccio da l'assedio di Pistoia, o asottigliare sua oste, per venire a difendere Santa Maria a Monte. Ma egli, come costante e valoroso, niente si mosse da Pistoia, ma raforzò l'asedio. I Fiorentini veggendo che Pistoia era con difalta di vittuaglia, e non si potea fornire sanza possente oste o per battaglia con Castruccio, sì raunarono tutta loro amistà, e ebbono dal legato di Lombardia, il quale era in Bologna, Vc cavalieri, prestando loro per paga Xm fiorini d'oro, e IIIIc cavalieri del Comune di Bologna, e CC cavalieri del Comune di Siena, e gente di loro a piè con balestra, e da CCC cavalieri tra di Volterra, e San Gimignano, e Colle, e Prato, e' conti Guidi guelfi e altri amici, e messer Filippo di Sangineto capitano per lo duca VIIIc cavalieri, che ne dovea avere M, per la qual difalta, oltre a quegli, il Comune di Firenze ne soldò IIIIcLX sotto bandiere del Comune, onde furono capitani messer Gian di Bovilla di Francia e messer Vergiù di Landa di Piagenza. E raunata la detta cavalleria, la quale furono da XXVIc di cavalieri, molto bella e buona gente, la maggiore parte oltramontani, e popolo a piè grandissimo, e preso il gonfalone della Chiesa, e la croce dal legato cardinale ne la piazza di Santa Croce, si mosse di Firenze il capitano con parte dell'oste martidì XIII di luglio, e andonne a Prato; e il seguente e terzo dì apresso si mosse di Firenze tutta l'altra cavalleria e gente. E poi i·lunidì, dì XVIIII di luglio, uscì tutta l'oste de' Fiorentini di Prato ordinata e schierata, e puosonsi a campo di là dal ponte Agliana, e 'l seguente dì si puosono a le Capannelle, e quivi assai presso a l'oste di Castruccio, ispianando di concordia intra le due osti, avendo Castruccio promessa e ingaggiata la battaglia. Tutto uno giorno stette l'oste de' Fiorentini ischierata in sul campo per combattere; ma Castruccio veggendo tanta buona gente a' Fiorentini, e volonterosa di combattere, ed egli si sentia con assai meno cavalleria, non si volle mettere a la fortuna de la battaglia; ma con grandissima sollecitudine e studio personalmente intendea a fare imbarrare con alberi tagliati e fossi e steccati intorno a la sua oste, e spezialmente verso la parte ove avisava che l'oste de' Fiorentini si dovea porre. E così ingannati i Fiorentini da Castruccio di non volere la battaglia, mossono loro schiere, e tennono a mano diritta verso tramontana, e acamparsi al ponte a la Bura; che s'avessono tenuto di costa al fiume dell'Ombrone da la mano sinestra, di nicessità convenia che Castruccio venisse a la battaglia, o Fiorentini fornissono per forza Pistoia, e entrassono tra la terra e Serravalle, onde venia la vittuaglia a l'oste di Castruccio. Ma a cui Idio vuole male gli toglie il senno; che presono pure il peggiore, e strinsonsi a' poggetti di Ripalta, ove l'oste di Castruccio era più forte per lo sito del terreno, e dove avea più battifolli, e gente a piè innumerabile a la difesa. E stando nel detto luogo da VIII giorni badaluccandosi sovente le genti de le due osti insieme, ma poco poterono avanzare i Fiorentini; che s'aquistavano il giorno terreno, la notte era ripreso e afforzato di steccati per la gente di Castruccio. E sturbò ancora molto la 'mpresa, che messer Filippo capitano per lo duca di Fiorentini alquanto amalò, e non era bene inn-accordo col maliscalco che v'era colla cavalleria de la Chiesa e di Bologna, che l'uno volea tenere una via, e l'altro un'altra; e de' soldati de la Chiesa, che v'avea assa' Tedeschi, spesso passavano con fidanza a l'oste di Castruccio, onde si prese alquanta sospeccione, e dissesi che Castruccio avea fatti corrompere più conostaboli tedeschi de la gente de la Chiesa. E per le dette cagioni, e ancora che·legato da Bologna studiava di riavere la sua cavalleria per sue imprese di Romagna, sì·ssi prese partito in Firenze, per lo men reo, di fare tornare l'oste, e cavalcare in su quello di Pisa, e lasciare guernimento in Prato di gente e di vittuaglia, sì che se Castruccio si levasse da l'assedio di Pistoia, si fornisse la terra. E così levato il campo e l'oste de' Fiorentini, e schierati, a dì XXVIII di luglio, trombato, e richesto Castruccio di battaglia, non comparendo, si partì l'oste e tornò in Prato, e gran parte cavalcarono per la via di Signa in Valdarno di sotto; e faccendo vista di passare Guisciana per andare verso Lucca, e parte ne passarono, il maliscalco de la Chiesa con grande cavalleria e pedoni corsono sopra quello di Pisa, e presono e arsono il Ponte ad Era; e poi per forza combattendo presono il fosso Arnonico e uccisonvi e presono molte genti: e simile presono Cascina, e corsono a San Savino, e infino presso al borgo di San Marco di Pisa, avendo molti pregioni e grandissima preda, però che' Pisani non si prendeano guardia, trovandogli a mangiare co le tavole messe, e non v'avea cavalieri né genti a la difesa, che tutti erano a l'oste di Pistoia; sì che infino a le porte di Pisa poteano cavalcare sanza contradio. Castruccio per cavalcata che la gente de' Fiorentini facessono in su quello di Lucca o di Pisa, non si mosse dall'asedio di Pistoia, sentendo ch'era stretta di vittuaglia, e que' d'entro, d'onde era capitano messer Simone de la Tosa, isbigottiti, veggendo partita l'oste de' Fiorentini, e non aveano potuto fornirgli, ed era loro fallita la vittuaglia, cercarono trattato con Castruccio di rendere la terra, salve le persone con ciò che se ne potessono portare, e chi volesse essere cittadino di Pistoia rimanesse. E così fu fatto; e arrendessi Pistoia a Castruccio, mercoledì mattina a dì III d'agosto, gli anni di Cristo MCCCXXVIII. E nota se questa impresa fu con grande vergogna e danno e spesa de' Fiorentini, e quasi incredibile a dovere potere essere, che Castruccio tenesse l'assedio con XVIc di cavalieri o là intorno, e' Fiorentini, che n'aveano tra nell'oste e in Pistoia IIIm cavalieri o più, molto buona gente e popolo grandissimo, non poterlo levare da campo. Ma quello che per Dio è permesso nulla forza né senno umano può contastare.
<B>LXXXVII</B>
<I>Come morì il duca Castruccio signore di Pisa e di Lucca e di Pistoia, e messer Galeasso de' Visconti di Milano.</I>
Come Castruccio ebbe racquistata Pistoia per suo grande senno e studio e prodezza per lo modo che detto avemo, sì riformò e rifornì la terra di gente e di vittuaglia, e rimisevi i Ghibellini, e tornò a la città di Lucca con grande trionfo e gloria a modo di triunfante imperadore, e trovossi in sul colmo d'essere temuto e ridottato, e bene aventuroso di sue imprese, più che fosse stato nullo signore o tiranno italiano, passati CCC anni, ritrovandone il vero per le croniche; e con questo, signore della città di Pisa, e di Lucca, e di Pistoia, e di Lunigiana, e di gran parte de la riviera di Genova di levante, e trovossi signore di più di IIIc castella murate. Ma come piacque a Dio, il quale per lo debito di natura raguaglia il grande col piccolo, e·ricco col povero, per soperchio di disordinata fatica presa nell'oste a Pistoia, stando armato, andando a cavallo e talora a piè a sollecitare le guardie e' ripari di sua oste, faccendo fare fortezze e tagliate, e talora cominciava colle sue mani acciò che ciascuno lavorasse al caldo del sole leone, sì gli prese una febbre continua, onde cadde forte malato. E per simile modo partendosi l'oste da Pistoia, molta buona gente di quella di Castruccio amalaro e morirne assai. Intra gli altri notabili uomini messer Galeasso de' Visconti di Melano, il quale era in servigio di Castruccio, amalò al castello di Pescia, e in quello in corto termine morì scomunicato assai poveramente, ch'era stato così grande signore e tiranno, che innanzi che 'l Bavero gli togliesse lo stato era signore di Melano e di VII altre città vicine al suo séguito, com'era Pavia, Lodi, Chermona, Commo, Bergamo, Noara, e Vercelli, e morì vilmente soldato a la mercé di Castruccio. E così mostra che i giudici di Dio possono indugiare, ma non preterire. Castruccio innanzi ch'egli amalasse, sentendo che 'l Bavero tornava da Roma, e parendogli averlo offeso in isturbargli la sua impresa del Regno per lo suo dimoro in Toscana, e presa la città di Pisa a sua signoria contra sua volontà e mandamento, temette di lui, e ch'egli nol levasse di signoria e di stato, come avea fatto Galeasso di Melano, si fece cercare trattato d'accordo segretamente co' Fiorentini; ma, come piacque a Dio, gli sopravenne la malatia, sì che si rimase, e lui agravato ordinò suo testamento, lasciando Arrigo suo primo figliuolo duca di Lucca; e che sì tosto come fosse morto, sanza fare lamento, dovesse andare in Pisa co la sua cavalleria e correre la città, e recarla a sua signoria. E ciò fatto, passò di questa vita sabato a dì III di settembre MCCCXXVIII. Questo Castruccio fu della persona molto destro, grande, d'assai avenante forma, schietto, e non grosso, bianco, e pendea in palido, i capegli diritti e biondi con assai grazioso viso: era d'etade di XLVII anni quando morì. E poco innanzi a la sua morte conoscendosi morire, disse a più de' suoi distretti amici: "Io mi veggo morire, e morto me, vedrete disasseroncato", in suo volgare lucchese, che viene a dire in più aperto volgare: "Vedrete revoluzione", overo in sentenzia lucchese: "Vedrai mondo andare". E bene profetezzò, come innanzi potrete comprendere.
E per quello che poi sapemmo da' suoi più privati parenti, egli si confessò e prese il sagramento e l'olio santo divotamente; ma rimase con grande errore, che mai non riconobbe sé avere offeso a Dio per offensione fatta contra santa Chiesa, faccendosi coscienza che giustamente avesse operato per lo 'mperio e suo Comune. E poi che in questo stato passò, e tennesi celata la sua morte infino a dì X di settembre, tanto che com'egli avea lasciato, corse Arrigo suo figliuolo co la sua cavalleria la città di Lucca e quella di Pisa, e ruppono il popolo di Pisa combattendo ovunque trovarono riparo. E ciò fatto, tornò in Lucca e feciono il lamento, vestendosi tutta sua gente a nero, e con X cavagli coverti di drappi di seta e con X bandiere; dell'arme dello 'mperio due, e di quelle del ducato due, e della sua propia due, e una del Comune di Pisa, e simile di quello di Lucca e di Pistoia e di Luni. E soppellissi a grande onore in Lucca al luogo de' frati minori di san Francesco a dì XIIII di settembre. Questo Castruccio fu uno valoroso e magnanimo tirannno, savio e accorto, e sollecito e faticante, e prode in arme, e bene proveduto in guerra, e molto aventuroso di sue imprese, e molto temuto e ridottato, e al suo tempo fece di belle e notabili cose, e fu uno grande fragello a' suoi cittadini, e a' Fiorentini e a' Pisani e Pistolesi e a tutti i Toscani in XV anni ch'egli signoreggiò Lucca: assai fu crudele in fare morire e tormentare uomini, ingrato de' servigi ricevuti in suoi bisogni e necessitadi, e vago di gente e amici nuovi, e vanaglorioso molto per avere stato e signoria; e al tutto si credette essere signore di Firenze e re in Toscana. Della sua morte si rallegrarono e rassicurarono molto i Fiorentini, e appena poteano credere che fosse morto. Di questa morte di Castruccio ci cade di fare memoria a noi autore, a cui avenne il caso. Essendo noi in grande turbazione della persecuzione che facea al nostro Comune, la quale ci parea quasi impossibile, dogliendone per nostra lettera a maestro Dionigio dal Borgo a San Sepolcro, nostro amico e divoto, dell'ordine degli agostini, maestro in Parigi in divinità e filosofia, pregando m'avisasse quando avrebbe fine la nostra aversità, mi rispuose per sua lettera in brieve, e disse: "Io veggio Castruccio morto; e alla fine della guerra voi avrete la signoria di Lucca per mano d'uno ch'avrà l'arme nera e rossa, con grande affanno, ispendio, e vergogna del vostro Comune, e poco tempo la gioirete". Avemmo la detta lettera da Parigi in quegli giorni che Castruccio avea avuta la vittoria di Pistoia di su detta, e riscrivendo al maestro com'elli Castruccio era nella maggiore pompa e stato che fosse mai, rispuosemi di presente: "Io raffermo ciò ti scrissi per l'altra lettera; e se Idio nonn-ha mutato il suo giudicio e il corso del cielo, io veggio Castruccio morto e sotterrato". E com'io ebbi questa lettera, la mostrai a' miei compagni priori, ch'era allora di quello collegio, che pochi dì innanzi era morto Castruccio, e in tutte le sue parti il giudicio del maestro Dionigio fu profezia.
Lasceremo alquanto delle novità di Toscana, e faremo incidenza faccendo menzione d'altre cose che in questi tempi furono in più parti del mondo, e degli andamenti del Bavero, il quale era rimaso a Roma, tornando poi a nostra materia de' fatti di Firenze.
<B>LXXXVIII</B>
<I>Come Filippo di Valos fu coronato re di Francia.</I>
Nel detto anno MCCCXXVIII di maggio, a l'ottava di Pentecosta, messer Filippo di Valos, figliuolo che fu di messer Carlo di Valos, a cui succedette il reame di Francia, però che di niuno de' tre suoi cugini, ch'erano stati re di Francia e figliuoli del re Filippo il Bello, non rimase niuno figliolo maschio, fu coronato re di Francia a la città di Rens co la moglie a grande festa e onore; e ciò fatto, ristituì il reame di Navarra al figliuolo che fu di messer Luis di Francia suo cugino, faccendogline omaggio, che gli succedea per dote de la moglie, che fu figliuola del re Luis che fu re di Francia, per successione del re Filippo suo padre, e re di Navarra per lo retaggio della reina Giovanna sua madre, e per aquitarlo della quistione ch'egli avea mossa, dicendo ch'era vero reda del reame di Francia per la moglie, ch'era figliuola del re Luigi maggiore de' fratelli, figliuolo del re Filippo il Bello, e così suo cugino com'egli. E in quella coronazione, ordinato saviamente lo stato del reame, e' ordinò d'andare con tutto suo podere sopra i Fiamminghi, i quali s'erano rubellati da la signoria de·reame, e cacciato il loro conte e signore.
<B>LXXXIX</B>
<I>Come il detto re di Francia sconfisse i Fiamminghi a Cassella.</I>
Ne' detti tempi, essendo quegli di Bruggia e di tutte le terre de la marina di Fiandra rubellato a Luis conte di Fiandra loro signore, come adietro in alcuna parte facemmo menzione, e Luis uscito di loro pregione, stando nella villa di Guanto, più volte gli feciono oste adosso, e l'assalirono, e cacciarono del paese tutti i nobili e i grandi borgesi; onde il detto conte andò in Francia e al suo sovrano signore, cioè a Filippo di Valos nuovo re di Francia, dolendosi di quello che gli faceano i Fiamminghi suoi vassalli, a' quali il detto re di Francia mandò comandando che dovessono tenere il conte per loro signore e rimetterlo in suo stato: i quali disobedienti, e con orgoglio rispondendo che non erano aconci d'ubbidire né 'l conte né lui, lo re ricordandosi de le 'ngiurie e vergogne fatte per gli Fiamminghi a' suoi anticessori e a la casa di Francia, sì s'aparecchiò d'andare ad oste sopra loro; e con grande esercito si mosse con tutta la baronia di Francia, e oltre a' Franceschi menò seco il conte di Savoia, e 'l Dalfino di Vienna, e 'l conte d'Analdo, e quello di Bari, e quello di Namurro, e più altri baroni di Brabante e di confini de la Magna, i quali erano suoi amici e al suo servigio, e con numero di più di XIIm cavalieri e popolo grandissimo a piè, e co la detta oste si mosse di Francia, e andonne in Fiandra. I Fiamminghi non ispaventati sentendosi venire adosso sì grande esercito, ma come valorosi e franchi lasciando ogni loro arte e mestiere, per comune vennono tutti a piede a le frontiere di Fiandra, e puosonsi a campo in sul poggio di Cassella per contradiare il re di Francia che non entrasse in loro paese. Lo re di Francia con sua oste s'acampò a piè del detto poggio, e quivi stettono più giorni sanza assalire l'una oste l'altra, se non di scaramucci e badalucchi, però che ciascuna oste era in luogo forte. A la fine tanto s'asicurarono le due osti, che quasi nullo stava armato per lo soperchio caldo ch'era allora. E' Fiamminghi sagacemente, per sapere lo stato e essere dell'oste de' Franceschi, vi mandarono uno pesciaiuolo di Bruggia a vendere pesci, molto savio e aveduto, e che sapeva bene il francesco, il quale avea nome Gialucola, ed era de' maggiori maestri dell'oste, il quale per la sua patria si mise a pericolo di morte, e più giorni vendendo i suoi pesci, usò e stette nell'oste de' Franceschi, e vide e conobbe loro condizione e stato; e tornato a' suoi, disse tutto, com'era a·lloro leggere di prendere il re di Francia e sconfiggere tutta sua oste, se volessono essere valenti, però che per lo caldo non istavano armati né in nulla guardia. E fé ordinare di fare richiedere il re di battaglia ordinata il dì di santo Bartolomeo d'agosto, ch'è a dì XXIIII del mese; la qual cosa per lo re e per tutta sua gente fu accettata allegramente. E poi disse a' suoi: "A noi conviene usare inganno con prodezza. Il re attende la giornata ordinata di battaglia, e in questo mezzo non fa quasi guardia, e spezialemente il meriggio per lo caldo si spogliano e dormono tutti.
Armianci segretamente, e subitamente assaliamo l'oste, e io con certi eletti n'anderò diritto a la tenda del re, che la so bene". E com'ebbe detto e ordinato, così fu fatto, che a dì XXIII d'agosto, gli anni di Cristo MCCCXXVIII, dì II innanzi il giorno de la battaglia ordinata, i Fiamminghi armati di corazze in sul pieno meriggio, sanza fare nullo romore né di trombe né d'altro stormento, scesono del poggio di Cassella, e assalirono il campo e l'oste del re di Francia, che non se ne prendeano nulla guardia, con grande danno e mortalità de' Franceschi per modo che, come aveano ordinato i Fiamminghi, venia fatto di mettere inn-isconfitta il re di Francia e sua oste. E già il sopradetto pesciaiuolo con sua compagnia era venuto sanza contasto niuno infino a la tenda del re, il quale re da' detti assalitori fu a condizione di morte, e con grande fatica e rischio apena poté ricoverare a cavallo. Ma che impedì i Fiamminghi, come piacque a Dio, il venire soperchio armati di corazze, e 'l caldo era grande, onde non si poteano per istanchezza del corso ch'aveano fatto reggere, ma molti ne traffelaro, e d'altra parte il conte d'Analdo e quello di Bari e quello di Namurro con loro gente, i quali erano co·lloro tende a l'estremità dell'oste, e non istavano nell'agio né morbidezze de' Franceschi, ma sanza dormire stavano armati a la tedesca, come s'avidono della scesa de' Fiamminghi, montarono a cavallo e misonsi al contasto, onde i Franceschi ebbono alcuno riparo, e vennonsi armando e montando a cavallo. Per la qual cosa la battaglia de' Franceschi rinforzò, e i Fiamminghi per istraccamento di loro soperchie armi affieboliro, onde in quello giorno, come piacque a Dio, furono sconfitti i Fiamminghi, e morirne in sul campo più di XIIm, e gli altri si fuggirono chi qua e chi là per lo paese. E ciò fatto, il re con sua oste ebbe incontanente Popolinghe, e poi la buona villa d'Ipro, e venne verso Bruggia. Quegli ch'erano rimasi in Bruggia contradi del re e del conte si teneano forte, credendo guarentire la terra; ma come piacque a Dio, e quasi fu uno miracolo, le donne e femmine di Bruggia congregate insieme, presono bandiere dell'arme del conte correndo in su la piazza dell'Alla di Bruggia, gridando in loro lingua: "Viva il conte, e muoiano i traditori!"; per la quale sommozione i detti caporali per paura si partirono, e le donne mandarono per lo conte, il qual era ad Andriborgo, e diedongli la signoria della terra; e poi vi venne il re di Francia con grande festa, e risagì signore il detto conte de la contea di Fiandra dal fiume de la Liscia in là, aquetandolo d'ogni spesa ch'avea fatta ne la detta oste, e amonendolo che fosse buono signore, e si guardasse che per sua difalta non perdesse la contea più; che se ciò gli avenisse, gli torrebbe la terra. E ciò fatto, si tornò lo re in Francia con grande vittoria e trionfo, e 'l conte rimase in Fiandra e fece abattere tutte le fortezze di Bruggia e d'Ipro, e fece morire tra più volte di mala morte più di Xm Fiamminghi de la Comune, i quali erano stati caporali e cominciatori de la disensione e rubellazione. Questa fu notabile e grande vendetta e mutazione di stato che Idio permise de' Fiamminghi per abbattere l'orgoglio e ingratitudine che 'l detto scomunato popolo aveano presa sopra i Franceschi per la vittoria ch'aveano avuta sopra loro l'anno del MCCCI a Coltrai, e più altre, come in que' tempi facemmo menzione, e però n'avemo fatta più distesa memoria.
<B>XC</B>
<I>Come fu canonizzato santo Pietro di Morrone, papa Celestino.</I>
Nel detto anno MCCCXXVIII papa Giovanni co' suo' cardinali apo la città di Vignone in Proenza, ov'era la corte, canonizzò santo Pietro di Morrone, il quale fu papa Celestino V, onde al suo tempo, che fu gli anni di Cristo MCCLXXXXIIII, facemmo adietro compiutamente menzione; il quale rinunziò il papato per utile di sua anima, e tornossi al suo romitaggio al Morrone a fare penitenzia; e in sua vita, e poi dopo la sua morte, fece Idio per lui nel paese d'Abruzzi molti miracoli, e la sua festa si celebrò dì XVIII di maggio, e il corpo suo imbolato del castello di Fummone in Campagna, reverentemente fu portato nella città dell'Aquila.
<B>XCI</B>
<I>Come gli usciti di Genova presono Volteri e riperdero.</I>
Nel detto anno, a dì VI di giugno, gli usciti di Genova ch'erano in Saona presono per forza il castello di Volteri presso a Genova, mettendo a morte chiunque vi trovarono dentro, ma poco il tennono, che' Genovesi v'andarono ad oste per terra e per mare, e riebbollo a patti.
<B>XCII</B>
<I>Come quegli di Pavia rubarono la moneta che 'l papa mandava a' suoi cavalieri.</I>
Nel detto anno, a l'entrante di luglio, vegnendo da corte da Vignone la paga de' soldati che·lla Chiesa tenea col suo legato in Lombardia, i quali danari erano in quantità di LXm fiorini d'oro a la guardia di CL cavalieri, passando per lo contado di Pavia di qua dal fiume di Po, le masnade di Pavia ribelli della Chiesa, fatta posta della venuta de la detta moneta, e messisi in aguato, essendo passati parte de la detta scorta, sì assalirono il rimanente e misongli in rotta, e presono parte del tesoro, che furono più di XXXm fiorini d'oro, sanza i pregioni e cavagli e somieri e arnesi.
<B>XCIII</B>
<I>Come la gente del re Ruberto presono Alagna.</I>
Nel detto anno, a l'entrante di luglio, la gente del re Ruberto in quantità d'ottocento cavalieri, ond'era capitano il dispoto di Romania nipote del detto re, e il conte Novello di quegli del Balzo, presono e entrarono per forza ne la città d'Alagna in Campagna col favore de' nipoti che furono di papa Bonifazio, e cacciarne con battaglia tutti i seguaci del Bavero, il quale si facea chiamare imperadore, onde fu grande favore al re Ruberto, e il contradio al detto Bavero. Nel detto anno, a dì XVII di luglio, i Ghibellini de la Marca con cavalieri d'Arezzo vennono in quantità di Vc cavalieri subitamente sopra la città da Rimine, per condotta dell'arciprete de' Malatesti ribello di Rimine, e presono i borghi, ma poi per forza ne furono cacciati con danno e con vergogna di quegli usciti di Rimine. Nel detto anno e mese di luglio ne la città di Vignone in Proenza, ove era la corte di Roma, fu grandissimo diluvio d'acqua per crescimento di Rodano; che per diverse piogge cadute in Borgogna, e nevi strutte a le montagne, il Rodano crebbe sì disordinatamente, che uscì de' suoi termini, e infinito danno fece in Valdirodano, e in Vignone guastò più di M case lungo la riva, e molte genti anegarono. Nel detto anno e mese di luglio Alberghettino, che tenea Faenza, venne ad acordo e comandamento del papa, cioè del legato del papa a Bologna.
<B>XCIV</B>
<I>Come i Parmigiani e' Reggiani si rubellarono dal legato e dalla Chiesa di Roma.</I>
Nel detto anno, il primo dì d'agosto, quegli della città di Parma con trattato de' Rossi che n'erano signori rubellarono Parma a la signoria de la Chiesa, e cacciarne la gente e uficiali del legato, opponendo che gli oppressavano troppo, ed era pur vero, con tutto ch'eglino pure aveano male in animo, e in più casi erano stati mali Guelfi e non fedeli a parte di Chiesa. E per simile modo il seguente dì si rubellarono i Reggiani, e feciono lega con messer Cane signore di Verona e con Castruccio, onde i Fiorentini e gli altri Guelfi di Toscana ne sbigottirono assai.
<B>XCV</B>
<I>Come il Bavero, che si facea chiamare imperadore, col suo antipapa si partì di Roma e venne a Viterbo.</I>
Nel detto tempo, gli anni di Cristo MCCCXXVIII, essendo il sopradetto Bavero in Roma in povero stato di moneta, perché gli aveano fallato il re Federigo di Cicilia e que' di Saona usciti di Genova e gli altri Ghibellini d'Italia di venire con loro armata e con moneta al tempo promesso; e la sua gente già per difetti venuta in discordia e da' Romani male veduti, e la gente del re Ruberto già presa forza in Campagna e in terra di Roma, sì s'avisò il detto Bavero che in Roma non potea più dimorare sanza pericolo di sé e di sua gente, si mandò il suo maliscalco a Viterbo con VIIIc cavalieri, ed egli appresso si partì di Roma col suo antipapa e' suoi cardinali a dì IIII d'agosto del detto anno, e giunse a Viterbo a dì VI d'agosto. E a la sua partita i Romani gli feciono molta ligione, isgridando lui e 'l falso papa e loro gente, e chiamandogli eretici e scomunicati, e gridando: "Muoiano, muoiano, e viva la santa Chiesa!"; e fedirono co' sassi, e uccisono di loro gente; e lo 'ngrato popolo gli fece la coda romana, onde il Bavero ebbe grande paura, e andonne in caccia e con vergogna. E la notte medesima ch'egli s'era il dì dinanzi partito entrò in Roma Bertoldo Orsini nipote del legato cardinale con sua gente, e la mattina vennero messer Stefano della Colonna, e furono fatti sanatori del popolo di Roma. E a dì VIII d'agosto vennono il legato cardinale e messer Nepoleone Orsini con loro seguaci con grande festa e onore; e riformata la santa città di Roma de la signoria di santa Chiesa, feciono molti processi contra il dannato Bavero e contra il falso papa, e su la piazza di Campidoglio arsono tutti i loro ordini e brivilegi; ed eziandio i fanciugli di Roma andavano a' mortori, ov'erano sotterrati i corpi de' morti Tedeschi e d'altri ch'aveano seguitato il Bavero, e iscavati de le monimenta gli tranavano per Roma e gittavangli in Tevero. Le quali cose per giusta sentenzia di Dio furono al Bavero e al suo antipapa e a' loro seguaci grande brobbio e abbominazione, e segni di loro rovina e abassamento. E per la loro partita si fuggirono di Roma Sciarra de la Colonna, e Iacopo Savelli, e i loro seguaci, i quali erano stati caporali di dare la signoria di Roma al Bavero, e di molti furono abattuti e guasti i loro palazzi e beni, e condannati. E poi a dì XVIII d'agosto entrò in Roma messer Guiglielmo d'Ebole con VIIIc cavalieri del re Ruberto e gente a piè assai con grande onore: onde la città fu tutta sicura, e riformata a l'ubbidienza di santa Chiesa e del re Ruberto.
<B>XCVI</B>
<I>Come il Bavero andò a oste a Bolsena con trattato d'avere la città d'Orbivieto.</I>
Come il Bavero fu in Viterbo con sua gente, il quale avea ancora più di MMD cavalieri tedeschi, sanza gl'Italiani, sì venne a oste sopra il contado d'Orbivieto, e prese più loro castella e villate, faccendo grande danno. E a dì X d'agosto, l'anno detto, si puose a oste al castello di Bolsena, al quale fece dare continue battaglie; ma la sua stanza era in quello luogo per uno trattato ch'avea in Orbivieto, che gli dovea essere data la terra la vilia di santa Maria d'agosto, ch'è loro principale festa: andando i cittadini a l'offerta, i traditori d'entro doveano dare la terra per la porta che vae verso Bagnorea. E già v'era cavalcato il suo maliscalco con M cavalieri, ma come piacque a nostra Donna, si scoperse il detto tradimento in sul punto che giunse il maliscalco, e' traditori presi e giustiziati. E quando fu fallito al Bavero il suo intendimento, il dì appresso si partì coll'oste da Bolsena e tornossi a Viterbo, e poi a dì XVII d'agosto si partì di Viterbo col suo falso papa e' suoi cardinali e tutta sua gente, e venne a la città di Todi, non oservando i patti a' Todini che gli aveano dati IIIIm fiorini d'oro, acciò che non entrasse in loro terra; e venuto in Todi, impuose a' Todini Xm fiorini d'oro, e caccionne i Guelfi, e l'antipapa per bisogno di danari spogliò Santo Fortunato di tutti i gioelli e santuarie infino a le lampane, che v'erano d'ariento, che valea grande tesoro. E stando il Bavero in Todi, sì mandò il conte d'Ottinghe con Vc cavalieri per conte in Romagna, il quale co la forza de' Ghibellini di Romagna cavalcarono infino a le porte d'Imola, ardendo e guastando; e d'altra parte il detto Bavero fece cavalcare il suo maliscalco con M cavalieri a Fuligno, credendo avere la terra per tradimento; ma come piacque a Dio, non venne fatto, onde si tornarono a Todi, ardendo e dibruciando e levando prede per le terre del Ducato.
<B>XCVII</B>
<I>Come il Bavero essendo a Todi ordinò di venire sopra la città di Firenze, e l'apparecchiamento che feciono i Fiorentini</I>
Ne' detti tempi essendo il Bavero in Todi, e perseguitando con tanta rovina e Romagna e 'l Ducato, e essendo molto infestato da' Ghibellini usciti di Firenze e gli Aretini e gli altri Toscani di parte d'imperio, che dovesse venire ad Arezzo per venire da quella parte a oste sopra la città di Firenze, con ordine fatta, che Castruccio, che ancora vivea e era molto montato per la vittoria avuta sopra i Fiorentini de la città di Pistoia, con sua oste dovesse venire per lo piano di verso Prato, e gli Ubaldini co la forza del conte d'Ottinghe e de' Ghibellini di Romagna rubellare il Mugello, e da tutte parti chiudere le strade a' Fiorentini, mostrando al detto Bavero che, vinta la città di Firenze (che assai gli era possibile), era signore di Toscana e di Lombardia, e poi assai leggermente potea conquistare il regno di Puglia sopra il re Ruberto; onde il detto Bavero a·cciò s'accordò, e già avea questo preso per consiglio, e fece cominciare l'apparecchiamento per la sua venuta ad Arezzo. I Fiorentini ebbono grandissima paura, e bisognava bene, ch'egli era in sul tempo de la ricolta, e era carestia e scarso di vittuaglia, onde se fosse seguita la detta venuta del Bavero, e il detto ordine preso per gli Ghibellini, i Fiorentini erano in grande pericolo di potere guerentire la cittade, e da molte parti erano spaventati, veggendosi circundati di sì possenti tiranni e nimici. Ma però non si disperaro né si gittarono tra vili e cattivi, però che vile perisce chi a viltà s'appoggia; e piccolo riparo e rispitto molti casi fortuiti passa. Onde i Fiorentini presono conforto e vigore, e con grande consiglio e sollecitudine feciono rafforzare le castella di Valdarno, cioè Monteguarchi, e Castello San Giovanni, e Castello Franco, e l'Ancisa, e guernire di vittuaglia e d'ogni guernimento da difenzione e guerra; e mandarvi in ciascuna terra due capitani de' maggiori cittadini, uno grande e uno popolano, con masnade a cavallo e con grande quantità di buoni balestrieri. E per simile modo feciono guernire Prato e Signa e Artimino, e tutte le castella di Valdarno di sotto, e feciono isgombrare di vittuaglia e strame tutto il contado, e recare a la città o a terre forti e murate, acciò che' nimici non trovassono di che vivere per loro e per loro bestie. E mandarono per loro amistadi, e grande guardia si facea di dì e di notte ne la città, e a le porte e a le torri e mura, e faccendo rafforzare ovunque la città era debole; e come franchi uomini erano disposti a sostenere ogni passione e distretta per mantenere coll'aiuto di Dio la cittade. E ordinarono di mandare al re Ruberto e al duca, e così feciono, che rimossa ogni cagione, il duca personalmente co le sue forze venisse a la difensione della città di Firenze; e se non venisse, il Comune era fermo, che le CCm di fiorini d'oro che davano al duca per suoi gaggi secondo i patti, di non pagargli, se non tanti solamente quanto montassono i gaggi de' cavalieri che tenea messer Filippo di Sangineto suo capitano, che poteano montare l'anno CXm di fiorini d'oro; e il rimanente voleano per lo Comune per fornire la guerra. De la quale richesta il re e 'l duca molto si turbarono; ma veggendo il bisogno de' Fiorentini, però non volle mettere in aventura la persona del duca contra il Bavero, ma ordinarono di mandare messer Beltramon del Balzo con IIIIc cavalieri a suo soldo per contentare i Fiorentini. Ma tardi era il soccorso; ma come piacque a Dio, che mai non venne meno la sua misericordia a le strette necessitadi del nostro Comune, in brevissimo tempo ci diliberò del tiranno Castruccio per sua morte, come adietro facemmo menzione, e poi di diverse e varie mutazioni e novità ch'avennono al dannato Bavero, come innanzi faremo menzione; e non solamente Idio ci guarentì, ma ci adirizzò in vittorie, prosperità, e buono stato.
<B>XCVIII</B>
<I>Come fu morto il tiranno messer Passerino signore di Mantova.</I>
Nel detto anno, a dì XIIII d'agosto, Luisi da Gonzaga di Mantova, con trattato fatto con messer Cane signore di Verona e coll'aiuto de' suoi cavalieri venuti segretamente a Mantova, tradì messere Passerino, e corse la città di Mantova gridando: "Viva il popolo, e muoia messer Passerino e le sue gabelle!", e con questa furia vegnendo in su la piazza, trovando il detto messer Passerino isproveduto e disarmato vegnendo a cavallo a la detta gente per sapere perché il romore fosse, il detto Luisi gli diede d'una spada in testa, ond'egli morì di presente; e poi prese il figliuolo e 'l nipote del detto messer Passerino, il quale suo figliuolo era fellone e reo, e degnamente gli fece morire per mano del figliuolo di messer Francesco de la Mirandola, cui messer Passerino per tradimento e a torto avea fatto morire; e poi si fece signore de la terra. E così si mostra il giudicio di Dio per la parola del suo santo Vangelio, "Io ucciderò il nimico mio col nimico mio", abbattendo l'uno tiranno per l'altro. Questo messer Passerino fu de la casa de' Bonaposi di Mantova, e gli antichi furono Guelfi; ma per essere signore e tiranno si fece Ghibellino, cacciando i suoi medesimi e ogni possente di Mantova. Fu piccolo de la persona, ma molto savio e proveduto e ricco, e fu signore in Mantova lungo tempo e di Modana, e sconfisse i Bolognesi, come adietro facemmo menzione, l'anno MCCCXXV; ma dopo il colmo de la detta sua gloria e vittoria ogni dì venne abassando suo stato, come piacque a Dio.
<B>XCIX</B>
<I>Come quegli di Fermo de la Marca presono San Lupidio.</I>
Nel detto anno e mese d'agosto quegli de la città di Fermo de la Marca presono per tradimento il castello di San Lupidio, e corsollo e rubarlo tutto, e cacciarne i Guelfi con molta uccisione, e quasi la detta terra fu distrutta.
<B>C</B>
<I>Come i Sanesi ebbono Montemassi co la forza de' Fiorentini.</I>
Nel detto anno e mese d'agosto i Fiorentini, non istanchi né sbigottiti per la tornata del Bavero in Toscana, mandarono in aiuto de' Sanesi Vc cavalieri, onde fu capitano messer Testa Tornaquinci, per difendergli da la forza di Castruccio, il quale avea mandati in Maremma VIc de' suoi cavalieri per levare i Sanesi da oste dal castello di Montemassi, e già aveano preso e rubato e arso il castello di Pavanico; e di certo i Sanesi non aveano podere di tenere campo, se non fosse la forza de' Fiorentini, che incontanente la gente di Castruccio si ritrasse, e' Sanesi ebbono il castello a patti, rendendosi a sicurtà ne le mani de' Fiorentini a dì XXVII d'agosto. Lasceremo de' fatti universali degli strani, e torneremo al processo e andamenti del Bavero.
<B>CI</B>
<I>Come don Piero di Cicilia co la sua armata e di quegli di Saona vennono in aiuto del Bavero, e come arrivarono a Pisa, là dov'era il detto Bavero.</I>
Nel detto anno MCCCXXVIII, del mese d'agosto, don Piero, che re Piero si facea chiamare, figliuolo di Federigo signore di Cicilia, con LXXXIIII tra galee e uscieri, e con III navi grosse e più legni sottili, tra di Cicilia e degli usciti di Genova ch'abitavano in Saona, vennono al soccorso del Bavero detto imperadore con VIc cavalieri tra Catalani e Ciciliani e Latini; e tutto che secondo l'ordine e promessa giugnessono tardi al suo soccorso, puosono in più parti nel Regno, prima in Calavra, e poi ad Ischia, e poi sopra Gaeta, seguendo la stinea de la marina, faccendo danno e correrie a le terre del re Ruberto sanza contasto niuno. E poi in terra di Roma presono Asturi e vennono in foce di Tevero, credendo che 'l Bavero fosse a Roma; e non trovandolo, guastarono intorno a Orbitello, e arrivarono a Corneto; e di là sentendo novelle che 'l Bavero era a Todi, gli mandarono ambasciadori che venisse a la marina a parlamentare co·lloro, il quale Bavero avendo le dette novelle, mutò consiglio del venire verso Firenze per la via d'Arezzo, e partissi da Todi a dì XXXI d'agosto col suo antipapa e tutta sua corte e gente, e venne a Viterbo, e là lasciò il detto antipapa e la 'mperadrice e l'altra gente, e con VIIIc cavalieri andò a Corneto a don Piero; e là scendendo que' signori in terra, stettono in parlamento alquanti giorni con grandi contasti e riprensioni, perché l'armata non era venuta al tempo promesso, e domandava il Bavero i danari promessi per gli patti. Don Piero e suo consiglio il richiedea che venisse sopra le terre del re Ruberto, e egli verrebbe co l'armata per mare e darebbegli la moneta promessa, ch'erano XXm once d'oro. In questo contasto ebbono novelle e ambasciadori da' Pisani, come la gente di Castruccio aveano corsa la città di Pisa e cacciatane la signoria del Bavero; e d'altra parte il detto Bavero non si sentia in podere, né in disposizione la sua gente di volere andare nel Regno, sentendo i passi guerniti, e la carestia di vittuaglia grande in tutte parti: sì prese consiglio di venire verso Pisa co la donna sua e con tutta sua gente per terra, e l'armata per mare. E così fu fatto; che a dì X di settembre si partirono di Corneto, e vegnendo, morì a Montalto il perfido eretico e maestro e conducitore del Bavero maestro Marsilio di Padova; e giunse il Bavero e l'oste sua a Grosseto a dì XV di settembre; e l'armata di don Piero presono Talamone e guastarlo, e scesono a Grosseto, e col Bavero insieme vi puosono l'oste a petizione degli usciti di Genova e de' conti da Santa Fiore per torre il porto e 'l passo de la mercatantia a' Fiorentini e a' Sanesi e agli altri Toscani che per ischifare Pisa faceano quella via; e stettonvi IIII dì a l'assedio dandovi grandi battaglie co' balestrieri ch'erano in su l'armata, e salirono più volte in su le mura di Grosseto, e furonne cacciati per forza, e rimasonvene morti più di IIIIc de' migliori; ma per soperchia gente e battaglie non si potea la terra guari tenere. Ma in questa stanza venne novella e ambasciadori di certi imperiali di Pisa al Bavero, come Castruccio signore di Lucca era morto, e che' figliuoli con loro masnade aveano corsa la terra, e che per Dio si studiasse d'andare a Pisa, se non che temeano che non dessono la terra a' Fiorentini. Per la qual cosa il Bavero si partì da Grosseto a dì XVIII di settembre, e con sollecito cavalcare entrò in Pisa a dì XXI di settembre, e da' Pisani fu ricevuto con grande allegrezza per essere fuori de la signoria de' figliuoli di Castruccio e de' Lucchesi; i quali sentendo la sua venuta, si partirono di Pisa e tornarono a Lucca, e il Bavero riformò la terra di Pisa a sua signoria, e fece suo vicario Tarlatino de' Tarlati d'Arezzo, il quale fece cavaliere, e diede il gonfalone del popolo, onde i Pisani furono molto contenti, e parve loro tornare in loro libertade per la signoria tirannesca avuta da Castruccio e da' figliuoli. E ciò fatto, don Piero di Cicilia, avuti molti parlamenti col Bavero e coll'altra lega de' Ghibellini, si partì di Pisa co la sua armata a dì XXVIII di settembre, e simile feciono gli usciti di Genova. Ma a don Piero male avenne, che essendo col suo navilio già presso a l'isola di Cicilia, fortuna gli venne a la 'ncontra, e tutto suo navilio sciarrò in più parti alle piagge di terra di Roma e di Maremma, onde furono in grande pericolo e condizione di scampare; e perirono in mare da XV de le sue galee co la gente che v'era suso, e molte altre ruppono e straccarono in diverse parti; e don Piero con grande pericolo arrivò a Messina con IIII galee solamente; e·rimanente dell'altre arrivarono in diversi porti di Cicilia scemati di gente e d'arnesi, onde i Ciciliani ricevettono una grande sconfitta. Lasceremo alquanto di questa materia, e torneremo a' fatti di Firenze e dell'altra Italia.
<B>CII</B>
<I>Come messere Cane della Scala ebbe la signoria della città di Padova.</I>
Nel detto anno MCCCXXVIII, essendo la città di Padova molto afflitta e anullata di podere e di signoria e di gente, e perduto la maggior parte di suo contado per la discordia di grandi cittadini, e per la persecuzione de la guerra avuta con messer Cane della Scala signore di Verona, quegli della casa da Carrara di Padova, cacciati i loro vicini e guasta loro parte guelfa per volere essere signori e tirannare, quasi per necessità non potendo bene tenere la terra, s'accordaro con messere Cane e imparentarsi co·llui, e diedongli la signoria di Padova a dì VIII del mese di settembre, la quale sì lungamente avea bramata; e a dì X del mese v'entrò con grande trionfo e signoria. E come fu in Padova, l'ordinò e compuose in assai giusto e convenevole stato secondo la terra ch'era guasta, sanza fare vendetta di niuno, e rimettendo nella città chiunque volle tornare sotto la sua signoria. E bene s'adempié la profezia di maestro Michele Scotto de' fatti di Padova, ove disse molto tempo dinanzi: "Padue magnatum plorabunt filii necem diram et orrendam datam Catuloque Verone".
<B>CIII</B>
<I>Come i Fiorentini presono per forza il castello di Carmignano.</I>
Nel detto tempo, sentendo messer Filippo di Sangineto con gli altri capitani della guerra di Firenze e col consiglio de' priori, che·cci trovammo allora di quello collegio, sentendo che 'l castello di Carmignano non era bene fornito, ed erano isbigottiti de la morte di Castruccio, sì ordinarono segretamente d'assalirlo e di combatterlo e prenderlo per forza; e così misono a seguizione, che 'l detto capitano con certi Fiorentini e con parte della cavalleria e popolo a piè si partirono una notte ordinata di Samminiato e dell'altre terre di Valdarno, e feciono la via del monte, e la mattina furono intorno a Carmignano; e per simile modo, e a uno punto, vi venne la cavalleria de' Fiorentini ch'era in Prato, co' Pratesi e gente a piè assai, sì che si trovarono intorno a Carmignano VIIIc cavalieri oltramontani e Vm pedoni. Il castello era assai forte di sito, e parte murato per Castruccio e parte steccato e affossato, e con torri e bertesche di legname; ma era d'uno grande giro e porpreso, e dentro v'avea L cavalieri e da VIIc uomini a piè, che bisognava a la guardia due cotanti gente. Messer Filippo capitano de' Fiorentini fece tutti i cavalieri scendere a piè, e a ciascuno conastabole aggiunse pedoni con pavesi e balestra e raffi e stipa e fuoco, e a ciascuno diede la sua posta intorno al castello; e da più di XX parti a uno suono di trombe e nacchere il fece assalire e combattere; la quale battaglia fue aspra e dura e sostenne da la mattina a ora di nona. Ma a la fine per lo grande porpreso e per la prodezza de' nostri cavalieri in più parti vinsono la battaglia con grande danno di que' d'entro e entrarono per forza dentro a la terra e puosono le bandiere. Gli altri de la terra veggendo entrati i nimici dentro, abbandonarono le loro poste e la terra, e fuggirono, chi poté, nel girone de la rocca, e l'altra gente entrò poi ne la terra, e corsolla e rubarla tutta, e di gran preda la spogliarono; e ciò fu a dì XVI del mese di settembre del detto anno. E la rocca si tenne poi VIII giorni, avendovi ritti mangani e difici, i quali gli consumavano dì e notte, e eranvi con grande fame e difetto di vittuaglia per la molta gente che v'erano rifuggiti de' terrazzani. A la fine s'arendé la rocca e 'l girone a patti, salve le persone e ciò che se ne potessono portare. E ebbono i soldati che v'erano dentro per menda di loro cavagli MCC fiorini d'oro. Questi patti così larghi si feciono loro però che 'l Bavero era già giunto in Pisa, e di sua cavalleria già venuta in Pistoia, ond'era a la nostra oste grande pericolo a soprastarvi. Di questo acquisto di Carmignano ebbe in Firenze grande allegrezza, isperando che la fortuna prospera fosse adirizzata a' Fiorentini, ma più consigli si tennono di disfare la terra e la rocca per dubbio del Bavero, o di ritenerla; a la fine si vinse che si ritenesse e si recasse a minore giro, e si murasse tutta con torri di pietre e calcina, e rafforzare la rocca e 'l girone, e che mai non si lasciasse per gli Fiorentini, ma che si confiscasse a perpetuo al nostro contado; e così fu tutto di presente fatto.
<B>CIV</B>
<I>Come il re di Francia fece fare pace tra 'l conte di Savoia e 'l Dalfino di Vienna.</I>
Nel detto anno, a l'uscita di settembre, lo re Filippo di Francia a preghiera e studio de la reina Crementa, la quale era stata moglie del re Luis di Francia e figliuola di Carlo Martello re d'Ungheria e nipote del re Ruberto, sì fece fare pace tra 'l conte di Savoia e 'l Dalfino di Vienna nipote de la detta reina, intra' quali era stata lunga e mortale guerra; e essendo la detta reina malata a morte, per darle consolazione lo re in sua presenza la fece fare, e basciare in bocca i detti signori, la quale poco apresso passò di questa vita, onde fu gran dammaggio, sì come di savia e valente donna e reina.
<B>CV</B>
<I>Come il Bavero andò a Lucca, e dispuose de la signoria i figliuoli di Castruccio.</I>
Essendo il sopradetto Bavero in Pisa, i figliuoli di Castruccio gli furono molto abominati da' Pisani, e ch'eglino e il loro padre Castruccio aveano tenuto trattato co' Fiorentini contra l'onore della corona; e ciò fu in parte verità. Onde il Bavero era molto indegnato contra loro, e per lo correre ch'aveano fatto in Pisa, e la sua gente non lasciavano entrare in Lucca. Per la qual cosa la moglie che fu di Castruccio, per raumiliarlo contra i figliuoli, sì venne in Pisa, e donogli il valore di Xm fiorini d'oro, tra in danari e gioegli e ricchi destrieri, e rimisesi in lui, lei e' figliuoli. Per la qual cosa, e per consiglio de' Pisani e di certi Lucchesi, il Bavero andò a Lucca a dì V d'ottobre, e fugli fatto grande onore; ma per gli sombugli ch'avea nella città per gli cittadini, che non voleano che' figliuoli di Castruccio rimanessono signori, si levò la città a romore a dì VII d'ottobre, e s'asserragliò e abarrò da casa gli Onesti e in più parti. A la fine fu corsa per gli Tedeschi, e riformò la terra a sua signoria, e lasciò per signore il Porcaro suo barone, che tanto è a dire Porcaro in tedesco come conte castellano; ma in nostra lingua era chiamato Porcaro. E impuose a Lucca e al contado CLm di fiorini d'oro, tagliandogli per uno anno, promettendo di lasciargli franchi. E trasse di pregione messer Ramondo di Cardona e 'l figliuolo, che fu capitano de' Fiorentini, e pagogli per sua redenzione IIIIm fiorini d'oro, e fecelo giurare a la sua signoria, e ritennelo al suo soldo con C cavalieri; e ciò fu a priego del re di Raona; e tornò in Pisa a dì XV d'ottobre, e a' Pisani impuose Cm fiorini d'oro; per le quali imposte in Pisa e in Lucca n'ebbe grandi ramarichii e dolori per gli cittadini per la soperchia gravezza, e il loro male stato, e macerati de le guerre. In questa stanza il Porcaro, che 'l Bavero avea lasciato in Lucca, s'imparentò co' figliuoli di Castruccio, e rimisegli inn-istato e signoria, e mostrava di volersi tenere co·lloro insieme la signoria di Lucca e del contado; per la qual cagione per certi Lucchesi e Pisani furono fatti sospetti de la corona, onde per gelosia della 'mpresa del Porcaro de' fatti di Lucca e de' Tedeschi de la bassa Alamagna partiti da·llui e andati al Cerruglio, come appresso faremo menzione, il Bavero tornò a Lucca a dì VIII di novembre, e dispuose di signoria il detto Porcaro, il quale se n'andò per disdegno in Lombardia e poi in Alamagna, e a' figliuoli di Castruccio tolse ogni titolo del ducato, e mandò loro e·lla madre a' confini a Pontriemoli, e 'l Comune di Pisa con assento del Bavero condannarono i figliuoli di Castruccio, e Nieri Saggina loro tutore, e tutti gli usciti di Firenze, e chi furono caporali co·lloro a rompere il popolo di Pisa e correre la terra nell'avere e nella persona sì come traditori.
<B>CVI</B>
<I>Come certi della gente del Bavero si rubellarono da lui, e vennono in sul Cerruglio di Vivinaia.</I>
In questo presente tempo i Tedeschi de la bassa Alamagna i quali erano col Bavero, conceputo il disdegno, cominciata la discordia tra 'l Bavero e loro infino a Cisterna, in Campagna, sì come adietro facemmo menzione, e istando in Pisa, e non potendo avere le loro paghe e gaggi dal Bavero, sì feciono infra loro cospirazione e congiura, e furono da VIIIc uomini a cavallo, e i più de' migliori di sua gente, seguendoli più altri gentili uomini rimasi a piè per povertà; e partirsi di Pisa a dì XXVIIII d'ottobre del detto anno, e credettono prendere e rubellare la città di Lucca e tenerlasi per loro; e venia loro fatto, se non che 'l Bavero sentendo loro folle partita, per messaggi battendo, mandò a Lucca che non fossono ricettati nella città; e così fu fatto. Per la qual cosa albergando ne' borghi di Lucca, gli rubarono d'ogni sustanzia, e vennono in Valdinievole, e non potendo entrare in niuna fortezza murata, sì si misono in sul Cerruglio, il quale è in su la montagna di Vivinaia e di Montechiaro, il quale luogo Castruccio avea afforzato quando avea la guerra co' Fiorentini, e quello rafforzarono e tennono, faccendosi dare trebuto e vittuaglia a tutte le terre vicine. E in questa loro stanza più trattati feciono cercare co' Fiorentini, e venne in Firenze il duca di Cambenic de la casa di quegli di Sassogna, e messer Arnaldo di..., loro caporali; ma poco effetto ebbono allora i loro trattati, perché voleano troppo larghi patti e molta moneta, e' Fiorentini si poteano male fidare di loro; e con questo tuttora erano in trattato col Bavero per riconciliarsi co·llui, per avere i loro gaggi, e parte n'ebbono, più per tema che non s'accordassono co' Fiorentini che per amore. Avenne che in questi trattati da·lloro al Bavero egli mandò a·lloro per ambasciadore e trattatore messer Marco de' Visconti di Milano, il quale ad istanzia del Bavero fece loro certa impromessa di moneta per levargli del luogo e menargli in Lombardia; i quali passato il termine, e non fornito per lo Bavero come avea promesso, ritennono il detto messer Marco cortesemente per loro pregione per LXm fiorini d'oro; e dissesi che 'l Bavero il vi mandò viziatamente per farlo ritenere per levarlosi d'intorno, non fidandosi di lui per quello ch'avea fatto a messer Galeasso suo fratello di torgli la signoria di Milano. Di questa compagna dal Cerruglio seguirono poi grandi novitadi e mutazioni ne la città di Lucca, come innanzi faremo per gli tempi menzione.
<B>CVII</B>
<I>Come il re Ruberto e 'l duca suo figliuolo mandarono inn-aiuto de' Fiorentini Vc cavalieri.</I>
Nel detto anno, il dì d'Ognesanti, giunse in Firenze messer Beltramone del Balzo con Vc cavalieri, i quali il re Ruberto e 'l duca suo figliuolo mandò di Puglia al servigio de' Fiorentini e al suo soldo per contastare il Bavero; e ciò fu per sodisfare in parte la richesta ch'aveano fatta i Fiorentini di volere la persona del duca, sì come dovea venire a difendere la città di Firenze, dapoi che prendea CCm fiorini d'oro, com'era in patti. De la quale venuta de' cavalieri i Fiorentini furono altrettanto contenti come se fosse venuto il duca in persona, perciò che già rincrescea loro la sua signoria, e cercavano modo di non volergli dare l'anno i detti danari dapoi che non istava in Firenze personalmente; ma tosto si quetò la detta questione, come diremo apresso.
<B>CVIII</B>
<I>Come morì Carlo duca di Calavra e signore di Firenze.</I>
Nel detto anno, a dì VIIII del mese di novembre, come piacque a Dio, messer Carlo figliuolo del re Ruberto duca di Calavra, e signore de' Fiorentini, passò di questa vita nella città di Napoli d'infermità di febbre presa a uccellare nel Gualdo; onde in Napoli n'ebbe grande dolore e in tutto il Regno, e soppellìsi al monistero di Santa Chiara in Napoli, a dì XIIII di novembre, a grande onore, sì come re; e poi se ne fece l'esequio in Firenze a dì II di dicembre a la chiesa de' frati minori, molto grande e onorevole di cera in grandissima quantità, per lo Comune e per la parte guelfa e per tutte l'arti; e furonvi le signorie e 'l capitano ch'era del duca, e uomini e donne e tutta la buona gente de la città di Firenze, che apena poteano capere nella piazza di Santa Croce non che nella chiesa. Di questo duca non rimase reda nulla maschio, ma due figliuole femmine, una nata, e d'una rimase grossa la duchessa; onde a lo re Ruberto suo padre e a tutto il Regno n'ebbe gran dolore, però che 'l re Ruberto non avea altro figliuolo maschio. Questo duca Carlo fu uomo assai bello del corpo, e informato, innanzi grosso, e non troppo grande; andava in capegli sparti, assai era grazioso, di bella faccia ritonda, con piena barba e nera, ma non fu di gran valore a quello che potea essere, né troppo savio; dilettavasi in dilicatamente vivere e de la donna, e più in ozio che in fatica d'arme, con tutto che 'l padre lo re Ruberto il tenea molto corto per gelosia de la sua persona, perché non avea più figliuoli; morì d'etade di.... anni; assai fu cattolico e onesto, e amava giustizia. De la morte di questo signore i cittadini di Firenze ch'amavano parte guelfa ne furono crucciosi, quanto per parte; ma il genero de' cittadini ne furono contenti per la gravezza della spesa e moneta che traeva de' cittadini, e per rimanere liberi e franchi, che già cominciava a dispiacere forte a' cittadini la signoria de' Pugliesi, i quali avea lasciati suoi uficiali e governatori, che a nulla altra cosa intendeano con ogni sottigliezza se non di fare venire danari in Comune, e di tenere corti i cittadini di loro onori e franchigia, e tutto si voleano per loro; e di certo, se 'l duca non fosse morto, non potea guari durare, che' Fiorentini avrebbono fatta novità contra la sua signoria, e rubellati da·llui.
<B>CIX</B>
<I>Come i Fiorentini riformarono la città di signorie dopo la morte del duca.</I>
Dapoi che' Fiorentini ebbono novelle de la morte del duca, ebbono più consigli e ragionamenti e avisi, come dovessono riformare la città di reggimento e signoria per modo comune, acciò che si levassono le sette tra' cittadini; e come piacque a·dDio, quegli che allora erano priori, con consiglio d'uno buono uomo per sesto, di concordia trovarono questo modo ne la lezione de' priori e gonfalonieri, cioè che' priori con due arroti popolani per sesto facessono scelta e rapporto di tutti i cittadini popolani guelfi degni de l'uficio del priorato, d'età da XXX anni in suso; e per simile modo feciono i gonfalonieri de le compagnie con II popolani arroti per gonfalone; e simile recata facessono i capitani di parte guelfa col loro consiglio; e simile i cinque uficiali della mercatantia col consiglio di VII capitudini de le maggiori arti, due consoli per arte. E fatte le dette recate, ne la sala de' priori si congregarono i priori e' gonfalonieri a l'entrante del mese di dicembre, e co·lloro i XII buoni uomini consiglieri, e con cui i priori faceano le gravi diliberazioni, e con XVIIII gonfalonieri de le compagnie, e due consoli di ciascuna delle XII arti maggiori, e VI arroti fatti per gli priori e per gli detti XII consiglieri per ciascuno sesto, sì che in tutto furono in numero di LXXXXVIII; e messo ciascuno uomo recato a scruttino segreto di fave bianche e nere, ricolte per due frati minori e due predicatori e due romitani, forestieri savi e discreti, e parte di loro a vicenda stavano nella camera a ricogliere le fave e a noverarle; e chiunque avea LXVIII boci, cioè LXVIII fave nere, era aprovato per priore e messo in segreto rigistro scritto, il quale rimase apo i frati predicatori, e in una piccola cedola sottile iscritto il nome e sopranome suo, e messo in una borsa a sesto a sesto come venia; e quelle borse messe in uno forziere serrato a tre chiavi, e mandato nella sagrestia de' frati minori; e l'una chiave teneano i frati conversi di Settimo, che stavano a la camera dell'arme de' priori, e l'altra il capitano del popolo, e l'altra il ministro de' frati. E quando finiva l'uficio de' priori de' due in due mesi, anzi loro uscita il meno per III dì, i vecchi priori col capitano sonando e raccogliendo il consiglio facevano venire il detto forziere, e in presenza del consiglio s'apriva, e a sesto a sesto s'aprieno le dette borse, mischiando le bollette, e poi traendole in aventura; e quegli ch'era tratto era priore, oservando il divieto ne la persona di quegli ch'era due anni, che più non potea essere infra 'l tempo; e il figliuolo, padre, o fratello di quegli avea divieto uno anno; e la casa ond'era VI mesi. E questo ordine si fermò prima per gli opportuni consigli, e poi in pieno parlamento ne la piazza de' priori, ove fu congregato molto popolo, ov'ebbe molti dicitori, e lodando l'ordine, e confermandola a dì XI di dicembre MCCCXXVIII, sotto gravi pene chi contro facesse, e che di due in due anni del mese di gennaio si dovesse rifare da capo per simile modo, e chi vi si trovasse in registro che non fosse uscito o tratto vi rimanesse; e chi di nuovo fosse approvato per lo detto squittino fosse rimescolato con quegli che non fossono tratti; e quegli che tratti fossono si rimettessono a sesto a sesto in un'altra borsa infino che fossono gli altri tutti tratti.
Per simile modo e squittino s'aprovarono i XII uomini consiglieri de' priori; e chi era, durava il loro uficio IIII mesi, e qual era dell'uno collegio era dell'altro. I gonfalonieri de le compagnie si feciono per simile modo, salvo che poteano essere giovani di XXV anni o da indi in suso; e durava il loro uficio quattro mesi, che in prima duravano VI mesi. E per simile modo ciascuna de le XII maggiori arti feciono i loro consoli; e rimutossi il consiglio del Cento, e Credenza, e LXXXX, e generale, che soleano essere per antico; e fecesi uno consiglio di popolo di CCC uomini popolani scelti e approvati sofficienti e guelfi; e simile uno consiglio di Comune, ove avea grandi uomini de' casati e popolani di CCL uomini approvati, e furono recati a termine di IIII mesi, ove soleano essere per VI mesi, per avicendare i cittadini, e dare parte degli ufici. Per questo modo fu riformata la città di Firenze de' suoi reggimenti e uficiali, e poco tempo appresso per fuggire le pregherie si feciono per borse, overo sacchi, approvati per squittino le podestadi forestiere. Avemo così stesamente fatta memoria di questa riformazione, perché fu con bello ordine e comune; e seguìne assai tranquillo e pacefico stato al nostro Comune uno tempo, perché sia esemplo a coloro che sono a venire; ma com'è l'usanza de' Fiorentini di spesso volere fare mutazioni, per la qual cosa gli detti buoni ordini assai tosto si coruppono e viziaro per le sette de' malvagi cittadini, che al tutto voleano reggere sopra gli altri, mettendo con frode a le riformazioni de' loro seguaci non degni a' detti ufici, e lasciare adietro de' buoni e sofficienti, onde seguì poi molti danni e pericoli a la nostra città, come innanzi faremo menzione.
<B>CX</B>
<I>Come in Firenze fu fatta una imposta sopra il chericato.</I>
In questi tempi si fece in Firenze per autorità d'una vecchia lettera di papa una imposta sopra il chericato di XIIm fiorini d'oro (bene ch'ella fosse ordinata innanzi per lo priorato ch'era stato al tempo che 'l Bavero dovea venire verso Firenze per la via d'Arezzo, e Castruccio era vivo, e dovea venire da la parte di Pistoia), acciò ch'egli atassono per li loro benifici la difensione de la città e del contado contra i rubegli e persecutori di santa Chiesa; de la quale imposta il detto chericato ingrato e sconoscente non volea pagare, e convenne che pagassono per forza; per la qual cosa appellarono al papa, e misono lo 'nterdetto in Firenze a dì XVIII di novembre, e poi il levarono infino a la Bifania, e poi il ripuosono infino che 'l vescovo di Firenze ch'era ne la Marca tornò, e levollo con loro grande vergogna, però che s'ordinava di trarre i cherici de la guardia del Comune; e ciò fu a dì V di febbraio anni MCCCXXVIII. Lasceremo alquanto de' fatti di Firenze, e diremo dell'altre novità degli strani che furono in questi tempi.
<B>CXI</B>
<I>Come sobbissò per tremuoti gran parte de la città di Norcia del Ducato con più castella ivi intorno.</I>
Nel detto anno MCCCXXVIII, a l'entrante di dicembre, furono diversi tremuoti ne la Marca ne le contrade di Norcia, per modo che quasi la maggior parte de la detta città di Norcia sobbissò, e caddono le mura de la terra e le torri, case, e palazzi, e chiese, e de la detta rovina, perché fu sùbita e di notte, morirono più di Vm persone. E per simile modo rovinò uno castello presso a Norcia, che si chiama le Precchie, che non vi rimase persona né animale vivo; e per simile modo il castello di Montesanto, e parte di Monte Sammartino, e di Cerreto, e del castello di Visso.
<B>CXII</B>
<I>Come il Bavero ne la città di Pisa condannò papa Giovanni, e papa Giovanni apo Vignone diè sentenzia contro al Bavero.</I>
Nel detto anno, a dì XIII del mese di dicembre, il Bavero, il quale si dicea essere imperadore, si congregò uno grande parlamento, ove furono tutti i suoi baroni e maggiori di Pisa, laici e cherici, che teneano quella setta, nel quale parlamento frate Michelino di Cesena, il quale era stato ministro generale de' frati minori, sermonò in quello contro a papa Giovanni, opponendogli per più falsi articoli e con molte autoritadi ch'egli era eretico e non degno papa; e ciò fatto, il detto Bavero a modo d'imperadore diè sentenzia contra il detto papa Giovanni di privazione. E in questi medesimi tempi e mese di dicembre, per le digiune Quattro Tempora, il detto papa Giovanni apo Vignone in concestoro de' suoi cardinali e de' parlati di corte piuvicò e fece gran processi contra il detto Bavero, sì come eretico e persecutore di santa Chiesa e de' suoi fedeli, e per sentenzia il privò e dispuose d'ogni dignità e stato e signoria, e commise a tutti gl'inquisitori della eretica pravità che procedessono contro a·llui e chi gli desse aiuto o conforto o favore.
<B>CXIII</B>
<I>Come l'antipapa con suoi cardinali entrò ne la città di Pisa e predicò contro a papa Giovanni.</I>
Nel detto anno, a dì III di gennaio, l'antipapa di su detto, frate Piero di Corvara, entrò in Pisa a modo di papa con suoi VII cardinali fatti per lui, al quale per lo Bavero detto imperadore e da sua gente e da' Pisani fu ricevuto con gran festa e onore, andandogli incontro il chericato e' religiosi di Pisa e' laici col detto Bavero con grande processione a piè e a cavallo, con tutto che quegli che 'l vidono dissono che parea loro opera isforzata e non degna, e la buona gente e' savi di Pisa molto si turbarono, non parendo loro ben fare, sostegnendo tanta abbominazione. E poi a dì VIII del detto mese di gennaio il detto antipapa predicò in Pisa e diede perdono, come potea, di colpa e di pena, chi rinnegasse papa Giovanni, e tegnendolo per non degno papa, confessandosi de' suoi peccati infra gli otto dì, e confermando la sentenzia che 'l detto Bavero avea data contro a papa Giovanni per la predica di frate Michelino, come dicemmo adietro.
<B>CXIV</B>
<I>Di certe cavalcate che la gente che 'l capitano del re Ruberto co la gente de' Fiorentini feciono sopra il contado di Pisa.</I>
Nel detto tempo, a dì X di gennaio, essendo il Bavero in Pisa con tutta sua forza, messere Beltramone del Balzo capitano della gente del re Ruberto essendo in Samminiato a le frontiere colla sua gente e con quella de' Fiorentini, in numero di M a cavallo e gente a piè assai, cavalcarono in sul contado di Pisa per la Valdera infino a ponte di Sacco, e levarono grande preda di gente, e di bestiame, e arsono tutto il paese, e stettonvi due dì e una notte, né però la gente del Bavero non uscirono di Pisa per soccorrere il loro contado, dicendo il Bavero a' Pisani, se volessono che cavalcassono, dessono danari a' suoi cavalieri; onde molto fu ripreso e tenuto a vile da la buona gente di Toscana. E poi a dì XXI di febbraio il detto messer Beltramone con sua gente e con quella de' Fiorentini cavalcarono sopra il contado di Pisa, e simile levarono grande preda, ma fu con danno d'alquanti di sua gente a piè, i quali per ghiottornia de la preda s'erano dilatati per lo paese, e a la ritratta ve ne rimasono de' morti e de' presi più di CL.
<B>CXV</B>
<I>D'uno certo tradimento che fu scoperto che si doveva fare in Firenze.</I>
Nel detto anno, in mezzo gennaio, fu menato uno trattato per Ugolino di Tano degli Ubaldini con certi uomini di piccolo affare di Firenze di tradire la città di Firenze in questo modo: che dovea mettere di sagreto in Firenze CC de' suoi fanti, e quegli stare nel borgo d'Ognesanti e di San Paolo, e una notte ordinata fare mettere fuoco in quattro case, in diverse parti di Firenze in San Piero Scheraggio e Oltrarno, le quali si trovarono allogate a pigione e stipate di scope; e appresi i detti fuochi, quando la gente fossono tratti al soccorso del fuoco, i detti fanti, onde dovea essere capo uno Giovanni del Sega da Carlone, oso fante e ardito, si doveano raunare in sul prato d'Ognesanti con più altri loro seguaci e Ghibellini, gridando: "Viva lo 'mperadore!", e imbarrare le vie, e fare tagliare la porta del Prato e quella de le Mulina; e da Pistoia per cenno di fuoco ordinato doveano venire la notte M cavalieri di quegli del Bavero con M fanti in groppa a guida del detto Ugolino e altri usciti di Firenze, ed entrare in sul Prato e correre e combattere la terra. E da Pisa dovea simigliante quella notte muovere il maliscalco del Bavero con molta gente e venire a Firenze. Ma, come piacque a Dio, il detto trattato si scoperse per certi compagni del detto Giovanni del Sega, e liberò Idio la città di Firenze di tanto pericolo, con tutto che per molti cittadini si fece quistione, se potesse essere venuto fornito il detto tradimento, non essendo nella città possenti uomini ch'avessono risposto al tradimento, che non si trovò di vero; e in Firenze avea gente a cavallo assai, e a piè innumerabile quantità a la difensione, e la città grande, e in molte parti ripari e fortezze da difendere. Ma s'avessono proceduto, non era sanza grande rischio e pericolo, essendo il romore di notte e improviso, onde i cittadini sarebbono stati isbigottiti e in sospetto l'uno dell'altro per tema di maggiore ordine di tradimento, sì che ci e il pro e il contro. Ma come si fosse, il detto Giovanni fue menato in su uno carro per tutta la città attanagliato, e levatogli le carni di dosso co le tanaglie calde in fuoco, e poi piantato; e tre altri ch'aveano cerco e sentito il trattato, e non revelato, furono impiccati in sul prato d'Ognesanti; e Ugolino di Tano e più suoi seguaci condannati come traditori. E quegli che scopersono il trattato ebbono MM fiorini d'oro dal Comune, e brivileggiati che potessono sempre portare ogni arme da offendere e da difendere per guardia di loro persone. Ma per molti cittadini e forestieri si disse che la detta cerca e trattato sì pur fece, ma parendo al consiglio del Bavero impossibile a poterlo fornire e recarlo a fine sanza loro gran pericolo, sì il lasciarono, e il detto Ugolino degli Ubaldini e' suoi consorti a più loro amici e parenti fiorentini se ne scusarono, che non v'avea colpa.
<B>CXVI</B>
<I>Come l'antipapa fece suo cardinale messer Giovannino Visconti di Milano.</I>
Nel detto anno, a dì XXVIIII di gennaio, l'antipapa a richiesta del Bavero e di messere Azzo Visconti di Milano fece suo cardinale messer Giovannino di messer Maffeo Visconti, e mandollo in Lombardia per suo legato; e il detto Bavero confermò sì come imperadore la signoria di Milano a messer Azzo Visconti, promettendogli il detto messer Azzo in certe paghe CXXVm di fiorini d'oro per sodisfare i suoi cavalieri, i quali erano al Cerruglio; onde ordinò loro capitano messer Marco Visconti, e licenziollo si tornasse a Milano. Il quale messer Azzo se n'andò in Lombardia con uno barone del Bavero che si chiamava il Pulcaro, con certi de' cavalieri dal Cerruglio, e giunto in Milano il detto Pulcaro ebbe da messer Azzo XXVm di fiorini d'oro, e andossene con essi nella Magna sanza risponsione al detto Bavero o a' cavalieri dal Cerruglio. Per la qual cosa saputo in Lucca, il Bavero si tenne male contento e ingannato dal Pulcaro e da messer Azzo Visconti; e i cavalieri de la compagna dal Cerruglio ritennono messer Marco Visconti loro capitano per pegno e come loro pregione per gli loro gaggi promessi per messer Azzo. In questi inganni e dissimulazioni vivea in Lucca e in Pisa il detto antipapa e quegli che si chiamava imperadore. E in questi dì quegli della città di Volterra e di San Gimignano feciono una tacita triegua col Bavero e co' Pisani, acciò che non gli cavalcassono, onde i Fiorentini furono molto crucciosi, e mandarvi loro ambasciadori forte riprendendogli.
<B>CXVII</B>
<I>Come il capitano del Patrimonio e gli Orbitani furono sconfitti in Viterbo credendo avere presa la terra.</I>
Nel detto anno, a dì II di febbraio, il capitano del Patrimonio, che v'era per lo papa, co la forza degli Orbitani, avendo certo trattato con certi cittadini di Viterbo di dare loro l'entrata della terra, sì entrarono in Viterbo per una porta con CCC cavalieri e VIIc pedoni, e corsono la terra infino a la piazza, e per mala capitaneria si cominciaro a spargere per la città rubando, credendo avere vinta la terra. Il signore di Viterbo con molti de' cittadini si cominciarono a difendere e abarrare le vie; e combattendo, vinsono coloro ch'erano rimasi in su la piazza, onde furono sconfitti e cacciati; e rimasonvi tra morti e presi più di C a cavallo e più di CC a piè. E in questi medesimi dì que' d'Orbivieto lasciarono la signoria di Chiusi a' signori di Montepulciano, però che di loro era il vescovo di Chiusi, e rimisono in Chiusi ogni parte e usciti.
<B>CXVIII</B>
<I>Come i Romani per carestia tolsono la signoria di Roma al re Ruberto.</I>
In questi tempi, a dì IIII di febbraio, essendo in Roma sanatore per lo re Ruberto messer Guiglielmo d'Eboli suo barone con CCC cavalieri a la guardia de la terra, i Romani avendo grande carestia di vittuaglia per lo grande caro che generalmente era per tutta Italia, dogliendosi del re Ruberto che non gli forniva del Regno, a romore si levò il popolo, gridando: "Muoia il sanatore!"; e corsollo in Campidoglio assalendolo aspramente, il quale con tutta sua gente non poté resistere; si s'arendé e uscì de la signoria con grande danno e vergogna, e' Romani feciono loro sanatori messer Stefano de la Colonna e messer Poncello Orsini, i quali del loro grano e di quello degli altri possenti Romani feciono venire in piazza, e racquetarono il popolo.
<B>CXIX</B>
<I>Come il detto anno, e più il seguente, fue grande caro di vittuaglia in Firenze e quasi in tutta Italia.</I>
Nel detto anno MCCCXXVIII si cominciò e fu infino nel CCCXXX grande caro di grano e di vittuaglia in Firenze, che di soldi XVII lo staio ch'era valuto di ricolta, il detto anno valse XXVIII, subitamente in pochi dì montò in XXX soldi; e poi entrando il seguente anno CCCXXVIIII, ogni dì venne montando sì, che per la Pasqua del Risoresso del XXVIIII valse soldi XLII, e innanzi che fosse il novello per lo contado in più parti valse fiorino uno d'oro lo staio, e nonn-avea pregio il grano, possendosene avere per danari la gente ricca che n'avea bisogno, onde fu grande stento e dolore a la povera gente. E non fu solamente in Firenze, ma per tutta Toscana e in gran parte d'Italia; e fu sì crudele la carestia che' Perugini, e' Sanesi, e' Lucchesi, e' Pistolesi, e più altre terre di Toscana per non potere sostentare cacciarono di loro terre tutti i poveri mendicanti. Il Comune di Firenze con savio consiglio e buona provedenza, riguardando a la piatà di Dio, ciò non sofferse, ma quasi gran parte de' poveri di Toscana mendicanti sostenne, e fornì di grossa quantità di moneta la canova; mandando per grano in Cicilia, faccendolo venire per mare a Talamone in Maremma, e poi condurlo in Firenze con grande rischio e ispendio; e così di Romagna e del contado d'Arezzo, e non guardando al grave costo, sempre ch'era la grave carestia, il tenne a mezzo fiorino d'oro lo staio in piazza, tuttora col quarto orzo mescolato. E con questo era sì grande rabbia del popolo in Orto San Michele, che convenia vi stesse a guardia degli uficiali le famiglie delle signorie armate col ceppo e mannaia per fare giustizia, e fecionsene intagliare membri. E perdévi il Comune di Firenze in quegli due anni più di LXm fiorini d'oro per sostentare il popolo; e tutto questo era niente; se non che infine si provide per gli uficiali del Comune di non vendere grano in piazza, ma di fare pane per lo Comune a tutti i forni, e poi ogni mattina si vendea in tre o quattro canove per sesto di peso d'once VI il pane mischiato per danari IIII l'uno. Questo argomento sostenne e contentò la furia del popolo e della povera gente, ch'almeno ciascuno potea avere pane per vivere, e tale avea danari VIII o XII per sua vita il dì, che non potea raunare i danari di comperare lo staio. E tutto ch'io scrittore non fossi degno di tanto uficio, per lo nostro Comune mi trovai uficiale con altri a questo amaro tempo, e co la grazia di Dio fummo de' trovatori di questo rimedio e argomento, onde s'apaciò il popolo, e fuggì la furia, e si contentò la povera gente sanza niuno scandalo o romore di popolo o di città. E con questo testimonio di verità che anche in niuna terra si fece per gli possenti e pietosi cittadini tante limosine a' poveri, quanto in quella disordinata carestia si fece per gli buoni Fiorentini; ond'io sanza fallo stimo e credo che per le dette limosine e provedenza fatta per lo povero popolo, Idio abbia guardata e guarderà la nostra città di grandi aversitadi. Avemo fatto sì lungo parlare sopra questa materia per dare esemplo a' nostri cittadini che verranno d'avere argomento e riparo, quando in così pericolosa carestia incorresse la nostra città, acciò che si salvi il popolo al piacere e reverenza di Dio, e la città non incorra in pericolo di furore o rubellazione. E nota che sempre che la pianeta di Saturno saràe ne la fine del segno del Cancro e infino al ventre del Leone, carestia fia in questo nostro paese d'Italia, e massimamente nella nostra città di Firenze, però che pare attribuita a parte di quello segno. Questo non diciamo sia però necessitade, che Idio può fare del caro vile e del vile caro secondo sua volontà, o per grazia de' meriti di sante persone o per pulizione de' peccati; ma naturalmente parlando, Saturno secondo il detto de' poeti e astrolagi è lo Dio de' lavoratori, ma più vero la sua infruenza porta molto a l'overaggio e semente de le terre; e quand'egli si truova ne le case e segni suoi aversi e contrarii, come il Cancro e più il Leone, adopera male le sue vertù ne la terra, però ch'egli è di naturale isterile, e il segno del Leone isterile; sì che dà caro e sterelità, e non ubertà e abbondanza. E questo per isperienza avemo veduto per gli tempi passati, e basti a chi s'intende di queste ragioni, che così fu in questi tempi, il qual è di XXX in XXX anni, e talora ne le sue quarte, secondo le congiunzioni di buone o ree pianete.
<B>CXX</B>
<I>Come l'antipapa del Bavero fece in Pisa processi contra papa Giovanni e lo re Ruberto e Comune di Firenze.</I>
Nel detto anno MCCCXXVIII, a dì XVIIII di febbraio, l'antipapa del Bavero, il quale era nella città di Pisa, in pieno parlamento e sermone, ove fu il detto Bavero e tutta sua baronia e parte de la buona gente di Pisa, fece processo e diè sentenzia di scomunica contro a papa Giovanni, e contro al re Ruberto, e contro al Comune di Firenze e chi loro seguisse, opponendo contro a' detti falsi articoli. Avenne in ciò grande maraviglia, e visibile e aperta, che raunandosi il detto parlamento, subitamente venne da cielo la maggiore tempesta di gragnuola e d'acqua con terribile vento, che per poco mai venisse in Pisa; e perché agli più de' Pisani pareva mal fare andando al detto sermone, e per lo forte tempo pochi ve n'andavano, per la qual cosa il Bavero mandò il suo maliscalco a cavallo con gente d'arme e con fanti a piede per la città a costrignere che la buona gente andasse al detto parlamento e sermone, e con tutta la forza pochi ve n'andarono. E in quello cavalcare per la terra il detto maliscalco, essendo la detta fortuna e tempesta, prese freddo a la persona, onde per guerire la sera fece uno bagno, ove fece mettere acqua stillata, e in quello bagnandosi vi s'apprese fuoco, e subitamente il detto maliscalco nel detto bagno arse e morì sanza altro male di persone; la qual cosa fu tenuto gran miracolo di Dio e segno contrario al Bavero e a l'antipapa, che' loro indegni processi non piacessono a Dio. E poi a dì XXIII di febbraio il detto Bavero palesò a' Pisani di partirsi di Toscana, e per sue grandi bisogne gli convenia ire in Lombardia, onde i Pisani per la sua appressione furono molto allegri.
<B>CXXI</B>
<I>Come la parte ghibellina de la Marca presono la città d'Iegi, e tagliarono il capo a Tano che n'era signore.</I>
Nel detto anno, a dì VIII di marzo, i Ghibellini de la Marca, ond'era loro capitano di guerra il conte di Chieramonte di Cicilia, con gente del Bavero subitamente entrarono ne' borghi della città d'Iegi col favore e trattato di quegli de la cittade, de la quale era capo e signore Tano da Iegi, uno grande capitano di parte guelfa e molto ridottato in tutta la Marca, il quale tirannescamente lungo tempo l'avea soggiogata, e molto temuto e disamato da' suoi cittadini, e presi i borghi e la terra, assediarono i palazzi e rocca ov'era il detto Tano e sua famiglia, e quella combatterono; e perché il detto Tano era non proveduto né fornito, non potendosi difendere s'arrendé, al quale il detto conte di Chieramonte infra il terzo dì gli fece tagliare la testa, sì come a nimico e ribello dello 'mperio. E così gli fece confessare, e dicesi che di sua libertà confessò, e si rendé colpevole non di quello peccato che gli parea avere fatto mercé in servigio di santa Chiesa essere rubello dello 'mperio, ma che in quello tempo, essendo eletto capitano di guerra de' Fiorentini, e s'apparecchiava di venire, era disposto a petizione di certi grandi e popolani di Firenze, per cagione di sette, di guastare il nostro tranquillo stato, e farvi nuova parte, e sì come tiranno cacciare gente de la nostra città di Firenze. Se questo s'avesse potuto fare o no, egli di vero il confessò a la morte, onde per la grazia di Dio la nostra città fu libera del male volere del tiranno per mano de' nostri nimici non provedutamente
<B>CXXII</B>
<I>Come gli Aretini ebbono il Borgo a Sansipolcro per assedio.</I>
Nel detto anno avendo i signori da Pietramala d'Arezzo impetrato dal Bavero titolo de la signoria d'Arezzo e de la Città di Castello, le quali teneano, e de la terra del Borgo a Sansipolcro, la quale non era sotto loro soggezione, volendola signoreggiare quegli del borgo, si misono a la difensione i Guelfi e' Ghibellini per essere liberi; onde i detti Tarlati signori da Pietramala co la forza degli Aretini e con loro amistà misono assedio con oste a la terra del Borgo a Sansipolcro, la quale era molto forte e di mura e de' fossi, e intorno a quella stettono più d'otto mesi ad assedio con più battifolli non avendo contasto niuno. Ben mandarono que' del borgo loro ambasciadori a' Fiorentini per darsi loro liberamente, se gli liberassono dell'asedio e gli difendessono dagli Aretini. Per gli Fiorentini si diliberò di non fare quella impresa per l'essere del Bavero, ch'allora era in Pisa, e perché il borgo era di lungi e fuori di nostre marce e impossibile a fornirlo. A la fine i borghigiani veggendosi abandonati dagli amici guelfi di Toscana, e certi de' migliori de la terra presi dagli Aretini in loro cavalcate, s'arrenderono agli Aretini sotto certi patti a l'uscita del mese di marzo, rimanendo la dominazione de la terra a' detti signori da Pietramala d'Arezzo.
<B>CXXIII</B>
<I>Come il Bavero andò a Lucca e fece correre la terra, e dispuose della signoria i figliuoli di Castruccio.</I>
Nel detto anno, a dì XVI di marzo, il Bavero si partì di Pisa e andonne a Lucca per certa disensione cominciata in Lucca tra quegli della casa de' Pogginghi con séguito di loro amici grandi e popolani e quegli degl'Interminelli e' figliuoli di Castruccio e' loro seguaci, i quali ciascuna parte avea abarrata la terra, e si combatteano per non avere signoria di tiranni cioè de' figliuoli di Castruccio e' loro seguaci, o d'altri degl'Interminelli. Ivi al terzo dì che 'l Bavero vi fu venuto, fece correre la terra al suo maliscalco con la sua cavalleria, ove fu grande punga e battaglia, e misesi fuoco, ond'arsono la maggior parte de le case de' Pogginghi, e intorno a Santo Michele, e in Filungo infino a cantone Bretto, nel migliore e più caro de la cittade con grandissimo danno de' casamenti e d'avere. A la fine de' Pogginghi e di loro seguaci molti furono cacciati fuori de la terra; e ciò fatto, il Bavero riformò la terra e prese mezzo, e fece suo vicaro in Lucca Francesco Castracane degl'Interminelli per XXIIm di fiorini d'oro ch'ebbe da·llui tra danari e promesse; e dispuose d'ogni signoria i figliuoli di Castruccio, i quali, tutto fossono congiunti del detto messer Francesco, s'astiavano e voleano male insieme, perché ciascuno volea essere signore. E riformata la terra, il Bavero si tornò in Pisa a dì III d'aprile MCCCXXVIIII.
<B>CXXIV</B>
<I>Come i seguaci de' figliuoli di Castruccio con messere Filippo Tedici corsono la città di Pistoia, e come ne furo cacciati.</I>
In quegli giorni entrarono nella città di Pistoia i figliuoli di messer Filippo Tedici co la forza de' figliuoli di Castruccio loro cognati, e con Serzari Sagina, che si chiamava signore d'Altopascio, e loro seguaci e masnade di loro amici tedeschi a cavallo e a piè, e corsono la terra, gridando: "Vivano i duchini!", cioè i figliuoli di Castruccio, sanza contasto niuno; e credendosi avere vinta la terra, quegli della casa de' Panciatichi, e di Muli, e Gualfreducci, e Vergellesi, antichi Ghibellini e nimici de' Tedici, con loro amici e coll'apoggio del vicaro che v'era per lo Bavero, con armata mano e con séguito del popolo e di molti loro amici cittadini ricorsono la terra la loro volta gridando: "Viva lo 'mperadore!"; e ruppono e sconfissono e cacciarono de la terra i Tedici e 'l signore d'Altopascio e' loro seguaci, e assai ne furono morti e presi.
<B>CXXV</B>
<I>Come la gente del legato vollono prendere Reggio, e come Forlì e Ravenna feciono le comandamenta del legato.</I>
Nel detto tempo e mese per certo trattato dove' essere data l'entrata de la città di Reggio al legato del papa ch'era in Bologna, onde vi cavalcò il suo maliscalco con più di VIIIc cavalieri e gente a piede assai, e furono infino ne' borghi de la terra; ma vennono sì tardi, che già era scoperto il tradimento; onde furono presi e guasti di coloro che·ll'aveano ordinato, e la gente della Chiesa vi ricevettono danno e vergogna, e tornarsi a Bologna. E nel detto mese, a dì XXVI di marzo, i Forlivesi e que' di Ravenna per certo ordine di pace vennono a' comandamenti del legato a Bologna.
<B>CXXVI</B>
<I>Come la gente di messer Cane di Verona furono sconfitti nel castello di Salò in bresciana.</I>
Nel detto anno, faccendo messer Cane de la Scala grande guerra a' Bresciani, fece fare una grande armata di gazzarre e d'altro navilio, e con molta gente d'arme a dì XXIIII di marzo fece assalire il castello di Salò in bresciana, e per gente de la terra ch'erano al tradimento fu data loro l'entrata, e corsono e rubarono la terra. A la fine i Bresciani avisati di questa cavalcata giunsono a Salò, e combatterono co' nimici e sconfissorgli e cacciarono de la terra, e rimasonne più di Vc morti.
<B>CXXVII</B>
<I>Come il Bavero si partì di Pisa e andonne in Lombardia, e fece oste sopra Milano.</I>
Nell'anno MCCCXXVIIII, a dì XI d'aprile, si partì di Pisa Lodovico di Baviera, il quale si facea chiamare imperadore, per andare in Lombardia, per cagione che' Visconti che teneano la signoria di Milano non gli rispondeano come volea, per la quistione già mossa contra a messer Marco, e perché 'l Bavero mostrava d'abattere lo stato de' figliuoli di Castruccio, i quali erano a setta co' detti Visconti. E partendosi il Bavero di Toscana, diede speranza a' suoi seguaci di Pisa e di Lucca e dell'altra Toscana di tosto ritornare, con tutto che a' Pisani paresse M anni la sua partita per le 'ncomportabili gravezze ricevute da·llui, e con poco suo onore o stato de' Pisani o de' Lucchesi; e lasciò in Pisa suo vicario messer Tarlatino d'Arezzo con VIc cavalieri tedeschi, e in Lucca Francesco Castracane Interminelli con IIIIc cavalieri. E giunto il detto Bavero in Lombardia, fece richiedere a parlamento a Marcheria tutti i tiranni e' grandi lombardi, i quali la maggiore parte vi furono, ciò fue messer Cane della Scala, e il signore di Mantova, e quello di Commo e di Chermona, salvo che non vi furono i Visconti di Milano. E tenuto parlamento infino a venerdì santo, a dì XXI d'aprile, si ordinò co' detti Lombardi di fare oste sopra Milano, per cagione che messer Azzo Visconti e' suoi nol voleano ubbidire né dare la signoria libera di Milano, e sentiva che teneano trattato d'accordo col papa e colla Chiesa. E ciò fatto, si tornò a Chermona per ordinare la detta oste, e poco appresso, del mese di maggio, co la lega di Lombardia il detto Bavero andò sopra Milano con MM cavalieri e puosesi a Moncia, e ivi e nel contado di Milano stette più tempo guastando il paese; ma non v'aquistò terra niuna del contado di Milano, salvo ch'a l'uscita del mese di giugno, per via di trattati, con certi patti il Bavero ebbe la città di Pavia, e poi con sua gente si tornò a Chermona per le novitadi già cominciate ne la città di Parma e di Reggio e di Modana contro al legato e la Chiesa, come innanzi faremo menzione.
<B>CXXVIII</B>
<I>Come la compagna de' Tedeschi dal Cerruglio vennono a Lucca e furono signori de la terra.</I>
Nel detto anno, quattro dì apresso partito il Bavero di Pisa, ciò fu a dì XV d'aprile, i suoi ribelli tedeschi ch'erano in sul Cerruglio in Valdinievole, come adietro facemmo menzione, i quali erano intorno VIc uomini a cavallo, molto aspra e buona gente d'arme, con trattato di certi Fiorentini, ond'era caporale e menatore messer Pino de la Tosa e il vescovo di Firenze con certi altri cittadini segreti, infino che 'l Bavero era in Pisa, faccendo loro grandi promesse di danari per lo Comune di Firenze, e ancora con certo trattato con masnade vecchie de' Tedeschi stati al servigio di Castruccio, i quali erano a la guardia del castello de l'Agosta di Lucca, si feciono loro capitano messer Marco Visconti di Milano, stato per loro gaggi promessi loro pregione. E partirsi di notte tempore di Valdinievole e vennono a Lucca; e com'era ordinato, fu data loro l'entrata del castello de l'Agosta; e incontanente mandarono per Arrigo figliuolo di Castruccio e per gli suoi frategli, i quali erano per confini del Bavero al castello loro di Monteggioli; e loro giunti, e entrati nel castello di Lucca, vollono correre la terra. I Lucchesi per tema d'essere rubati e arsi con Francesco Interminelli insieme, ch'era signore di Lucca per lo Bavero, s'arenderono, e diedono la signoria dell'altra terra a messer Marco e a' suoi seguaci del Cerruglio la domenica apresso. E poi in questo stante corsono il paese d'intorno, e chi non facea le comandamenta sì rubavano e uccideano come gente salvaggia e bisognosa che viveano di ratto. E perché quegli de la terra di Camaiore si contesono, furono arsi e rubati, e arsa e guasta la terra, e morti più di IIIIc di loro terrazzani a dì VI di maggio: e poi corsono e guastarono intorno a Pescia. E in questa mutazione di Lucca il detto messer Marco e' suoi seguaci mandarono a Firenze loro ambasciadori frati agostini a richiedere i Fiorentini ch'atenessono loro i patti de la moneta promessa, offerendosi di dare la signoria di Lucca e 'l castello libero a' Fiorentini, pagando le masnade di loro gaggi sostenuti ch'era lo stimo e loro domanda intorno di LXXXm fiorini d'oro, e promettendo di perdonare e di lasciare i figliuoli di Castruccio in alcuno stato cittadinesco, e non signori. Di ciò si tennono molti e più consigli in Firenze; e come la 'nvidia che guasta ogni bene, overo ch'ancora non fosse tempo di nostro felice stato, overo che paresse loro ben fare, contastatori ebbe in Firenze assai. Principale fu messer Simone de la Tosa contrario per setta, e per lignaggio consorto di messer Pino, e più suoi seguaci grandi e popolani, mostrando con belle ragioni e colorate la confidanza di messer Marco e de' Tedeschi istati nostri contrarii e nimici, e come non era onore del Comune di Firenze a perdonare a' figliuoli di Castruccio di tante offese ricevute dal padre; e così il benificio trattato per lo Comune di Firenze d'avere la signoria di Lucca, per invidia cittadina rimase, e presesi il peggiore con grande interesso e dammaggio del nostro Comune, come innanzi per lo tempo faremo menzione.
<B>CXXIX</B>
<I>Come fu fatta pace tra' Fiorentini e' Pistolesi.</I>
Per la detta mutazione di Lucca i Ghibellini caporali che teneano la città di Pistoia, ciò erano, come dicemmo adietro, Panciatichi, e Muli, e Gualfreducci, e Vergiolesi, i quali erano contradi e nimici di messer Filippo Tedici e de' suoi, e sospetti de' figliuoli di Castruccio e loro seguaci per lo parentado di messer Filippo, conoscendo che bene non poteano tenere la città di Pistoia sanza grande pericolo, se non si facessono amici de' Fiorentini, per la qual cosa feciono cercare trattato di pace col Comune di Firenze, del quale trattato fu menatore e fattore messer Francesco di messer Pazzino de' Pazzi, però ch'avea parentado co' Panciatichi del lato guelfo, onde degli altri Panciatichi si fidarono con gli altri loro seguaci ch'erano signori di Pistoia: lo quale trattato ebbe tosto buono compimento, però che facea così bene per gli Fiorentini come per gli Pistolesi, e dievisi fine a dì XXIIII di maggio MCCCXXVIIII, in questo modo: che' Pistolesi renderono a' Fiorentini Montemurlo, pagando XIIc di fiorini d'oro a le masnade che v'erano dentro, e quetarono in perpetuo a' Fiorentini Carmignano e Artimino e Vitolino e più altre terre del monte di sotto, le quali aveano prese e teneano i Fiorentini; e promisono di rimettere tutti i Guelfi in Pistoia infra certo tempo, salvo i Tedici, e raccomunare gli ufici co' Guelfi, e d'avere gli amici per amici e' nimici per nimici del Comune di Firenze. E per pegno diedono a' Fiorentini la guardia de la rocca di Tizzano, la quale rimessa de' Guelfi oservarono in prima che 'l termine ordinato; e vollono che' Fiorentini avessono la guardia della città di Pistoia, e vi tenessono uno capitano popolano di Firenze con gente d'arme; e così fu fatto. E' Fiorentini per più fermezza di pace feciono fare per sindaco di Comune, che fu messer Iacopo Strozzi, cavalieri due de' Panciatichi, e uno de' Muli, e uno de' Gualfreducci, e donarono loro MM fiorini d'oro, e feciono in Pistoia XXXVI cavallate al soldo de' Fiorentini. E' detti Ghibellini di Pistoia feciono ordine che s'abbattesse ogni insegna d'aguglia e di Bavero e di Castruccio e di parte ghibellina, e feciono per sopransegna a·lloro bandiere i nicchi dell'oro sa·Jacopo. Di questa pace si fece gran festa in Pistoia d'armeggiare e d'altri giuochi, e ancora in Firenze il dì dell'Ascensione apresso si feciono ne la piazza di Santa Croce ricche e belle giostre, tenendosi tavola ferma per III dì per VI cavalieri, dando giostra a ogni maniera di gente a cavallo, perdere e guadagnare, ov'ebbe di molto belli colpi e d'abattere di cavalieri, e al continuo v'era pieno di belle donne a' balconi, e di molto buona gente.
<B>CXXX</B>
<I>Come il legato di Lombardia fece fare oste sopra Parma, Reggio e Modana, e come feciono le sue comandamenta.</I>
Nel detto anno, a l'uscita di maggio, il legato del papa di Lombardia, ch'era in Bologna, fece fare oste sopra la città di Parma e quella di Reggio di più di MM cavalieri e popolo assai, perché s'erano rubellati a la Chiesa e non voleano ubbidire il legato. Poi per certo trattato in corte col papa di dissimulata pace Parma e Reggio feciono le comandamenta a dì XXV di giugno, mettendovi il legato suoi rettori e uficiali con poca gente, sì che la signoria e forza de le dette terre si rimase pure a' signori di quelle. E ciò fatto, a dì V di luglio vegnente la detta oste de la Chiesa venne sopra la città di Modana, per la qual cosa, come avea fatto Parma e Reggio, e in quella forma, i Modanesi s'arrenderono al legato.
<B>CXXXI</B>
<I>Come il legato di Toscana co' Romani fece oste sopra Viterbo.</I>
In quello medesimo tempo il legato di Toscana, il quale era a Roma, fece co' Romani e con altro suo podere oste sopra la città di Viterbo, perch'era ribella a' Romani e a la Chiesa, e signoreggiavasi per tiranno, e quella guastarono intorno, e presono più castella de le loro, ma la città non poterono avere.
<B>CXXXII</B>
<I>Come i Pisani cacciarono di Pisa il vicaro del Bavero e le sue masnade.</I>
Nel detto anno, del mese di giugno, i Pisani sentendo che 'l Bavero era rimaso in Lombardia per non tornare al presente in Toscana, e dispiacendo loro la sua signoria, e ancora per le novità e mutazioni de la città di Lucca, sì ordinarono col conte Fazio il giovane di cacciare il vicario del Bavero, ch'era messer Tarlatino di quegli da Pietramala d'Arezzo, e tutti i suoi uficiali, e feciono venire in Pisa da la città di Lucca messer Marco Visconti con certe masnade de' cavalieri de la compagna del Cerruglio nimici del Bavero, e uno sabato sera feciono levare la terra a romore e armare il popolo e' cavalieri di messer Marco, e tutti trassono a casa il conte Fazio, e tagliarono il ponte a la Spina, e misono fuoco nel ponte nuovo, e armarono e barrarono il ponte vecchio ch'è sotto le case del conte, acciò che le masnade del Bavero le quali erano in Pisa a petizione del suo vicario non potessono passare né correre il quartiere di Quinzica dov'era il conte co la forza sua e del popolo. La domenica mattina vegnente, dì XVIII di giugno, cresciuta la forza del conte e del popolo, e volendo passare il ponte vecchio per assalire e combattere il vicario al palagio, egli veggendosi mal parato a tanta forza, si partì con sua famiglia di Pisa, e fu rubato il palagio di tutti suo' arnesi; e poi riposato il romore, riformarono la terra di loro podestà, e mandarne le masnade del Bavero gran parte.
<B>CXXXIII</B>
<I>Come messer Marco Visconti venne in Firenze per certi trattati, e poi tornato in Milano fu morto da' fratelli e nipote.</I>
Rivolto lo stato di Pisa per lo modo scritto nel passato capitolo, i Pisani e 'l conte Fazio providono messer Marco Visconti riccamente del servigio ricevuto da·llui. Il detto messer Marco non volle tornare a Lucca, però ch'era in gaggio per lo Bavero a' cavalieri del Cerruglio per loro soldi, come adietro facemmo menzione; cercò, e mandò lettere al Comune di Firenze che volea venire e passare per Firenze per andarsene in Lombardia con intendimento di parlare a' priori e con coloro che reggeano la città cose utili per potere avere la città di Lucca. Fugli data licenzia del venire sicuramente; il quale venne in Firenze a dì XXX di giugno nel detto anno con XXX a cavallo di sua famiglia; da' Fiorentini fu veduto graziosamente e fattogli onore assai, ed egli da·ssé, mentre dimorò in Firenze, al continuo mettea tavola, convitando cavalieri e buona gente, e fece nel palagio de' priori l'obbedienza di santa Chiesa dinanzi a' priori e a l'altre signorie e del vescovo di Firenze e di quello di Fiesole e di quello di Spuleto, ch'era Fiorentino, e dinanzi a lo 'nquisitore e di certi legati che erano in Firenze per lo papa. E promise d'andare a la misericordia del legato di Lombardia e poi al papa, e d'essere sempre figliuolo e difenditore di santa Chiesa. In Firenze tenne trattato co' cavalieri dal Cerruglio che teneano il castello di Lucca di dare al Comune di Firenze il detto castello e tutta la città, dando loro LXXXm fiorini d'oro; e de' maggiori caporali e conastaboli vennono in Firenze per lo detto trattato, profferendo di dare per sicurtà molti di loro caporali per istadichi per oservare la promessa. In Firenze se ne tennono più consigli, e gli più s'accordarono al trattato, e spezialmente la comune gente e quegli de la setta di messer Pino de la Tosa, il quale, come dicemmo adietro, avea menato il trattato di fare torre Lucca a messer Marco e a' cavalieri dal Cerruglio. L'altra setta, ond'era caporale messer Simone de la Tosa suo consorto, per invidia, o forse perché per loro non era mosso il detto trattato e non aspettavano l'onore, o forse utole, s'oppuose contro, mostrando più dubitazioni e pericoli, come si poteano perdere i danari, e la gente si mettesse per gli Fiorentini a la guardia del castello dell'Agosta. E così per mala concordia de' nostri non diritti cittadini a la republica rimase il trattato, e messer Marco si partì di Firenze a dì XXVIIII di luglio, e furongli donati per lo Comune di Firenze M fiorini d'oro per aiuto a le sue spese. Il detto messer Marco se n'andò a Milano, e da' suoi cittadini fu ricevuto a grande onore, e avea da' Milanesi grande séguito, maggiore che neuno de' suoi fratelli, o che messer Azzo Visconti suo nipote, ch'era signore di Milano. Per la qual cosa montò la 'nvidia e la gelosia che messer Marco non togliesse la signoria a messer Azzo per gli trattati fatti in Firenze co' Guelfi, e forse messere Marco per tornare in grazie del papa ed esser signore di Milano, che 'l potea e n'avea per aventura la 'ntenzione guardando suo tempo.
Avenne che a dì IIII di settembre nel detto anno, fatto messer Azzo uno grande convito ove fu messer Marco e messer Luchino e messer Giovannino Visconti suoi zii, e altri de' Visconti e più buona gente di Milano, compiuto il mangiare, e partendosi messer Marco e l'altra buona gente, fu fatto chiamare per parte di messer Azzo che tornasse al palazzo, che volea egli e' frategli parlare co·llui al segreto. Il detto messer Marco non prendendosi guardia, e non avendo arme, andò a·lloro, e entrato co·lloro in una camera, come i traditori caini aveano ordinato, co·lloro masnadieri armati uscirono adosso a messer Marco, e sanza fedirlo il presono e strangolarlo, sì ch'afogò, e morto il gittarono da le finestre del palazzo in terra. Di questa disonesta morte di messer Marco i Milanesi per comune ne furono molto turbati, ma nullo n'osò parlare per paura. Questo messer Marco fu bello cavaliere e grande della persona, fiero e ardito, e prode in arme, e bene aventuroso in battaglia più che niuno Lombardo a' suoi dì; savio non fu troppo, ma se fosse vivuto, avrebbe fatto di grandi novitadi in Milano e in Lombardia.
<B>CXXXIV</B>
<I>Come le castella di Valdinievole feciono pace e accordo co' Fiorentini.</I>
Nel detto anno la lega delle castella di Valdinievole, come sono Montecatini, Pescia, Buggiano, Uzzano, il Colle, il Cozzile, e Massa, e Montesommano, e Montevettolino, veggendo il male stato di Lucca, e come i Pistolesi s'erano pacificati co' Fiorentini, e seguivane loro utile e bene, e per consiglio di loro amici ghibellini di Pistoia, spezialmente de' cavalieri novelli fatti per lo Comune di Firenze, e per posarsi in pacefico stato de le loro lunghe guerre e pericoli passati, cercavano pace co' Fiorentini, e compiési a dì XXI di giugno del detto anno, perdonando e dimettendo il Comune di Firenze ogni offesa ricevuta da·lloro ne la guerra castruccina, e eglino promisono a' Fiorentini d'avere gli amici per amici e' nimici per nimici, e feciono lega co' Fiorentini, e vollono un capitano di Firenze.
<B>CXXXV</B>
<I>Come i Pisani trattarono di comperare Lucca, e come la gente de' Fiorentini cavalcarono in su le porte di Pisa, e come si fece pace tra Fiorentini e' Pisani</I>
Nel detto anno, a l'entrata del mese di luglio, i Pisani sentendo i trattati menati per messer Marco Visconti co' Fiorentini e' cavalieri tedeschi del Cerruglio che teneano Lucca, per tema ch'a' Fiorentini non crescesse la forza e 'l podere avendo Lucca, e tornarla a parte guelfa, e non fossono loro più presso vicini, si s'intraversarono, e cercarono co' detti Tedeschi il detto trattato d'avere Lucca per LXm fiorini d'oro. E fatto il patto, diedono caparra XIIIm fiorini d'oro, i quali si perderono per la fretta che ebbono: non ne presono stadichi né cautela; e ciò avenne per le varie novità e mutazioni ch'avennono poi in Lucca. Per la qual cosa sentendolo i Fiorentini, di ciò molto crucciati feciono cavalcare sopra i Pisani messer Beltramone del Balzo maliscalco de la gente del re Ruberto, ch'era in Sa·Miniato co le masnade de' soldati de' Fiorentini, in quantità di più di M a cavallo e gente a piede assai, e corsono infino al borgo di San Marco di Pisa, e infino a l'antiporto sanza contasto niuno, ardendo e guastando, menandone grande preda di pregioni, di bestie e d'arnesi. E poi si volsono per Valdera rubando e ardendo ciò che si trovarono innanzi; e ebbono per forza combattendo il castello di Pratiglione e quello di Camporena, che 'l tenevano i Pisani, e feciollo disfare. I Pisani veggendosi così apressati da' Fiorentini, e eransi rubellati dal Bavero, e essendo in assai male stato, cercarono pace co' Fiorentini. I Fiorentini l'asentirono per potere meglio fornire la guerra di Lucca, e compiési la detta pace a Montetopoli per gli nostri e loro sindachi e ambasciadori, a dì XII del mese d'agosto del detto anno, con patti e franchigie de la pace vecchia, e ch'eglino sarebbono nimici del Bavero e di chiunque fosse nimico de' Fiorentini. Il settembre seguente certi Ghibellini di Pisa, dispiacendo la pace fatta co' Fiorentini, cercarono con quegli di Lucca di tradire Pisa; ma fu scoperto il tradimento, e certi ne furono presi e guasti, e molti ne furono fatti rubelli e isbanditi.
<B>CXXXVI</B>
<I>Come i Fiorentini ripresono il contado d'Ampinana, che 'l tenea il conte Ugo.</I>
Nel detto anno, a dì XV di luglio, i Fiorentini mandarono di loro masnade in Mugello e feciono riprendere i popoli e contado del castello che fue d'Ampinana, il quale s'avea ripreso il conte Ugo da Battifolle per lo modo detto adietro al tempo della sconfitta d'Altopascio.
<B>CXXXVII</B>
<I>Come si rubellò il castello di Montecatini da la lega de' Fiorentini.</I>
Nel detto anno, a dì XVII di luglio, gli amici ghibellini de' figliuoli di Castruccio i quali erano in Montecatini, coll'aiuto delle masnade de' Lucchesi ch'erano in Altopascio, rubellarono la terra da l'accordo de la lega, e cacciarne fuori i Guelfi, e fornissi per gli Lucchesi. Per la qual cosa le masnade de' Fiorentini cavalcarono in Valdinievole, e presono e arsono il borgo di Montecatini, e rimasevi per capitano messer Alnerigo Donati per gli Fiorentini, con gente d'arme a cavallo e a piede assai a la guardia di Buggiano e dell'altre terre della lega di Valdinievole, e per fare guerra a Montecatini. E in questa stanza da XII caporali e grandi Ghibellini del castello di Montevettolino andarono segretamente in Montecatini per ordinare di rubellare Montevettolino. E ispiandolo messer Amerigo, a l'uscita che feciono del castello gli fece prendere, e per la loro presura ebbe il castello di Montevettolino in signoria per lo Comune di Firenze, che innanzi non vi lasciavano entrare dentro le loro masnade. E infino allora si cominciò l'assedio di Montecatini per gli Fiorentini, non perciò stretto, come seguirono poi, come innanzi si farà menzione; ma erano le loro guernigioni di gente a cavallo e a piede ne le castella d'intorno, e non vi potea entrare vittuaglia se non di furto, o con grossa scorta.
<B>CXXXVIII</B>
<I>Come messer Cane della Scala ebbe la città di Trevigi, e incontanente di malatia vi morì.</I>
Nel detto anno, a dì IIII di luglio, messer Cane della Scala di Verona andò ad oste sopra la città di Trevigi con tutto suo podere, e furono più di MM cavalieri e popolo grandissimo, la quale città di Trevigi era in comunità, ma il maggiore n'era l'avogaro di Trevigi: al quale assedio stette XV dì, e poi l'ebbe liberamente a patti, salvi tutti avere e persone, ciascuno in suo grado. E a dì XVIII del detto mese v'entrò messer Cane colla sua gente con grande festa e trionfo, e fu adempiuta la profezia di maestro Michele Scotto, che disse che 'l Cane di Verona sarebbe signore di Padova e di tutta la Marca di Trivigi. Ma come piacque a Dio, e le più volte pare ch'avegna per lo piacere di Dio e per mostrare la sua potenzia, e perché niuno si fidi in niuna felicitade umana, che dopo la grande allegrezza di messer Cane, adempiuti gli suoi intendimenti, venne il grande dolore, che giunto lui in Trevigi, e mangiato in tanta festa, incontanente cadde malato, e il dì de la Maddalena, dì XXII di luglio, morì in Trevigi, e fune portato morto a soppellire a Verona, e di lui non rimase né figlio né figlia legittimo, altro che due bastardi, i quali poi da' loro zii frategli di messer Cane perché non regnassono furono scacciati, e alcuno di loro fatto morire. E nota che questi fu il maggiore tiranno e 'l più possente e ricco che fosse in Lombardia da Azzolino di Romano infino allora, e chi dice di più; e nella sua maggiore gloria venne meno de la vita e di sue rede, e rimasono signori appresso lui messer Alberto e messer Mastino suoi nipoti.
<B>CXXXIX</B>
<I>Come il legato di Lombardia ebbe la città di Faenza a patti.</I>
Nel detto anno, a dì VI di luglio, il legato di Lombardia da Bologna mandò grande oste sopra la città di Faenza, la quale aveva rubellata e tenea Alberghettino di Francesco Manfredi, e stettevi all'assedio XXV dì. A la fine per consiglio del padre e di messer Ricciardo suo fratello, ch'erano di fuori col legato, s'arrendé a patti con grandi impromesse al detto Alberghettino l'ultimo dì di luglio, e Alberghettino ne venne a Bologna al legato, e fecelo di sua famiglia, e dandogli robe e gaggi con sua compagnia, mostrandogli grande amore. A dì XXV del detto mese di luglio essendo l'oste de la Chiesa sopra Mattelica ne la Marca, da' Ghibellini e ribelli de la Chiesa furono sconfitti.
<B>CXL</B>
<I>Come la città di Parma, e di Modana, e di Reggio si rubellarono al legato.</I>
Nel detto anno, a dì XV d'agosto, avendo il legato di Lombardia fatti venire in Bologna i figliuoli di messer Ghiberto da Coreggio e Orlando de' Rossi sotto sua confidanza (il quale Orlando era stato signore di Parma), per tema non gli facesse rubellare la terra, sotto protesto ch'egli non volea far pace co' detti figliuoli di messer Ghiberto, il ritenne in Bologna, e fecelo mettere in pregione. Per la qual cosa i fratelli e' consorti del detto Orlando col popolo della città, che l'amava molto, rubellarono al legato e a la Chiesa la città di Parma, e presono tutti gli uficiali del legato e quanta di sua gente v'avea. E per simile modo si rubellò la città di Reggio e quella di Modana, temendo di loro, e ispiaccendo lo 'nganno e tradimento fatto al detto Orlando sotto la detta confidanza.
<B>CXLI</B>
<I>Ancora come i Tedeschi ch'erano in Lucca vollono venderla per danari a' Fiorentini, e no·lla seppono prendere.</I>
Ne' detti tempi, essendo la città di Lucca in grande variazione e in male stato e sanza nullo ordine di signoria o reggimento, se non al corso de' conastaboli de' Tedeschi dal Cerruglio che se n'erano signori e guidavallasi come preda guadagnata, i quali Tedeschi tennono con più genti e Comuni e signori d'intorno trattati per avere danari e dare la signoria di Lucca, vedendo che per loro no·lla poteano bene tenere, e ancora ne richiesono da capo il Comune di Firenze, il quale, come detto è adietro nel capitolo del trattato che ne fece messer Marco Visconti di Milano, per le 'nvidie de' cittadini non s'ebbe ancora per gli rettori del Comune di Firenze di ciò concordia. Ma certi valenti e ricchi cittadini di Firenze la vollono comperare per lo Comune LXXXm fiorini d'oro per loro vantaggio, e credendone fare al Comune di Firenze grande onore e grande loro guadagno, e fornire le spese, rimanendo in loro mano le gabelle e l'entrate di Lucca con certo ordine e patti. E a·cciò teneano co·lloro i mercatanti usciti di Lucca, e metteanvi Xm fiorini d'oro, e voleano che 'l Comune di Firenze vi mettesse innanzi solamente XIIIIm fiorini d'oro, e prendesse la guardia del castello de l'Agosta con XX i maggiori e migliori conastaboli per istadichi per oservare i patti; e gli primi danari si ritraessono fossono quegli del Comune di Firenze, e tutti gli altri insino LVIm di fiorini d'oro metteano di loro volontà singulari cittadini di Firenze. E di ciò potemo rendere piena fede noi autore, però che fummo di quegli. Ma la guercia e disleale sempre invidia de' cittadini di Firenze, e massimamente di coloro ch'erano al governamento de la città, nol vollono aconsentire, dando scusa di falsa ipocresia, dicendo come oppuosono l'altra volta sotto colore d'onestà, che fama correa per l'universo mondo che i Fiorentini per covidigia di guadagno di moneta hanno comperata la città di Lucca. Ma al nostro parere, e di più savi che poi l'hanno disaminata quistionando, che compensando le sconfitte e' danni ricevuti e ispendii fatti per lo Comune di Firenze per cagione de' Lucchesi per la guerra castruccina, niuna più alta vendetta si potea fare per gli Fiorentini, né maggiore laude e gloriosa fama potea andare per lo mondo che potersi dire: i mercatanti e' singulari cittadini di Firenze colla loro pecunia hanno comperata Lucca, e gli suoi cittadini e contadini, stati loro nimici, come servi. Ma a cui Idio vuole male gli toglie il senno, e non gli lascia prendere i buoni partiti; o forse, o sanza forse, ancora non erano purgati i peccati, né domata la superbia né l'usure, e' maliabrati guadagni de' Fiorentini, per fare loro spendere e consumare in guerra seguendo la discordia co' Lucchesi, che per ogniuno danaio che Lucca si comperava, C o più, ma dire potremmo infiniti, spesi poi per gli Fiorentini ne la detta guerra, come innanzi leggendo faremo per gli tempi menzione; che si potea co la sopradetta prestanza di moneta, e non ispesa né perduta, fare così onorata e alta vendetta de' Lucchesi, avendogli comperati come servi, e sopra servi i loro beni, e alle loro spese, e sotto il nostro giogo rendere loro pace e perdonare, e fargli liberi e compagni, come per l'antico soleano essere co' Fiorentini.
<B>CXLII</B>
<I>Come messer Gherardino Spinoli di Genova ebbe poi per danari la signoria della città di Lucca.</I>
Essendo rotto il detto trattato da' Tedeschi di Lucca a' Fiorentini, però che' rettori del Comune di Firenze non lasciarono ciò compiere, come nel passato capitolo è fatta menzione, ma minacciaro chiunque se ne travagliasse, e alcuno ch'avea menato il trattato fatto mettere in carcere; messer Gherardino degli Spinoli di Genova s'accordò co' detti Tedeschi, e dando loro XXXm fiorini d'oro, e ritenendone alquanti di loro, chi volle co·llui rimanere a' suoi gaggi; li diedono la città di Lucca e feciolne signore, il quale vigorosamente la prese: a dì II di settembre del detto anno venne in Lucca, e ebbe la signoria de la città libera e sanza nullo contasto; e poi ordinò le sue masnade, e richiese i Fiorentini di pace o di triegua, i quali nulla ne vollono intendere, anzi feciono rubellare il castello di Collodi presso di Lucca a l'entrante d'ottobre, il quale messer Gherardino co la cavalleria sua e popolo di Lucca vennono a l'assedio del detto Collodi, il quale, non soccorso a tempo da' Fiorentini, com'era promesso, s'arendero a messer Gherardino e al Comune di Lucca, a dì XX del detto mese d'ottobre, con poco onore de' Fiorentini. Onde in Firenze ebbe molti ripitii e biasimi dati a coloro che non aveano lasciato prendere l'accordo co' Tedeschi, né saputo fare la guerra e impresa cominciata; e 'l detto messer Gherardino, avuto il castello di Collodi, con ogni sollecitudine procacciò di raunare moneta, e d'avere gente d'arme per levare i Fiorentini dall'assedio, il quale già aveano cominciato e posto al castello di Montecatini in Valdinievole.
<B>CXLIII</B>
<I>Come i Melanesi e' Pisani si riconciliarono col papa e co la Chiesa, e furono ricomunicati per l'offese fatte per lo Bavero e antipapa.</I>
Del mese di settembre del detto anno apo la città di Vignone, ov'era la corte di Roma, i Milanesi e messer Azzo Visconti che n'era signore furono riconciliati e ricomunicati da papa Giovanni, e con patti ordinati co·lloro ambasciadori si rimisono de l'offese fatte a la Chiesa nel detto papa; e messer Giovanni figliuolo che fu di messer Maffeo Visconti, il quale il Bavero avea fatto fare cardinale al suo antipapa, come adietro fu fatta menzione, sì rinunziò al detto cardinalato; e 'l papa il fece vescovo di Noara, e levò lo 'nterdetto di Milano e del contado. E per simile modo il detto papa riconciliò e assolvette i Pisani, però ch'eglino aveano tanto adoperato col conte Fazio da Doneratico loro grande cittadino, il quale avea in guardia, come gli avea lasciato segretamente il Bavero quando si partì di Pisa, il suo antipapa in uno suo castello in Maremma, il quale antipapa da' detti fu ingannato e tradito, e poi mandato preso a Vignone a papa Giovanni, come innanzi faremo menzione. E fatta per gli ambasciadori de' Pisani ch'erano a corte la detta convegna con grandi vantaggi del detto conte Fazio, che 'l papa gli donò il castello di Montemassi, ch'era dell'arcivescovado, e altri ricchi doni e benifici ecclesiastichi, e così ad altri grandi cittadini di Pisa che seguirono la 'mpresa, e fattine assai cavalieri papali con ricchi doni. E tornati i detti ambasciadori in Pisa, il gennaio appresso si publicò in Pisa il trattato e l'accordo, e in pieno parlamento, e in mano d'uno legato cherico oltramontano mandato per lo papa, tutti i Pisani giurarono nella chiesa maggiore d'essere sempre ubbidenti e fedeli di santa Chiesa e nimici del Bavero e d'ogn'altro signore che venisse in Italia sanza la volontà della Chiesa.
<B>CXLIV</B>
<I>Come il legato di Toscana ebbe Viterbo, e mise in pace tutto il Patrimonio, e simile la Marca.</I>
Nel detto anno e mese di settembre Salvestro de' Gatti, il quale tenea per tirannia la signoria de la città di Viterbo, e contra la Chiesa, fu a tradimento morto in Viterbo da uno figliuolo del prefetto, e corse la terra e ridussela a l'obedienza della Chiesa. E poi a l'entrante di novembre vegnente messer Gianni Guatani degli Orsini cardinale e legato in Toscana venne a Viterbo, e fece riformare la città e tutte le terre del Patrimonio in pace e in buono stato sotto la signoria de la Chiesa. E in questo tempo medesimo tutte le terre de la Marca si pacificarono e tornaro a l'ubbidenza di santa Chiesa, rimanendo le parti de le terre ciascuna in suo stato.
<B>CXLV</B>
<I>Come il Bavero raunò sua gente in Parma credendosi avere la città di Bologna, e poi come si partì d'Italia e andonne in Alamagna.</I>
Nel detto anno, a l'entrante del mese d'ottobre, il Bavero che si tenea imperadore, il quale era a la città di Pavia, venne a Chermona, e poi a dì XVII di novembre venne a Parma, e là si trovò con cavalieri che gli mandò il vicario suo da Lucca, con più di MM cavalieri oltramontani, con intendimento d'avere la città di Bologna, e di torla al legato del papa messer Beltrando dal Poggetto che v'era dentro per la Chiesa. E ciò si cercava per certo trattato fatto per certi Bolognesi e altri; il quale trattato fu scoperto, e fatta giustizia di certi traditori, come innanzi nel seguente capitolo si farà menzione. E vedendo il detto Bavero che 'l suo proponimento non gli era venuto fatto, a dì VIIII di dicembre seguente si partì di Parma con ambasciadori de' maggiori caporali di Parma e di Reggio e di Modana, e andonne a Trento per parlamentare con certi baroni de la Magna e co' tiranni e signori di Lombardia, per ordinare al primo tempo d'avere nuova gente e forte braccio per venire sopra la città di Bologna, e per torre il contado di Romagna a la Chiesa. E stando al detto parlamento, ebbe novelle de la Magna com'era morto il dogio d'Osterichi, eletto che fu a re de la Magna e istato suo aversario, incontanente lasciò tutto il suo esordio d'Italia e andonne in Alamagna, e poi non passò di qua da' monti.
<B>CXLVI</B>
<I>Come la città di Bologna volle essere tradita e tolta al legato cardinale per lo Bavero.</I>
Nel detto anno, del mese d'ottobre, cospirazione fu fatta nella città di Bologna per torla e rubellarla al detto legato cardinale, che dentro v'era per la Chiesa; e a·cciò era capo Ettor de' conti da Panigo con ordine de' Rossi da Parma, perché 'l detto legato tenea in pregione Orlando Rosso per lo modo che dicemmo adietro. E a questo trattato teneano l'arciprete di Bologna de la casa de' Galluzzi, e messer Guido Sabatini, e più altri grandi e popolari di Bologna, dispiacendo loro la signoria del legato. E co·lloro tenea mano Alberghettino de' Manfredi, il qual'era per lo legato levato di sua signoria di Faenza, e tenealo in Bologna intorno di sé a' suoi gaggi. E era l'ordine che 'l Bavero detto imperadore, il quale era venuto da Pavia a Parma colle sue forze, come nel capitolo dinanzi dicemmo, dovea venire a Modana e fare cavalcare parte di sua gente in Romagna; per la qual cavalcata con ordine del detto Alberghettino doveano fare rubellare Faenza e mettervi la detta cavalleria; e come le masnade della Chiesa per la detta venuta del Bavero e cavalcata di sua gente fossono uscite di Bologna per andare a le frontiere, come per lo legato era ordinato, si dovea levare la città di Bologna a romore per quegli caporali che guidavano il trattato, e loro seguaci; e il detto Ettor da Panigo con Guidinello da Montecuccheri con grande quantità di fanti e masnadieri a piè doveano al giorno nomato venire dalle montagne in Bologna con quegli cittadini ch'aveano fatta la congiura, e con loro séguito, ch'erano molti, cacciarne i·legato e sua gente, e mettervi dentro il Bavero co le sue genti. La quale congiurazione fu scoperta segretamente al legato per alcuno seguace de' congiurati, credendosene valere di meglio; per la qual cosa il legato fece pigliare il detto Alberghettino, e l'arciprete de' Galluzzi, e 'l detto messer Guido, e Nanni de' Dotti cognato d'Ettor da Panago, e più altri grandi cittadini e popolani di Bologna. Ma il detto Ettor non poté avere, perché già era a la montagna a raunare suo isforzo. E disaminata la detta congiura, e confessata per gli detti traditori, il legato trovò che la congiura era sì grossa, e tanti e tali cittadini di Bologna vi teneano mano, ch'egli non s'ardia a farne fare giustizia, con tutta la forza delle sue masnade, dubitando forte che la città di Bologna non si levasse a furore contra lui; e bisognavagli bene, avendo così di presso il Bavero e le sue forze. Per la qual cosa il legato mandò per aiuto di gente al Comune di Firenze perché fossono a la sua guardia; i quali Fiorentini gli mandarono di presente CCC cavalieri de le migliori masnade ch'avessono, e IIIIc balestrieri tutti soprasegnati di soprasberghe, il campo bianco e 'l giglio vermiglio, molto bella e buona gente, de' quali avea la 'nsegna del Comune di Firenze messer Giovanni di messere Rosso de la Tosa. E come la detta gente fu venuta in Bologna, il legato fu rassicurato e forte, e al terzo dì fece al suo maliscalco, armata tutta sua gente e quella de' Fiorentini, in su la piazza di Bologna mozzare il capo a' sopradetti presi caporali de la congiura, salvo che l'arciprete, perch'era sacro, fece morire d'inopia inn-orribile carcere.
E di queste cose io posso rendere testimonio, ch'io era allora in Bologna per ambasciadore del nostro Comune al legato. E se non fosse il soccorso che 'l nostro Comune vi mandò così sùbito, la città di Bologna era perduta per la Chiesa, e prendea stato d'imperio e ghibellino; e il legato e sua gente in pericolo di morte, o d'esserne cacciati, sì era la terra in grande gelosia, e pregna di male talento contra il legato e sua gente: e per cagione di ciò ritenne il legato più mesi la detta gente de' Fiorentini al suo servigio e guardia a' gaggi de' Fiorentini; ma male fu gradito per lo legato sì fatto e tale servigio de' Fiorentini, come innanzi si potrà vedere, ove tratteremo de' suoi processi.
<B>CXLVII</B>
<I>Come i Pistolesi diedono il loro castello di Serravalle in guardia al Comune di Firenze.</I>
Nel detto anno, a dì XI di novembre, il Comune di Pistoia diedono in guardia il loro caro e forte castello di Serravalle al Comune di Firenze per tre anni liberamente; e ciò fu procaccio de' Panciatichi, e de' Muli, e de' Gualfreducci, e Vergiolesi, con anche case ghibelline, i quali amavano pace co' Fiorentini e buono stato de la loro città, e furono quegli che prima ordinarono la pace co' Fiorentini, e diedono loro la terra di Pistoia a guardia, come adietro facemmo menzione. La quale dazione di Serravalle fu molto cara e gradita per gli Fiorentini, e d'allora innanzi parve loro stare sicuri de la città di Pistoia, però ch'era e è gran fortezza, e quasi la chiave e porta del nostro piano e di quello di Pistoia; e ancora si può dire la rocca di Pistoia è l'entrata in Valdinievole, e di quello potere difendere le nostre castella e frontiere, e guerreggiare il contado di Lucca. E poi più tempo appresso stette sotto la guardia e signoria de' Fiorentini con grande pace e buono stato de la città di Pistoia, e d'allora innanzi i Fiorentini cominciarono a strignere più l'assedio di Montecatini.
<B>CXLVIII</B>
<I>Come i figliuoli di Castruccio vollono torre la città di Lucca a messer Gherardino Spinoli.</I>
Nel detto tempo per le feste di Natale, a dì XXVII di dicembre, i figliuoli di Castruccio co·lloro amici e colle masnade vecchie de' Tedeschi ch'erano stati al soldo e amici di Castruccio credettono torre la signoria di Lucca a messer Gherardino; e con armata mano, a cavallo e a piè corsono la città di Lucca gridando: "Vivano i duchini!", da la mattina infino all'ora di terza sanza contasto alcuno. Onde messer Gherardino temette forte, e se non fosse ch'egli era nel castello de l'Agosta, egli perdeva la terra; ma rasicurato per lo conforto de' buoni uomini di Lucca ch'amavano la sua signoria, s'afforzò e fece armare sua gente, e apresso mangiare uscì de l'Agosta, e corse la città di Lucca infino a sera gridando: "Muoiano i traditori e viva messer Gherardino!". Per la qual cosa i figliuoli di Castruccio e' caporali di loro seguaci uscirono di Lucca e andarsene a·lloro castella, e messer Gherardino rimase signore, e molti Lucchesi de la setta castruccina mandò a' confini, e cassò e cacciò via le masnade vecchie, e rinovossi di soldati tedeschi di Lombardia; e molti de' suoi amici e consorti e parenti fece venire da Saona in Lucca per sicurtà di lui. E per le dette novità di Lucca i Fiorentini crebbono gente all'assedio di Montecatini, e credettollo avere con poca fatica e per loro gagliardia, la qual cosa venne allora manco il loro aviso; che a dì XVII di febbraio alquanti dell'oste de' Fiorentini ch'erano allo assedio di Montecatini, di notte tempore con iscale e difici di legname assalirono il castello e scalarono le mura, e parte di loro entrarono dentro valentemente; ma quegli de la terra erano sì forti e sì avisati, e di guerresche masnade, che ruppono gli asalitori, e quanti dentro n'erano entrati rimasono presi e morti.
<B>CXLIX</B>
<I>Come i Turchi e' Tartari sconfissono i Greci di Gostantinopoli.</I>
Negli anni di Cristo MCCCXXX, essendo la forza e oste dello 'mperadore di Gostantinopoli passato la bocca d'Avida in su la Turchia per guerreggiare i Turchi, i quali Turchi mandarono per aiuto a' Tartari de la Turchia; e venuti con grande esercito assalirono l'oste de' Cristiani e Greci, e misongli inn-isconfitta, e pochi ne scamparono che non fossono presi o morti; e perderono tutta la terra di là dal braccio San Giorgio, che poi non v'ebbono i Greci nullo podere o signoria. E eziandio i detti Turchi con loro legni armati corsono per mare, e presono e rubarono più isole d'Arcipelago; per la qual cosa molto abassò lo stato e podere dello 'mperadore di Gostantinopoli. E poi continuamente ogn'anno feciono loro armate, quando di Vc e VIIIc legni tra grossi e sottili, e correano tutte l'isole d'Arcipelago rubandole e consumandole, e menandone gli uomini e le femmine per ischiavi, e molti ancora ne feciono loro tributari.
<B>CL</B>
<I>Come il re d'Inghilterra fece tagliare la testa al conte di Cantibiera suo zio e il Mortimiere.</I>
Nel detto anno MCCCXXX, del mese di marzo, il giovane Adoardo re d'Inghilterra fece prendere il conte di Cantibiera suo zio, fratello carnale del padre, e oppuosegli cagione ch'egli ordinava congiura contra lui per rubellargli l'isola d'Inghilterra e per torgli la signoria, per la qual cosa gli fece mozzare la testa; onde fu molto ripreso, e detto gli fece torto, e che non era colpevole. Ben si trovò che 'l detto conte per consiglio d'indovini entrò in fantasia, e feciollo intendente che Adoardo suo fratello, e ch'era stato re d'Inghilterra e fatto morire, come adietro de' fatti d'Inghilterra facemmo menzione, dovea essere vivo e sano; per la qual cosa il detto conte suo fratello facea cercare di ritrovarlo, e mettevasene inchesta, ond'avea molto sommosso il paese. E poi del mese d'ottobre vegnente fece cogliere cagione al Mortimiere, il quale era stato governatore del reame e della reina sua madre, quand'ebbe la guerra col marito e co' dispensieri, opponendogli tradigione, e fecelo impiccare; si disse sanza colpa. E tali sono i guidardoni a chi s'impaccia tra' signori, o·ssi rivolge negli innormi peccati; che si dicea che 'l detto Mortimiere si giacea co la reina madre del detto re; e d'allora innanzi il re abassò molto la signoria e lo stato de la reina sua madre.
<B>CLI</B>
<I>Come i Fiorentini per loro ordini tolsono tutti gli ornamenti a le loro donne.</I>
Nel detto anno, per calen d'aprile, essendo le donne di Firenze molto trascorse in soperchi ornamenti di corone e ghirlande d'oro e d'argento, e di perle e pietre preziose, e reti e intrecciatoi di perle, e altri divisati ornamenti di testa di grande costo, e simile di vestiti intagliati di diversi panni e di drappi rilevati di seta di più maniere, con fregi e di perle e di bottoni d'argento dorato ispessi a quattro e sei fila accoppiati insieme, e fibbiagli di perle e di pietre preziose al petto con diversi segni e lettere; e per simile modo si facevano disordinati conviti per le nozze de le spose, ed altri con più soperchie e disordinate vivande; fu sopra·cciò proveduto, e fatti per certi uficiali certi ordini molto forti, che niuna donna non potesse portare nulla corona né ghirlanda né d'oro né d'ariento né di perle né di pietre né di vetro né di seta né di niuna similitudine di corona né di ghirlanda, eziandio di carta dipinta, né rete né trecciere di nulla spezie se non semplici, né nullo vestimento intagliato né dipinto con niuna figura, se non fosse tessuto, né nullo addogato né traverso, se non semplice partita di due colori; né nulla fregiatura né d'oro, né d'ariento, né di seta, né niuna pietra preziosa, né eziandio ismalto, né vetro; né potere portare più di due anella in dito, né nullo scaggiale né cintura di più di XII spranghe d'argento; e che d'allora innanzi nulla si potesse vestire di sciamito, e quelle che·ll'aveano il dovessono marcare, acciò ch'altra nol potesse fare; e tutti' vestiri di drappi di seta rilevati furono tolti e difesi; e che nulla donna potesse portare panni lunghi dietro più di due braccia, né iscollato di più di braccia uno e quarto il capezzale; e per simile modo furono difese le gonnelle e robe divisate a' fanciulli e fanciulle, e tutti' fregi, e eziandio ermellini, se non a' cavalieri e a loro donne; e agli uomini tolto ogni ornamento e cintura d'argento, e' giubbetti di zendado o di drappo o di ciambellotto. E fu fatto ordine che nullo convito si potesse fare di più di tre vivande, e a nozze avere più di XX taglieri, e la sposa menare VI donne seco e non più; e a·ccorredi di cavalieri novegli più di C taglieri di tre vivande; e che a corte de' cavalieri novelli non si potessono vestire per donare robe a' buffoni, che in prima assai se ne donavano. Sopra i detti capitoli feciono uficiale forestiere a cercare e donne e uomini e fanciulli de le dette cose divietate con grandi pene. Ancora feciono ordine sopra tutte l'arti in correggere loro ordini e monipoli e posture, e che ogni carne e pesce si vendesse a peso per certo pregio la libbra. Per gli quali ordini la città di Firenze amendò molto delle disordinate spese e ornamenti a grande profitto de' cittadini, ma a grande danno de' setaiuoli e orafi, che per loro profitto ogni dì trovavano ornamenti nuovi e diversi. I quali divieti fatti, furono molto commendati e lodati da tutti gl'Italiani; e se le donne usavano soperchi ornamenti, furono recare al convenevole; onde forte si dolfono, ma per li forti ordini tutte si rimasono degli oltraggi; ma per non potere avere panni intagliati, vollono panni divisati e istrangi, i più ch'elle poteano avere, mandandoli a fare infino in Fiandra e in Brabante, non guardando a costo; ma però molto fu grande vantaggio a tutti i cittadini in non fare le disordinate spese nelle loro donne e conviti e nozze, come prima faceano; e molto furono commendati i detti ordini, però che furono utoli e onesti; e quasi tutte le città di Toscana e molte altre d'Italia mandarono a Firenze per asempro de' detti ordini, e confermargli nelle loro città.
<B>CLII</B>
<I>Come messer Gherardino Spinola signore di Lucca cavalcò con suo isforzo per fornire Montecatini, e nol poté fornire.</I>
Nel detto anno, a dì XXIII d'aprile, Ispinetta de' marchesi Malispina venne di Lombardia in Lucca con gente d'arme; per la qual cosa messer Gherardino Spinola signore di Lucca con sue masnade a cavallo e a piè e col detto Spinetta cavalcarono per fornire Montecatini, e presono la rocca uzzanese, e iv'entro due degli Obizzi usciti di Lucca e L fanti, che co·lloro erano per lo Comune di Firenze a la guardia di quella. Ma però non poterono fornire Montecatini né appressarsi ad esso, però che' Fiorentini aveano afforzato l'assedio e fatte per loro fosse e tagliate in verso la parte di Lucca, e volto in quelle il fiume de la Pescia e de la Borra; e tornarsi in Lucca con poco onore. E poi a dì II di maggio vegnente il detto messer Gherardino raunata più gente e avuto da' Pisani aiuto, come sono usati per adietro, con VIc cavalieri e IIIc balestrieri, fece ancora pugna di fornire Montecatini, e venne con sue genti infino a' palizzati e oste de' Fiorentini, e di ciò gli avenne come l'altra volta; e per simile modo, e per le dette fosse e tagliate, non vi poté apressare né quelle passare, perché nell'oste de' Fiorentini avea più di M cavalieri e popolo grandissimo. E nota lettore che da piè di Serravalle infino a Buggiano per gli Fiorentini era affossato e steccato e imbertescato spesso tutta la detta bastita, il campo e l'assedio de' Fiorentini con guardie per tutto, e i detti fossi pieni d'acqua e accozzati insieme, e messi in quegli il fiume della Nievola e quello della Borra; la quale bastita tenea più di sei miglia nel piano; e da la parte del monte tra le castelletta d'intorno e altri battifolli per gli poggi e tagliate fatte e barre di legname messi, dove stavano di dì e di notte guardie con grossa gente a piè, erano più di XII poste di battifolli, sì che di Montecatini non potea uscire né entrare gente né vittuaglia, se non quello che si prendeano in preda nelle pendici e circustanze del poggio. E girava la detta impresa e guardia de' Fiorentini da XIIII miglia; che fu tenuta grande cosa e ricca impresa a chi la vide, che fummo noi di quegli. Che certo la bastita e la cinta de' fossi e di steccati che si legge fece Giullo Cesare al castello d'Aliso in Borgogna, ch'ancora si vede il porpreso, non fu maggiore né così grande, come quello che' Fiorentini feciono intorno a Montecatini. Lasceremo alquanto de' fatti de' Fiorentini e dell'assedio di Montecatini per raccontare altre novità state in questi tempi inn-altri paesi, ritornando poi assai tosto a nostra materia, come i Fiorentini ebbono per fame il detto Montecatini.
<B>CLIII</B>
<I>Come il maliscalco de la Chiesa e gente del re Ruberto furono sconfitti presso de la città di Modana da' Modanesi.</I>
Nel detto anno MCCCXXX, a dì XXIIII d'aprile, tornando da Reggio messer Beltramone e messer Ramondo del Balzo, e messer Galeasso fratello del re Ruberto bastardo, ch'erano in Lombardia per lo detto re al servigio de la Chiesa, e 'l maliscalco de la Chiesa e del legato con molta buona gente d'arme in quantità di VIc cavalieri, i quali erano al servigio del legato ch'era in Bologna, credendo avere la villa di Formigine presso a Modana a VI miglia, com'era loro promessa per tradimento, sentendo ciò il signore di Modana, la notte dinanzi cavalcò col popolo di Modana, e con CCC cavalieri a la detta terra di Formigine. E la mattina trovandosi ingannati la detta gente de la Chiesa, e sentendo la venuta di quegli di Modana, temettono che non fosse aguato di più grossa gente che non erano, e ridussonsi schierati in su uno prato assai presso de la terra; e non s'avidono che 'l detto prato era affossato e impadulato d'intorno. Quegli di Modana, conoscendo il luogo, uscirono fuori francamente, e presono l'entrata del detto prato, e rinchiusono i detti cavalieri, i quali non poteano combattere né si poteano partire per gli pantani e fossi d'intorno; e quale si mise per combattere rimase morto da' pedoni ch'erano in su le ripe de' fossi, che tutti i cavagli scontravano co le lance, e meglio e più potea uno pedone che uno cavaliere; e per questo modo la detta gente furono la maggiore parte presi e menati in Modana, che pochi ne scamparono. La quale fu tenuta una grande disaventura, e fu grande isbigottimento al legato cardinale ch'era in Bologna, e a tutta la parte de la Chiesa di Lombardia e di Toscana.
<B>CLIV</B>
<I>Come papa Giovanni per paura non lasciò passare in Proenza il conte d'Analdo.</I>
Nel detto mese d'aprile, vegnendo il conte d'Analdo a la corte del papa a Vignone con sua gente intorno di VIIIc cavalieri per avere la benedizione del papa, e per andare sopra i Saracini di Granata per uno suo boto e pellegrinaggio, e essendo già in Ricordana, papa Giovanni prese di sua venuta il maggiore sospetto del mondo, perché 'l detto conte era suocero del Bavero detto imperadore suo nimico; e mandò per lo siniscalco di Proenza e per tutti i cavalieri e baroni del paese che fossono in Vignone con arme e cavagli, e tutte le sue famiglie e de' cardinali e prelati fece armare, e tutti i cortigiani per sua guardia; e trovarsi i Fiorentini da C in arme a cavagli coverti, molto bella gente, sanza i Fiorentini a piè, che furono più di CCC armati. E ciò fatto, il papa mandò comandando al conte d'Analdo che non dovesse venire in Proenza sotto pena di scomunicazione, assolvendolo del suo boto se tornasse adietro, il quale conte per non disubbidire il papa si tornò in Analdo.
<B>CLV</B>
<I>Come il legato fece oste sopra Modana, e tornò con poco onore.</I>
A l'entrante del mese di giugno nel detto anno, i Parmigiani ribelli del legato e de la Chiesa ebbono il borgo a San Donnino, il quale tenea la gente del legato; per la qual cosa, e ancora per la sconfitta ricevuta la sua gente da' Modanesi, il detto legato fece fare sua oste e cavalcata sopra Modana di più di MD cavalieri, e andarono infino presso a la terra guastando; e poi tornando i Modanesi, coll'aiuto de' Parmigiani e Reggiani cavalcarono appresso l'oste de la Chiesa presso di Bologna a VI miglia infino in sul fosso de la Muccia con VIIIc cavalieri e IIIm pedoni, e affrontarsi, il detto fosso in mezzo; ma non s'ardì l'oste de la Chiesa combattere, che essendo tanta cavalleria più di loro nimici, fu tenuta grande viltade. Lasceremo delle 'mprese del legato di Lombardia, e torneremo a' fatti dell'oste de' Fiorentini, e com'ebbono il castello di Montecatini.
<B>CLVI</B>
<I>Come i Fiorentini per lungo assedio ebbono il forte castello di Montecatini.</I>
Nel detto anno, a dì XI di giugno, venuto soccorso da' Lombardi a messer Gherardino Spinola signore di Lucca di CCCCL cavalieri tedeschi, onde si trovò colle sue masnade e' Pisani e altri amici con più di MCC cavalieri e popolo grandissimo, uscì fuori a oste per soccorrere Montecatini, il quale era molto a lo stremo di vittuaglia per l'assedio de' Fiorentini, e puosesi a campo nel luogo detto... E come furono acampati, scandalo nacque tra messer Gherardino e messer Francesco Castracani, e fu fedito messere Gherardino da uno degl'Interminelli, e fuggìsi quegli in Buggiano, onde fu preso messer Francesco e' suoi seguaci e alcuno conastabole e mandati a Lucca, e alcuno giustiziato. I Fiorentini rinforzata loro oste di quantità di MVc cavalieri, co·lloro amistà e popolo grandissimo, e' s'accamparono il grosso dell'oste in sul Brusceto, quasi a lo 'ncontro dell'oste de' Lucchesi, il fosso e steccato in mezzo, e nondimeno fornite di guardie il procinto e la pieve sotto Montecatini. E dell'oste de' Fiorentini era capitano messer Alamanno degli Obizzi uscito di Lucca, con certi cavalieri di Firenze grandi e popolani pur de' maggiori e più savi e sperti in guerra, i nomi de' quali sono questi: messer Biagio Tornaquinci, messer Giannozzo Cavalcanti, messer Francesco de' Pazzi, messer Gerozzo de' Bardi, messer Talento Bucelli, e altri donzelli grandi e popolani capitani de le masnade de' pedoni. Messer Gherardino e sua gente feciono più assalti al fosso de' Fiorentini e in più parti; ma poco poterono accedere, che in tutte parti furono riparati. E richiesono i Fiorentini di battaglia, ma gli Fiorentini per loro vantaggio non la vollono prendere. A la fine, a dì XXII di giugno anzi il giorno, armata l'oste de' Lucchesi e schierati, e mandati privatamente la notte dinanzi CCCL cavalieri e Vc pedoni de le migliori masnade ch'avessono, ond'era capitano il Gobbole tedesco molto maestro di guerra, con Burrazzo de' conti da Gangalandi, e altri usciti di Firenze, e con Luzzimborgo fratello di messer Gherardino, e cavalcarono infino presso a Serravalle e dirimpetto a·luogo detto la Magione, ove avea meno guardia, e passarono per forza il ponte a la Gora sopra la Nievole, e vennono a la Pieve, e a quella combatterono co la guernigione e guardie di quella, che v'avea da C cavalieri e popolo assai per gli Fiorentini; e sconfissongli, e presono e menarono in Montecatini messer Iacopo de' Medici e messer Tebaldo di Ciastiglio conastabole francesco, e più altri. E l'oste de' Lucchesi, veduto per gli loro preso il passo, si ritrassono verso quella parte schierati per rompere l'oste de' Fiorentini e fornire il castello. Ma ciò veggendo l'oste de' Fiorentini, vi mandarono soccorso di Vc cavalieri e pedoni assai, i quali vi furono vigorosamente e sì presti, che non lasciarono passare più de la gente de' Lucchesi; e quegli ch'erano passati non poterono ritornare adietro sanza pericolo di loro, onde si ricolsono al poggio di Montecatini, e là su istando, feciono molti assalti all'oste e alle bastite de' Fiorentini di dì e di notte; e dall'altra parte facea il simile messer Gherardino co lo rimanente dell'oste de' Lucchesi da la parte di fuori.
E ciò veggendo i Fiorentini e' capitani di Firenze, e considerando il grande porpreso che la loro oste aveano a guardare, sì rifornirono l'oste di molte genti a piè cittadini di volontà, e per l'ordine di tutte l'arti che vi mandarono, e la parte guelfa e altri possenti singulari, e il Comune masnade di forestieri a soldo; onde si radoppiò l'oste di gente a piè, e mandovisi la podestà e altri cittadini, perché 'l capitano dell'oste era malato. E stato messer Gherardino alla punga per fornire il castello, o per ricoverare quegli ch'erano di là passati, per ispazio d'otto giorni, e veggendo che la sua potenzia non potea resistere a quella de' Fiorentini, e la sua oste era diminuita per quegli ch'erano inchiusi in Montecatini, e col rimanente di sua oste stava a grande rischio, si partì del campo, e ritrassesi con sua oste parte a Pescia e parte a Vivinaia; e poi si tornò in Lucca con poco onore e con grande sospetto, abandonando al tutto Montecatini. I Fiorentini apresso strinsono l'assedio, ponendo uno battifolle a·luogo detto le Quarantole, sì presso al castello, che tolsono le fontane di fuori, per modo che que' d'entro non avendo più di che vivere di vittuaglia, e male acque per bere, patteggiarono di rendere il castello liberamente al Comune di Firenze, salve le loro persone, arme e cavagli. E ciò fu a dì XVIIII di luglio del detto anno; e così fu fatto, e uscitine le masnade a cavallo e a piè de' Lucchesi, i Fiorentini v'entrarono con grande allegrezza, che v'erano stati ad assedio per più di XI mesi, e non vi si trovò dentro vittuaglia per tre dì.
<B>CLVII</B>
<I>Come in Firenze ebbe grande quistione di disfare Montecatini.</I>
Ne la detta punga e presa di Montecatini fu grande abbassamento de lo stato di messer Gherardino signore di Lucca e de' Lucchesi, e esaltazione e grandezza de' Fiorentini, sì come d'una grande vittoria. E preso Montecatini, in Firenze n'ebbe grande quistione, e più consigli se ne tennono di disfarlo al tutto o di lasciarlo in piede. A molti parea di disfarlo per iscemare spesa di guardia e di guerra al Comune, e perpetuo segno e memoria di vendetta per la sconfitta che' Fiorentini v'ebbono a piede per cagione di quello, l'anno MCCCXV, da Uguiccione da Faggiuola e Pisani e Lucchesi, come adietro facemmo menzione. Altri consigliarono che non si disfacesse, però che' Montecatinesi erano naturalmente Guelfi e amatori del Comune di Firenze, e per novello e per antico: ricordandosi che al tempo che gli usciti guelfi di Firenze furono cacciati di Lucca per la forza del re Manfredi e de' Ghibellini di Toscana, come in questa cronica al detto tempo si fece menzione, nulla terra di Toscana, città, o castello gli volle ritenere, altro che quegli di Montecatini, ch'al tutto a·lloro si profersono e si vollono dare, per la qual cosa mai non furono amici de' Lucchesi, ma gli perseguirono infino che gli ebbono messi per forza sotto loro soggezzione, che prima erano esenti, e comunità per loro. Per questa cagione, e ancora perché nonn-era finita la guerra da' Fiorentini a' Lucchesi, e Montecatini è una forte terra e grande frontiera, e quasi in corpo del contado di Lucca, per potere fare guerra a Lucca si diliberò di lasciarlo in piede, e rimisonvisi i Guelfi usciti, e giurarono la fedeltà perpetua del Comune di Firenze, e promisono le fazzioni reali e personali sì come propia terra del contado di Firenze, e sempre per la festa di santo Giovanni di giugno offerere in Firenze a la sua chiesa uno ricco cero co la figura del detto castello; e' Fiorentini gli presono a loro guardia e libertà e difensione, come a·lloro amati suditi. E nota che 'l detto nome di Montecatino si è Monte Catellino, però che Catellina uscito di Roma di prima il puose per sua fortezza, e là si ridusse quando uscì di Fiesole, innanzi che da' Romani fosse sconfitto nel piano di Picceno, detto oggi Peteccio, assai ivi di presso vicino. E questo troviamo per autentica cronica; ma per lo scorso e corrotto volgare è mutato il nome di Catellino in Catino; e nonn-è da maravigliare se quello sito hae avute molte mutazioni e battaglie, però che di certo è de le reliquie di Catellina.
<B>CLVIII</B>
<I>Come in questi tempi scurò il sole e la luna.</I>
Nel detto anno, a dì XVI del mese di luglio, alquanto dopo l'ora di Vespro, iscurò il sole quasi la metade ne la fine del segno del Cancro, e l'opposizione andata dinanzi de la luna e del sole, scurò la luna nel Sagittario. E poi, a dì XXVI di dicembre vegnente, scurò tutta la luna nel segno del Cancro; per la qual cosa e per certi savi astrolagi si disse dinanzi, intra l'altre cose, significava che, con ciò sia cosa che 'l segno del Cancro sia attribuito per l'ascendente de la città di Lucca, ch'eglino doveano avere molte ditrazioni e abbassamento, come ebbono per lo 'nnanzi a·lloro avenne per l'assedio che' Fiorentini feciono a la città di Lucca, e altre mutazioni e aversità ch'ebbono poi, come apresso faremo menzione. Lasceremo alquanto de' fatti e guerra da' Fiorentini a' Lucchesi, e diremo d'altre novità istate ne' detti tempi per altri paesi.
<B>CLIX</B>
<I>Come il re Filippo di Francia venne a Vignone al papa a parlamentare co·llui.</I>
Nel detto anno, a l'entrante del mese di luglio, il re Filippo di Francia venne in Proenza sotto titolo di pellegrinaggio a Santa Maria di Valverde e a Marsilia a vicitare il corpo di santo Lodovico vescovo che fu di Tolosa, e figliuolo che fu del re Carlo secondo, e venne con poca compagnia, se non con sua privata famiglia. E fornito il suo pellegrinaggio venne a Vignone, e con papa Giovanni stette più d'otto dì a segreto consiglio da·llui al papa sanza altra persona, ragionando di più cose e trattati, che non si poté sapere. Dissesi sopra il passaggio per lui ordinato oltremare e altre mene d'Italia, che poi per l'esecuzioni si scopersono, come innanzi faremo menzione. E ciò fatto, sanza soggiorno il re si tornò in Francia.
<B>CLX</B>
<I>Di certe osti che furono in Lombardia.</I>
Nel detto anno e mese di luglio i signori de la Scala di Verona feciono oste sopra la città di Brescia, e tolsono loro più castella in bresciana; e il legato di Lombardia fece fare oste sopra la città di Modana infino a' borghi, e guastarla intorno intorno, e tornarsi a Bologna.
<B>CLXI</B>
<I>Di certo tradimento ordinato in Pisa, e come i Pisani mandarono preso l'antipapa a papa Giovanni a Vignone.</I>
Nel detto anno e mese di luglio ne la città di Pisa era ordinata cospirazione, ond'era capo messer Gherardo del Pellaio de' Lanfranchi, per cagione che a·llui e alla sua setta parea che quegli che reggeano la terra fossono contra parte imperiale, e tenessono troppo colla Chiesa e co' Fiorentini, overo per invidia de la signoria. La quale congiura scoperta, il detto messer Gherardo e più suoi seguaci si partirono di Pisa, e furono condannati per rubelli, e IIII popolani che ne furono presi come traditori furono impiccati. E ciò fatto, a dì IIII d'agosto vegnente, il Comune di Pisa in accordo col conte Fazio mandarono l'antipapa preso a Vignone in su due galee provenzali armate, con certo ordine e patti trattati per loro ambasciadori col papa. Il quale antipapa giunse a Vignone a dì XXIIII d'agosto, e poi il dì seguente in piuvico concestoro dinanzi al papa e' cardinali e tutti i prelati di corte il detto antipapa col capestro in collo si gittò a' piè del papa cheggendo misericordia; e con bello sermone e autorità si confessò peccatore e eretico col Bavero insieme che fatto l'avea, mettendosi a la mercé del papa e de la Chiesa. Per la qual cosa il papa risposto al suo sermone saviamente, co·llagrime, più per soperchia allegrezza, si disse, che per altra pietade, il levò colle sue mani di terra e basciollo in bocca e perdonogli, e fecegli dare una camera sotto la sua tesoreria e libri da leggere e studiare; e vivea de la vivanda del papa, faccendolo tenere sotto cortese guardia, non lasciandogli parlare ad alcuna persona. E in questo modo vivette poi tre anni e uno mese; e lui morto, fu soppellito onorevolemente a la chiesa de' frati minori in Vignone in abito di frate. Di questo inganno e tradimento fatto per gli Pisani dell'antipapa il Comune di Pisa e il conte Fazio ne furono in grande grazia di papa Giovanni, e ciò che voleano aveano in sua corte, e mandava in Pisa da XX robe da cavalieri; onde i Fiorentini e gli altri Comuni di Toscana istati sempre fedeli e amatori di santa Chiesa molto ne sdegnarono.
<B>CLXII</B>
<I>Come il re di Spagna sconfisse i Saracini di Granata.</I>
Nel detto anno, del mese d'agosto, il re di Castello e di Spagna essendo ad assedio d'uno castello del re di Granata, l'oste de' Saracini di Granata vegnendolo per soccorrere furono sconfitti e morti, e presi più di XVm Saracini, e lo re di Spagna ebbe la terra.
<B>CLXIII</B>
<I>D'una nuova e bella limosina che uno nostro cittadino lasciò a' poveri di Cristo.</I>
Del mese di settembre del detto anno morì in Firenze uno nostro cittadino di piccolo affare, che non avea figliuolo né figliuola, e ciò ch'avea lasciò per Dio per ordinato testamento; e intra gli altri legati che fece lasciò che a tutti i poveri di Firenze, i quali andassono per limosine, fossono dati danari VI per uno. E per gli suoi esecutori fu ordinato per bando che in ciascuno sesto, ne le maggiori chiese di quegli sesti, in una mattina si raunassono tutti i poveri, e in quelle rinchiusi, perché non andassono dall'una chiesa a l'altra; e dando a ciascuno povero, come n'usciva, danari VI, si trovò che montò libbre CCCCXXX di piccioli, che furono per numero più di XVIIm di persone tra maschi e femmine piccioli e grandi, sanza i poveri vergognosi e quegli degli spedali e pregioni e religiosi mendicanti, che disparte ebbono la loro limosina a danari XII l'uno, che furono più di IIIIm. La qual cosa fu tenuto gran fatto, e grandissimo numero di poveri; ma di ciò nonn-è da maravigliare, però che non solamente furono di Firenze, ma per le limosine che vi si fanno traggono di tutta Toscana e più di lungi a Firenze. Per lo gran fatto che allora fu tenuto n'avemo fatta memoria, e per dare buono esemplo a chi per l'anima sua vorrà fare limosina a' poveri di Cristo.
<B>CLXIV</B>
<I>Di certe novitadi ch'ebbe in Lucca, e come per tradimento riebbono il castello di Buggiano.</I>
Nel detto anno, a dì X di settembre, avendo messer Gherardino Spinoli signore di Lucca rimessi in Lucca per accordo quegli de la casa de' Quartigiani, e' Pogginghi, e gli Avogadi, e altri quando prese la signoria, che per Castruccio e gli suoi n'erano stati cacciati, come adietro facemo menzione, il detto messer Gherardino per gelosia corse la terra con sua cavalleria, e fece prendere messer Pagano Quartigiani e uno suo nipote e altri, opponendo loro che trattavano col signore d'Altopascio e co' Fiorentini di dare loro la terra. E di vero vi si mandaro bandiere a' detti per gli Fiorentini, e certo trattato era; per la qual cosa fece loro tagliare le teste. E poi, a dì XVIIII di settembre, per trattato e tradimento quegli del castello di sopra di Buggiano si rubellarono a' Fiorentini, e presono la loro podestà ch'era Tegghia di messer Bindo Bondelmonti, e renderlo a' Lucchesi; e venutavi la cavalleria di Lucca a due dì apresso, combatterono i borghi di Buggiano, ne' quali erano le guernigioni de le masnade de' Fiorentini; i quali Lucchesi vi ricevettono grande danno, che le dette masnade uscirono fuori e combatterongli e ruppono e ripinsongli nel castello. Per la quale rubellazione i Fiorentini molto turbati ordinarono di fare oste a Lucca per lo modo che seguirà apresso, onde assai ne cresce materia.
<B>CLXV</B>
<I>Come i Fiorentini puosono oste e assedio a la città di Lucca.</I>
Come i Fiorentini ebbono perduto il castello di Buggiano, sì ordinarono d'andare a oste sopra la città di Lucca, sentendola molto affiebolita; e partite le masnade di Pistoia e di Valdinievole, salirono in sul poggio del Cerruglio di notte, e quello, datovi assalto di battaglia, ebbono a patti a dì V d'ottobre del detto anno. E per simile modo ebbono il castello di Vivinaia, e Montechiaro, e San Martino in Colle, e Porcari. E poi a dì VIII d'ottobre scesono al piano e acamparsi a Lunata; e a dì X d'ottobre si strinsono all'assedio della città a mezzo miglio, prendendo il campo da la strada che vae a Pistoia a quella che va ad Altopascio; e quello campo affossaro e steccaro con bertesche e porte, e faccendovi molte case d'assi e coperte di lastre e tegoli per potervi vernare. E de la detta oste, al cominciamento, fu capitano messer Alamanno degli Obizzi uscito di Lucca con consiglio di VI cavalieri di Firenze; e avevavi al soldo de' Fiorentini XIc di soldati a cavallo al cominciamento de l'oste, e in Lucca non avea che Vc cavalieri, e poi vennono nell'oste de' Fiorentini de la gente del re Ruberto e di Siena e di Perugia da IIIIc cavalieri e popolo grandissimo. E a dì XII d'ottobre i Fiorentini vi feciono correre tre palii per vendetta di quegli che fece correre Castruccio a Firenze; il primo di quegli da cavallo fu una melagranata fitta in una lancia, e iv'entro fitti XXV fiorini d'oro nuovi; e l'altro fu di panno sanguigno, che 'l corsono i fanti a piè; e l'altro di baraccame bambagino, che 'l corsono le meretrici dell'oste. E gli detti palii si feciono tenere presso a la porta di Lucca quanto potea trarre uno balestro, armata tutta l'oste; e mandarono bando che chi di Lucca volesse uscire a correre, o vedere correre i detti palii, potesse venire e tornare salvamente; onde molti n'uscirono a vedere la festa. Intra gli altri n'uscirono CC cavalieri tedeschi armati, i quali erano usciti di Montecatini quando fu assediato, che per trattato fatto per gli Fiorentini si rimasono nel campo al soldo de' Fiorentini, ond'era capo il Gobbole tedesco, il quale poi fece molta guerra a' Lucchesi. De la quale uscita de' detti CC cavalieri grande isbigottimento ne presono i Lucchesi, e grande favore l'oste de' Fiorentini. Ma la peggiore capitaneria che nella detta oste fosse adoperata di guerra per gli Fiorentini sì fu che 'l capitano col suo consiglio non lasciarono fare guasto nullo, ma lasciarono seminare il piano delle VI migliaia d'intorno a Lucca, sotto cagione di dare esemplo a' Lucchesi di bene trattargli, acciò che si rendessono a' Fiorentini. Ma il capitano e gli altri usciti di Lucca n'aricchirono per le dette difensioni, faccendo ricomperare i contadini di Lucca, e per lo detto modo corruppono e guastarono la detta oste. E per questa cagione i Fiorentini elessono per loro capitano Cantuccio di messer Bino de' Gabbriegli d'Agobbio, la quale lezione fu fatta più per ispezialtà di setta, che ragionevole, a fare capitano uno scudiere non uso di guerra a guidare tanti gentili uomini e cavalieri e baroni, onde male n'avenne, che se difetto fu nella detta oste ne la capitaneria di messer Alamanno Obizzi, maggiore avenne per quella del detto Cantuccio; ma fu per altra forma e caso più pericoloso, come innanzi faremo menzione.
Lasceremo alquanto del detto assedio di Lucca, che vi dimorò più mesi, per raccontare d'altre cose che furono ne' detti tempi; e poi ritorneremo a nostra materia a raccontare del fine de la detta oste.
<B>CLXVI</B>
<I>Come le castella di Fucecchio e di Santa Croce e Castello Franco di Valdarno si diedono liberi al Comune di Firenze.</I>
Nel detto anno e mese d'ottobre, osteggiando i Fiorentini la città di Lucca, il castello di Fucecchio, e di Castello Franco, e di Santa Croce, i quali erano a la guardia del Comune di Firenze istati, dapoi si rivolse lo stato di parte guelfa in Lucca, di loro libera volontà e a·lloro stanza e mossa, si diedono e sottomisono al Comune di Firenze, sì come loro distrittuali e contadini con mero e misto imperio, essendo eglino trattati in Firenze come contadini e popolani, e faccendo ogni fazione di Comune, reale e personale, con giusto estimo ordinato di libbra, e dando ciascuna de le dette terre uno cero grande co la figura di quello castello a la festa del beato santo Giovanni Batista di giugno; e gli detti patti si compierono e fermarono e accettarono in Firenze a dì IIII di dicembre MCCCXXX.
<B>CLXVII</B>
<I>Come di prima il re Giovanni di Buem passò in Italia e ebbe la città di Brescia e quella di Bergamo.</I>
Nel detto anno, essendo il re Giovanni di Buem, figliuolo che fu dello 'mperadore Arrigo di Luzzimborgo, venuto in Chiarentana per certe bisogne ch'avea a·ffare col duca di Chiarentana suo cognato, e quegli della città di Brescia in Lombardia essendo in male stato, e molto oppremuti da' loro usciti e dal signore di Milano e da quegli di Verona, e dal re Ruberto, a cui i Bresciani s'erano dati, non erano soccorsi né atati (e male il potea fare per la forza de' Ghibellini di Lombardia), sì mandarono loro segreti ambasciadori con pieno sindacato al detto re Giovanni, e diedonglisi liberamente. Il Boemino, povero di moneta e cupido di signoria, accettò e prese la detta signoria, e sanza altro consiglio; e co' detti ambasciadori vi mandò CCC cavalieri, e poi incontanente apresso si mise al cammino, e giunse in Brescia con IIIIc cavalieri a dì XXXI d'ottobre MCCCXXX, e da' Bresciani fu ricevuto a grande onore come loro signore. E poco stante lui in Brescia, la città di Bergamo era in grande divisione, e combattiensi insieme i cittadini; una de le parti, che si chiamavano i Collioni, mandò al detto re Giovanni ch'egli mandasse per la terra, il quale vi mandò il suo maliscalco con CCC cavalieri, e fugli data l'entrata della terra, e caccionne la parte di..., e rimase al re Giovanni la signoria. La quale venuta in Italia del detto re Giovanni fece grande mutazione e rivoluzione, come per innanzi leggendo di suoi processi faremo menzione.
<B>CLXVIII</B>
<I>D'uno grande diluvio d'acqua che fu in Cipri e in Ispagna.</I>
Nel detto anno MCCCXXX, del mese di novembre, nell'isola di Cipri piovve quasi al continuo XXVIII dì e le notti; la qual cosa stata disusata e isformata, né mai ricordata in quello paese, per l'abondanza di quella piova crebbono sì le riviere scendendo da le montagne, che giunte a la città di Niccosia e a quella di Limisa, tutto che di loro natura siano di poca acqua, crebbono tanto che quelle città tutte allagarono diversamente, e molte case di quelle rovinaro, e tra in quelle due città e castella e maserie dell'isola vi morirono per la somersione del diluvio più di VIIIm persone. Nel detto anno per simile modo fu disordinato diluvio ne le parti di Spagna, e crebbe sì diversamente il fiume della grande città di Sibilia, che quasi pareggiò d'altezza le mura de la detta città, e se il riparo de le dette mura non fosse stato, la città profondava tutta; e di fuori de la terra fece innumerabile danno di casali profondare, e di gente anegare in grande quantità. Nel detto anno, a dì XVI di gennaio, fu morto Matteo de'... tiranno e signore di Corneto con più suoi seguaci ghibellini da' Guelfi di quella terra a romore di popolo, e' Guelfi ne rimasono signori.
<B>CLXIX</B>
<I>Come si ritrovò il corpo di santo Zenobio.</I>
A mezzo il detto mese di gennaio l'arcivescovo di Pisa fiorentino, il vescovo di Firenze, e quello di Fiesole, e quello di Spuleto fiorentino, con calonaci di Firenze e molti cherici e prelati, feciono scoprire l'altare di santo Zenobi di sotto a le volte di Santa Reparata per trovare il corpo del beato Zenobio, e convenne fare cavare sotterra per X braccia anzi che si trovasse; e trovatolo in una cassa commessa in una arca di marmo, di quello levato alquanto del suo teschio del capo, e nobilemente il feciono legare in una testa d'argento a similitudine del viso e testa del detto santo per poterlo annualmente per la sua festa con grande solennità mostrare al popolo; e l'altro corpo rimisono in suo luogo con grande devozione d'orazioni e canti, e sonando le campane del Duomo di dì e di notte per X dì quasi al continuo, dando per gli vescovi perdono al popolo che 'l vicitasse. Per la quale traslazione e indulgenzia quasi tutto il popolo e persone di Firenze devote, uomini e donne, piccoli e grandi, v'andarono a vicitarlo con grande devozione e oferta.
<B>CLXX</B>
<I>Come si levò l'oste de' Fiorentini da Lucca, e come i Lucchesi si diedono al re Giovanni di Buem.</I>
Tornando a nostra materia dell'assedio de la città di Lucca per gli Fiorentini, come lasciammo nel quinto capitolo scritto adietro, per la partita de' cavalieri tedeschi che n'uscirono, e de la venuta de la gente del re Ruberto e de' Sanesi e Perugini e altre amistà che mandarono aiuto a' Fiorentini, la detta oste crebbe assai di gente d'arme a piè e a cavallo, e quegli di Lucca scemando isbigottirono molto. Per la qual cosa i Fiorentini ordinarono ch'al tutto l'oste acircondasse la terra intorno intorno, acciò che vittuaglia né altro aiuto vi potesse entrare; ch'al continuo per gli Pisani nascosamente era fornita di gente d'arme per la guardia de la terra e di vittuaglia contra' patti de la pace. E ciò fu fatto a dì XVIIII del mese di dicembre, che una parte dell'oste valicarono gli Oseri che vanno da Pontetetto, e fecionvi su più ponti e valichi, e puosonsi a la villa di Cattaiuola alquanto di là dal detto Pontetetto, verso la parte di Pisa, ove avea ricchi e begli casamenti e giardini fatti per Castruccio; e 'l sopradetto Gobbole tedesco con sue masnade e con molti briganti a piè e fanti di volontà si puosono nel borgo del Ponte a San Piero, e in capo del prato in su la strada che vae a Ripafratta feciono una bastita, overo battifolle, guernito di gente d'arme, per lo quale circuito d'assedio i Lucchesi d'entro furono molto ristretti e afflitti, e cominciò loro a mancare la vittuaglia e vino e molte altre cose necessarie; e convenne loro ogni vittuaglia e vino raccomunare, e fare taverne di vino inacquato per lo Comune, e carne poveramente; e simile canova di pane, dandolo per peso alle masnade e alle famiglie. Per la quale stremità quegli che reggeano Lucca, per loro feciono cercare accordo co' Fiorentini, mandando uno di loro maggiori più sagreto in Firenze sotto salvocondotto e sagretamente con certi patti d'arendere la terra (e fu l'opera assai di presso all'accordo per diversi patti e modi, partendosi messer Gherardino della signoria), e dargli danari, e disfaccendosi il castello de l'Agosta, rimanendo i Ghibellini in Lucca co' Guelfi insieme, e raccomunando gli ufici a la guardia e signoria de' Fiorentini, e faccendo certi gentili uomini ghibellini in numero di XXIIII de' più caporali cavalieri per lo Comune e popolo di Firenze per loro sicurtà, al modo di que' di Pistoia, donando a ciascuno Vc fiorini d'oro de' danari del Comune di Firenze, rimanendo le gabelle e l'entrate del Comune di Lucca al Comune di Firenze per fornire la spesa della guardia di Lucca, e i·rimanente scontare del dono si facesse a' detti cavalieri; e oltre a·cciò in termine di V anni sodisfare tutti i cittadini di Firenze che furono presi da Castruccio di ciò che si ricomperarono da·llui, che montavano fiorini Cm d'oro e più. E di certo sarebbe venuto fatto; ma la 'nvidia e avarizia, le quali guastano ogni bene, parte di quegli Fiorentini che sentivano e guidavano il detto trattato co' caporali cittadini di Lucca, per volerne l'onore e il profitto tutto a·lloro propietà, lo scopersono a messer Gherardino, e co·llui tennono nuovo trattato, e andaronne chiusamente in Lucca a parlargli certi di loro; per la quale cagione si guastò l'uno trattato per l'altro, rimanendo in grande sospetto i cittadini di Lucca con messer Gherardino. E io autore, con tutto non fossi degno di sì grandi cose menare, posso essere vero testimonio, però che fui di quello numero con pochi diputato per lo nostro Comune a menare il primo trattato, il quale fu guasto per lo modo detto. Ma la giustizia divina, la quale non perdona alla pulizione degl'innormi peccati, come a Dio piacque, tosto vi mise penitenza con vergogna del nostro Comune per gli modi dupplicati e improvisi e non pensati che diremo qui apresso; in prima, che mutando i Fiorentini il capitano dell'oste Cantuccio de' Gabbriegli d'Agobbio, di cui dinanzi facemmo menzione, giunse nell'oste con sua compagna di L cavalieri e C sergenti a piè a dì XV di gennaio; e come uomo poco iscorto e uso a guidare sì fatta oste, che v'avea CCC gentili uomini più grandi e più maestri e degni di lui, avenne ch'alcuno Borgognone di piccolo affare fece alcuna follia; e la famiglia di Cantuccio prendendolo, e a la guisa come fosse podestà in Firenze il volesse giustiziare, i Borgognoni per isdegno, che n'avea nell'oste più di VIc a cavallo al soldo de' Fiorentini, fiera gente e aspra, s'armarono, e tolsono il malfattore a la famiglia del capitano, e fedirgli e uccisonne; e a furore corsono a la casa e loggia del capitano, e rubarono tutto, e uccisono cui poterono di sua famiglia, e misono fuoco nell'albergo, e però arse il quarto del campo con grande danno e pericolo; onde il campo e oste de' Fiorentini fu a grande rischio, se non fosse per gli savi capitani consiglieri che v'erano di Firenze, ch'atutarono il furore coll'aiuto de' cavalieri tedeschi, che gli ubbidirono e seguirono, e nascosono il capitano e cui poterono di sua famiglia, e rimase a·lloro al tutto la guardia dell'oste; e se non fosse la fiebolezza di que' di Lucca, l'oste de' Fiorentini stava in grande pericolo per la detta novità e discordia. In questo stante messer Gherardino, riconfortatosi della discordia dell'oste de' Fiorentini, lasciò il trattato co·lloro, e mandò incontanente suoi ambasciadori con sindachi di pieno mandato in Lombardia al re Giovanni, e diedongli la signoria di Lucca con certi patti, ed egli la promise di difendere; e a dì XII di febbraio mandò in Firenze il detto re tre suoi ambasciadori, i quali con belle parole e promesse di pace e d'amore richiesono per sua parte i Fiorentini, pregandogli si dovessono partire da l'assedio di Lucca, sì come di sua terra, e fare triegue co·llui; e loro in pieno consiglio fu risposto com'era la detta oste sopra Lucca a petizione della Chiesa e del re Ruberto, e che però non si leverebbe. Partirsi i detti ambasciadori, e andarne a Pisa. Pochi dì apresso avuta la detta risposta, il re Giovanni mandò il suo maliscalco in Parma con VIIIc cavalieri per soccorrere Lucca; e ciò sentendo i Fiorentini, presono al loro soldo messer Beltramon del Balzo, che tornava di pregione di Lombardia, iscambiato per lo legato con Orlando Rosso di Parma, e feciollo capitano di guerra; e ito lui nell'oste da Lucca, parendogli folle la stanza per le novità state ne la detta oste, che molto l'avea scompigliata e pochi giorni dinanzi uno messer Arnoldo tedesco conastabole de' Fiorentini, si partì del campo con C cavalieri, e entrò in Lucca, e per lo maliscalco del re Giovanni che venia a Lucca, gli parve il migliore di levare l'oste.
E così fece a dì XXV del detto mese di febbraio MCCCXXX, e ricolsonsi sani e salvi in sul poggio di Vivinaia, e di quello partendosi, rubarono la terra e misonvi fuoco. E così tornò in vano la 'mpresa dell'oste de' Fiorentini, che nel cominciamento e poi fu così prospera, e Lucca così affinita. E però non si dee nullo disperare, né d'alcuna impresa fare grolia, né avere troppa speranza, se prima non si vede la fine, che sovente riescono le 'mprese ad altro segno che non sono cominciate, per lo piacere di Dio. E poi il primo dì di marzo apresso il maliscalco de·re Giovanni venne di Lombardia, e entrò in Lucca con VIIIc cavalieri tedeschi, e prese la signoria della terra per lo re, e partissene messer Gherardino male contento dal re Giovanni e da' Lucchesi, e con suo dammaggio di più di XXXm fiorini d'oro messi de' suoi danari ne la detta signoria e guerra de' Lucchesi, e non gli poté riavere. E dogliendosene il detto messer Gherardino al re Giovanni, gli fu rimprocciato ch'egli era istato traditore, ch'egli avea tenuto trattato co' Fiorentini di dare loro Lucca; e mostrata gli fu innanzi al re una lettera del Comune di Firenze, la quale messer Gherardino s'avea fatta fare a sua cautela del trattato.
<B>CLXXI</B>
<I>Come la gente del re Giovanni cavalcarono in su il contado di Firenze nella contrada di Greti.</I>
Per la detta venuta della gente del re Giovanni in Lucca i Fiorentini abandonarono il borgo di Buggiano che teneano, e misonvi fuoco; e simile lasciarono il castelletto del Cozzile e quello de la Costa sopra Buggiano a dì VIIII di marzo del detto anno; e poi a dì XV del detto mese di marzo il sopradetto maliscalco del re Giovanni ch'era in Lucca con M cavalieri e MM pedoni si partirono di Buggiano e passarono sotto Montevettolino, ispianando le tagliate, entrarono in Greti in sul contado di Firenze sanza contasto niuno, e presono e arsono il borgo di Cerreto Guidi, e combatterono il castello; e presono e arsono Collegonzi e Agliana, e corsono il paese per III dì, e menarne preda di C pregioni e IIIIc bestie grosse e MM minute; e feciono danno assai con grande vergogna de' Fiorentini, ch'aveano altrettanti cavalieri e più al loro soldo, che per loro non fu fatto contasto niuno. Che se pure CC cavalieri avessono difesa la tagliata da Montevettolino a la Guisciana, ch'assai era leggere a difendere, non ne tornava mai niuno adietro, che tutti rimaneano o presi o morti; però che la cavalcata, tutto fosse per loro ardita e franca, sì fu folle e con mala provedenza di non lasciare guardia al passo. Ma dissesi che certi conastaboli de' Fiorentini ch'erano a la guardia de le castella di Valdinievole seppono la cavalcata, e stettono al tradimento, e lasciarono valicare i nimici sanza volergli contastare, i quali ciò saputo, furono acommiatati da' Fiorentini e cassi di loro soldi.
<B>CLXXII</B>
<I>Come al re Giovanni fu data la signoria di Parma, di Reggio, e di Modana.</I>
Nel detto anno, a dì II di marzo, Giovanni re di Buem entrò nella città di Parma in Lombardia con grande onore, la quale gli fu data per Orlando Rosso e quegli della sua casa de' Rossi, per contradio del legato cardinale ch'era in Bologna per la Chiesa loro contradio. E per simile modo si diede poco apresso al detto re la città di Reggio e quella di Modana per certi patti, per non tornare a la signoria della Chiesa e de' suoi legati e uficiali caorsini; per la qual cosa il papa si mostrò molto turbato, e mandò sue lettere bollate in Firenze, le quali in <I>coram populi</I> si lessono, e piuvicaro, come di suo volere né de la Chiesa il re Giovanni non era passato in Italia, né presa la signoria di Lucca e delle sopradette terre di Lombardia, ma tutto fu disimulazione del papa e del legato, come per lo 'nanzi per loro processi si potrà comprendere.
<B>CLXXIII</B>
<I>Come si cominciò grande guerra in mare tra' Catalani e' Genovesi.</I>
Nel detto anno e mese di marzo si cominciò la guerra da' Catalani a' Genovesi e' Viniziani molto aspra e dura, per cagione di più ruberie fatte in mare per gli Genovesi andando in corso sopra' Catalani e' Viniziani. E per cagione di ciò i Genovesi co' loro usciti e que' di Saona feciono triegua, onde poi nacque pace tra·lloro, come per innanzi faremo menzione. I Viniziani per loro viltà e tema de' Genovesi feciono pace assai tosto co·lloro, per piccola amenda di meno di Xm fiorini d'oro, che 'l valere di più di Cm fiorini d'oro aveano perduti, sanza più buona gente di Vinegia morti da' Genovesi in mare. Quella guerra de' Catalani durò poi più tempo con grande uccisione e dammaggio dell'una parte e dell'altra, come per gli tempi si troverà.
<B>CLXXIV</B>
<I>Come il popolo di Colle di Valdelsa uccisono il loro capitano e signore, e diedonsi a la guardia de' Fiorentini.</I>
Nel detto anno, a dì X di marzo, essendo signore di Colle di Valdelsa messer Albizzo ch'era arciprete di Colle, che s'era fatto capitano di popolo co' suoi frategli, messer Desso e Agnolo de la casa di Tancredi, che teneano la terra a modo di tiranni, soppressando disordinatamente il popolo e chiunque avea podere ne la terra; per la qual cosa il popolo di Colle, dispiaccendo loro sì fatta tirannia e signoria, con ordine di tradimento, coll'aiuto di quegli da Montegabri e da·pPicchiena, de' detti signori loro cugini e parenti, in su la piazza di Colle, usciti coloro da mangiare, uccisono il detto capitano arciprete e Agnolo suo fratello; e messer Desso si difese gran pezza francamente, ma alla fine per lo soperchio de' nimici fu fedito, poi preso per tradimento d'Agnolino Granelli de' Tolomei, e poi in pregione lo strangolaro; e uno fanciullo di quello Agnolo d'età di X anni presono, e per paura il tennono pregione, e tengono ancora, acciò che nullo di quella progenia scampasse, con tutto ch'un altro suo fratello era a Firenze. E ciò fatto, per tema di loro parenti, ch'erano i Rossi di Firenze e altri possenti e grandi di Firenze, feciono popolo, e diedono poi la guardia de la terra di Colle al Comune e popolo di Firenze per più anni, chiamando podestà e capitano fiorentino. Della qual cosa i Fiorentini furono contenti, però ché 'l detto capitano tiranneggiava in Firenze con certi grandi, e al tempo del caro fu molesto al popolo di Firenze di fare divieto e non lasciare venire vittuaglia a Firenze, e era amico di Castruccio tutto si tenesse Guelfo.
<B>CLXXV</B>
<I>Quando si cominciarono le porte del metallo di Santo Giovanni, e si compié il campanile de la Badia di Firenze.</I>
Nel detto anno MCCCXXX si cominciarono a fare le porte del metallo di Santo Giovanni molto belle e di maravigliosa opera e costo, e furono formate in cera, e poi pulite e dorate le figure per uno maestro Andrea Pisano, e gittate furono a fuoco di fornello per maestri viniziani. E noi autore per l'arte de' mercatanti di Calimala, guardiani dell'opera di Santo Giovanni, fui uficiale a far fare il detto lavorio. E il detto anno s'alzò e compié il campanile della Badia di Firenze, e per noi fu fatto fare a priego e a istanzia di messer Giovanni degli Orsini di Roma, cardinale e legato in Toscana e signore de la detta Badia, e della sua entrata di quella Badia.
<B>CLXXVI</B>
<I>Di certi miracoli che furono in Firenze.</I>
L'anno MCCCXXXI morirono in Firenze due buoni e giusti uomini e di santa vita e conversazione e di grandi limosine, tutto che fossono laici. L'uno ebbe nome Barduccio, e soppellìsi in Santo Spirito a·luogo de' frati romitani; e l'altro ebbe nome Giovanni..., e soppellìsi a San Piero Maggiore. E per ciascuno mostrò Idio aperti miracoli di sanare infermi e atratti e di più diverse maniere, e per ciascuno fu fatta solenne sepoltura, e poste più immagini di cera per voti fatti.
<B>CLXXVII</B>
<I>D'uno parlamento che fu fatto intra·re Giovanni e·legato di Lombardia.</I>
Nel detto anno, a dì XVI d'aprile, fu fatto uno parlamento segreto in sul fiume della Scoltena tra Bologna e Modana intra·re Giovanni di Buem, figliuolo che fu dello 'mperadore Arrigo, e legato di Lombardia cardinale, che dimorava per la Chiesa in Bologna; e furono in accordo insieme, e al dipartire si basciarono in bocca; e poi il dì seguente con grande festa mangiarono insieme al castello di Piumaccio. Per la qual cosa tutti i signori e tiranni di Lombardia e ancora il Comune di Firenze, il quale si tenea nimico del detto re Giovanni per la nimistà antica d'Arrigo imperadore suo padre, e per la sua impresa di Lucca e di Brescia, presono grande sospetto e isdegno contra il cardinale legato, parendo loro che disimulatamente egli e la Chiesa avessono fatto venire il detto re Giovanni in Italia; e che colla forza del detto re, e per trattato del papa Giovanni e del re di Francia, volesse occupare la signoria di Lombardia e di Toscana; onde a riparare ciò si trattò di fare compagnia e lega e giura col re Ruberto insieme contro al detto re Giovanni e contra chiunque gli desse aiuto o favore; e de la detta lega il papa disimulando co' Fiorentini, per sue lettere che mandò loro, si mostrò contento; onde poi seguì l'abassamento del detto re e del legato, come innanzi faremo menzione.
<B>CLXXVIII</B>
<I>Come si divise e partì la casa de' Malatesti da Rimine.</I>
Nel detto anno, del mese di maggio, essendo la casa de' Malatesti da Rimine in Romagna nel maggiore stato e colmo che fossono stati mai, e di loro fatti poco tempo dinanzi VI cavalieri con grande onore, e trionfavano non solamente la città da Rimine ma quasi tutta la Romagna; ma per la cupidigia della tirannica signoria messer Malatesta il giovane figliuolo di messer Pandolfo a tradimento cacciò di Rimine tutti i suoi consorti, e loro perseguendo con arme per uccidergli, e alquanti ne prese, e morirono poi in pregione, opponendo loro che volevano cacciare lui; per la qual cosa fu guasta la detta casa, e commossesene quasi tutta la Romagna. E pare una maladizione in quello paese, e ancora pessima usanza di Romagnuoli, che volentieri sono traditori tra·lloro. E nota che pare ch'avegna nelle signorie e istato delle dignità mondane che come sono in maggiore colmo hanno di presente la loro discesa e rovina, e non sanza providenza del divino giudicio per pulire le peccata, e perché niuno si confidi della fallace prospera ventura.
<B>CLXXIX</B>
<I>Come la città di Firenze fu lungamente interdetta.</I>
Nel detto anno, a dì X di maggio MCCCXXXI, il legato di Toscana mise lo 'nterdetto a la città di Firenze per cagione ch'egli avea impetrata dal papa a sua mensa la pieve di Santa Maria in Pineta che vacava, al modo ch'avea fatta la Badia di Firenze, de la quale pieve erano padroni la casa de' Bondelmonti, e a·lloro stanza, e perché pareva a' cittadini che 'l detto legato volesse occupare tutti i buoni benifici di Firenze, e ancora quello benificio preso a inganno contro a' Bondelmonti, per la qual cosa non gli lasciarono avere la rendita né' frutti di quella pieve; e innanzi ne sostennono lo 'nterdetto XVIIII mesi, con grande sconcio e fatica de' cittadini in ogni atto spirituale, tanto che i detti Bondelmonti s'accordarono col legato, per la qual cosa i detti Bondelmonti molto furono obbrigati al popolo di Firenze.
<B>CLXXX</B>
<I>Come il re Giovanni si partì di Lombardia, e andonne oltremonti.</I>
Nel detto anno, avendo il re Giovanni ordinato col legato insieme una disimulata pace e trattato di rimettere gli usciti guelfi in Lucca, alquanti ve ne tornarono contra volere de' Fiorentini. E intra gli altri che cercò il detto trattato fu messer Manno degli Obizzi, per la qual cosa molto venne in disgrazia de' Fiorentini; e poi quegli Guelfi ch'erano tornati in Lucca, per la mala signoria se ne partirono. Poi il detto re Giovanni, riformata Lucca e Parma e Reggio e Modana a la sua signoria, vi lasciò Carlo suo figliuolo con VIIIc cavalieri, e egli si partì di Parma a dì II di giugno per andare a corte e in Francia e nella Magna, per ordinare maggiori cose col papa e col re di Francia per sottomettere la libertà degl'Italiani, come innanzi farà menzione.
<B>CLXXXI</B>
<I>Come delle masnade de' Fiorentini furono sconfitti a Buggiano.</I>
Nel detto anno messer Simone Filippi di Pistoia vicario in Lucca del re Giovanni fece porre oste e battifolli al castello di Barga in Carfagnana che si tenea per gli Fiorentini, sentendo ch'era male fornito; per la qual cosa i Fiorentini feciono cavalcare messer Amerigo de' Donati capitano di Valdinievole con IIIIc cavalieri sopra Buggiano per fare levare il detto assedio da Barga. Ma le masnade di Lucca di notte vennono a Buggiano, da Vc cavalieri. Messere Amerigo e sua gente isproveduti di tale avenimento, e non prendendosi guardia, furono assaliti subitamente sul Brusceto sotto Montecatini, e rotti e sconfitti a dì VI di giugno, e rimasonne da C a cavallo tra morti e presi, e messere Amerigo e gli altri fuggiro in Montecatini; e il luglio apresso si perdé Uzzano per tradimento, che 'l teneano i Fiorentini.
<B>CLXXXII</B>
<I>Come papa Giovanni ricomunicò i Milanesi e' Marchigiani.</I>
Nel detto anno, a dì IIII di giugno, papa Giovanni apo Vignone ricomunicò i Milanesi e' Marchigiani, i quali erano stati sì lungamente iscomunicati e in contumacia di santa Chiesa per molti falli fatti contro a la Chiesa, come adietro è fatta menzione; e ciò fece il papa a petizione del legato di Lombardia, l'una per rompere la lega già cominciata tra' Lombardi, e l'altra perché i Marchigiani fossono riverenti al legato, che 'l n'avea fatto marchese e signore.
<B>CLXXXIII</B>
<I>Di fuochi che s'apresono nella città di Firenze in questo anno.</I>
Nel detto anno, a dì XXIII di giugno, la notte de la vilia di santo Giovanni s'apprese fuoco in sul ponte Vecchio dal lato di là, e arsono tutte le botteghe, che v'erano da XX, con grande danno di molti artefici, e morirvi due garzoni, e in parte arsono delle case di San Sipolcro della magione dello Spedale. E poi, a dì XII di settembre la notte vegnente, s'aprese fuoco a casa Soldanieri da Santa Trinita in certe case basse di legnaiuoli e di maliscalco, le quali case erano a lo 'ncontro della via di Porta Rossa, e morirvi VI persone, che per lo 'mpetuoso fuoco del molto legname e stalle non poterono scampare. E poi a dì XXVIII di febbraio la notte vegnente s'apprese fuoco nel palagio del Comune, ove abita la podestà, e arse tutto il tetto del vecchio palazzo e le due parti del nuovo dalle prime volte in su. Per la qual cosa s'ordinò per lo Comune che si rifacesse tutto in volte infino a' tetti. E poi a dì XVI di luglio vegnente s'apprese nel palazzo dell'arte della lana d'Orto San Michele, e arse tutto da la prima volta in su, e morìvi uno pregione, che 'l vi mise credendo scampare, e la sua guardia; poi per l'arte della lana si rifece più nobile e tutto in volte infino al tetto.
<B>CLXXXIV</B>
<I>Come in Firenze nacquono due leoncegli.</I>
Nel detto anno, a dì XXV di luglio, il dì di santo Iacopo, nacquono in Firenze II leoncini del leone e leonessa del Comune, che stavano in istia incontro a San Pietro Scheraggio; e vivettono, e fecionsi grandi poi: e nacquono vivi e non morti, come dicono gli autori ne' libri della natura delle bestie, e noi ne rendiamo testimonianza, che con più altri cittadini gli vidi nascere, e incontanente andare e poppare la leonessa; e fu tenuta grande maraviglia che di qua da mare nascessono leoni che vivessono, e non si ricorda a' nostri tempi. Bene ne nacquono a Vinegia due, ma di presente morirono. Dissesi per molti ch'era segno di buona fortuna e prospera per lo Comune di Firenze.
<B>CLXXXV</B>
<I>Come i Fiorentini presono la signoria di Pistoia.</I>
Nel detto anno, il dì seguente la festa di sa·Iacopo, essendo in Pistoia in grande sospetto e gelosia della signoria della terra, che parte de' cittadini ch'amavano di ben vivere, voleano la signoria de' Fiorentini, e parte voleano rimanere liberi; i Fiorentini avendo ciò sentito, di que' dì per lo detto sospetto mandata di loro gente in Pistoia, in quantità di Vc cavalieri e MD pedoni, e' feciono correre la terra gridando: "Vivano i Fiorentini!", sanza fare nulla ruberia né altro malificio. Per la qual cosa i Pistolesi per solenne consiglio, non potendo altro, diedono la signoria al Comune e popolo di Firenze per uno anno; e riformata la terra ne mandarono fuori più di C confinati, e gran parte di Guelfi ritornarono in Pistoia, che' più erano contradi a la signoria de' Fiorentini, per volere tiranneggiare la terra, e torre lo stato a' cavalieri de' Panciatichi e Muli e Gualfreducci ghibellini, fatti cavalieri per lo popolo di Firenze, e a·lloro seguaci, parendo loro che i Fiorentini gli mantenessono in maggiore stato per le promesse fatte, che non parea agl'ingrati Guelfi rimessi in Pistoia per gli Fiorentini. E poi appresso, innanzi che fosse mezzo l'anno, parendo a' Pistolesi che' Fiorentini gli trattassono benignamente, e manteneangli in pacefico stato e sanza gravezze, di loro buona volontà feciono sindachi due di loro anziani, e mandargli a Firenze a dare la guardia e signoria della terra liberamente a' Fiorentini per due anni, oltre a la prima dazione; e' Fiorentini la presono e solennemente l'ordinarono, eleggendo loro le podestadi forestieri di VI in VI mesi, e uno capitano della guardia grande popolano di Firenze di tre in tre mesi, con VI cavagli e L fanti, e uno conservadore di pace forestiere con X cavagli e C fanti, e la podestà di Serravalle e due castellani de le rocche fiorentini. E in Firenze elessono XII buoni popolani di tre in tre mesi, a cui diedono piena balìa della governazione di Pistoia, e delle riformazioni delle signorie co' priori di Firenze insieme, e ciò fu in mezzo gennaio; e poi all'uscita del febbraio seguente i Fiorentini vi feciono cominciare uno bello e forte castello da la parte de la terra di verso Firenze per più sicurtà della terra, il quale si compié, e misonvi guardie e castellani con C fanti alle spese de' Pistolesi; e oltre a·cciò CCC fanti a la guardia de la terra.
<B>CLXXXVI</B>
<I>Come i Sanesi osteggiarono e sconfissono i conti da Santa Fiore, e' Pisani ebbono Massa.</I>
Nella detta state i Sanesi feciono oste sopra i conti da Santa Fiore, e gli Orbitani sopra quegli da Baschia in Maremma, e feciono loro grande danno. Ed essendo i detti Sanesi all'assedio d'Arcidosso, i conti da Santa Fiore con CC cavalieri tedeschi avuti da Lucca, e con tutto loro isforzo, vennono per soccorrere il detto castello, e furono sconfitti da' Sanesi; e poi ebbono il detto castello i Sanesi. E in questo stante dell'oste de' Sanesi i Massetani si rubellarono dalla loro signoria, e cacciarono di Massa la podestà di Siena, e la casa de' Ghiozzi e loro seguaci e parte, e dieronsi a' Pisani.
<B>CLXXXVII</B>
<I>Come i Catalani co·lloro armata vennono sopra Genova, per la qual cosa i Genovesi co' loro usciti feciono pace.</I>
Nel detto anno, a l'entrante d'agosto, i Catalani con armata di XLII galee e XXX legni armati vennono nella riviera di Genova e di Saona, e arsonvi più castegli e ville e manieri, e feciono danno grande; né però i Genovesi né que' di Saona non s'ardirono di contastargli, per cagione ch'erano male in ordine e peggio in accordo i Guelfi d'entro e' Ghibellini di fuori, ch'erano in Saona. E fatto per gli Catalani la detta vergogna e dammaggio a' Genovesi e a' loro usciti, se n'andarono sani e salvi in Sardigna. Per la detta venuta de' Catalani i Genovesi d'entro e que' di fuori parendo loro avere di ciò grande vergogna, cercarono di fare pace tra·lloro; e l'una parte e l'altra mandarono grande e ricca ambasceria a Napoli al re Ruberto, commettendogli le loro questioni, e pregandolo gli pacificasse insieme: il quale re Ruberto diede fine a la detta pace a dì VIII di settembre MCCCXXXI, con patti che gli usciti tornerebbono tutti in Genova, e rendebbono tutte le fortezze di Saona e della riviera che teneano al Comune; e feciono loro signore il detto re Ruberto di concordia di tutti que' d'entro e que' di fuori, oltre al termine ch'egli l'avea in signoria da' Guelfi d'entro per III anni, e dandogli alle spese del Comune CCC cavalieri e Vc sergenti a la guardia della terra e del suo vicario, e 'l Castello di Peraldo sopra Genova, e promisono d'essere contro al Bavero, e contro al re Giovanni, e contro a ogn'altro signore che passasse in Italia contra il volere del papa e della Chiesa e del re Ruberto, rimanendo liberi Ori e Spinoli della guerra del re Ruberto a don Federigo che tenea Cicilia, d'aoperarne a·lloro volontà d'atare l'una parte e l'altra, come a·lloro piacesse; però ch'uno d'Oria era amiraglio di quello di Cicilia, e uno Spinola del re Ruberto. E i Fiorentini mise il re Ruberto nella detta pace, che gli usciti si teneano per nimici de' Fiorentini, per l'aiuto ch'eglino aveano fatto al detto re contra loro, quand'erano all'assedio di Genova. La quale pace poco piacque al re, dubitando forte della potenzia de' Ghibellini tornando nella città, e assai il mostrò a' Guelfi; ma eglino la pur vollono. E poi di gennaio MCCCXXXIII prolungarono la signoria di Genova al re Ruberto per V anni, la qual pace e signoria per lo re poco tempo durò, che i Ghibellini la ruppono, e cacciarne fuori i Guelfi, e tolsono la signoria del re, come innanzi per gli tempi si farà menzione.
<B>CLXXXVIII</B>
<I>Come il legato di Lombardia fece assediare la città di Forlì, e s'arendé a·llui.</I>
Nel detto anno, del mese d'agosto, il legato del papa ch'era in Bologna fece fare oste a la città di Forlì in Romagna, la quale oste fece con forza di MVc cavalieri e popolo grandissimo; e fecevi porre battifolli perché non faceano le sue comandamenta, e aveano cacciato il suo vicario e tesoriere. E' Fiorentini, con tutto fossono indegnati contro al legato per l'amistà e compagnia ch'avea presa col re Giovanni, sì pur mandarono in aiuto della Chiesa ne la detta oste C cavalieri, e istettevi la detta oste infino all'uscita d'ottobre. E poi partita l'oste, per patti s'arrenderono al legato a dì XXI di novembre sotto certi patti e convenzioni, cioè di torre suo vicario e tesoriere, e pagare il censo solamente; ma le masnade de' loro cavalieri a la guardia della terra vollono eleggere que' della terra di Forlì a·lloro volontà, giurando ubbidenza del detto legato.
<B>CLXXXIX</B>
<I>Come il duca d'Attene passò in Romania con gente d'arme e non poté aquistare niente.</I>
Nel detto anno, del mese d'agosto all'uscita, il duca d'Attena, cioè conte di Brenna, si partì da Brandizio, e passò in Romania con VIIIc cavalieri franceschi menati di Francia gentili uomini, e Vm pedoni toscani al soldo vestiti insieme, la quale fu molto buona e bella gente d'arme, per racquistare sua terra che gli occupavano que' della compagna. E co' detti cavalieri il seguirono molta gente del regno di Puglia. E come fu di là, prese la terra dell'Arta, e molto del paese, casali e ville; e se i suoi nimici fossono venuti a battaglia di campo co·llui, di certo avrebbe racquistato suo paese e avuta vittoria, ch'egli avea seco molta buona cavalleria da tenere campo a tutti quegli di quella Romania, Latini e Greci. Ma que' della compagnia maestrevolemente si tennono alla guardia delle fortezze, e non vollono uscire a battaglia. Per la qual cosa la cavalleria e gente del duca usi a grandi spese per lo bistento e lungo dimoro non potendo avere battaglia, istraccarono e non poterono durare; e tornò in vano la 'mpresa del duca, che gli era costata grande tesoro, e per necessità si partirono tutti del paese col duca insieme. Dissesi per gli savi infino che si mosse, che se vi fosse ito con meno gente e di meno costo tegnendosi a guerra guerriata e rinfrescata gente, vincea suo paese e avea onore della 'mpresa.
<B>CXC</B>
<I>D'avenimenti di guerra da noi a que' di Lucca, onde morì messere Filippo Tedici di Pistoia.</I>
Nel detto anno, a dì XIIII di settembre, essendo quegli di Buggiano a·ffare loro vendemmie con guardia di LXX cavalieri di que' di Lucca, la nostra gente di Valdinievole, intorno di CL cavalieri e pedoni assai, uscirono loro adosso e sconfissongli e cacciarono infino al borgo di Buggiano. In questa caccia, com'era ordinato, vennono da CC de' loro cavalieri da Pescia, e trovando i nostri sparti e seguendo i nimici, percossono loro adosso e sconfissongli, e rimasono de' nostri presi V conastaboli, e da L e più cavalieri. E poi a dì XXI del detto mese, partendosi di Lucca CC cavalieri e M pedoni a la condotta di messer Filippo de' Tedici di Pistoia per pigliare il castello di Popiglio de la montagna di Pistoia, che dovea loro essere dato, e iscesi i cavalieri a piè, perch'era stretto luogo, entrarono nel castello lasciando di fuori i cavagli. Quegli del castello che non sentirono il trattato francamente gli ripinsono fuori; que' del paese d'intorno trassono a' valichi e a' forti passi delle montagne, e presono i loro cavagli e misongli in isconfitta; e fuvi morto da' villani, com'era degno, il detto messer Filippo traditore di Pistoia e più altra buona gente, e presi più di C cavagli. E poi il marzo vegnente que' di Lucca ch'erano in Buggiano misono aguato per pigliare Massa in Valdinievole. Per la gente de' Fiorentini ch'erano in Montecatini, sentito, uscirono loro adosso e sconfissongli, e rimasono di loro assai presi e morti, e IIII bandiere da cavallo ne vennono prese a Firenze. E così va di guerra guerriata, che talora nell'uno luogo si perde e nell'altro si guadagna.
<B>CXCI</B>
<I>Come il marchese di Monferrato tolse Tortona al re Ruberto.</I>
Nel detto anno, del mese di settembre, il marchese di Monferrato con sua forza entrò ne' borghi e terra di Tortona in Piemonte, la quale gli fu data da' cittadini; e la gente che v'era dentro per lo re Ruberto, ond'era capitano messere Galeasso fratello bastardo del detto re, e' si ridussono nella città e rocca di sopra, e poi non potendo tenere la città di sopra che non era bene fornita, sì·ll'abandonarono co·lloro vergogna, e rimase alla signoria del marchese.
<B>CXCII</B>
<I>Come il fiume del Po ruppe gli argini di Mantovani.</I>
Nel detto anno, del mese d'ottobre, crebbe il fiume del Po in Lombardia sì diversamente, che ruppe in più parti degli argini di mantovana e di ferrarese, e guastò molto paese, e morirvi anegando Xm persone tra piccoli e grandi.
<B>CXCIII</B>
<I>Quando si ricominciò a lavorare la chiesa di Santa Reparata di Firenze, e fu grande dovizia quello anno.</I>
Nel detto anno e mese d'ottobre, essendo la città di Firenze in assai tranquillo e buono stato, si ricominciò a lavorare la chiesa maggiore di Santa Reparata di Firenze, ch'era stata lungo tempo vacua e sanza nulla operazione per le varie e diverse guerre e ispese avute la nostra città, come adietro s'è fatta menzione, e diessi in guardia per lo Comune la detta opera all'arte della lana, acciò che più l'avanzasse, e istanziòvi il Comune gabella di danari II per libbra d'ogni danaro ch'uscisse di camera del Comune, come anticamente era usato, e oltre a·cciò ordinarono una gabella di danari IIII per libbra sopra ogni gabelliere della somma che comperasse gabella dal Comune, le quali due gabelle montavano l'anno libbre XIIm di piccioli. E' lanaiuoli ordinarono ch'ogni fondaco e bottega di tutti gli artefici di Firenze tenessono una cassettina ove si mettessono il danaro di Dio, di ciò che si vendesse e comperasse; e montava l'anno al cominciamento libbre IIm. E di queste entrate si forniva la detta opera. E in questo anno fu in Firenze grande divizia e ubertà di vittuaglia; e valse lo staio del grano colmo soldi VIII di piccioli di libbre tre il fiorino d'oro, che fu tenuto gran maraviglia alla disordinata carestia stata l'anno del MCCCXXVIIII e poi del MCCCXXX, come dicemmo adietro. E in questi tempi si feciono in Firenze molti buoni ordini e adirizzamento sopra ogni vittuaglia, e ogni carne e pesce si dovesse vendere a peso, e ogni volatio certo pregio convenevole; e sopra·cciò vi feciono uficiale, e misono pene chi non l'osservasse.
<B>CXCIV</B>
<I>Di guerra che fu mossa in Buemmia al re Giovanni.</I>
Nel detto anno, del mese di novembre, essendo il re Giovanni andato in Buemmia, raunò suo isforzo coll'aiuto dell'arcivescovo di Trievi suo zio e del dogio di Chiarentana suo cognato, e trovossi con più di Vm cavalieri, per cagione che 'l re di Pollonia e lo re d'Ungheria e 'l dogio d'Ostericchi suoi nimici, e ancora con ordine del Bavero, che per le 'mprese sue di Italia gli voleva male, e·re d'Ungheria a petizione del re Ruberto e suo zio, e genero del re di Pollonia, aveano raunato grande esercito di più di XVm cavalieri tra Tedeschi e Ungheri per cavalcare in su i·reame di Buemmia e guastarlo. Le quali osti istettono afrontati più giorni sopra la riviera di... ciascuno dalla sua parte; poi per le 'mprese del re Giovanni gli convenne partire per andare in Francia. Per la qual cosa il re Giovanni da' savi fu tenuto folle di cercare nuove imprese in Italia per lasciare in periglio il suo reame. Ma tutto ciò facea a petizione del re di Francia per certi grandi intendimenti, come per lo 'nanzi leggendo si potrà comprendere. E partito lui di Boemmia, i suoi nimici valicarono in suo reame, e per due volte sconfissono la gente del re Giovanni con grande guastamento di suo paese; e più l'avrebbono guasto, se non fosse la forte vernata che gli fece partire.
<B>CXCV</B>
<I>Come il re di Francia promise di fare il passaggio oltremare.</I>
Nel detto anno, per la pasqua della Natività di Cristo, il re Filippo di Francia piuvicò in Parigi dinanzi a' suoi baroni e prelati com'egli imprendea di fare il passaggio d'oltremare per racquistare la Terrasanta dal marzo vegnente a due anni, domandando a' prelati e comunanze di suo reame aiuto e susidio di moneta; e richiese i duchi e' conti e' baroni che s'ordinassono d'andare co·llui; e mandò suoi ambasciadori a Vignone a papa Giovanni a notificare a·llui e a' suoi cardinali la sua impresa, richeggendo la Chiesa per XXVII capitoli grandi susidii e grazie e vantaggi, intra' quali ebbe di molti sconvenienti e oltraggiosi. Intra gli altri volea tutto il tesoro de la Chiesa e le decime di tutta Cristianità per VI anni, pagando in tre, e in suo reame le 'nvestiture e promutazioni d'ogni benificio eccresiastico; e domandava titolo del reame d'Arli e di Vienna per lo figliuolo; e che d'Italia volea la signoria per messere Carlotto suo fratello. Perché 'l papa né' suoi cardinali la maggiore parte non gli vollono accettare, rispondendo che passati erano XL anni che i suoi anticessori aveano aute le decime del reame per lo passaggio, e consumatele in altre guerre contra i Cristiani, ma che·re seguisse sua impresa, e alla sua mossa la Chiesa gli darebbe ogni aiuto che si convenisse temporale e spirituale al sussidio del santo passaggio; per le quali domande e risposte si cominciò alcuno isdegno tra la Chiesa e 'l re di Francia.
<B>CXCVI</B>
<I>Come gli Aretini vollono prendere Cortona.</I>
Nel detto anno, all'uscita di gennaio, messer Piero Saccone de' Tarlati signore d'Arezzo per avere la città di Cortona certo trattato e tradimento ordinò con messer Guccio fratello di messer Rinieri di... che n'era signore, promettendogli più vantaggi; e il detto per discordia ch'avea col fratello, perché nol trattava come volea, aconsentì al detto tradimento. E cavalcarvi gli Aretini di notte, ma discoperto il tradimento, il detto messer Guccio dal fratello fu preso, e de' suoi seguaci cittadini che co·llui intendeano al tradimento, in quantità di più di XXX, furono impiccati a' merli delle mura della terra al di fuori, e il detto messer Guccio fu messo in oscura pregione, nella quale con grande stento, com'era degno, finì sua vita.
<B>CXCVII</B>
<I>Come gli usciti di Pisa vennono sopra Pisa, e come i Fiorentini mandarono loro soccorso.</I>
Nel detto anno, a dì VIIII di gennaio, avendo gli usciti di Pisa, ond'era capo il vescovo che fu d'Ellera in Corsica, fatta lega co' Parmigiani e con certi Ghibellini di Genova, ond'era capo Manfredi de' Vivaldi, che tenne il castello de·Lerici, e ancora con gente di Lucca, i quali furono in quantità di Vc cavalieri e popolo assai, e presono più terre de' Pisani di là dal fiume della Magra, e corsono sopra Serrezzano, e poi vennono iscorrendo infino presso di Pisa. Onde i Pisani furono in grande gelosia e paura di loro cittadini d'entro, amici e partefici di loro usciti; e dì e notte stavano sotto l'arme, e chiuse le porte, dubitando di perdere la terra. Mandarono per più ambasciadori l'uno apresso l'altro al Comune di Firenze pregando che per Dio gli soccorressono, e mandassono di loro cavalieri a la guardia della terra, promettendo d'essere sempre frategli e amici del Comune di Firenze. Per la qual cosa i Fiorentini mandarono loro CC cavalieri, e a Montetopoli, e a l'altre castella de' Fiorentini di Valdarno ne mandarono più di Vc, che a richiesta de' Pisani andassono a Pisa o dove a·lloro bisognasse; e giunti in Pisa i detti cavalieri, i loro usciti si ritrassono, e' Pisani mandarono fuori certi confinati, di cui dubitavano, e la città rimase in pace e sanza sospetto. Il quale servigio de' Fiorentini venne a que' che reggeano Pisa a grande bisogno; che se ciò non fosse stato, di certo si rubellava loro la terra, e mutava stato.
<B>CXCVIII</B>
<I>Come i Bolognesi si diedono liberamente a la Chiesa, e come il legato fece uno castello in Bologna.</I>
Nel detto anno, a dì X di gennaio, per procaccio e segacità del legato di Lombardia che dimorava in Bologna, fece tanto che i Bolognesi si diedono per loro solenni consigli a perpetuo privileggiati e liberi sanza alcuno patto o salvo al papa e a la Chiesa di Roma, promettendo loro, e con simulate lettere di papa Giovanni, che infra uno anno il papa co la corte verrebbe a stare in Bologna; e sotto questo inganno cominciò a fare fare uno forte e magno castello in Bologna alla fine del loro prato in su le mura, dicendo che ciò facea per l'abituro del papa, ordinandolo a ogni atto d'abituro nobilemente a·cciò. E per sé fece fare quasi un altro compreso di castello più infra la terra, pigliando più case di cittadini, dicendo l'abiterebbe egli venuto il papa. E fece segnare tutte le liveree dove dovessono abitare tutti gli altri cardinali. E tutto ciò fu fatto ad arte e simulatamente per fare la detta fortezza per meglio dominare i Bolognesi. I Bolognesi per lo vantaggio che s'aspettavano vegnendo in Bologna la corte, che tutti speravano d'essere ricchi, si lasciarono ingannare, e assentirono che si facessono la detta fortezza e castello in Bologna, e mandarono loro solenni ambasciadori de' maggiori cittadini e sindachi apo Vignone al papa, dandogli per solenne obbrigagione liberamente la signoria, e pregandolo da parte del loro Comune l'avacciamento della sua venuta alla sua città di Bologna. I quali ambasciadori e sindachi dal papa furono ricevuti graziosamente, e accettata per la Chiesa la loro obrigagione, promettendo loro più volte il papa in piuvichi concestori di venire infra l'anno a Bologna fermamente. La quale promessa fu disimulata e infinta, e non s'attenne per lo papa, onde fu ripreso da tutti i Cristiani che 'l seppono, che già promessa di papa non dee essere mendace sanza necessaria cagione, la quale non fu in lui. Ma la divina providenza non dimette la giustizia della sua pulizione a chi manca fede e con frode e inganno; che poco tempo apresso il sopradetto legato compiuto il detto castello, e quando più groliava e trionfava, la sua oste fu sconfitta a Ferrara, e i Bolognesi si rubellarono da la Chiesa, e lui cacciarono di Bologna, e il detto castello tutto disfeciono e abatterono, come innanzi faremo menzione.
<B>CXCIX</B>
<I>Come il legato fu fatto conte di Romagna ed ebbe libera la città di Forlì.</I>
Nell'anno MCCCXXXII papa Giovanni fece conte di Romagna i·legato, e que' di Forlì gli diedono liberamente la signoria de la terra, e entròvi dentro il detto legato con più di MVc cavalieri di sua gente a grande trionfo e onore, con intenzione di vicitare tutte le terre di Romagna, e poi andare ne la Marca; ma rimase, dubitando di Bologna per certe novità ch'aparvono in Lombardia, come poco apresso faremo menzione.
<B>CC</B>
<I>Come il Comune di Firenze ordinò di fare la terra di Firenzuola oltre alpe.</I>
Nel detto anno, avendo i signori Ubaldini disensione e guerra insieme, ciascuna parte a gara mandando al Comune di Firenze di volere tornare a l'ubidienza e a la signoria del Comune, traendogli di bando, per gli Fiorentini fu accettato; ma ricordandosi che per molte volte s'erano riconciliati per simile modo col Comune di Firenze, e poi rubellatisi a·lloro posta e vantaggio, come si può trovare per adietro, si provide per lo detto Comune di fare una grossa e forte terra di là dal giogo dell'alpe in sul fiume del Santerno, acciò che i detti Ubaldini più non si potessono rubellare, e' distrittuali contadini di Firenze d'oltre l'alpe fossono liberi e franchi, ch'erano servi e fedeli de' detti Ubaldini; e chiamarono a fare fare la detta terra sei grandi popolani di Firenze con grande balìa intorno a·cciò. E essendo i detti uficiali in sul palazzo del popolo co' signori priori insieme in grande contasto, come si dovesse nominare la detta terra, e chi dicea uno nome e chi un altro, noi autore di questa opera trovandone tra·lloro, dissi: "Io vi dirò uno nome molto bello e utole, e che si confà a la 'mpresa, però che questa fia terra nuova e nel cuore dell'alpe, e nella forza degli Ubaldini, e presso alle confini di Bologna e di Romagna; e s'ella nonn-ha nome che al Comune di Firenze ne caglia e abbiala cara, a' tempi aversi di guerra che possono avenire, ella fia tolta e rubellata ispesso; ma se·lle porrete il nome ch'io vi dirò, il Comune ne sarà più geloso e più sollecito a la guardia: perch'io la nominerei, quando a voi piacesse, Firenzuola". A questo nome tutti inn-accordo sanza alcuno contasto furono contenti, e il confermarono, e per più aumentare e favorare il suo stato e potenza le diedono per insegna e gonfalone mezza l'arme del Comune, e mezza quella del popolo di Firenze; e ordinarono che la maggiore chiesa di quella terra, conseguendo al nome, si chiamasse San Firenze; e feciono franco chi l'abitasse X anni, recando tutte le genti vicine e ville d'intorno ad abitarla, e traendogli d'ogni bando di Comune; e ordinarvi mercato uno dì della semmana. E cominciossi a fondare al nome di Dio a dì VIII d'aprile del detto anno quasi alle VIII ore del dì, provedutamente per istrolagi, essendo ascendente il segno del Leone, acciò che·lla sua edificazione fosse più ferma e forte, e stabile e potente.
<B>CCI</B>
<I>Come i Turchi per mare guastarono gran parte di Grecia.</I>
Nel detto anno, del mese di maggio e di giugno, i Turchi armarono CCCLXXX tra barche grosse e legni con più di XLm Turchi, e vennono per mare sopra Gostantinopoli, e combatterollo, e avrebbollo avuto, se non fosse l'aiuto de' Latini e Genovesi e Viniziani. E poi guastarono più isole d'Arcipelago, e menarne in servaggio più di Xm Greci; e que' di Negroponte per paura si feciono tributari, onde venne in ponente grande cramore al papa e al re di Francia e agli altri signori de' Cristiani; per la qual cosa s'ordinò per loro che l'anno seguente si facesse armata sopra i Turchi, e così si fece.
<B>CCII</B>
<I>Come que' della Scala tolsono al re Giovanni la città di Brescia e di Bergamo, e come s'ordinò lega da noi a' Lombardi.</I>
Nel detto anno, parendo a' Guelfi della città di Brescia male stare sotto la signoria del re Giovanni, per l'antica nimistà avuta collo imperadore Arrigo suo padre, e per dispetto d'uno forte castello ch'egli avea fatto fare al disopra della terra per tenergli più suggetti, sì trattarono cospirazione e di dare la terra a' signori della Scala da Verona, promettendo loro di mantenergli in loro stato, e di cacciarne la parte ghibellina, che teneano col re Giovanni, e così aseguiro: o che a dì XIIII del mese di giugno cavalcato là messer Mastino della Scala con XIIIIc di cavalieri e popolo grandissimo, e i Guelfi della terra cominciarono il romore con armata mano, gridando: "Muoiano i Ghibellini e il re Giovanni, e vivano i signori della Scala!"; e combattendo contra loro, apersono alcuna porta della terra ch'era in loro podere, e per quella vi misono messer Mastino e sua gente, e cacciarne i Ghibellini e la gente del re Giovanni; e assai ne furono presi e morti, salvo quegli che scamparono nel castello, o si fuggirono della terra. Al quale castello si puose l'assedio, e fu tutto affossato e steccato intorno, e tennesi per la gente del re Giovanni infino a dì IIII del mese di luglio, ch'aspettavano soccorso dal figliuolo del re Giovanni ch'era a Parma, il quale non s'ardì di venire sentendo la potenza di messer Mastino, e ch'egli avea la terra, per la qual cosa s'arenderono, salve le persone. E poi il detto messer Mastino il settembre vegnente per simile modo tolse la città di Bergamo a la gente del re Giovanni, e fecesi la lega già trattata da' detti signori della Scala, e quello di Melano, e quello di Mantova, e' marchesi da Ferrara col re Ruberto e col Comune di Firenze contra al Bavero e al re Giovanni, o chi gli desse aiuto o favore; e avere gli amici per amici, e' nimici di ciascuno per nimici, non traendone imperio né Chiesa. La quale lega fu ordinata di IIIm cavalieri; VIc al re Ruberto e VIc cavalieri al Comune di Firenze, e VIIIc cavalieri a' signori della Scala, e VIc cavalieri al signore di Milano, e CC cavalieri al signore di Mantova, e CC cavalieri a' marchesi da Ferrara, e confermossi per ambasciadori e sindachi con solenni contratti e saramenti. E fu in patti che la lega aterebbe conquistare a messer Azzo di Milano la città di Chermona e 'l borgo a San Donnino, e a' que' della Scala la città di Parma, e al signore di Mantova la città di Reggio, e a' marchesi da Ferrara la città di Modona, e a' Fiorentini la città di Lucca. E nota, lettore, nuova mutazione di secolo, che il re Ruberto capo di parte di Chiesa e de' Guelfi, e simile il Comune di Firenze, allegarsi in compagnia co' maggiori tiranni e Ghibellini d'Italia, e spezialmente con messer Azzo Visconti di Milano, il quale fue al servigio di Castruccio a sconfiggere i Fiorentini ad Altopascio, e poi venire a oste infino a la città di Firenze, come adietro facemmo menzione: ma a·cciò condusse il re Ruberto e' Fiorentini la dubitazione del Bavero e del re Giovanni, e lo sdegno preso col legato per la compagnia fatta col re Giovanni.
La quale lega da cui fu lodata e da cui biasimata, ma a·ccerto ella fu allora lo scampo della città di Firenze e la confusione del re Giovanni e del legato, come innanzi leggendo si troverrà.
<B>CCIII</B>
<I>D'una grande punga fatta sopra Barga, e come i Fiorentini la perdero.</I>
Nel detto anno, essendo i Lucchesi colla gente del re Giovanni all'assedio di Barga in Carfagnana, la quale si tenea per gli Fiorentini, e aveavi intorno più battifolli e bastite con quantità di VIIIc cavalieri e popolo grandissimo, i Fiorentini sentendo ch'a quegli della terra falliva la vittuaglia, fecionvi cavalcare il loro capitano della guerra con tutta la loro cavalleria; e partirsi di Pistoia a dì VII di luglio, e cavalcarono per la via della montagna; e giunti sopra Barga in nulla guisa poterono fornire la terra per le tagliate e fortezze che v'aveano fatte intorno i Lucchesi, e tornarsene adietro con poco onore. Ma poi i Fiorentini volendo vincere la punga feciono compagnia con Ispinetta marchese, tutto fosse Ghibellino, ma nimico era di que' di Lucca, e feciongli grandi vantaggi di moneta, e mandargli CC cavalieri, e egli ne menò di Lombardia da' signori della Scala e di Mantova altri CC, sì che con IIIIc cavalieri e popolo assai giunse in Carfagnana sopra Barga dì XII di settembre, promettendo a' Fiorentini di fornirla per forza. I Fiorentini d'altra parte si mossono di Pistoia a dì VII di settembre in quantità di VIIIc cavalieri e popolo assai, e presono il Cerruglio, e Vivinaia, e Montechiaro con intendimento che' Lucchesi si levassono da Barga; e se a quegli fossono rimasi, e afforzatigli e forniti, a certo aveano vinta la guerra di Lucca, però che sono sì sopra a Lucca, che ogni dì gli poteano correre infino a le porte. Ma veggendo che' Lucchesi non si partivano dall'assedio, anzi quello rinforzaro, e cavalcatovi messer Simone Filippi vicario del re Giovanni con tutta la forza rimasa in Lucca, e fatto venire cavalieri da Parma, i Fiorentini abandonarono il Cerruglio e quell'altre fortezze di sopra Lucca, e cavalcarono in Carfagnana al soccorso di Barga, e a quello pugnarono dall'una parte e Spinetta dall'altra con ogni forza e ingegno; e richeggendo di battaglia messer Simone Filippi, il quale colla sua gente era sì afforzato, che i Fiorentini né Spinetta si poteano loro apressare; e veggendo che·lla terra non si potea più tenere, non volle combattere, onde i Fiorentini perderono la punga, e partirsi e tornarsi a Pistoia, e Spinetta nelle sue terre, e Barga s'arendé a' Lucchesi salve le persone a dì XV d'ottobre. Di questa impresa i Lucchesi montarono assai nella guerra, e' Fiorentini ne calarono; e grande ripitio n'ebbe in Firenze contro a coloro che reggeano la terra; l'una che la 'mpresa fu folle a tenere terra così di lungi e con poco utile, e ispiacque infino al cominciamento a' più de' Fiorentini, e al principio si poteva fornire per ispesa di IIIc fiorini d'oro, e quegli ch'allora erano al priorato nol seppono fare; e poi costò al Comune di Firenze più di Cm fiorini d'oro sanza la vergogna. E nota che sempre è riuscito male al Comune di Firenze a fare le 'mprese isformate e da lungi; e leggendo questa per adietro si troverrà manifesto.
<B>CCIV</B>
<I>Come i Genovesi co·lloro armata corsono la Catalogna.</I>
Nel detto anno, a dì XX d'agosto, si partirono di Genova L galee armate e VI legni di Genovesi per andare sopra i Catalani, per fare vendetta della venuta che feciono l'anno dinanzi sopra la riviera di Genova; e giunti in Catalogna la corsono tutta, le loro riviere, e simile l'isola di Maiolica e di Minorica, e feciono grandi guasti e ruberie in più parti sanza nullo contasto, e presono V galee di Catalani, le quali per paura percossono a terra, e gran parte de la gente lo scamparono, e le galee arsono, e tornarono a Genova sani e salvi a dì XV d'ottobre MCCCXXXII con grande onore.
<B>CCV</B>
<I>Come e perché il Comune di Firenze condannò il Comune di San Gimignano.</I>
Nel detto anno, a dì X di settembre, avendo la podestà di San Gimignano con più gente della terra con bandiere levate corso sopra i loro usciti alla villa di Campo Urbiano del contado di Firenze, e quella villa combatterono e arsono, perché riteneano i loro usciti. Per la quale cosa indegnato il Comune di Firenze feciono citare la detta podestà, overo capitano, con più terrazzani di San Gimignano che furono nella detta cavalcata, e non comparirono; onde fu condannato in Firenze il Comune di San Gimignano in libbre Lm, e la detta podestà, ch'era di Siena, e CXLVII uomini di San Gimignano a essere arsi. E volendo il Comune di Firenze far fare l'eseguizione alle loro masnade, il Comune di San Gimignano chiesono misericordia e perdono, rimettendosi a la mercé del popolo e Comune di Firenze liberamente; per la qual cosa fu loro fatta grazia e perdonato a dì X d'ottobre, ribandendo i loro usciti, e rendendo i loro beni, e amendando a que' di Campo Urbiano ogni loro dammaggio a·lloro stimo e degli ambasciadori di Firenze, ch'andarono a vedere il guasto; e così fu fatto.
<B>CCVI</B>
<I>Come il capitano di Milano ricominciò guerra al legato di Lombardia e al re Giovanni.</I>
Nel detto anno, del mese d'ottobre, messer Azzo di Milano avendo trattato d'avere la città di Chermona, che si tenea per la Chiesa, e cavalcatavi sua gente, ed entratine parte dentro a la terra per una porta ch'a·lloro fu data per gli traditori, per forza combattendo, dalle masnade della Chiesa che v'erano ne furono cacciati fuori, e rimasonne presi e morti. E poi per questa cagione messer Azzo col signore di Mantova con più di MVc cavalieri venne sopra la città di Modona, e istettevi intorno per XX dì guastandola d'intorno. Per la qual cosa in Bologna ebbe gran paura e sospetto, e il legato ch'era in Romagna per andare nella Marca tornò con sua gente a Bologna in grande fretta, e con grande gelosia e paura di perdere Bologna.
<B>CCVII</B>
<I>Di più fuochi apresi nella città di Firenze.</I>
Nel detto anno, a dì XIII di novembre, s'apprese fuoco da San Martino nella via che va in Orto San Michele, e arsono III case e la torre overo palazzo de' Giugni con grande danno di lanaiuoli, che in quelle aveano loro botteghe, e morirvi IIII tra uomini e garzoni. E la sera apresso s'aprese Oltrarno da casa i Bardi, e arsono II case. E quella medesima sera s'apprese al canto di Borgo San Lorenzo, ma poco arse. E poi a dì XVIIII di novembre s'apprese al borgo al Ciriegio, e arse una casa. E a dì XXVI di gennaio di mezzodì s'apprese fuoco contra il campanile vecchio di Santa Reparata da la via di Balla, e arse una casa. E nota che bene si mostra in Firenze la 'nfruenza del pianeto di Mars, che in quella ha potenza, che essendo nel segno del Leone sua tripicitade, è segno di fuoco, che in poco più d'uno anno tanti fuochi s'accesono nella nostra cittade, come appare qui, e poco adietro e innanzi; overo che s'appresono per mala provedenza e guardia; e a questo si dee dare più fede. E non vi maravigliate perché in questo nostro trattato facciamo ricordo d'ogni fuoco apreso nella città di Firenze, che all'altre novità paiono piccolo fatto; ma niuna volta vi s'aprende fuoco, che tutta la città non si commuova, e tutta gente sia sotto l'arme e in grande guardia.
<B>CCVIII</B>
<I>Come l'oste de' marchesi da Ferrara fu sconfitta dal figliuolo del re Giovanni a San Filice.</I>
Nel detto anno, essendo a oste la gente de' marchesi da Ferrara coll'aiuto della lega di Lombardia in quantità di MC cavalieri e popolo assai sopra il castello di San Filice nel contado di Modona, della quale oste era capitano messer Giovanni da Campo Sampiero di Padova, e avendo il detto castello molto stretto con battifolli, Carlo figliuolo del re Giovanni si partì di Parma con sua gente, e venne a Modona per soccorrere il detto castello, e il legato da Bologna mandò la sua cavalleria intorno di VIIIc cavalieri alle frontiere di Modona, comandando loro che a richiesta del detto Carlo fossono contra i marchesi. Il detto Carlo avendo novelle come l'oste de' marchesi era molto sparta e male ordinata, come franco duca, sanza attendere l'aiuto dalla gente del legato, ma tuttora gliene crebbe vigore e baldanza, uscì di Modona con VIIIIc cavalieri molto buona cavalleria e con tutto il popolo di Modona; e giunto all'oste de' nimici subitamente gli assalì, e durò la battaglia dalla nona infino passato vespro molto ritenuta. A la fine la gente de·re Giovanni ebbono la vittoria, e di que' della lega de' Lombardi vi rimasono tra morti e presi più di Vc cavalieri e popolo assai; e rimasevi preso il detto messer Giovanni e molti conostaboli; e ciò fu a dì XXV di novembre del detto anno; onde montò molto la grandezza del re Giovanni, e ancora i·legato ne prese vigore; e perché disamava i marchesi, perché liberamente non gli vollono dare la signoria di Ferrara, e incontanente fece loro muovere guerra, e ardere la villa di Consandoli; e' marchesi, tutto fossono sconfitti, corsono in sul bolognese, e arsono la villa di Cierie.
<B>CCIX</B>
<I>Come messer Azzo Visconti tolse la città di Pavia al re Giovanni.</I>
Nel detto anno, a l'uscita di novembre, messer Azzo Visconti capitano di Milano prese la città di Pavia che gli fu data da certa parte de' cittadini, la quale tenea la gente del re Giovanni, e corsa la terra combattendo, le masnade del re Giovanni non poterono risistere per la grande potenza di que' di Melano, si ridussono nel forte castello il quale avea fatto fare messer Maffeo Visconti anticamente quando signoreggiava Pavia, e quello tennono francamente più di IIII mesi, attendendo soccorso da Piagenza e da Parma dal figliuolo del re Giovanni e da la gente della Chiesa, e ancora la venuta del re Giovanni in Lombardia, come aveano promesso. Ma il detto castello era tutto affossato e steccato al di fuori per que' di Milano, e con forti battifolli e bastite forniti di grande cavalleria e grandissimo popolo. Ma venuto il re Giovanni in Lombardia con grande potenza di cavalleria, come innanzi faremo menzione, venne all'entrata di marzo con più di MD cavalieri al soccorso del detto castello, e per forza d'arme ruppe alcuno battifolle e isteccato, ma per la forza del luogo pochissima quantità di vittuaglia vi poté mettere dentro. E lui partito, poco tempo appresso fallì a quegli del castello la vivanda; per la qual cosa uno conte tedesco che v'era dentro per lo re Giovanni s'arendé possendosi partire sano e salvo con sue genti; e così fece. Della detta punga molto esaltò il capitano di Milano, e 'l re Giovanni n'abassò.
<B>CCX</B>
<I>Come il re Giovanni andò a Vignone a papa Giovanni.</I>
Nel detto anno, del mese di novembre, il re Giovanni venne di Francia a Vignone in Proenza per parlamentare con papa Giovanni, e in sua compagnia menò più baroni e signori di Valdirodano per farsi fare salvocondotto, perché dubitava di venire nelle terre del re Ruberto; e bisognavagli bene, che per contastare la sua venuta il siniscalco di Proenza, messer Filippo di Sangineto, raunò in Vignone più di VI cavalieri gentili uomini di Proenza, e que' di Vignone erano aparecchiati in arme a suo comandamento; ma il papa a priego de' detti signori gli diè licenzia del venire sicuro, e comandò al siniscalco che non gli dovesse offendere. E venuto il re Giovanni in Vignone dinanzi al papa, il papa gli fece grande asalto di parole e minacce, riprendendolo delle sue imprese delle terre di Lombardia e di Lucca, ch'aparteneano alla Chiesa; ma tutto fu opera disimulata, però che tutte sue imprese erano con ordine del re di Francia e del legato di Bologna per abattere i tiranni di Lombardia, e perché il re di Francia per sé, overo per messer Carlotto suo fratello, il quale era sanza reame, cercavano sagretamente col papa d'essere l'uno di loro re in Italia. Il re Giovanni con infinte scuse si rimise a la mercé del papa, e riconciliollo il papa con seco com'era ordinato, e ristette in corte più di XV dì, ciascuno giorno a consiglio sagreto col papa, ove ordinarono più cose segrete, che poco tempo apresso partorirono, e le congiure ordinate furono palesi, come innanzi leggendo faremo menzione. E partitosi il re Giovanni di corte, se n'andò in Francia per seguire la traccia. Lasceremo alquanto degli andamenti del re Giovanni per dire d'altre novità di Toscana, ma tosto torneremo a sua materia, ch'assai ne cresce tra mano.
<B>CCXI</B>
<I>Come i Sanesi sconfissono i Pisani, e poi i Pisani gli cavalcarono infino presso a Siena.</I>
Nel detto anno, avendo i Pisani tolta la signoria di Massa in Maremma, come addietro facemmo menzione, i Sanesi co·lloro capitano, in quantità di IIIc cavalieri e popolo assai, cavalcarono al soccorso d'uno castello che' Pisani co' Massetani aveano assediato, ond'era capitano messer Dino della Rocca di Maremma con CC cavalieri e M pedoni. Trovandogli i Sanesi male ordinati, sì gli sconfissono a dì XVI di dicembre nel detto anno co·lloro grande danno, e furonne assai presi e morti, e fu preso il detto capitano. E poi i Sanesi corsono la Valdera infino a Folcole con grande danno de' Pisani. Per la quale sconfitta i Pisani adirati mandarono per soccorso a Lucca e a Parma, e soldarono quanta gente poterono avere, onde in poco tempo ebbono VIIIc buoni cavalieri oltramontani, e feciono loro capitano di guerra Ciupo degli Scolari uscito di Firenze, il quale del mese di febbraio vegnente cavalcò in sul contado di Siena infino al piano di Filetta, guastando e ardendo quanto innanzi si trovarono sanza nullo contasto, e arsono il bagno a Macereto, e poi tornarono in Valle di Strova e a la badia a Spugnole, e in quelle contrade feciono il somigliante, e gli scorridori corsono infino a Camposanto presso a due miglia a Siena, levando grandi prede e faccendo danno assai; e più avrebbono fatto, se non che i Fiorentini mandarono delle loro masnade CC cavalieri a la guardia del castello di Colle, onde i Pisani dubitando si ritrassono, e tornarsi a Pisa con grande onore. I Sanesi richiesono i Fiorentini d'aiuto, e ch'eglino mandassono a Siena le loro masnade per volere combattere co' Pisani quand'erano sopra loro. I Fiorentini nol vollono loro dare per non rompere pace a' Pisani, e per dubbio de' Fiorentini e di loro mercatantie ch'erano in Pisa; onde i Sanesi presono grande isdegno contra i Fiorentini, e tutta l'onta e vergogna e danno ricevuto da' Pisani si riputarono avere ricevuto da' Fiorentini, perché non gli aveano soccorsi.
<B>CCXII</B>
<I>Come il figliuolo del re Giovanni venne a Lucca, e come il detto re Giovanni tornò in Lombardia.</I>
Nel detto anno, in calen di gennaio, Carlo figliuolo del re Giovanni venne di Parma a Lucca, e da' Lucchesi gli fu fatto grande onore sì come a·re e a·lloro signore, ma poco vi dimorò in Lucca: ma innanzi ch'egli si partisse volle da' Lucchesi XLm fiorini d'oro, ma a la fine con grande fatica e renzione de' cittadini n'ebbe XXVm; sì che la festa che' Lucchesi feciono della sua venuta tornò loro in amarore e danno. E ciò fatto, il detto Carlo si tornò in Lombardia per vedere il re Giovanni suo padre, il quale tornava di Francia, ed era venuto a Torino all'uscita di gennaio col conastabole del re di Francia, e col conte d'Armignacca, e con quello di Forese, e col maliscalco di Mirapesce, e più altri signori e baroni, e con un fioretto di VIIIc cavalieri eletti di Francia e di Borgogna e di Valdirodano. E dissesi ch'avea avuto da·re di Francia o in dono overo in presto Cm fiorini d'oro. E giunse in Parma a dì XXVI di febbraio, e là si trovò col figliuolo con più di IIm buoni cavalieri, sanza Vc che di sua gente avea nella città di Lucca. E per soccorrere il castello di Pavia e ricoverare la terra si partì di Parma a dì X di marzo con MD cavalieri, e fece la punga a Pavia per lo modo che dicemmo adietro nel capitolo della perdita ch'egli fece della città di Pavia. E non potendo fornire suo intendimento cavalcò in sul contado di Milano, e poi in su quello di Bergamo, faccendo grande dammaggio; ma però il capitano di Milano non si volle partire da oste dal castello di Pavia, né afrontarsi a battaglia col re Giovanni, il quale non potendo avere battaglia si tornò a Parma a dì XXVII di marzo.
<B>CCXIII</B>
<I>Come il legato mandò a' Fiorentini che·ssi partissono dalla lega de' Lombardi.</I>
Nel detto anno, dì primo di febbraio, vennono in Firenze ambasciadori del legato, pregando il nostro Comune che si dovessono partire dalla lega de' signori di Lombardia, dicendo ch'erano tiranni e suoi nimici e di santa Chiesa, e allegando molte autorità e ragioni, che la nostra città co·lloro non era né convenevole né bella compagnia, e ch'egli erano stati co' nostri nimici a sconfiggerne. Fu loro risposto che ciò non poteva essere che la lega rimanesse, però ch'ell'era fatta con asentimento di papa Giovanni e del re Ruberto, e contro al Bavero e contro al re Giovanni nostri nimici e di santa Chiesa; e che il legato non facea bene a tenere lega o conversazione col re Giovanni. E per la detta richesta del legato maggiormente si confermò la detta lega per l'avenimento del re Giovanni, con tanta forza di cavalleria quanta menava d'oltramonti, avendo di lui e del legato grande sospetto; e videsi per opera, come per gli seguenti capitoli seguirà. E di certo, se·lla detta lega non fosse fatta e mantenuta, la nostra città portava grande pericolo, però che il legato col re Giovanni aveano ordinato di cominciar guerra da più parti per sottomettere a·lloro la nostra repubblica, ch'a certo la maggiore volontà che·legato avesse era che' Fiorentini gli si dessono come i Bolognesi, e ciò ch'egli adoperava col re Giovanni era a questo fine: e ciò si trovò veramente per lettere trovate, e per gli loro osordi e trattati; e però non fu follia se' Fiorentini s'allegarono col minore nimico per contastare al maggiore e più possente.
<B>CCXIV</B>
<I>Come l'oste del legato sconfissono i marchesi a Consandoli, e poi puosono l'oste a Ferrara, e Fiorentini vi mandarono soccorso.</I>
Nel detto anno, a dì VI di febbraio, la cavalleria e gente del legato ch'era in Argenta subitamente cavalcarono a Consandoli, ov'era la gente de' marchesi, e coloro virilmente assalirono e sconfissono, e presono la villa e il porto e tutto il loro navilio; e fu preso Niccolò marchese con XL buoni uomini caporali con grande dammaggio e perdita de' marchesi. Per la quale sconfitta molto abassò lo stato de' marchesi, e montò la signoria e potenzia del legato in tale modo, che di presente sanza indugio, per comandamento del legato, la sua cavalleria, in quantità di MD cavalieri e popolo e navilio grandissimo, si puose ad oste sopra la città di Ferrara. E di presente presono il borgo di contro e l'isola di San Giosso, e poi di giorno in giorno crebbe l'oste; e mandòvi il legato tutti i caporali di Romagna, e al continovo erano nella detta oste i due quartieri del popolo di Bologna e tutta la loro cavalleria; e aveano compreso e quasi chiusa la città di Ferrara e di qua e di là da Po, sì che sanza grande pericolo non vi potea entrare né uscire persona. Onde a' marchesi e a que' della terra di Ferrara parea male stare, e molto isbigottirono per lo sùbito improviso assedio, che non s'erano forniti e non si credeano avere guerra dal legato, e per la sconfitta ricevuta a San Filice erano molto afieboliti. Ed era per perdersi la terra certamente, se non che mandarono per soccorso a' signori di Lombardia ch'erano tenuti alla lega, e al Comune di Firenze. Per la qual cosa i Fiorentini vi mandarono IIIIc cavalieri della migliore cavalleria ch'egli avessono, onde feciono capitano messer Francesco degli Strozzi, e Ugo degli Scali colla 'nsegna del Comune di Firenze, il campo bianco e 'l giglio vermiglio, e di sopra l'arme del re Ruberto. E partirono di Firenze a dì II di marzo, e convenne che facessono per necessità, non potendo andare né da Parma, né da Bologna, né per Romagna, la via per mare a Genova con grande fatica e ispendio, e poi da Genova a Milano, e poi a Verona; e là furono ricevuti da que' signori a grande onore. E la parte de' cavalieri che toccavano della taglia al re Ruberto, per non andare contro a le 'nsegne della Chiesa e del legato, per grazia rimasono a le frontiere da noi a Lucca.
<B>CCXV</B>
<I>Come il re Giovanni venne in Bologna al legato.</I>
Nell'anno MCCCXXXIII, a dì III d'aprile, il re Giovanni venne in Bologna al legato, e pasquò co·llui con grande festa; de la quale venuta in Bologna del re Giovanni molto si turbarono i Bolognesi, e male ne parve loro; ma ciò non poterono riparare contro la volontà del legato, anzi convenne loro pagare per comandamento del legato al detto re Giovanni contro a·loro volere fiorini XVm d'oro. E promise al legato d'andare con sua cavalleria nell'oste di Ferrara, sentendo che la lega venia al soccorso e mandòvi innanzi il conte d'Armignacca con IIIc de' suoi cavalieri e le sue insegne, e tornò a Parma per ordinare sua mossa. I Fiorentini veggendo scopertamente la lega fatta tra·re Giovanni e il legato, mandarono sagretamente a' loro cavalieri che non si guardasse per loro reverenza del legato, che l'aveano per loro nimico, dapoi ch'era venuto il re Giovanni a Bologna, e presi gaggi da·llui, e mandata sua gente e sue insegne nell'oste a Ferrara.
<B>CCXVI</B>
<I>Come l'oste del legato ch'era all'assedio di Ferrara fu sconfitta.</I>
Essendo l'oste del legato intorno a Ferrara molto ingrossata, e più era per essere giugnendovi il re Giovanni colle sue forze come dovea, quegli della lega di Lombardia dubitando che·lla terra non si perdesse per loro indugio del soccorso, diliberarono di soccorrerla innanzi che vi venisse il re Giovanni; e mandarvi subitamente XVIIc di cavalieri, VIc de' signori della Scala, Vc cavalieri di que' di Milano, CC cavalieri del signore di Mantova, e XXV gazzarre armate in Po, e IIIIc cavalieri del Comune di Firenze. E venuta la detta cavalleria in Ferrara quasi sagreta a que' dell'oste, subitamente presono consiglio d'assalire l'oste; ma quella essendo molto afforzata di fossi e di palizzi, ciascuna masnada rifiutava d'assalire da quella parte, e in ciò ebbe tra·lloro grande contesa. A la fine i capitani che v'erano per gli Fiorentini francamente promisono di fare la 'mpresa coll'avogaro di Trevigi e Spinetta marchese, insieme con uno fioretto di CL cavalieri delle masnade de' signori della Scala, intra' quali avea più di XL usciti di Firenze gentili uomini, i quali tutti di grande e buono volere sotto la bandiera del nostro Comune si ridussono, e non lasciando, perché in quella fosse al di sopra il rastrello e l'arme del re Ruberto. E uscirono per la porta che va a Francolino, per assalire l'oste da la parte ov'era più forte di fossi e di steccati. Tutta l'altra gente della terra a cavallo e a piè uscirono per la porta del Leone, a uno cenno di campana, e simile il navilio per Po per assalire il ponte da San Gioso. L'asalto fu forte e sùbito, ma niente aprodava per le barre e tagliate e fosse ch'erano tra la terra e l'oste, se non che la gente de' Fiorentini cogli altri detti di sopra assalirono al di dietro dell'oste, e per forza di spianatori feciono uno stretto valico al fosso e ruppono alquanto dello steccato; il quale per lo sùbito e improviso assalto da tante parti con grida e suono di campane e di stormenti, e quasi come isbalorditi que' dell'oste, male fu difeso, sì che con grande affanno quasi uno innanzi altro salirono in su lo spianato del campo, i quali schierati in sul detto campo trovarono ivi presso il conte d'Armignacca, con quasi tutta la cavalleria di Linguadoco e colle insegne del re Giovanni in quantità di VIc cavalieri, i quali francamente i nostri gli asalirono; e 'l conte e sua gente si difesono e sostennono vigorosamente con ritenuta battaglia più di spazio d'una ora, non sappiendo qual parte s'avesse il migliore; e in tutta la detta oste non ebbe altra gente che punto reggesse o combattesse. Alla fine per la nostra buona gente e buoni capitani, i quali ciascuno fece il dì maraviglia in arme, ebbono la vittoria, e que' dell'oste della schiera del conte furono sconfitti e rotti. E ciò fatto, tutta l'altra oste si mise in volta e in fugga; ma poco valse il fuggire, che per lo fiume del Po, e per le gazzarre e legni armati che v'erano all'asalto, quasi non ne scamparono se non pochi che si misono a nuoto, che tutti furono o presi o morti o annegati in Po; e cadde il ponte di San Gioso per lo carico grande della gente che fuggia, onde molti n'anegarono, e rimasevi preso il conte d'Armignacca, e l'abate di Granselva, e tutti i baroni di Linguadoco, e' signori di Romagna, e la cavalleria di Bologna, che non furono morti a la battaglia.
La detta dolorosa sconfitta fu a dì XIIII d'aprile MCCCXXXIII, per la quale isconfitta molto abassò la potenzia e signoria del legato, e lo stato de·re Giovanni molto n'afiebolìo. E' signori di Ferrara e le masnade della lega tutti furono ricchi di pregioni e di preda. Ma pochi dì apresso i marchesi per avere l'amore de' Bolognesi lasciarono tutti i popolani di Bologna, e poco apresso la cavalleria e' signori di Romagna, per recarglisi ad amici e torgli al legato.
<B>CCXVII</B>
<I>Di fuochi e altre novità state nella città di Firenze.</I>
Nel detto anno MCCCXXXIII s'apprese fuoco in Firenze dì XVIIII d'aprile di notte da la porta dell'alloro da Santa Maria Maggiore, e arsevi una casa. E poi a dì XVII di luglio s'apprese in Parione, e arsene un'altra. E in questo anno si cominciò a fondare la grande porta da San Friano, overo da Verzaia, e fu molto isformata a comparazione dell'altre della città; e furonne assai ripresi gli uficiali che·lla feciono cominciare. E in questo anno, uno mese innanzi la festa di san Giovanni, sì feciono in Firenze due brigate d'artefici, l'una nella via Ghibellina, tutti vestiti a giallo, e furono bene CCC; e nel Corso de' Tintori dal ponte Rubaconte fu l'altra brigata vestiti a bianco, e furono da Vc. E durò da uno mese continuo giuochi e sollazzi per la città, andando a due a due per la terra con trombe e più stormenti, e colle ghirlande in capo danzando, col loro re molto onorevolemente coronato e con drappo ad oro sopra capo, e alla loro corte faccendo al continuo e cene e desinari con grandi e belle spese. Ma la detta allegrezza poco tempo apresso tornò in pianto e dolore, spezialmente in quelle contrade, per cagione del diluvio che venne in Firenze, e più gravò là che in altra parte della città, come innanzi faremo menzione; e parve segno per contrario della futura aversità, sì come le più volte aviene delle false e fallaci felicità temporali, che dopo la soperchia allegrezza segue soperchio amarore. E ciò è bene da notare per assempro di noi e di chi apresso di noi verrà.
<B>CCXVIII</B>
<I>Di certi andamenti del re Giovanni a Bologna a richesta del legato.</I>
Nel detto anno, a dì XV di maggio, dopo la detta sconfitta da Ferrara il legato dubitando di suo stato mandò per lo re Giovanni, il quale venne di Parma a Bologna a parlamentare co·llui con poca compagnia, e tosto si partì con moneta ch'ebbe dal legato. Ma poi a dì VIII di giugno ritornò a Bologna con IIm cavalieri per andare in Romagna, e fare soccorrere il castello di Mercatello in Massa Tribara ch'era assediato dagli Aretini. Della quale venuta i Bolognesi ebbono grande paura e sospetto, che 'l re Giovanni non gli volesse signoreggiare, e rimettervi i Ghibellini. Ma dimorando lui in Bologna, gli Aretini ebbono per patti il detto castello per lo 'ndugio del soccorso del re Giovanni; e dissesi palese che 'l re Giovanni sì come amico degli Aretini, e a·lloro preghiera e per animo di parte ghibellina, indugiò il soccorso. Per la qual cosa il legato s'indegnò co·llui, e partissi da Bologna sanza suo congio a dì XV di giugno, e tornossi in Parma. E poi a dì XVI di luglio il detto re Giovanni venne alla città di Lucca, e fecevi fare a' Lucchesi una imposta di XVm fiorini d'oro per pagare sua gente; e quella ricolta, a dì XIII d'agosto si partì di Lucca egli e 'l figliuolo, e andonne a Parma.
<B>CCXIX</B>
<I>Come furono morti il conte dell'Anguillara e Bertoldo degli Orsini da' Colonnesi.</I>
Nel detto anno, a dì VI di maggio, essendo stata lungamente briga tra' Colonnesi e gli Orsini di Roma, essendo il conte dall'Anguillara con Bertoldo di messer... degli Orsini suo cognato, vegnendo per certo trattato d'accordo per accozzarsi con messer Stefano della Colonna e con gli altri, Stefanuccio di Sciarra della Colonna con sua compagnia di gente d'arme a cavallo mise uno aguato fuori del castello di Cesaro, e improviso assalirono i detti Bertoldo Orsini e il detto conte, i quali di ciò non si guardavano ed erano meno gente di loro. Veggendosi assalire si difesono vigorosamente, ma per lo soperchio furono rotti, e' detti Bertoldo e il conte morti, il quale Bertoldo era il più ridottato uomo di Roma e il più valentre; e di lui fu grande danno, e molto ne furono ripresi i Colonnesi, sì per lo tradimento, e ancora perché per quante guerre erano state tra gli Orsini e' Colonnesi insieme, mai in loro persone non s'erano né morti né fediti, e questo fu cominciamento di molto male; e però n'avemo fatta menzione.
<B>CCXX</B>
<I>Come i Saracini presono il forte castello di Giubeltaro in Ispagna.</I>
Nel detto anno, del mese di giugno, i Saracini di Morrocco e quegli di Granata, sentendo che 'l forte castello di Giubeltaro in Ispagna, che anticamente fu loro, era male fornito di vittuaglia e per la carestia ch'era al paese, e per certo trattato subitamente con grande navilio e esercito di gente a cavallo e a piè vi vennono per mare e per terra, e quello in pochi giorni per tradimento del castellano ebbono a patti per molti danari gli diedono; tutto fosse mal fornito, si potea tenere tanto che fosse soccorso. Come il re di Spagna il seppe, incontanente v'andò a oste con tutto suo podere, e avrebbelo riavuto assai tosto, perché ancora non era bene fornito per lo sùbito soccorso del re di Spagna, se non che, come piacque a Dio, per fortuna di mare il navilio del re di Spagna partito di Sibilia col foraggio e fornimento dell'oste soprastette più giorni, onde l'oste de' Cristiani ebbe grande soffratta di vittuaglia, e per necessità gli convenne partire; e se i Saracini di Granata l'avessono saputo, non ne campava uomo, che non fosse morto o preso. E partita la detta oste, III dì appresso vi giunse il detto navilio col fornimento, ma il soccorso fu invano. E così aviene sovente de' casi della guerra, come dispone Idio per le peccata.
<B>CCXXI</B>
<I>Come il re Adoardo il giovane sconfisse gli Scotti a Vervicche.</I>
Nel detto anno, a dì XVIIII di luglio, essendo il re Adoardo il giovane d'Inghilterra con grande oste d'Inghilesi e d'altra gente sopra la città, overo terra, di Vervicche, ch'è a' confini tra l'Inghilterra e la Scozia, gli Scotti per soccorrere la terra vi vennono col loro re, ch'avea nome Davit, figliuolo che fu del valente Ruberto di Brus re di Scozia, onde adietro è fatta menzione, e con tutto loro isforzo degli Scotti, i quali sanza indugio s'affrontarono a battaglia con gl'Inghilesi. E per la buona cavalleria ch'avea il re d'Inghilterra, e di Fiandra e di Brabante e d'Analdo, onde fu capitano messer Amerigo di Bielmonte, mise gli Scotti in isconfitta; e rimasonvi tra morti e presi più di XXVm uomini, ch'erano quasi tutti a piè. E avuta il re d'Inghilterra la detta vittoria, pochi dì apresso gli s'arendé la terra di Vervicche liberamente. La detta guerra ricominciò in questo modo, come facemmo menzione, al tempo del buono Adoardo il vecchio, avolo di questo giovane Adoardo: grandi guerre e battaglia furono intra·llui e 'l re Ruberto di Brus, onde poi fu pace; e morto il re Ruberto di Brus rimase suo figliuolo il detto Davit piccolo fanciullo; e lui cresciuto in età, il detto Adoardo il giovane gli diede per moglie la serocchia, e coronollo del reame di Scozia faccendolo ugnere re, che mai più niuno in Iscozia fu unto e sagrato, riconoscendo da·llui il reame con certo omaggio. Il detto Davit per suduzione di Filippo di Valos re di Francia si rubellò dal re d'Inghilterra, e colla moglie passò in Francia; per la qual cosa si rinovellò l'antica guerra tra gl'Inghilesi e gli Scotti; onde il re d'Inghilterra cassò il detto Davit de·reame di Scozia, e fecelo suo ribello, ed elesse e coronò per re di Scozia Ruberto di Bagliuolo consorto per nazione di Ruberto di Brus, e imprese la detta guerra, onde nacque la detta sconfitta. E tutto che 'l re d'Inghilterra avesse la vittoria nella detta guerra, morirono il conte d'Eriforte e due altri suoi cugini e più altri grandi baroni d'Inghilterra. Avemo steso la detta ricominciata guerra, perché ne surse e nacque poi la grande guerra tra 'l re di Francia e d'Inghilterra, come innanzi farà menzione.
<B>CCXXII</B>
<I>Come il Dalfino di Vienna fu morto dalla gente del conte di Savoia.</I>
Nel detto anno, all'uscita del mese di luglio, essendo il Dalfino di Vienna ad assedio dell'Amperiera, castello del conte di Savoia, con MVc cavalieri tra di sua gente e d'amici, volendo il detto Dalfino fare dare battaglia al detto castello, e andando in persona disarmato proveggendo intorno a quello, gli venne uno quadrello di balestro grosso per tale modo che, lui recato al padiglione e sferrato, passò di questa vita. E però è follia a' prencipi di mettersi a sì fatte cerche disarmati, che mettono a pericolo loro e tutta loro oste. Ma per la morte del Dalfino i suoi baroni e cavalieri non abandonarono l'assedio, ma come franchi e valenti, tanto vi stettono ch'ebbono il castelletto per forza, e quanti dentro vi trovarono tutti gli manganarono fuori delle mura; e poi corsono il paese e terre di Savoia sanza contasto niuno. Apresso lui fu fatto Dalfino messer Uberto suo fratello, il quale era a Napoli col re Ruberto suo zio, il quale venuto in suo paese per consiglio di papa Giovanni e del re Ruberto, per cagione che 'l re di Francia domandava al papa di volere il reame di Vienna e d'Arli, sì si pacificò col conte di Savoia, perché il re di Francia non gli signoreggiasse.
<B>CCXXIII</B>
<I>Come il re d'Ungheria venne a Napoli, e il figliuolo isposò la figlia del duca di Calavra.</I>
Nel detto anno, l'ultimo dì di luglio, Carlo Umberto re d'Ungheria con Andreas suo secondo figliuolo con molta baronia arrivaro alla terra di Bestia in Puglia, e loro venuti a Manfredonia, da messer Gianni duca di Durazzo e fratello del re Ruberto con molta baronia furono ricevuti a grande onore, e conviati infino a Napoli; e là vegnendo, il re Ruberto gli si fece incontro infino a' prati di Nola, basciandosi in bocca con grandi acoglienze, e ordinovisi e fecesi fare per lo re una chiesa a onore di nostra Donna per perpetua memoria di loro congiunzione. E poi giunti in Napoli, si cominciò la festa grande, e fu molto onorato il re d'Ungheria dal re Ruberto, il quale era suo nipote, figliuolo che fu di Carlo Martello primogenito del re Carlo secondo, il quale per molti si dicea ch'a·llui succedea il reame di Cicilla e di Puglia; e per questa cagione parendone al re Ruberto avere coscienza, e ancora perch'era morto il duca di Calavra figliuolo del re Ruberto; e nonn-era rimaso di lui altro che due figliuole femmine, né·re Ruberto non avea altro figliuolo maschio, innanzi che 'l reame tornasse ad altro lignaggio sì volle il re Ruberto che dopo lui succedesse il reame al figliuolo del detto re d'Ungheria suo nipote. E per dispensagione e volontà di papa Giovanni e di suoi cardinali sì fece sposare al detto Andreas, ch'era d'età di VII anni, la figliuola maggiore che fu del duca di Calavra, ch'era d'età di V anni, e lui fece duca di Calavra a dì XXVI di settembre del detto anno con grande festa, a la quale il Comune di Firenze mandò VIII ambasciadori de' maggiori cavalieri e popolani di Firenze, con L famigliari tutti vestiti d'una assisa per fare onore a' detti re, i quali molto gradiro. E compiuta la detta festa, poco apresso si partì il re d'Ungheria e tornò in suo paese, e lasciò a Napoli il figliuolo co la moglie alla guardia del re Ruberto con ricca compagnia.
<B>CCXXIV</B>
<I>Come fu fatta pace tra' Pisani e' Sanesi.</I>
Nel detto anno, a dì II di settembre, essendo stato lungo trattato d'accordo da' Pisani a' Sanesi della guerra avuta insieme per cagione della città di Massa, menato per lo Comune e vescovo di Firenze, i quali in ciò molto s'adoperaro, vi si diè compimento nella città di Firenze, ov'era grande ambasceria dell'uno Comune e dell'altro in questo modo: che Massa rimanesse libera rimettendo dentro ogni parte che n'era fuori, e non v'avessono affare né Pisani né Sanesi, ma che il detto vescovo di Firenze vi mettesse la signoria per tre anni a sua volontà, il quale al continuo vi mettea signoria di Firenze; di questa pace furono mallevadori per l'uno Comune e per l'altro il Comune di Firenze, con pena di diecimila marchi d'argento a pagare per la parte che·lla pace rompesse a l'altra. La quale pace poco tempo s'attenne per gli Sanesi, come innanzi farà menzione.
<B>CCXXV</B>
<I>Come la città di Forlì e quella d'Arimino e di Cesena in Romagna si rubellarono al legato.</I>
Nel detto anno MCCCXXXIII, domenica a dì XVIIII di settembre, Francesco di Sinibaldo Ordilaffi, il quale era cacciato di Forlì per lo legato, entrò in Forlì nascosamente in uno carro di fieno; e come fu nella città mandò per tutti i suoi amici, caporali della terra, da' quali molto era amato per li suoi antichi; e saputa la sua venuta, furono molto allegri, perché parea loro male stare alla signoria de' Caorsini e di Linguadoco. E incontanente feciono armare tutto il popolo, e corsono a la piazza gridando: "Viva Francesco, e muoia il legato, e chi è di Linguadoco!", e corsono la terra, e rubarono gli uficiali del legato, e alquanti ne furono morti, e gli altri che scamparono si fuggirono a Faenza. E poi il mercoledì apresso, a dì XXII di settembre, messer Malatesta d'Arimino con suoi seguaci entrò in Rimino con CC cavalieri e pedoni assai per una porta che gli fu data da que' della terra, e corse la terra, e uccisono e rubarono e presono quanta gente v'avea dentro del legato, ch'erano più di cinquecento tra a cavallo e a piè, che non ne poté fuggire alcuno. E simile in que' dì si rubellò la città di Cesena per gli cittadini medesimi, salvo il castello ch'era molto forte; in quello si ridussono le masnade del legato, ma quello assediato d'entro e di fuori per que' di Cesena e per gli altri Romagnuoli, afossandolo e steccandolo d'intorno, il quale non avendo soccorso dal legato, s'arrenderono poi all'entrante di gennaio, salve le persone. E nota che non fu sanza cagione la detta rubellazione; intra·ll'altre maggiori fu perché tutti i signori e caporali di Romagna furono presi alla sconfitta di Ferrara in servigio della Chiesa e del legato, e convennonsi ricomperare, e per loro redenzione il legato come ingrato signore non li volle sovenire di niente, né solamente prestare loro di sua moneta.
<B>CCXXVI</B>
<I>Come i figliuoli che furono di Castruccio vollono torre Lucca al re Giovanni e come egli si partì d'Italia, e lasciò Lucca a' Rossi di Parma.</I>
Nel detto anno avendo il re Giovanni di Buem intendimento di partirsi d'Italia, veggendo che·lle sue imprese non gli riuscivano prospere come s'avisava, essendo in Parma cercò per più trattati di vendere la città di Lucca, e co' Fiorentini e co' Pisani e con altri. Ma alla fine parendogli vergogna di ciò fare, non vi diede compimento. Sentendo questo i figliuoli che furono di Castruccio, dubitando di non perdere loro stato, i quali il re Giovanni tenea seco istadichi in Parma per sospetto di loro, nascosamente si partirono di Parma e vennono in Carfagnana, e co·lloro seguaci di Lucca e di fuori ordinarono di torre e rubellare la città di Lucca al re Giovanni. E a dì XXV di settembre del detto anno la notte entrarono in Lucca con grande séguito di gente a·ccavallo e a·ppiè, e corsono la terra, e furonne signori quello dì e·ll'altro seguente, salvo del castello dell'Agosta, nel quale si ridussono le masnade del re Giovanni ch'erano in Lucca. Sentendo il re Giovanni la partita de' figliuoli di Castruccio e·lla detta cospirazione, subitamente si partì di Parma con parte di sua gente, e in meno di due dì fu venuto a·lLucca; cioè fu lunedì sera a dì XXVII di settembre; e per lo sùbito avenimento di lui, ch'a pena si potea credere per gli Lucchesi se non quando il vidono, e giunto in Lucca, la sua gente corsono la terra; e·lla notte medesima i figliuoli di Castruccio e·lloro seguaci si partirono di Lucca e andarne in Carfagnana; i quali il re Giovanni fece isbandire come traditori. E alquanti giorni apresso dimorò in Lucca; ma innanzi si partisse trasse da' Lucchesi quanta moneta poté avere, e·ppoi lasciò a' Rossi di Parma la guardia e·lla signoria della città di Lucca, e impegnolla loro per XXXVm di fiorini d'oro ch'ebbe da·lloro contanti, e tornato in Parma, incontanente si partì col figliuolo e con certi caporali di sua gente a dì XV d'ottobre del detto anno, e andossene nella Magna lasciando Parma e·lLucca alla signoria de' Rossi, e Reggio alla signoria di quegli da Fogliano, e Modona alla signoria di que' di casa i Pigli, e da ciascuno ebbe moneta assai. Tale e così onorevole fu la partita di Lombardia e di Toscana del re Giovanni, ch'al cominciamento ch'egli venne in Italia ebbe dalla fallace fortuna tanta prosperità con poca fatica, avendo ferma speranza d'essere in poco di tempo al tutto re e·ssignore d'Italia coll'aiuto della Chiesa e del suo legato, e col favore del re di Francia, la quale al tutto gli tornò in vano.
<B>CCXXVII</B>
<I>D'una grande quistione che mosse papa Giovanni che l'anime beate non poteano vedere Iddio perfettamente infino al dì del giudicio.</I>
Nel detto anno MCCCXXXIII si piuvicò per papa Giovanni apo Vignone, con tutto che più di due anni dinanzi l'avesse conceputo e trovato, l'opinione della visione dell'anime quando sono passate di questa vita, cioè ch'egli sermonò in piuvico concestoro per più volte dinanzi a tutti suoi cardinali e prelati di corte che niuno santo, eziandio santa Maria, non può perfettamente vedere la beata speme, cioè Iddio in trinitade, la qual'è la vera deitade, ma dicea che·ssolo possono vedere l'umanità di Cristo la quale prese della vergine Maria; e·lla detta visione imperfetta dicie che durerebbe infino al chiamare dell'angelica tromba, ciò fia quando il figliuolo di Dio verrà a giudicare i vivi e' morti, dicendo a' beati: "Venite benedicti patris mei, percipite regnum, etc."; e de converso, cioè a' dannati: "Ite maladetti in ignem etternum"; d'allora inanzi per gli beati perfettamente sarà in loro la visione chiara della vera e infinita deità; e così sarà il contradio delle pene de' dannati, che sì come per lo merito del bene fare infino al detto giorno la loro beatitudine fia imperfetta e non compiuta, così dicie e s'intendea del male avere fatto la pulizione e·lla pena e 'l supplicio essere imperfetti. Onde nota che non mostrava per lo suo oppinione che inferno sia infino al dire della parola "Ite maladitti etc.". Questo suo oppenione provava e argumentava per molte autorità e detti di santi; la quale quistione dispiaceva alla maggiore parte de' cardinali; nondimeno e' comandò loro e a tutti i maestri e prelati di corte sotto pena di scomunicazione che ciascuno studiasse sopra la detta quistione della visione de' santi, e facessene a·llui relazione, secondo che ciascuno sentisse o del pro o del contro, tuttora protestando che infino allora nonn-avea diterminato ad alcuna delle parti, ma ciò che-nne dicea e proponea era per via di disputazione e d'esercizio di trovare il vero. Ma con tutte le sue protestagioni di certo si dicea e vedea per opera ch'egli sentiva e credeva al detto oppinione; però che qualunque maestro o prelato gli recava alcuna autorità o detto di santi che in alcuna parte favorasse il detto suo oppinione, il vedea volentieri, e gli faceva grazia d'alcuno benificio. Il quale oppinione sermonandolo a Parigi il ministro generale de' frati minori, il quale era del paese del papa e sua criatura, fu riprovato per tutti i maestri di divinità di Parigi, e per gli frati predicatori e romitani e carmelliti, e per lo re Filippo di Francia il detto ministro fu forte ripreso dicendogli ch'egli era eretico, e che s'egli non si riconoscesse del detto errore, il farebbe morire come paterino, però che suo reame non sostenea nulla resia; ed eziandio se 'l papa medesimo ch'avea mosso il detto falso oppinione il volesse sostenere, il riproverebbe per eretico, dicendo laicamente, come fedele Cristiano, che invano si pregherebbono i santi, o avrebbesi speranza di salute per gli loro meriti, se nostra Donna santa Maria e santo Giovanni e santo Piero e Paolo e gli altri santi non potessono vedere la deità infino al dì del giudicio, e avere perfetta beatitudine in vita etterna; e che per quella oppinione ogni indulgenza e perdonanza data per antico per santa Chiesa, o che si desse, era vana; la qual cosa sarebbe grande errore e guastamento della fede cattolica. E convenne che innanzi si partisse il detto ministro sermonasse il contradio, dicendo che ciò ch'avea detto era in quistionando, ma la sua credenza era quella che santa Chiesa era consueta di credere e predicare. E sopra ciò il re di Francia e lo re Ruberto ne scrissono a papa Giovanni riprendendolo cortesemente, che con tutto che 'l detto oppinione sostenesse in quistionando per trovare il vero, non si convenia a papa di muovere le quistioni sospette contra la fede cattolica, ma chi le movesse dicidere e istirpare. Della qual cosa molto furono contenti la maggiore parte de' cardinali, i quali ripugnavano il detto oppinione. E per questa cagione il re di Francia prese grande audacia sopra papa Giovanni e no·llo richiedea di quella grazia o cosa ch'egli domandasse, ch'egli osasse disdire. E fu grande cagione perché papa Giovanni condiscese al re di Francia in dargli intendimento della signoria d'Italia e dello imperio di Roma per gli trattati mossi per lo re Giovanni, come in alcuna parte avemo fatta menzione, e faremo per lo 'nanzi. Il sopradetto oppinione si quistionò in corte mentre che papa Giovanni vivette, e poi per più d'uno anno; alla fine si dichiarò e fu riprovato, come innanzi leggendo si potrà trovare. Lasceremo della detta quistione, ch'assai n'avemo detto, e torneremo a nostra materia de' fatti della nostra città di Firenze per contare d'una grande aversità e pericolo di diluvio d'acqua che venne in quegli tempi in quella, la quale è bene da farne distesa memoria, che fu delle maggiori novità e pericolo che mai ricevesse la città di Firenze dapoi ch'ella fu rifatta. E però cominceremo in raccontando quello diluvio il XII libro, però che ne pare che si convenga, però che fu quasi uno rimutamento di secolo della nostra città.
<B>NUOVA CRONICA</B>
<I>Giovanni Villani</I>
tomo terzo
<B>LIBRO DODECIMO</B>
<B>I</B>
<I>Qui comincia il libro dodecimo, il quale, nel suo cominciamento faremo memoria d'uno grande diluvio d'acqua che venne in Firenze e quasi in tutta Toscana.</I>
Nelli anni di Cristo MCCCXXXIII, il dì di calen di novembre, essendo la città di Firenze in grande potenzia, e in felice e buono stato, più che fosse stata dalli anni MCCC in qua, piacque a Dio, come disse per la bocca di Cristo nel suo Evangelio: "Vigilate, che·nnon sapete il dìe né l'ora del iudicio Dio", il quale volle mandare sopra la nostra città; onde quello dì de la Tusanti cominciòe a piovere diversamente in Firenze ed intorno al paese e ne l'alpi e montagne, e così seguì al continuo IIII dì e IIII notti, crescendo la piova isformatamente e oltre a modo usato, che pareano aperte le cataratte del cielo, e con la detta pioggia continuando grandi e spessi e spaventevoli tuoni e baleni, e caggendo folgori assai; onde tutta gente vivea in grande paura, sonando al continuo per la città tutte le campane delle chiese, infino che non alzòe l'acqua; e in ciascuna casa bacini o paiuoli, con grandi strida gridandosi a Dio: "Misericordia, misericordia!" per le genti ch'erano in pericolo, fuggendo le genti di casa in casa e di tetto in tetto, faccendo ponti da casa a casa, ond'era sì grande il romore e 'l tumulto, ch'apena si potea udire il suono del tuono. Per la detta pioggia il fiume d'Arno crebbe in tanta abondanza d'acqua, che prima onde si muove scendendo de l'alpi con grande rovina ed empito, sì che sommerse molto del piano di Casentino, e poi tutto il piano d'Arezzo, del Valdarno di sopra, per modo che tutto il coperse e scorse d'acqua, e consumòe ogni sementa fatta, abbattendo e divellendo li alberi, e mettendosi inanzi e menandone ogni molino e gualchiere ch'erano in Arno, e ogni edificio e casa presso a l'Arno che fosse non forte; onde periro molte genti. E poi scendendo nel nostro piano presso a Firenze, acozzandosi il fiume della Sieve con l'Arno, la qual era per simile modo isformata e grandissima, e avea allagato tutto il piano di Mugello, non pertanto che ogni fossato che mettea inn-Arno parea un fiume, per la quale cosa giuovedì a nona a dì IIII di novembre l'Arno giunse sì grosso a la città di Firenze, ch'elli coperse tutto il piano di San Salvi e di Bisarno fuori di suo corso, in altezza in più parti sopra i campi ove braccia VI e dove VIII e dove più di X braccia; e fue sì grande l'empito de l'acqua, non potendola lo spazio ove corre l'Arno per la città ricevere, e per cagione e difetto di molte pescaie fatte infra la città per le molina, onde l'Arno per le dette pescaie era alzato oltre l'antico letto di più di braccia VII; e però salì l'altezza de l'acqua alla porta de la Croce a Gorgo e a quella del Renaio per altezza di braccia VI e più; e ruppe e mise in terra l'antiporto de la detta porta, e ciascuna delle dette porte per forza ruppe e mise in terra. E nel primo sonno di quella notte ruppe il muro del Comune di sopra al Corso de' Tintori incontro a la fronte del dormentorio de' frati minori per ispazio di braccia CXXX; per la quale rottura venne l'Arno più a pieno ne la città, e addusse tanta abondanza d'acqua, che prima ruppe e guastò il luogo de' frati minori, e poi tutta la città di qua da l'Arno; generalmente le rughe coperse molto, e allagò ove più e ove meno; ma più nel sesto di San Piero Scheraggio e porte San Piero e porte del Duomo, per lo modo che chi leggerà per lo tempo avenire potrà comprendere i termini fermi e notabili onde faremo menzione apresso. Nella chiesa e Duomo di San Giovanni salì l'acqua infino al piano di sopra de l'altare, più alto che mezze le colonne del profferito dinanzi a la porta. E in Santa Liperata infino a l'arcora de le volte vecchie di sotto al coro; e abbatté in terra la colonna co la croce del segno di san Zanobi ch'era ne la piazza. E al palagio del popolo ove stanno i priori salì il primo grado della scala ove s'entra, incontro a la via di Vacchereccia, ch'è quasi il più alto luogo di Firenze. E al palagio del Comune ove sta la podestà salì nella corte di sotto dove si tiene la ragione braccia VI. Alla Badia di Firenze, infino a piè de l'altare maggiore, e simile salì a Santa Croce al luogo de' frati minori infino a piè de l'altare maggiore; e in Orto San Michele e in Mercato Nuovo salì braccia II; e in Mercato Vecchio braccia II, per tutta la terra. E Oltrarno salìo ne le rughe lungo l'Arno in grande altezza, spezialmente da San Niccolò, e in borgo Pidiglioso, e in borgo San Friano, e da Camaldoli, con grande disertamento delle povere e minute genti ch'abitavano in terreni. In piazza infino a la via traversa, e in via Maggio infino presso a San Felice. E il detto giuovidì ne l'ora del vespro la forza e empito de l'acqua del corso d'Arno ruppe la pescaia d'Ognesanti e gran parte del muro del Comune, ch'è a lo 'ncontro e dietro al borgo a San Friano, in due parti, per ispazio di braccia più di Vc. E la torre de la guardia, ch'era in capo del detto muro, per due folgori fu quasi tutta abattuta. E rotta la detta pescaia d'Ognesanti, incontanente rovinò e cadde il ponte alla Carraia, salvo due archi dal lato di qua. E incontanente apresso per simile modo cadde il ponte da Santa Trinita, salvo una pila e un arco verso la detta chiesa, e poi il ponte Vecchio è stipato per la preda de l'Arno di molto legname, sì che per istrettezza del corso l'Arno che v'è salì e valicò l'arcora del ponte, e per le case e botteghe che v'erano suso, e per soperchio dell'acqua l'abatté e rovinò tutto, che non vi rimase che due pile di mezzo. E al ponte Rubaconte l'Arno valicò l'arcora dal lato, e ruppe le sponde in parte, e intamolò in più luogora; e ruppe e mise in terra il palagio del castello Altafronte, e gran parte de le case del Comune sopr'Arno dal detto castello al ponte Vecchio. E cadde in Arno la statua di Mars, ch'era in sul pilastro a piè del detto ponte Vecchio di qua. E nota di Mars che li antichi diceano e lasciarono in iscritta che quando la statua di Mars cadesse o fosse mossa, la città di Firenze avrebbe gran pericolo o mutazione. E non sanza cagione fu detto, che per isperienza s'è provato, come in questa cronica farà menzione. E caduto Mars, e quante case avea dal ponte Vecchio a quello da la Carraia, e infino alla gora lungo l'Arno rovinato, e in borgo Sa·Iacopo, eziandio tutte le vie lung'Arno di qua e di là rovinaro, che a riguardare le dette rovine parea quasi uno caos; e simile rovinaro molte case male fondate per la città in più parti. E se non fosse che la notte vegnente rovinò del muro del Comune dal prato d'Ognesanti da braccia CCCCL per la forza dell'acqua, la quale rottura sfogò l'abondanza della raccolta acqua, onde la città era piena e tuttora crescea, di certo la città era in grande pericolo, e per montare l'acqua in tutte parti della città il doppio che non fece; ma rotto il detto muro, tutta l'acqua ch'era ne la città ricorse con grande foga a l'Arno, e fu venuta quasi meno e nella città fuori del corso d'Arno il venerdì ad ora di nona, lasciando la città e tutte le vie e case e botteghe terrene e volte sotterra, che molte n'avea in Firenze, piene d'acqua di puzzolente mota, che non si sgombrò in sei mesi; e quasi tutti i pozzi di Firenze guastò, e si convennero rifondare per lo calo del letto d'Arno. E seguendo il detto diluvio apresso la città verso ponente, tutto il piano di Legnaia, e d'Ertignano, e di Settimo, d'Ormannoro, Campi, Brozzi, Sammoro, Peretola, e Micciole infino a Signa, e del contado di Prato, coperse l'Arno diversamente in grande altezza, guastando i campi, vigne, menandone masserizie, e le case e molina e molte genti e quasi tutte le bestie; e poi passato Montelupo e Capraia, e per la giunta di più fiumi che di sotto a Firenze mettono in Arno, i quali ciascuno venne rabbiosamente rovinando tutti i loro ponti. Per simile modo e maggiormente coperse l'Arno e guastò il Valdarno di sotto, e Pontormo e Empoli e Santa Croce e Castelfranco, e gran parte de le mura di quelle terre rovinaro, e tutto il piano di San Miniato e di Fucecchio e Montetopoli e di Marti al Ponte ad Era. E giugnendo a Pisa sarebbe tutta sommersa, se non che l'Arno sboccò dal fosso Arnonico e dal borgo a le Capanne nello stagno; il quale stagno poi fece un grande e profondo canale infino in mare, che prima non v'era; e da l'altro lato di Pisa isgorgò ne li Osori e mise nel fiume del Serchio; ma con tutto ciò molto allagò di Pisa, e fecevi gran danno, e guastò tutto 'l piano di Valdiserchio e intorno a Pisa, ma poi vi lasciò tanto terreno, che alzò in più parti due braccia con grande utile del paese. Questo diluvio fece alla città e contado di Firenze infinito danno di persone intorno di IIIc, tra maschi e femine, piccioli e grandi, ch'al principio si credea di più di IIIm, e di bestiame grande quantità, di rovina de' ponti e di case e molina e gualchiere in grande numero, che nel contado non rimase ponte sopra nullo fiume e fossato che non rovinasse; di perdita di mercatantie, panni lani di lanaiuoli per lo contado, e d'arnesi, e di masserizie, e del vino, che·nne menòe le botti piene, assai ne guastòe; e simile di grano e biade ch'erano per le case, sanza la perdita di quello ch'era seminato, e il guastamento e rovina delle terre e de' campi; l'acqua coperse e guastò, i monti e piaggie ruppe e dilaniò, e menò via tutta la buona terra. Sì che a stimare a valuta di moneta il danno de' Fiorentini, io che vidi queste cose per nullo numero le potrei né saprei adequare, né porrevi somma di stima; ma solo il Comune di Firenze sì peggiorò di rovina di ponti e mura di Comune e vie, che più di CLm di fiorini d'oro costaro a·rrifare. E questo pericolo non fu solamente in Firenze e nel distretto, con tutto che l'Arno per la sua disordinata abondanza d'acqua in quella peggio facesse, ma dovunque hae fiumi o fossati in Toscana e in Romagna, crebbono per modo che tutti i loro ponti ne menaro e usciro di loro termini, e massimamente il fiume del Tevero, e copersono le loro pianure d'intorno con grandissimo dannaggio del contado del Borgo a Sansipolcro, e di Castello, di Perugia, di Todi, d'Orbivieto, e di Roma; e il contado di Siena e d'Arezzo e la Maremma gravò molto. E nota che·nne' dì che fue il detto diluvio e più dì appresso in Firenze ebbe grande difetto di farina e di pane per lo guasto delle molina e de' forni; ma i Pistolesi, Pratesi, Colle, e Poggibonizzi, e l'altre terre del contado e d'intorno, soccorsono con grande abondanza di pane e di farina la città di Firenze, che venne a grande bisogno. Fecesi questione per li savi Fiorentini antichi, che allora viveano in buona memoria, qual era stato maggiore diluvio, o questo, o quello che fu gli anni Domini MCCLXVIIII. I più dissono che l'antico non fu quasi molto meno acqua, ma per l'alzamento fatto del letto d'Arno, per la mala provedenza del Comune di lasciare alzare le pescaie a coloro ch'aveano le molina inn-Arno, ch'era montato più di braccia VII da l'antico corso, la città fu più allagata e con maggiore damaggio che per l'antico diluvio; ma a cui Dio vuole male li toglie il senno. Per lo quale difetto avenuto delle pescaie incontanente fu fatto dicreto per lo Comune di Firenze che infra' ponti nulla pescaia né molino fosse, né di sopra a Rubaconte per ispazio di IIm braccia, né di sotto a quello dalla Carraia per ispazio di IIIIm braccia, sotto gravi pene; e dato ordine, e chiamati oficiali a fare rifare i ponti e le mura cadute. Ma tornando al proposito a la quistione di sopra, crediamo che questo diluvio fosse troppo maggiore che l'antico, che solamente non fu tanto il crescimento per piova, come fue per terremuoto. Di certo che l'acqua chiara surgea d'abisso con grandi sampilli sopra più terreni; e questo vedemo in più parti, e eziandio in sulle montagne; e però più a pieno avemo messo in nota in questa cronica di questo disordinato diluvio a perpetua memoria, perch'è istata grande novità da notare, che dapoi che·lla città di Firenze fu distrutta per Totile <I>Flagellum Dei</I>, non ebbe sì grande aversità e damaggio come fu questo.
<B>II</B>
<I>D'una grande questione fatta in Firenze, se 'l detto diluvio venne per iudicio di Dio o per corso naturale.</I>
In Firenze ebbe del detto diluvio grande ammirazione e tremore per tutte genti, dubitando non fosse iudicio di Dio per le nostre peccata, che poi che bassò il diluvio più dì apresso non finava di piovere con continui tuoni e baleni molto spaventevoli; per la qual cosa le più delle genti di Firenze ricorsono a la penitenzia e comunicazione, e fu bene fatto per apaciare l'ira di Dio. E di ciò fu fatta quistione a' savi religiosi e maestri in teologia, e simile a' filosofi in natura e a strolaghi, se 'l detto diluvio fosse venuto per corso di natura o per iudicio di Dio. Per li astrolaghi naturali fu risposto, ponendo inanzi la volontà di Dio, che gran parte della cagione fu per lo corso celesto e forti coniunzioni di pianete, assegnandone più ragioni, le quali in parte racconteremo in brieve e al grosso, per meglio fare intendere, in questo modo, cioè che a dì XIIII del maggio passato fu ecrissi, o vuoli oscurazione di grande parte del sole nel segno della fine del Tauro casa di Venus con <I>caput Draconis</I>; per la quale scurazione infino allora per savi religiosi e per mostramento d'astrolaghi fu sermonato in pergamo in Firenze, il quale noi udimo, che ciò significava grande secco nella presente state vegnente, e poi ne l'opposizione di quello eclissi grande soperchio d'acque, e tremuoti e grandi pericoli e mortalitade di genti e di bestie; amonendo le genti a penitenzia. E poi apresso a l'entrante di luglio fu congiunzione a grado di Saturno con Marte alla fine del segno de la Vergine, casa di Mercurio; il quale significa soperchio d'acque e sommersione per li due detti pianeti infortuni. Ma quello che dissono che gravò più, seguendo l'una congiunzione l'altra, sì fu che il dì del diluvio il sole si trovòe ne l'opposizione del suo eclissi a gradi XVIIII de lo Scorpione in congiunzione con <I>cauda Draconis</I> e con la stella che·ssi chiama Cuore de lo Scorpione, che sempre sono infortune e fanno grandi pericoli in mare e in terra; e Venus pianeta acquosa si trovò ne la fine del detto Scorpione, e per agiunta il sole in tale congiunzione si trovò assediato intra·lle due infortunate, cioè Saturno e Mars, congiunte insieme per sestile aspetto; Saturno nella Libra in sua esaltazione congiunta co·llui la luna, la qual è portatrice del tempo futuro; e a·llui venne con segni e ascendenti aquatichi stata nella sua congiunzione dinanzi, cioè ne la Libra medesima con Saturno e con Venus e Mercurio pianeti aquatichi; e l'ascendente de la sua congiunzione fu Tauro sua esaltazione e casa di Venus ov'era stato l'eclissi del sole, e nella sua opposizione di quello lunare dinanzi al diluvio fu il suo ascendente il Cancro sua casa, che significa abondanza d'acqua; e i detti pianeti aquatichi, Venus e Mercurio, erano in Iscorpione, segno aquatico e casa di Marte, e con <I>cauda Dragone</I>. E nel cominciamento e grande parte di quello lunare dinanzi al diluvio furo grandi piogge in Firenze e in molte parti, e questo fu segno del futuro diluvio. E da l'altra parte la pianeta di Mars a la venuta del diluvio si trovò nel segno del Sagittario in sua propietà caldo e secco, e che volontieri saetta, inviluppato nel detto segno co·Mercurio pianeto convertivole e reo co' rei, freddo e umido e aquatico, e contra la complessione di Mars e del detto segno, il quale Mars combattendosi co' raggi di Saturno, mandaro in terra le loro influenze, cioè soperchi di tuoni e di piove, e baleni con folgori, e sommersioni e tremuoti. E per agiunta al fatto, la pianeta di Iove, la qual è fortunata, dolce e buona, in quell'ora si trovòe nel segno de l'Aquario casa di Saturno, e con Saturno congiunta in trino aspetto, e con Mars in sestile aspetto, sì che la sua vertù fu vinta da li detti due infortuni, e con neente di podere; ma convenne ch'agiugnesse alla infortuna de' rei per lo segno d'Aquario ov'era. E nota, lettore, e raccogli, se neente intenderai de la detta scienza, tu troverai al punto e giorno che venne il diluvio congiunte quasi tutte e sette le pianete del cielo insieme corporalmente, o per diversi aspetti e in case e termini di segni, da commuovere l'aria e' cieli e gli elementi a darne le sopradette influenze. Domandati ancora i detti astrolaghi perché il detto diluvio avenne più a Firenze che a Pisa, ch'era in su l'Arno medesimo, e là giù dovea esere e fu più grosso, o ad altre terre di Toscana, fu risposto che prima ci fu la cagione de la mala provedenza de' Fiorentini, come detto è, per l'altezze de le pescaie; l'altra secondo istorlomia, Saturno, il quale dà infortuna, e sumersione, e ruine, e diluvii ne la sua opposizione, era nel segno de la Libra, in sua esaltazione; la quale Libra s'atribuisce a la città di Pisa, e a l'opposito del segno de l'Ariete, il quale Ariete pare s'atribuisca a la città di Firenze, e l'ascendente de l'entrare del sole nell'Ariete nello detto anno fu segnore; la Libra e l'Ariete si trovò... di ponente col sole in cadimento; il quale (di cui l'Ariete è esaltazione) si trovò congiunto e assediato al tempo del diluvio in mala parte e infortuni, come detto è. E Mars, il quale è segnore del segno de l'Ariete, si trovò congiunto con Saturno e vinto da·llui per lo modo che di sopra è fatta menzione. E queste contrarietà e congiunzioni paiono cagione del soperchio diluvio e damaggio a la città di Firenze più che a Pisa. E basti quello che in questo avemo raccolto di più lunghe disposizioni de li astrolaghi sopra questa questione. Sopra la detta questione i savi religiosi e maestri in teologia rispuosono santamente e ragionevolmente, dicendo che·lle ragioni dette delli astrolaghi poteano in parte essere vere, ma non di necessità, se non in quanto piacesse a Dio; però che Idio è sopra ogni corso celesto, e elli il fa movere e regge e governa; e 'l corso di natura è apo Dio, quasi come al fabro è il martello, che con esso può foggiare diverse spezie di cose, come averà imaginato nella sua mente. Per simile modo e maggiormente il corso di natura e delli elementi, e eziandio le demonia, per lo comandamento di Dio sono flagella e martella a' popoli per punire le peccata; e a la nostra fragile natura non è possibile d'antivedere l'abisso e etterno consiglio del predestino e prescienza de l'Altissimo, ma eziandio male si conoscono per noi l'opere sue fatte e a noi visibili. Ed acciò che di questa questione utile si tragga per li lettori, diciamo che Idio ha signoria di mandare e premettere i suoi iudicii al mondo, e secondo corso di natura, e quando a·llui piace sopra natura, e ancora contra natura, sì come omnipotente segnore de l'universo; e fallo a due fini, o per graziosa misericordia, o per aseguizione di iustizia. Ed acciò che per chi leggerà sia più chiaro e aperto ad intendere, di molte e lunghe ragioni e sottili allegagioni de' detti savi ritrarremo al grosso e ricoglieremo, dicendo alquanti veri e chiari esempli e miracoli della sacra Scrittura sopra la detta materia; e cominceremo dal principio del Genesi, ove dice: "In principio creò Idio il cielo e la terra; et dixit, et fatta sunt etc.". Questo fue grazia e sopra natura a fare per la sua infinita potenzia il corso del cielo e di natura per una sola parola, che prima era neente; e chi ha podere di fare la cosa, pur materialmente parlando, la può disfare e mutare: maggiormente Idio può tutto fare, e alterare, disfare, e mutare. Apresso in quello medesimo Genesi, capitolo VIII, disse Idio a Noè: "Fa' l'arca, ch'io voglio mandare il diluvio dell'acque sopra terra, perché muoiano tutte creature per le peccata delle genti etc.". E questo fue per la sua giustizia. Apresso si legge nel XXIII capitolo del detto Genesi delli angeli che vennero ad Abraam e a Lot, i quali per lo peccato contra natura distrussono le cinque città di Sogdoma e Gomorra e l'altre; e questa fue eseguizione di giustizia, e sopra corso di natura. E se pur X uomini giusti e sanza il detto peccato vi fossono trovati, disse Idio ad Abraam ch'avrebbe perdonato a li altri, tanta è la sua clemenzia e misericordia infinita. E nel XX capitolo del Genesi Idio anunziò ad Abraam, ch'avea C anni, e a Sarra sua moglie, ch'avea anni LXXXX ed era sterile, ch'ella conceperebbe Isaac padre d'Israel, e così fu; e ancora questo fu sopra natura, e per grazia di Dio, acciò che di quello nascesse il suo popolo e il suo unigenito figliuolo Gesù Cristo. E che leggiamo ancora nel libro de l'Esodo, cominciando al X capitolo, delle pestilenzie che Idio mandò sopra Faraone e il suo popolo d'Egitto per li prieghi di Moisè e d'Aron, e per la crudeltà che faceano al popolo di Dio; e alla fine per grazia al popolo Israel aperse il mare, ove passarono salvi, e Faraone colla cavalleria e popolo suo in quello mare la sommerse. E la detta grazia del popolo Israel, e le dette pestilenzie sopra Faraone, furo per operazioni e iudicio divino e sopra natura, e non per corso di stelle. Ancora al detto suo populo per grazia e sopra natura, e contra natura, Idio li nutricò XL anni nel deserto di manna, e con la guida della colonna de la nuvola e del fuoco. E parte di quello popolo per lo peccato de la 'nfedelità li consumò per ferro; e parte per lo peccato de la golosità li perseguitò colle trafitte de' serpenti; e parte di loro per superbia e ribellazione l'inghiottì la terra; ciò fu Abi e Daviron e loro seguaci; e parte di loro per lo peccato d'usare il fare il sacrificio indegnamente, per fuoco li pulì e distrusse; e tutte queste pestilenzie furo sopra natura e per iudicio di Dio per le peccata del popolo. La grande città di Ninive era giudicata da Dio a pericolare per li loro peccati, e per li sermoni di Giona profeta mandato da Dio si corressero e tornaro a penitenzia, e ebbono grazia e misericordia da Dio; onde si manifesta chiaramente che Idio rimuove per li prieghi e penitenzia i suoi giudicii, e però maggiormente può e dee seguire il corso di natura il volere di Dio, e adoperare sopra natura come a·llui piace, però che la fece, com'è detto dinanzi. Che diremo della grazia e miracolo che Idio fece sopra natura e contra 'l corso di natura per li prieghi di Iosuè suo servo, e capitano e re del suo popolo, di fare tornare il sole braccia X adietro del suo corso? Nelli libri de' Re intra gli altri miracoli, per lo peccato della vanagloria che commise Davit a fare numerare il suo popolo, molto del popolo di Dio per pestilenzia morire contra corso di loro natura. E quante diverse persecuzioni di battaglie si leggono in quelli libri de' Re, e nelli altri libri, che Idio permise quando in pro e quando incontro al suo popolo per li loro peccati o meriti? Che Nabucdonosor distrusse la prima volta la città di Ierusalem, e tutti i Giudei menò in servaggio, quelli che scamparo di morte; e poi Nabucdonosor per li suoi peccati d'uomo fu bestia per VII anni, e poi per simile modo distrusse la seconda volta Ierusalem Antioco re; e tutto fu per li peccati de' figliuoli Israel e per le loro abominazioni. E quando si riconobbono a Dio, con piccolo podere e cominciamento, Giuda Maccabeo il padre e' fratelli feciono la vendetta, e distrussono il regno d'Antioco, e tutti i detti giudicii di Dio furo per li peccati, e sopra ogni corso di natura. E però disse Idio al suo popolo: "Io sono lo Idio Sabaot", cioè a dire, in latino, lo Idio de l'oste e delle battaglie, "e doe vinto e perduto a cui mi piace, secondo i meriti e peccati, e la vittoria delle battaglie è nella mia destra". E tutto questo è per la divina potenzia e sopra 'l corso d'ogni natura. Assai è detto sopra miracoli che sono sopra natura e contra natura che Idio fece nel vecchio Testamento. Del nuovo alquanto diremo. Può esere, o fu mai, o sarà maggiore grazia, che la divina potenzia degnò d'incarnare nella graziosa vergine Maria, ed esere Idio e uomo nato di vergine, e sofferire passione e morte, e ne la passione scurò tutto il sole nel mezzodì, e era la luna in suo opposito, che secondo corso di natura non potea scurare; ma fu sopra natura, perché il fattore de la natura sofferia pena. E così grande e sì fatto misterio fu sopra ogni potenzia naturale, e ciò piacque a l'Altissimo per osservare giustizia per lo peccato del primo uomo, e per fare grazia e misericordia per ricomperare l'umana generazione; e nullo verbo è impossibile a Dio. I miracoli che fece Gesù Cristo vangelizzando in terra, e poi i suo' apostoli e li altri santi e martiri e vergini per lo suo nome, sono ancora tutto dì; i quali sono sopra ogni natura e corso celesto; sopra le quali dette vere ragioni e argomenti principalmente la soluzione della nostra questione [è] molto chiara. Che diremo de la rovina de la città di Ierusalem la terza volta, e per la persecuzione e scerramento de' Giudei fatto per Tito e per Vespasiano imperadori di Roma, per la vendetta del peccato commesso della giusta e non giusta morte di Cristo figliuolo di Dio? Certo questo fue chiaro ed evidente iudicio di Dio, e non per corso di natura, che mai poi non ebbero i Giudei istato né ricetto di loro segnoria, e sono passati più di MCCC anni ch'è durato il loro esilio. Dell'altre molte persecuzioni, rovine, pestilenzie, diluvii, e battaglie, naufragi, avenute al tempo de' Romani e de' pagani per iudicio di Dio e pulimento de' peccati oltre al corso di natura, prima e poi che venne Cristo, a raccontarle sarebbono infinite e confusione del nostro trattato; e simile poi al tempo de' Cristiani per la venuta de' Gotti, e Vandali, e Saracini, e di Lungobardi, de li Ungheri, de' Teotonici, Spagnuoli, e Catalani, e Franceschi, e Guaschi, che sono venuti in Italia, e tutto dì vengono; delle quali pestilenzie assai chiaramente a' buoni intenditori si possono comprendere per questa cronica, e per altri libri che di ciò fanno menzione, le quali tutte sono state e sono per lo giudicio di Dio per pulire li peccati. E però tornando al proposito della nostra questione e a sentenzia, e racogliendo i sopradetti esempli veri e chiari, tutte le pestilenzie e battaglie, rovine e diluvii, arsioni e persecuzioni, naufragii e esilii avengono al mondo per permissione de la divina giustizia per pulire i peccati, e quando per corso di natura, e quando sopra natura, come piace e dispone la divina potenzia. E nota ancora, lettore, che, la notte che cominciò il detto diluvio, uno santo eremita ch'era nel suo solitario romitoro di sopra a la badia di Valombrosa stando in orazione sentì e visibilmente udì un fracasso di demonia di sembianza di schiere di cavalieri armati, che cavalcassero a furore. E ciò sentendo il detto romito fecesi il segno della croce, e si fece al suo sportello, e vide la moltitudine de' detti cavalieri terribili e neri; e scongiurando alcuno da la parte di Dio che·lli dicesse che ciò significava, e li disse: "Noi andiamo a somergere la città di Firenze per li loro peccati, se Idio il concederà". E questo io autore per saperne il vero ebbi da l'abate di Valombrosa, uomo religioso e degno di fede, che disaminando l'ebbe dal detto suo romito. E però non credano i Fiorentini che la presente pestilenzia, ond'è fatta questione, sia loro avenuto altro che per giudicio di Dio, bene che in parte il corso del sole s'accordasse a ciò per punire i nostri peccati, i quali sono soperchi e dispiacevoli a Dio, sì di superbia l'uno vicino coll'altro in volere segnoreggiare e tiranneggiare e rapire, e per la infinita avarizia e mali guadagni di Comune, di fare frodolenti mercatantie e usure, recati da tutte parti de l'ardente invidia l'uno fratello e vicino coll'altro; sì della vanagloria de le donne e disordinate spese e ornamenti; sì de la golosità nostra di mangiare e bere disordinato, che piùe vino si logora oggi in uno popolo di Firenze a taverne, che non soleano logorare li nostri antichi in tutta la città; sì per le disordinate lussurie delli uomini e delle donne; e sì per lo pessimo peccato della ingratitudine di non conoscere da Dio i nostri grandi beneficii e il nostro potente stato, soperchiando i vicini d'intorno. Ma è grande maraviglia come Dio ci sostiene (e forse parràe a molti ch'io dica troppo, e a me peccatore non sia lecito di dire), ma se non ci volemo ingannare noi Fiorentini, tutto è il vero; di quante battiture e discipline ci ha date Idio al nostro presente tempo, pur da li anni MCCC in qua, sanza le passate che scritte sono in questa cronica: prima la nostra divisione di parte bianca e nera; poi la venuta di meser Carlo di Francia, e 'l cacciamento che fece di parte bianca, e le sequele e rovina che furono per quella; poi il giudicio e pericolo del grande fuoco che fue nel MCCCIIII, e poi di più altri apresso stati nella città di Firenze per li tempi con grande damaggio di molti cittadini; apresso della venuta d'Arrigo di Luzimborgo imperadore nel MCCCXII, e il suo assedio a Firenze e guastamento del nostro contado, e conseguente la mortalità e corruzione che poi fu in cittade e in contado; appresso la sconfitta da Montecatino nel MCCCXV; apresso la persecuzione e guerra castruccina, e la sconfitta d'Altopascio nel MCCCXXV, e la sequela della sua rovina, e la sformata spesa fatta per lo Comune di Firenze per le dette guerre fornire; apresso il caro e la fame l'anno MCCCXXVIIII, e la venuta del Bavero si dicea imperadore; apresso la venuta del re Giovanni di Boemia, e poi il presente diluvio; ond'è nata la questione, che raccogliendo tutte l'altre dette aversitadi inn-una, non furono maggiori di questa. E però istimate, Fiorentini, che queste tante minacce di Dio e battiture non sono sanza cagione di soperchi peccati, e paiono a l'aversitadi li detti giudicii, che di nostri antichi. Ed io autore sono di questa sentenzia sopra questo diluvio: che per li oltraggiosi nostri peccati Idio mandò questo giudicio mediante il corso del cielo, e apresso la sua misericordia, però che poco duròe la rovina per non lasciarne al tutto perire, per li prieghi delle sante persone e religiose abitanti nella nostra città e d'intorno, e per le grandi limosine che·ssi fanno in Firenze. E però carissimi fratelli e cittadini, che al presente sono e che saranno, chi leggerà e intenderà, dee avere assai gran matera di correggersi e lasciare i vizii e' peccati per lo tremore e minacce de la iustizia di Dio, per lo presente e per lo tempo a venire; e acciò che l'ira di Dio più non si spanda sopra noi, e che pazientemente e con forte animo sostegnamo l'aversità, riconoscendo Idio onnipotente, e ciò faccendo, e con vertù bene adoperando meritiamo misericordia e grazia da·llui, la quale fia dupplicata, e esaltazione e magnificenza de la nostra città. Di questo diluvio e sùbito avenimento a la nostra città di Firenze corse la fama e novella tra tutti i Cristiani, e ancora più grave e pericolosa che non fu, con tutto fosse quasi inestimabile. E vegnendo al cospetto della maestà del re Ruberto, amico, e per fede e devozione di noi segnore nostro, si dolfe di noi di tutto suo cuore, e come il padre fae al figliuolo, per suo sermone per lui dittato ci mandò amonendo e confortando, e il suo podere profferendo per la forma e modo che conterà il detto suo sermone, overo pistola; la quale in questa nostra opera ci pare degna di mettere in nota verbo a verbo a perpetua memoria, acciò che i nostri successori cittadini che verranno e leggeranno quella, sia manifesta la sua clemenza e sincero amore che 'l detto re portava al nostro Comune, e di ciò possano [trarre] uttilità di buoni e santi esempli e amunizioni e conforto, però che tutta è piena d'auttoritadi della divina scrittura, sì come quelli ch'è sommo filosofo e maestro, più che re che portasse corona già fa mille e più anni; e con tutto che in latino, come la mandòe, fosse più nobile e di più alti verbi e intendimenti per li belli latini di quella, ci parve di farla volgarizzare, acciò che seguisse la nostra materia volgare, e fosse utile a' laici come a li alletterati.
<B>III</B>
<I>Questa è la lettera e sermone che il re Ruberto mandò a' Fiorentini per cagione del detto diluvio.</I>
Ai nobili e savi uomini priori dell'arti, e gonfaloniere di iustizia, consiglio e Comune della città di Firenze, amici diletti e devoti suoi, Ruberto per la grazia di Dio di Ierusalem e di Cecilia re, salute e amore sincero. Intendemo con amaritudine di tutto il cuore, e con piena compassione d'animo, lo piangevole caso e avenimento di molta trestizia, cioè il disaveduto e sùbito accidente, e molto dannoso cadimento, il quale per soprabondanza di piene d'acque, per divino consentimento in parte aperte le cataratte del cielo, venne nella vostra cittade; li quali casi né a·nnoi conviene altrimenti sporli, né da Voi altrementi imputarli, se non come la Scrittura divina dice, cotali cose a caso avenire. Non si conviene a·nnoi, il quale per la reale condizione la veritade hae a conservare, d'essere amico lusinghiere, né di riprendere la iustizia di Dio, dicendo che voi siate innocenti. La dottrina dell'Apostolo dice: "Se noi diremo che noi non abbiamo peccato, noi inganniamo noi medesimi, e non fia in noi veritade". Adunque li nostri peccati richeggiono che non solamente che noi incorriamo in questi pericoli, ma eziandio in maggiori. Noi dovemo apropiare il singulare diluvio alli particulari peccati, siccome lo universale diluvio fue mandato da Dio per li universali peccati, per li quali ogni carne avea abreviata la via sua de l'umana generazione. Noi conosciamo l'ordine di queste pestilenzie per la scrittura del Vangelio, però che poi la verità di Dio antimise la sconfitte date da li nemici, soggiunse li diluvii de le tempeste, per le quali parla santo Gregorio dicendo così sopra il Vangelio, dov'è scritto "Saranno segni nel sole e ne la luna etc.": "Noi sostenemo", dice santo Gregorio, "sanza cessamento, avegna che prima che Italia fosse conceduta ad essere fedita dal coltello de' pagani, io vidi in cielo schiere di fuoco, e vidi colui medesimo splendiente di splendori al modo del balenare, il quale poi isparse il sangue umano. La confusione del mare e delle tempeste nonn-è solamente nuova levata, ma con ciò sia cosa che molti pericoli già anunziati e compiuti sieno, non è dubbio che non seguitino eziandio pochi, i quali restano a cotale imputazione, di passare a nostra corezzione, non a stravolgimento di disperazione". E noi crediamo intra queste cose non solamente la iustizia di Dio essere nutrice di costoro, ma crediamo la bontà divina essere sì come madre pietosamente correggente e in meglio commutante, dicente santo Agustino nel sermone del bassamento de la città di Roma: "Idio anzi il giudicio opera disciplina molte volte non eleggendo colui cui elli batta, non volendo trovare cui elli condanni". E egli medesimo dice sopra quello verso del salmo: "Sì come viene meno il fumo, vengono meno ellino; tutto ciò che di tribulazioni noi patiamo in questa vita, è battitura di Dio, il quale ne vuole correggere, acciò che nella fine non ne condanni". Imperciò santo Agustino medesimo nel predetto sermone delle tribolazioni e pressure del mondo dice: "Quante volte alcuna cosa di pressura e di tribulazioni noi sofferiamo, le tribulazioni sono insiememente nostre correzzioni". Ma in queste cose con molto studio è da guardarci, che noi alcuna cosa notabilmente non meritiamo de li nostri meriti, e che noi non ci maravigliamo, quasi s'elle non fossono cagioni di queste tribulazioni quelle cose che·nnoi dicemo; però che Agustino medesimo dice nel sermone dell'abassamento di Roma: "Maravigliansi li uomini; or si maravigliassono ellino solamente e non bestemiassero". Ancora è da schifare per queste cose il mormorare contra Dio, sì come la nostra niquitade biasimasse la divina dirittura, e sì come se le nostre inumerabili e grandissime colpe riprendessono la somma iustizia; sì come n'amonisce Agustino nel predetto sermone delle tribulazioni del mondo, dicendo: "O fratelli, nonn-è da mormorare, sì come alcuni di coloro mormorano". E l'Apostolo dice: "E' furono vasi di serpenti". Or che cosa disusata sostiene ora l'umana generazione, la quale non patissono li nostri padri? Ancora c'è un'altra cosa: poco sarebbe riconoscere i peccati, se quello non si propone a schifare per inanzi quelli. In quello caso nonn·è da dubitare che colui che pregherà per perdonanza quella con orazioni impetri, e così acquisti la divina grazia, e schiferàe la rigidezza del iudicio, sì come per lo savio Salamone si dice: "Figliuolo, tu peccasti, or non vi arrogere più; ma priega de li passati peccati, ch'elli ti sieno dimessi". Noi leggiamo d'altre cittadi, le quali per li loro gravi peccati con ampia vendetta diceano esere disfatte, essere riserbate, e rivocata la sentenzia per penitenzia e per orazioni. Al tempo d'Arcadio Imperadore volendo Idio fare paura alla città di Gostantinopoli, e spaurendola per amendarla, revelòe a uno fedele uomo che quella città dovea perire per fuoco da cielo. Costui lo manifestòe al vescovo, e 'l vescovo il predicò al popolo. La città si convertìe in pianto di penitenzia, siccome già fece l'antica Ninive. Venne il dìe che Idio avea minacciato, e ecco di verso levante una nuvola con puzzo di solfo, e stette sopra la cittade, acciò che li uomini non pensassono che colui ch'avea così detto fosse per falsitade ingannato; e fuggendo li uomini a la chiesa, la nuvola cominciò a scemare, e a poco a poco si disfece, e il popolo fue fatto sicuro. Siccome Agostino nel detto sermone introduce: "Secondo questo Idio per bocca di profeta avea avanti detto che·lla ismisurata città di Ninive si dovea disfare; e troviamo che essa fue deliberata per asprezza di penitenzia, e per grido d'orazione, né da la penitenzia e d'adorare non siano di lungi le limosine loro salutevoli compagne, secondo il consiglio di Daniello dato a Nabocodonosor, che con elimosine ricomperasse le sue peccata, e ratemperasse la sentenzia di Dio contra lui pronunziata". Aguardiamo insieme dunque lo spaventevole giudicio, e pensiamo di cercare il remedio, ma schifiamo il rimanente che è da temere; per le quali cose non le nostre parole, ma quelle del Salvatore profferiamo in mezzo; e elli disse: "Or pensate voi che quelli XVIII sopra li quali cadde la torre in Siloe e uccisorli fossono colpevoli sanza tutti li altri abitanti in Ierusalemme? No, io dico a voi; ma se voi non farete penitenzia, simigliantemente perirete". Dove Tito dice: "Una torre è aguagliata a la cittade, acciò che·lla parte spaventi il tutto; quasi dica tutta la cittade poco poi fia occupata, se·lli abitanti perseverranno nella infedelitade". La qual cosa mostra Beda, dicendo: "Però ch'ellino non fecero penitenzia, nel quarantesimo anno de la passione di Cristo, li Romani, cominciando da Galilea ond'era cominciata la predicazione del Segnore, l'empia gente infino a le radici distrussero". Ma acciò che per quelle parole ch'avemo dette di sopra non siamo giudicato grave amico, e acciò che noi non inganniamo li meriti de le vostre virtudi, le quali ci confidiamo essere acetti ne la benignitade di Dio, atendendo a la divina Scrittura, la quale non pur riprende li presuntuosi per amaestrarli, ma adolcisce li aflitti, acciò che per remedio di consolazione li conforti spesse volte in suoi luoghi; queste cotali passioni e pressure confessiamo che vengono per provarci; però che in quello che Idio esamina si loda la vertude della pazienzia in noi. L'Apostolo testimoniò: "La sua pietosa provedenza non ci lascia tentare oltre la nostra possa, ma la contentazione fae frutto". Quale utilitade cerchiamo noi fedeli maggiore, che cotali miserie noi prendiamo efficace argomento de l'amore di Dio che ne apruova perché e al proponimento a voi santo e religioso cherico Iudit femenina per esemplo dirizza e manda la seguente parola: "E ora, o fratelli, però che voi che siete preti nel popolo di Dio, da voi dipende l'anima di coloro al vostro parlare, dirizziate li cuori loro, sì chè·ssi ricordino coloro che sono tentati che li nostri padri furono tentati, acciò che fossono provati s'elli adoravano veramente Idio suo: ricordare si debbono come 'l padre nostro Abraam fu tentato, e provato per molte tribulazioni fatto è amico di Dio; così fue Isaac, così Iacob, così Moisè, e tutti quelli che piacquero a Dio, per molte tribulazioni passarono fedeli". Onde e a Tobia disse l'angelo: "Però che tu eri caro a Dio, fue necessario che la tentazione ti provasse". Or crediamo noi e voi esere migliori e più inocenti che li nostri padri patriarchi, i quali per tante miserie di battiture o mandate o concedute da Dio trapassaro i santi? O desdegnamo, o maggiormente indegnamo noi degni membri di patire quelle cose le quali non ischifarono gli apostoli, nostro corpo la Chiesa, nostro capo Cristo, cioè il fuoco, il ferro, li martirii villani, noi quasi dischiattati, e come non apartenessimo loro, e come non partefici di loro fortuna, o forse più santi, con impazienzia portiamo cotali cose? Ma·sse per impazienzia ch'è in noi, elli ci pare troppo malagevole seguitare li padri di ciascuno testamento, almeno non disdegnamo per pazienzia le virtudi prendere esempli da l'infedeli prencipi e filosofi, li quali furono: come scrive Seneca, libro primo dell'ira, di Fabio, che prima vinse l'ira sua che Anibale; e Iulio Cesare nel libro della vita de' Cesari; e d'Ottaviano Agusto nel Policrato libro terzo, capitolo XIIII; di Domiziano, sì come testimonia il bello parlatore Licinio; ed Antigone re, secondo Seneca, libro terzo dell'ira; e de la pazienzia de' filosofi, cioè di Socrate libro terzo di Seneca de l'ira, e di Diogenes libro III dell'ira, anzi il fine, a ciò che non passi il manifesto od occulto lamentamento d'alcuno o d'alcuni, sì com'è contradio. Ancora per li mormoramenti de li credenti che dicono che questi tempi sono peggiori che gli antichi tempi e che Idio hae riserbato la indegnazione dell'ira sua infino ad ora e ch'elli hae serbati li presenti die a spandere quella, leggano overo odano li leggenti da Adam fatiche e sudore, spine, e triboli, diluvio, dicadimento; trapassarono tempi pieni di fatica, di fame e di guerre, e però sono scritte, a ciò che noi non mormoriamo del presente tempo contra Dio. Passò quel tempo appo li padri nostri, remotissimi molto da li nostri temporali, quando il capo dell'asino morto si vendéo altrettanto auro; quando lo sterco colombino si comperòe non poco argento; quando le femine patteggiaro insieme del manicare i loro fantolini. Or non avemo noi in orrore udire quelle cose? Tutte quelle cose leggiutole, spaventiamocene sì, che noi avemo maggiormente onde ci allegrare, che onde mormorare delli nostri tempi. Quando fue dunque bene a l'umana generazione? quando non paura? quando non dolore? quando certa felicitade? quando non vera felicitade? dove fia la vita sicura? Or non è questa terra quasi una grande nave portante uomini tempestanti, pericolanti, soggiacenti a tanti marosi, a tante tempeste, tementi il pericolare, sospirante in porto, ed è compensare la conoscente e grata ragione de la vostra considerazione, e il pensamento della diritta bilancia, quanto in ricchezze in morbidezze in potenzia, e, cittadini, Idio la vostra cittade nobilitòe, scampòe, e sopra tutte le vicine, anzi remote cittadi, sanza comparazione esaltò, sì ch'ella puote essere asomigliata ad adornato albore fronzuto e fiorito dilatante li rami suoi infino a termini del mondo. Per tanti e sì grandi benificii temporali non vi divieti l'aversitade di dire le vostre lingue col santo Iob: "Se noi riceviamo li beni da la mano del Signore, perché non sostenemo li mali?". Ancora queste aflizzioni alcuna volta salutevolemente ne sono mandate, e avegnonci a spirituale profitto, però che·sse alcuna volta non ne fossono mandate o permesse da Dio, noi ci crederemmo qui avere cittadi stabili e dimoranti, e poco cureremo di cercare de l'etterna, con san Piero dicendo: "Buono è a noi essere qui". Ma li mali che più ne priemono ci fanno passare a cielo, e intendere a la futura gloria. E se per aventura alcuno svergognato o arrogante presumisce di storcersi contro a l'opera de lo etterno artefice, intenda rispondere a·llui la bontade delle creature, la quale il fabricatore di tutte le cose dal principio raguardòe nelle sue creature. Se il fiume, il quale aministròe tanti dilettamenti e tante grandi uttilitadi dal cominciamento de la tua cittade, perché gravemente porti se una volta con disusato allagare ti fece alcuni danni?Ma diràe un altro calognatore, però che noi dicemo dinanzi che le tribulazioni ne sono amonimenti e correzzioni, dicono, a ciò ch'io diventi migliore sono puniti quelli, perch'io viva quelli muoiano, perch'io sia serbato quelli sono perduti. "None perciò", dice santo Giovanni Grisostimo, "ma sono puniti per li loro peccati propi, ma fassi di questo a quelli che veggono materia di salvarsi". Or forse si leveranno contro invidiosi, iudicando voi per lo partimento del detto cadimento essere i·maggiori peccati intrigati di loro, e per questo esere più odiosi a Dio? anzi si crederanno esser più giusti di voi, e meno colpevoli e più graziosi al giusto iudice?Questi di vero per quello medesimo errore antimetteranno per suoi meriti il re Salomone certamente pacifico, a cui fu riserbato lo edificare del tempio, e ne' cui tempi sottorise la tranquillitade della pace, e il cui regno non cognobbe guerra, al suo padre David santissimo, a cui fue interdetto l'edificare di quello medesimo tempio, lo quale fue nomato da Dio uomo spanditore di sangue, il quale e sotto essere provocato da continui pericoli di guerre, e due volte da Dio manifestamente e piuvicamente fu corretto. In quello medesimo modo coloro che non sanno li santi libri diranno che·lli amici di Iob fossono più inocenti di lui, e antimetteranno loro nel riguiderdonamento; imperciò che noi non leggiamo ch'elli fossono esaminati da Dio nelle pestilenzie sì come Iob, però che di vero elli non erano auro o argento da provare ne la fornace del fuoco, né da riporre nel tesauro del sommo re, ma erano maggiormente paglia o letame, le quali messe in sul fuoco gettano puzzo spiacente a Dio e abominevole alli uomini. Or giudicheremo noi per simile cechitade che·lli marinari fossono migliori che Ionas il profeta, per lo quale si pruova che si levòe la tempesta, e però fue sommerso in mare e tranghiottito dal pesce, lo quale fue messaggio di Dio banditore di penitenzia, e figura di Cristo passuro, e li marinari furono pagani e adoratori d'idoli? Non maraviglia, se·lle grazie e prerogative di vertudi che noi dicemmo, Idio raguardò in voi, le quali elli esamini; e provate, guiderdoni e coroni voi, li quali siete conosciuti sempre essere stati in italia chiaro braccio della Chiesa e nobile fondamento di tutta la fede. Non si maraviglino dunque li rimproveranti invidiosi, se un poco inanzi con le promesse sentenzie della santa Scrittura noi mostriamo per la pruova delle vostre virtudi voi essere acetti a Dio, aprovati al suo beneplacimento. Se impertanto voi riconoscerete umilemente che per li vostri peccati voi incorreste nelli predetti danni, e comportateli con virtù di pazienza, con pagamenti per ciò di divote voci rendere grazie. Dice il sapientissimo re: "Figliuolo mio, non gittare la disciplina del Segnore, e non fallare quando da·llui se' corretto; colui cui il Segnore ama, sì 'l gastiga, e come padre in figliuolo si compiace". La quale sentenzia non isdegna d'allegare l'Apostolo nelle sue pistole, dicendo: "Figliuolo mio, non mettere i·non calere la disciplina del Segnore, né ti sia fatica, quando da·llui sarai ripreso: colui cui il Segnore ama si 'l gastiga; elli batte chiunque elli riceve in figliuolo". Ecco adunque per le soprascritte cose avete chiaramente che per le pressure delle predette passioni si dimostrano in voi esere virtudi e meriti, e che non solamente voi siete ricevuti in amici da Dio, ma spezialmente da·llui siete in figliuoli adottati. A li figliuoli a' quali s'impone la disciplina non solamente remunerazione si promette, ma·ssi serba loro certa ereditade. Appare dunque per la vertade della santa Scrittura che·lle virtudi e li meriti sono remunerati dal iustissimo re delli re, eziandio in alcuni di vero; ne' quali publicamente, manifestamente eziandio, rilucono temporalmente, ad esemplo del mutamento de' buoni, sì come è scritto del beato Iob, al quale furono restituiti dupplicati per li perduti beni; ma nelli altri più preziosi, e migliori sanza comparazione, si serba il meritamento nella futura gloria. Li predetti amonimenti, li quali noi stimiamo non esere alla vostra prudenzia tanto soperchi quanto necessarii, provedemo di mandare per debito di caritade alla vostra dilezzione, e ancora le compassioni a le quali ci condogliamo con tutte le interiora dell'amistade, e le consolazioni de' veri libri vi soggiugnemo, a le quali d'abondante offeriamo d'agiugnere quelle consolazioni di fatto che noi fare possiamo, altre volte oferte; ma la promessa nostra lettera, pochi dìe poi che a·nnoi fue manifesto il sopradetto vostro caso, ordinammo di mandarvi, ma però che 'l presente di più persone contenea molto meno, ritenne quella più tostamente essere venuta, il mandare d'essa sospendemo. Ma ora piùe deliberatamente provedendo, e estimando in ogni caso che s'apartenea a vostra informazione e a vostra cautela, vi mandiamo; né alla vostra amistà rincresca di bene leggere la lunghezza della presente lettera, la quale non rincrebbe a noi di compilare intra tante e sì faticose sollicitudini.
Data a Napoli sotto il nostro secreto anello, di II di dicembre, seconda indizione, anni MCCCXXXIII.
<B>IV</B>
<I>Ancora di certe novità che furono in Firenze per cagione del diluvio.</I>
Il dìe apresso che fue cessato il diluvio, essendo rotti i sopradetti tre ponti in Firenze, e tutta la città aperta e schiusa lungo il fiume d'Arno, certi grandi di Firenze cercaro di fare novità contro a' popolani, avisandosi di poterlo fare, però che sopra l'Arno non avea che uno ponte, e quello era in forza di grandi, e la città scompigliata e tutta schiusa, e le genti tutte isbigottite. Onde uno di casa i Rossi fedì uno de' Magli loro vicino, per la qual cosa tutto il popolo fue sotto l'arme, e più dì si fece grande guardia in Firenze di dì e di notte; e alla fine i grandi e possenti e ricchi, che aveano a perdere, non aconsentiro alla follia de' malvagi, e ancora il popolo aveano preso vigore e forza; onde non s'ardiro di cominciare novità; e ancora se l'avessono cominciata n'avrebbono avuto il peggiore. E pertanto si riposòe la città, e quello de' Rossi che fece il malificio fue condennato. E fecesi incontanente fare per lo Comune certi ponticelli di legname sopra l'Arno, e uno grande sopra piatte e navi incatenate; ma al cominciamento, innanzi che i detti ponti fossono fatti, si passava l'Arno per navi. E avenne poi, a dì VI di dicembre essendo venuta una grande piova in Arno, si rivolse una nave ove avea da XXXII uomini, de' quali annegaro XV uomini cittadini, e li altri per l'aiuto di Dio scamparo. Lasceremo alquanto de' fatti di Firenze e del diluvio, ch'assai n'avemo detto, e diremo alquanto de' fatti di Lombardia e della nostra lega. Ma nonn-è da lasciare di dire, che quando il legato ch'era a Bologna seppe l'aversità ch'era avenuta a' Fiorentini ne fece grande allegrezza, dicendo che ciò era loro avenuto perch'erano stati contro a·llui e contro a santa Chiesa a Ferrara; e forse in parte disse il vero; ma non giudicava sé de' suoi defetti e futuro avenimento, né credea che 'l suo iudicio e sentenzia di Dio gli fosse così da presso, come tosto leggendo si potrà trovare.
<B>V</B>
<I>Come falliro le triegue, e ricominciossi guerra dalla lega al legato, e le terre che tenea il re Giovanni.</I>
Nel detto anno, per calen gennaio, fallendo le triegue da la gente del re Giovanni e del legato a la nostra lega, si fece per li collegati uno parlamento a Lierci, per consigliare se fosse da seguire le triegue o ricominciare la guerra. Acordavansi i collegati al prolungare le triegue, salvo messer Mastino e 'l Comune di Firenze; e questo si fece per lo migliore per non lasciare prendere forza al legato e al re Giovanni; e ordinaro si rincominciasse la guerra, e confermarono in quello parlamento la divisa del conquisto per lo modo detto, cioè che 'l segnore di Milano avesse Cremona, e messer Mastino Parma, e que' da Mantova Reggio, e' marchesi Modona, e' Fiorentini Lucca. Per la qual cosa que' da Milano cavalcaro sopra la città di Piagenza; e quelli di Verona e di Mantova sopra Parma e Reggio; e' marchesi da Ferrara sopra Modona; e la nostra gente ch'erano in Valdinievole corsono sopra Buggiano. E poi, a dì VIII di gennaio, quelli di Lucca corsono sopra Ficecchio e Santa Croce, e levaro grande preda di bestie grosse, e rincominciossi la guerra. E poi, a dì XXIII del mese di febbraio apresso, essendo cavalcati IIIIc cavalieri di quelli della lega di Lombardia sopra Parma e Reggio, furono sconfitti presso al castello di Correggio da quelli di Parma e da la gente del legato, e rimasevi preso Ettor de' conti da Panago e più altri conostabili.
<B>VI</B>
<I>Come il legato perdéo Argenta, e poco apresso fu cacciato di Bologna.</I>
Nel detto anno, a dì VII di marzo, essendo i marchesi da Ferrara co·lloro oste stati a l'assedio della terra d'Argenta più mesi, nella quale era la gente della Chiesa e del legato, l'arcivescovo d'Ambruno mandato per lo papa in Lombardia, volle essere a parlamento co' collegati di Lombardia a Peschiera, e in quello richiese per lo papa tre cose: che lega più non fosse, promettendo pace onorevole per li collegati; la seconda, che si levasse l'oste da Argenta; la terza che i marchesi dovessono liberare il conte d'Armignacca e li altri pregioni sanza costo. Fu risposto per messer Mastino per bocca d'uno delli ambasciadori di Firenze che·lla lega non si potea partire; ma in caso che Parma rimanesse libera alla Chiesa, si cesserebbe l'oste ordinata. Quella d'Argenta e de' pregioni, fu risposto per li detti ambasciadori di Firenze che in quanto Ferrara rimanesse a' marchesi per lo censo usato, e Argenta per uno piccolo censo, s'accorderebbono col legato cardinale. L'arcivescovo prese termine di rispondere, e partìsi e venne a Bologna al legato. In questa stanza Argenta essendo forte stretta dell'assedio, e non possendo essere soccorsi, fallendo loro la vittuaglia, s'arendero; però che, dapoi che·lla gente della Chiesa furo sconfitti a Ferrara, non ardiro di tenere campo contra la gente della lega, onde molto abassò la potenzia del legato. E avuta i marchesi la vittoria d'Argenta, pochi dì apresso cavalcaro in sul contado di Bologna col loro sforzo. Il legato del papa cardinale ch'era in Bologna mandòe al riparo quasi tutta sua cavalleria, e volea mandare fuori nella detta cavalcata i due quartieri del popolo di Bologna; e già erano armati in sulla piazza, con tutto che mal volontieri andavano, e male parea loro essere trattati. Onde avenne, come piacque a Dio, e di vero sanza ordine proveduta, uno messer Brandaligi de' Goggiadini con... de' Beccadelli, uomini poveri al bisogno del loro stato e vaghi di mutazioni e di novitadi, parendo loro male stare sotto la segnoria del legato, e veggendo abassato lo stato suo per la sconfitta da Ferrara e per la perdita d'Argenta, essendo saliti in sulla ringhiera del palazzo di Bologna colle spade ignude in mano, sì cominciaro a gridare: "Povolo, povolo, e muoia il legato, e chi è di Linguadoco!". Alle quali grida e romore il popolo armato fu scommosso seguendo il romore cominciato, si partiro di su la piazza iscorrendo per la terra: e combattero il palagio del grano e il vescovado, dove stavano il maliscalco e li altri officiali del legato; e in quelli misono fuoco, e rubaro e uccisono tutti li oltramontani che trovaro per la terra; e ciò fatto, assaliro e combattero il nuovo castello ov'era il legato, per uccidere lui e sua gente che v'erano fuggiti dentro, e misonvi l'assedio di dì e di notte; e questa rubellazione fu fatta a dì XVII del detto mese di marzo MCCCXXXIII. E nota che tutta questa rovina avenne al legato perch'era male co' Fiorentini, che·sse fosse stato bene di loro, la sconfitta ch'ebbe a Ferrara la sua gente non avrebbe avuta, né perduta Argenta, né 'l popolo di Bologna li sarebbe rubellato per dotta de' Fiorentini, né·lla Romagna; ma la disordinata cupidità di volere segnoria fa montare in superbia e in ingratitudine contro all'amico, spezialmente i cherici; e questo principalmente il fece cadere in questo errore, e di somma prosperità in poco di tempo cadere in grande pericolo e abassamento. Sentendosi la novella in Firenze, i Fiorentini la maggior parte ne furo lieti, e non crucciosi, per la lega che i·legato avea fatta col re Giovanni; ma per tema di sua persona e reverenza de la Chiesa vi mandaro incontanente IIII ambasciadori, de' maggiori cittadini di Firenze, e co·lloro IIIc cavalieri di loro masnade e delle vicherie a piè di Mugello, per guarentire il legato e sua gente; e giunti a Bologna con molta fatica, e lusinghe e prieghi faccendo al popolo di Bologna per parte del Comune di Firenze, trassono del castello il legato e sua gente e suoi arnesi, il lunidì d'Alba, dì XXVIII di marzo, per la porta di fuori del castello, fasciato intorno con li detti ambasciadori e colla nostra gente armata; e con tutto questo fue in grande pericolo il legato di perder la vita, che lo sfrenato popolo di Bologna li vennero dietro isgridandolo con villane parole, e con armata mano per offendere e rubare lui e sua gente, insino al ponte a San Ruffello; e poi i loro contadini correndo alle strade infino a Leurignano in su l'alpe. E di certo, se 'l soccorso de' Fiorentini non fosse stato, e il loro proveduto argomento, il legato rimanea morto e rubato con tutta sua gente. E partito lui di Bologna, il popolo a furore abattero e disfecero il castello, in modo che in pochi dì non vi rimase pietra sopra pietra, ch'era uno ricco e nobile lavorio. I Fiorentini condussono il legato in Firenze a dì XXVI di marzo, e fu ricevuto a grande onore e processione, e presentatoli per lo Comune IIm fiorini d'oro per ispese; no·lli volle ricevere, ringraziando molto il Comune del grande e onorevole servigio allui fatto, riconoscendo per loro la vita e lo stato. E di Firenze si partì a dì II d'aprile; e fue acompagnato per ambasciadori e gente d'arme da' Fiorentini infino presso a Pisa; e di là n'andò a corte, e giunse a Vignone a dì XXVI d'aprile. E come fue dinanzi al papa e a' cardinali in piuvico consistoro si dolfe de la fortuna a·llui incorsa, e vergogna e danno fattoli per li Bolognesi, dimandando vendetta per sé e per la Chiesa, lodandosi in palese del soccorso e onore ricevuto da' Fiorentini; ma in segreto al papa disse che ogni disaventura si riputava avuta per la gente che' Fiorentini mandaro al soccorso di Ferrara, onde la sua oste fue sconfitta. Per la qual cosa il papa non volle poi vedere né udire i Fiorentini, con tutto che prima avea cominciato a disamarli per la mala informazione fattali per lettere dal detto legato contro a Fiorentini sì per la 'mpresa della lega. E di certo se papa Giovanni fosse più lungamente vivuto, elli avrebbe adoperato ogni abassamento e damaggio di Fiorentini, e già l'avea ordito, però che sopra tutti i cardinali amava messer Beltramo dal Poggetto cardinale d'Ostia suo nepote, ma per li più si dicea piuvicamente ch'elli era suo figliuolo, e di molte cose il simigliava.
<B>VII</B>
<I>Di novità ch'ebbe in Bologna dopo la cacciata de·legato.</I>
Appresso la cacciata del legato di Bologna la terra rimase in grande scandalo tra' cittadini, che ciascuno de' maggiorenti volea essere segnore, e quelli cittadini ch'erano stati amici del legato v'erano sospetti. E se non fosse che i Fiorentini vi mandaro di presente CC cavalieri con due savi e grandi cittadini per ambasciadori e consiglieri dello stato della terra, e per guardia di quella, di certo i Bolognesi si sarebbono stracciati insieme, e datisi per loro discordia a meser Mastino della Scala, o a' marchesi, o ad altri tiranni; e stettevi la detta gente de' Fiorentini per due mesi, avendo dirizzata la terra in assai buono stato secondo la loro fortuna, con tutto ch'assai fossero pregni di male volontadi tra·lloro. Incontanente che li ambasciadori e' cavalieri di Firenze si furono partiti di Bologna, partoriro le loro niquitadi; e i figliuoli di Romeo di Peppoli, e' Goggiadini, e' loro seguaci ch'aveano rubellata la terra al legato, a romore e a furore ne cacciarono i Sabatini, e' Rodaldi, e' Bovattieri, e parte de' Beccadelli, e più altre case e famiglie de' grandi e di popolo, e arsono loro le case, e tali disfeciono, e più confinati fecero ne la terra; onde tra cacciati e confinati n'uscirono più di MD cittadini; e ciò fue a dì di giugno MCCCXXXIIII. E se non fosse che' Fiorentini vi rimandaro incontanente loro ambasciadori e cavalieri al riparo de la loro fortuna, Bologna era al tutto guasta e deserta, o venuta in mano di tiranno. E nota che questo giudicio di Dio non fue sanza cagione e giustizia, che con tutto che fosse giusta la cacciata del legato di Bologna per la sua superbia e tirannia, lo ingrato popolo di Bologna non l'avea a fare, sì per reverenza di santa Chiesa, e sì per l'utile che' Bolognesi traevano della stanza del legato in Bologna, che tutti n'aricchiano; ma la parola di Dio non puote preterire, cioè: "Io ucciderò il nimico mio col nimico mio".
<B>VIII</B>
<I>Come la lega di Lombardia ebbe Chermona, ed altre novità ch'avennero per quella in Lombardia e in Toscana.</I>
Nell'anno MCCCXXXIIII, del mese d'aprile, l'oste della lega di Lombardia co' loro segnori, in quantità di IIIm cavalieri, furo sopra la città di Chermona. E poi in calen di maggio patteggiòe il segnore di Chermona di rendere la terra al segnore di Milano, com'erano le convenenze giurate della lega con certi patti e ordini, intra gli altri che·sse per lo re Giovanni, a cui s'erano dati, non fossero soccorsi con oste campale infino a mezzo luglio, darebbono la terra per lo modo patteggiato, e così feciono, però che 'l soccorso non fu fatto; però che il re Giovanni e 'l figliuolo erano partiti di Lombardia, e la sua gente non era possente a resistere a la forza della lega. Infra questo tempo, all'uscita di maggio, la detta oste venne sopra la città di Reggio e poi sopra Modana, e guastarle d'intorno. E poi volendo andare sopra la città di Parma e porrervi l'assedio, essendo già tra Reggio e Parma, avenne per ordine fatto, e ordinato infino in corte di papa per lo cardinale dal Poggetto in qua dietro legato in Lombardia, onde si spendea, e fatto era diposito di Lm fiorini d'oro per dare a' conestaboli tedeschi della bassa Magna, i quali doveano prendere messer Mastino della Scala principalmente e li altri segnori, e cominciare la zuffa ne l'oste, com'era ordinato per fornire loro tradimento. La quale cosa fue revelata a messer Mastino per uno suo antico conestabole ch'era di quella giura; per la qual cosa il tradimento non venne fatto, e furonne alquanti presi e guasti, e partirsi de l'oste XXVII bandiere de' detti Tedeschi, e andarne in Parma; onde l'oste fue tutta scerrata, e que' tiranni e segnori si tornaro i·lloro terre con grande sospetto e paura di loro persone di non esere o presi o morti da' loro soldati; e ciò fu a dì VII di giugno del detto anno. Per la detta cavalcata de la lega di Lombardia, com'era ordinato, messer Beltramone dal Balzo capitano di guerra de' Fiorentini con VIIIc cavalieri cavalcò sopra 'l contado di Lucca, e guastò Buggiano e Pescia con intendimento d'andare infino a Lucca; e dovevavisi fermare l'oste, e crescervi gente a cavallo e a piede per li Fiorentini; e la lega di Lombardia ferma a Parma doveano mandare a la detta oste di Lucca inn-aiuto de' Fiorentini Vc cavalieri. Ma le genti ordinano le cose, e Dio le dispone: che per la detta novità de' Tedeschi fatta in Lombardia ogni ordine de l'assedio di Parma e di Lucca tornò in vano, e la nostra gente d'arme col capitano si tornò in Pistoia.
<B>IX</B>
<I>Di certe reliquie sante che vennero in Firenze.</I>
Nel detto anno, a dì XIII d'aprile, furo mandate in Firenze delle reliquie di santo Iacopo e di santo Alesso, e alquanto del drappo che vestì Cristo, per procaccio d'uno monaco fiorentino di Valombrosa di santa vita, il quale le procacciò in Roma da' suo' segnori. E venute in Firenze, furono ricevute a grande processione di cherici, e furonvi i priori e l'altre segnorie e molta buona gente di Firenze, e con grande devozione furono messe ne l'altare di Santo Giovanni.
<B>X</B>
<I>Di novità che fuoro ne la città d'Orbivieto.</I>
Nel detto anno, all'uscita d'aprile, battaglia cittadina si cominciò in Orbivieto, e fue morto Nepoleuccio de' Monaldeschi che n'era segnore per Manno di meser Currado suo consorto; e corsa la terra, ne cacciaro fuori tutta la setta e seguaci del detto Napoleuccio, onde la detta città fu guasta e partita, e 'l detto Manno se ne fece segnore.
<B>XI</B>
<I>Di certo fuoco che·ss'apprese in Firenze.</I>
A dì X di giugno del detto anno, la mattina a la campana del giorno, s'apprese fuoco nel popolo di Santo Simone alla fine del Parlagio antico verso Santa Croce, e arsonvi II case e tre femine.
<B>XII</B>
<I>Quando si cominciò a fondare il campanile di Santa Reparata e 'l ponte a la Carraia.</I>
Nel detto, anno a dì XVIII di luglio, si cominciò a fondare il campanile nuovo di Santa Reparata, di costa a la faccia della chiesa in su la piazza di Santo Giovanni. E a ciò fare e benedicere la prima pietra fue il vescovo di Firenze con tutto il chericato e co' segnori priori e l'altre segnorie co·molto popolo a grande processione; e fecesi il fondamento infino all'acqua tutto sodo; e soprastante e proveditore della detta opera di Santa Liperata fue fatto per lo Comune maestro Giotto nostro cittadino, il più sovrano maestro stato in dipintura che·ssi trovasse al suo tempo, e quelli che più trasse ogni figura e atti al naturale; e fulli dato salario dal Comune per remunerazione della sua vertù e bontà. Il quale maestro Giotto tornato da Milano, che 'l nostro Comune ve l'avea mandato al servigio del segnore di Milano, passò di questa vita a dì VIII di gennaio MCCCXXXVI, e fu seppellito per lo Comune a Santa Reparata con grande onore. E in questo tempo e istante si cominciò a fondare il nuovo ponte a la Carraia, il qual era caduto per lo diluvio, e fue compiuto di fare in calen di gennaio MCCCXXXVI, e costò più di XXVm di fiorini d'oro, e restrinsesi II pile al Vecchio; e fecionsi di nuovo le mura sopra la riva d'Arno da l'un lato e da l'altro, per adirizzare il corso del fiume, e per più bellezza e fortezza de la città.
<B>XIII</B>
<I>Come messer Mastino ebbe il castello di Colornio in parmigiana.</I>
Nel detto anno, del mese d'agosto, messer Mastino della Scala con la lega di Lombardia venne all'assedio del castello di Colornio in sul contado di Parma, e 'l Comune di Firenze vi mandò CCCL cavalieri, molto bella e buona gente, onde fu capitano Ugo delli Scali; sì che messer Mastino vi si trovò con IIIm cavalieri, e bisognavali bene, che' Parmigiani con la cavalleria ch'avea loro lasciata il re Giovanni, con l'aiuto di Lucca e di Reggio e di Modana, si trovarono con più di IIm buoni cavalieri, i quali per più volte feciono punga per rompere l'oste e di combattere con messer Mastino; ma l'oste era sì forte di fossi e di steccati, che non ebbono podere, né messer Mastino non si volle mettere a battaglia campale. Per la quale cosa i Parmigiani non potero fornire Colornio, e quello abandonato, s'arendéo a messer Mastino a dì XXIIII di settembre del detto anno. La quale vittoria fu cagione a messere Mastino d'avere poco apresso la città di Parma, come inanzi faremo menzione.
<B>XIV</B>
<I>Come i Fiorentini riebbono il castello d'Uzzano in Valdinievole.</I>
Nel detto anno, a dì XII di settembre, per trattato di messer Beltramone dal Balzo capitano di guerra de' Fiorentini, e per tradimento e costo di IIm fiorini d'oro, il castello d'Uzzano di sopra a Pescia in Valdinievole s'arendéo al Comune di Firenze; e ciò fatto, il detto messer Beltramone dal Balzo capitano di guerra de' Fiorentini cavalcò con Vc cavalieri e popolo assai per due volte infino a le porti di Lucca, ardendo e guastando e levando gran preda con grave danno di Lucchesi. Ma ciò potea fare sicuramente per l'oste de la lega ch'era a Colornio in Lombardia, e la cavalleria di Lucca era a Parma, sì che·lla città di Lucca era isfornita di genti d'arme.
<B>XV</B>
<I>Come il re Giovanni simulatamente donò la città di Lucca al re di Francia.</I>
Nel detto anno, a dì XIII d'ottobre, essendo il re Giovanni a Parigi simulatamente e per favore de' Lucchesi e a·lloro richesta donò al re Filippo di Francia tutte le ragioni ch'elli avea in Lucca e nel contado; e il detto re di Francia significò a tutti i mercatanti di Firenze ch'erano in Parigi, come a·llui apartenea la signoria di Lucca e ch'ellino scrivessono al nostro Comune che a la città di Lucca né al contado non si facesse guerra; ma però non si lasciò. E lo re Ruberto per sue lettere e ambasciadori de la detta impresa di Lucca molto si dolfe al re di Francia suo nipote, e pregandolo ch'elli lasciasse la detta impresa di Lucca, però che·lla signoria non era sua di ragione, e erali stata tolta per tradimento, e rubellata per Uguiccione da Faggiuola e poi per Castruccio Interminelli, per la qual cosa il re di Francia non vi mandò sua gente né ne prese possessione.
<B>XVI</B>
<I>Come i Fiorentini per guardia della terra feciono in Firenze VII bargellini.</I>
Nel detto anno, per calen novembre, coloro che reggeano la città di Firenze crearono uno nuovo oficio in Firenze; ciò furono VII capitani di guardia della città, ciascuno con XXV fanti armati, e in ogni sesto de la città ne stava uno, e nel sesto d'Oltrarno due; i quali guardavano la città di dì e di notte, di sbanditi e di zuffe e offensioni e di giuoco e d'arme, e fuoro chiamati bargelli. L'oficio de' detti ebbe bello colore e buona mossa; ma quelli che reggeano la città il feciono più per loro guardia e francamento di loro stato, perché dubitavano ch'a la nuova reformazione de la lezione de' priori, che·ssi dovea fare il gennaio apresso, non avesse contesa, perché certi popolani ch'erano degni d'essere al detto oficio per sette n'erano schiusi. Durò il detto uficio uno anno e non più, fornita la detta lezione; e poi ne surse un altro oficio di maggiore lieva, che·ssi chiamò conservatore, come inanzi al tempo faremo menzione.
<B>XVII</B>
<I>Conta di guerra tra' Catalani e' Genovesi.</I>
Nel detto anno i Genovesi co·lloro galee armate feciono grande danno a' Catalani, che presono di loro quattro grandi cocche in Cipri, e altre quattro in Cicilia, e quattro galee in Sardigna, tutte cariche di ricco avere, e li uomini tutti misono alle spade o anegaro in mare, e VIc ne 'mpiccaro a uno colpo in Sardigna, la quale fue una grande crudeltà; ma non fu sanza merito in parte di giudicio di Dio alla loro città, come seguendo in questo assai tosto faremo menzione.
<B>XVIII</B>
<I>Come i Turchi furo sconfitti in mare da galee de la Chiesa e del re di Francia.</I>
Nel detto anno l'armata de la Chiesa di Roma e del re di Francia e' Viniziani, in quantità di XXXII galee mandate in Grecia per difenderla da' Turchi che tutta la correano e guastavano, iscontrandosi col navilio de' Turchi ch'era infinito, combattero co·lloro. I Turchi fuggendo a terra, ne morirono più di Vm, e arsono di loro navilio CL legni grossi sanza i sottili e piccioli, e poi corsono tutte le loro marine e alquanto fra terra, levando gran preda di schiavi e di cose con grande danno di loro.
<B>XIX</B>
<I>De la morte di papa Giovanni XXII.</I>
Nel detto anno, a dì IIII di dicembre, morì papa Giovanni apo la città di Vignone in Proenza, ov'era la corte, d'infermità di flusso, che tutto il suo corpo si disolvette, e per quello si sapesse, morì convenevolmente assai ben disposto apo Dio, rivocando il suo oppinione mosso de la visione dell'anime de' santi. E ciò fece, secondo si disse, più per infestamento del cardinale dal Poggetto suo nipote e degli altri suoi parenti, a ciò che non morisse con quella sospeccionosa fama, che da suo movimento, non credendo sì tosto morire, e elli morì il dì seguente. E a ciò che sia manifesto a chi per li tempi leggerà questa cronica, e non possa avere preso errore per quella oppinione, sì metteremo apresso verbo a verbo la detta dichiarazione fatta fedelmente volgarizzare, come avemo la copia dal nostro fratello che allora era in corte di Roma."Giovanni vescovo, servo di servi di Dio, a perpetua memoria. Né sopra quelle cose che dell'anime purgate partite da' corpi, se a la resurrezzione de' corpi la divina essenzia con quella visione, la quale l'Apostolo chiama "fiaccole", vegghiamo, sì per noi come per molti altri, in nostra presenzia recitando e allegando la sacra Scrittura e li originali detti de' santi, o per altro modo ragionando, spesse volte dette sono altrementi che per noi dette e intese fossono, e intendansi e dicansi, possano nelli orecchi de' fedeli dubbio e oscurità generare; ecco la nostra intenzione la quale con la santa Chiesia cattolica intorno a queste cose abbiamo, e abbiamo avuto, per lo tenore delle presenti, come seguita: dichiariamo, confessiamo certamente e crediamo che l'anime purgate partite da' corpi sono ne' cieli de' cieli e in paradiso con Cristo, e in compagnia delli angeli raunate, e veggiono Idio e la divina essenzia faccia a faccia chiaramente, in quanto lo stato e la condizione dell'anima partita dal corpo comporta. E se altre cose e quale o per altro modo intorno a questa materia per noi dette predicate, overo scritte fossono, per alcuno modo quelle cose abbiamo dette, predicate, overo scritte, recitando e disputando i detti della sacra Scrittura e de' santi, e così vogliamo essere dette, predicate, e scritte. Anche se alcune altre cose sermocinando, disputando, domatriando, amaestrando, overo per alcuno altro modo dicemmo, e predicamo, o scrivemo intorno a le predette cose, overo altre cose che raguardano la fede cattolica, la sacra Scrittura, overo a' buoni costumi, in quanto sono consone a la fede cattolica e a la determinazione de la Chiesa a la sacra Scrittura e a' buoni costumi, la sponiamo; altrementi per altro modo quelle cose abbiamo avute, e vogliamo per non dette, predicate e scritte, e quelle revochiamo espressamente; e le predette tutte cose, e qualunque altre predette e scritte per noi di qualunque mai fatti in ogni luogo, e in qualunque luogo o in qualunque stato, che abbiamo, e abbiamo avuto da quinci adietro, e sommettiamo a la determinazione de la Chiesa e de' nostri successori. Data a Vignone a dì III di dicembre, anno XVIIII del nostro pontificato". E poi anullò le reservazioni per lui fatte, che da la sua morte innanzi non avessono vigore.
<B>XX</B>
<I>Del tesoro che·ssi trovò la Chiesa dopo la morte di papa Giovanni, e di sua vita e costumi.</I>
Dissesi che l'eclissi del sole, che fue del mese di maggio l'anno dinanzi, significò la sua morte dovere esere quando il sole verrebbe a l'opposizione del suo mezzo corso; e così parve che fosse. De la morte del detto papa se ne fece in Firenze l'osequio a dì XVI di dicembre ne la chiesa di Santo Giovanni con grande e ricca luminaria, e grande solennità e celebrazione d'oficio per lo chericato e per tutti i cittadini. E nota che dopo la sua morte si trovò nel tesoro de la Chiesa a Vignone in monete d'oro coniate il valere e compito di XVIII milioni di fiorini d'oro e più; e il vasellamento, corone, croci, e mitre, e altri gioielli d'oro con pietre preziose lo stimo a larga valuta di sette milioni di fiorini d'oro, che ogni milione è mille migliaia di fiorini d'oro la valuta. E noi ne possiamo di ciò fare piena fede e testimonianza vera, che il nostro fratello carnale, uomo degno di fede, che allora era in corte mercatante di papa, che da' tesorieri e da altri che fuoro deputati a contare e pesare il detto tesoro li fu detto e acertato, e in somma recato per farne relazione al collegio de' cardinali per mettere in aventario, e così il trovaro. Il detto tesoro, la maggior parte, fu raunato per lo detto papa Giovanni per sua industria e sagacità, che infino l'anno MCCCXVIIII puose la reservazione di tutti i beneficii collegiati di Cristianità, e tutti li volea dare egli, dicendo il facea per levare le simonie. E di questo trasse e raunò infinito tesoro. E oltre a ciò e per la detta reservazione quasi mai non confermò elezzione di nullo parlato, ma promovea uno vescovo inn-uno arcivescovado vacato, e del vescovado del vescovo promosso promovea uno minore vescovo, e talora avenia bene sovente che d'una vacazione d'uno grande vescovado o arcivescovado o patriarcato facea sei o più promozioni; e simile d'altri benifici; onde grandi e molte provisioni di moneta tornavano a la camera del papa. Ma non si ricordava il buono uomo del Vangelio di Cristo, dicendo a' suoi discepoli: "Il vostro tesoro sia in cielo, e non tesaurizzate in terra"; né del tesoro che Piero e li altri apostoli chiesero a Mattia, quando asortiro i·lloro collega in luogo di Iuda Scariotto. E questo basti, e forse è detto più ch'a·nnoi non si conviene, però che 'l detto tesoro dicea papa Giovanni raunava per fornire il santo passaggio d'oltremare; e forse avea quella intenzione. Molto tesoro consumò in Lombardia per abattere i tiranni, e mantenere grande il suo nepote, overo figliuolo, legato di Lombardia, come adietro è fatta menzione, e talora contro a' Turchi. Allegravasi oltre modo d'uccisione e morte de' nimici; molto amò il nostro Comune di Firenze mentre fumo favorevoli e aiutatori del detto suo legato; e più grazie al Comune e singolari cittadini fece, che X vescovadi diede al suo tempo a' Fiorentini e molti altri benifici ecclesiastici; ma poi che 'l nostro Comune fue contro al detto legato, ne fu nimico, e cercava ogni nostro abassamento. Modesto fu e sobrio in suo vivere, e più amava vivande grosse che dilicate, e in sé propio poco spendea; quasi ogni notte si levava a dire l'uficio e istudiare; e le più mattine dicea la messa, e assai era latino di dare udienza, e tosto spediva. Piccolo fu di persona, prosperoso e collerico, e tosto si movea a ira. Savio in iscienza, e d'un aguto spirito, e magnanimo fu a le gran cose. Assai fece grandi e ricchi i suoi parenti, vivette da LXXXX anni, e seppellito fue in Vignone; ma poi i suoi parenti ne portaro o tutto o parte del suo corpo a Caorsa: e nel papato regnò anni XVIII e mesi. Lasciamo omai della materia, ch'assai avemo detto, e de' suoi modi e costumi, e diremo della lezione di papa Benedetto che succedette appresso lui.
<B>XXI</B>
<I>De la lezione di papa Benedetto XII.</I>
Dopo la morte e sepoltura di papa Giovanni i cardinali, ch'erano allora XXIIII, e tutti ritrovandosi in Vignone, per lo siniscalco di Proenza del re Ruberto furo messi nel conclavi per bene guardati e distretti, a ciò che tosto facessono lezione di papa. E avendo tra·lloro tira e discordia della lezione, perché dell'una maggiore setta, della quale era capo il cardinale di Peragorgo, ciò era fratello del conte di Peragorgo, con séguito grande de' cardinali caorsini e franceschi, e il cardinale de la Colonna, sì trattaro d'eleggere papa il cardinale fratello del conte di Comingio, uomo savio e valoroso e di buona vita: fuoro a·llui, e profersorli le loro voci, con patto ch'elli promettesse loro di non venire a Roma; la qual cosa non volle promettere, dicendo che inanzi rinunzierebbe il cardinalato ch'elli avea certo, che 'l papato ch'era in aventura. Per la qual cosa rimescolata la divisione de la lezione tra' collegi quasi per gara, non credendo venisse fatto, misono a squittino quelli di loro collegio ch'era tenuto il più minimo de' cardinali; ciò fu il cardinale Bianco di piccola nazione di tolosana, il quale era stato monaco e poi abate di Cestella, però uomo di buona vita. Sanza osservazione d'ordinato squittino, parve opera divina, che ciascuna setta di cardinali a·rrigatta li diedono le loro voci, e così fu eletto papa la vilia di santo Tomè apostolo dopo vespero, a dì XX di dicembre MCCCXXXIIII. E lui eletto papa, ciascuno s'amirò, e elli medesimo ch'era presente disse: "Avete eletto uno asino", o per grande umilità non conoscendosi degno, o profetizzando il suo stato, però che fue uomo di grosso intelletto quanto ne la pratica cortigiana, ma sofficiente assai in iscrittura. E poi si coronò papa a dì III di gennaio al luogo de' frati predicatori a Vignone, e chiamossi papa Benedetto XII. E come fue eletto, diede commiato a tutti i prelati, salvo a' cardinali, e donò al collegio de' cardinali de la camera Cm fiorini d'oro per ispese.
<B>XXII</B>
<I>Di certo diluvio d'acque che fu in Firenze e in Fiandra.</I>
Nel detto anno, a dì V di dicembre, fu tanta piova, che 'l fiume d'Arno crebbe isformatamente per modo che, se le pescaie ch'erano nel fiume inanzi al grande diluvio fossono state in piede, gran parte de la città sarebbe allagata; ma per lo diluvio il letto d'Arno era abassato più di VI braccia; ma pur così ruppe e ne menòe uno ponte di legname fatto a grossi pali, il quale era fatto tra 'l ponte Vecchio e quello di Santa Trinita, e uno ponte di piatte grosse incatenato, ch'era fatto tra 'l ponte a Santa Trinita e quello da la Carraia, con danno assai. In Fiandra e in Olanda e Silanda in questo tempo fuoro tante soperchie piove, e gonfiamento del fiotto del mare, che tutte case e terre di quelle marine si disertaro.
<B>XXIII</B>
<I>Come uno frate Venturino da Bergamo commosse molti Lombardi e Toscani a penitenzia.</I>
Nel detto anno, per le feste della Nattività di Cristo, un frate Venturino da Bergamo dell'ordine de' predicatori d'età di XXXV anni, di picciola nazione, per sue prediche recòe a penitenzia molti peccatori micidiali e rubatori, ed altri cattivi uomini de la sua città e di Lombardia. E per le sue efficaci prediche commosse ad andare a la quarentina a Roma e al perdono più di diecimila Lombardi gentili uomini e altri, i quali tutti vestiti quasi dell'abito di santo Domenico, cioè con cotta bianca e mantello cilestro o perso, e in sul mantello una colomba bianca intagliata con tre foglie d'ulivo in becco; e venieno per le città di Lombardia e di Toscana a schiere di XXV o XXX, e ogni brigata con sua croce innanzi gridando pace e misericordia; e giugnendo ne le cittadi si rassegnavano prima a la chiesa de' frati predicatori, e in quella dinanzi a l'altare si spogliavano da la cintola in su, e si batteano un pezzo umilmente. E ne la nostra città di Firenze fu loro fatte grandi elimosine, che per le devote genti, uomini e donne, ogni dì erano messe tavole, e piena tutta la piazza vecchia di Santa Maria Novella, ove ne mangiavano per volta Vc o più ben serviti; e così durò XV dì continui, come passavano a Roma. Infra 'l detto tempo fue in Firenze il detto frate Venturino, e predicò più volte; e a le sue prediche traeva tutto 'l popolo di Firenze quasi come a uno profeta. Le dette sue prediche non erano però di sottili sermoni né di profonda scienzia, ma erano molto efficaci e d'una buona loquela e di sante parole, dicendole molto dubbiose e acentive a commuovere genti, quasi affermando e dicendo: "Quello ch'io vi dico sappia, e non altro; ché Dio così vuole". Andonne a Roma co' detti pellegrini, e co·molti altri di Toscana che 'l seguiro, che fue innumerabile popolo con molta onestà e pazienzia. E poi da Roma andòe a Vignone al papa il detto frate Venturino per impetrare grazia di perdono a chi·ll'avea seguito. In corte, o per invidia o per altra sua presunzione, fu acusato al papa, e apostili più articoli di peccati e di resia, de' quali fue disaminato, e fatta inquisizione, e fu trovato buono Cristiano e di santa vita; ma per la sua presunzione, e perché diceva che non era niuno degno papa se non stesse a Roma a la sedia di san Piero, e per tema ch'ebbe il papa che per le sue prediche non comovesse il popolo cristiano, sì·lli diè i confini a dimorare a Frisacca, una terra nelle montagne di Ricordana, e comandolli che non confessasse persona, né predicasse a popolo. E questi sono i meriti c'hanno le sante persone da' prelati di santa Chiesa; overo che fue giusto per temperare la soperchia ambizione del frate, tutto ch'adoperasse con buona intenzione.
<B>XXIV</B>
<I>Come i Ghibellini di Genova ne cacciaro i Guelfi e la segnoria del re Ruberto.</I>
Nel detto anno, essendo ne la città di Genova tornati per pace fatta per lo re Ruberto tutti i Ghibellini, come adietro in alcuna parte facemmo menzione, e mandando a Genova il re uno meser Bolgro da Tollentino suo uficiale per ordinare la guardia della terra, e che 'l termine de la signoria del re si prolungasse, e essendovi per podestà per lo re messer Giannozzo Cavalcanti di Firenze, sombuglio e comozione nacque in Genova tra' Guelfi e' Ghibellini; perché a la maggiore parte de' Genovesi ch'erano d'animo imperiale, e naturalmente sono altieri e disdegnosi, rincrescea la segnoria del re, e non volendo prolungare più la segnoria al re; per la quale dissensione cominciaro tra·lloro battaglia cittadina, e asserragliaro tutta la terra e imbarraro. Alla prima ebbono il migliore i Guelfi, ma poi si partiro tra·lloro; che i Salvatichi per cagione ch'ad uno di loro per lo sopradetto meser Bolgaro, quando fu podestà di Genova, per mandato del re Ruberto fece tagliare il capo a uno de' maggiori della casa, perch'era gran pirrato e rubatore in mare, per lo quale sdegno s'accordaro co' Ghibellini e co·lloro seguaci a torre la segnoria al re, accordati a ciò fare co li Orii e Spinoli. E avuto grande soccorso di genti da Saona e della riviera, per terra e per mare cresciuto loro podere, per forza di battaglia ne cacciaro i Guelfi e le segnorie del re, a dì XXVIII di febraio del detto anno, con gran vergogna del re Ruberto; e fune dato colpa a la podestà di troppa negligenzia. Cacciati i Guelfi di Genova, andarsene al Monaco, e poi col favore del re Ruberto armaro galee, e furono segnori del mare, rubando chi meno poteva di loro, e tenendo la città di Genova molto stretta. I Ghibellini che rimasono segnori in Genova feciono due capitani, uno di casa d'Oria e uno di casa Spinola. Per questa mutazione molto si sconciò il buono istato di Genova e di mercatantia, e male vi si tenea ragione, onde molto abassò il podere de' Genovesi; e' Guelfi medesimi che tennero co' Ghibellini fuoro poi cacciati di Genova.
<B>XXV</B>
<I>Come cominciò l'abassamento de' Tarlati d'Arezzo, e come fue tolto loro il Borgo a Sansipolcro.</I>
Nell'anno di Cristo MCCCXXXV, essendo messer Piero Saccone de' Tarlati d'Arezzo, fratello che fu del valente vescovo d'Arezzo, di cui adietro in più luogora avemo fatta menzione, co' suoi fratelli e consorti segnori al tutto d'Arezzo, e de la Città di Castello, e del Borgo a Sansipolcro, e di tutte loro castella, e di quelle di Massa Tribara, dominando come tiranni infino nella Marca, e avendo disertato Nieri d'Uguiccione da Faggiuola, e i conti da Montefeltro, e quegli da Montedoglio, e la casa delli Ubertini, e il vescovo d'Arezzo delli Ubertini e' figliuoli di Tano da Castello, e più altri baroncelli del paese, ghibellini e guelfi, per segnoreggiare tutto; e per loro presunzione, presa la città di Cagli, nella quale i Perugini cusavano alcuna ragione, e perché contro a' Perugini teneano la Città di Castello, i Perugini co' detti Ghibellini segretamente feciono lega e compagnia e con messer Guiglielmo segnore di Cortona, e dando a Nieri da Faggiuola di loro genti, e per trattato fatto con Ribaldo da Montedoglio cognato de' Tarlati, che per loro tenea il Borgo a Sansipolcro, entròe il detto Nieri nel detto Borgo con CC cavalieri e Vc pedoni a dì VIII d'aprile del detto anno, e prese la terra, salvo la rocca, che·ssi tenne infino a dì XX d'aprile, nella quale era messere Uberto di Maso de' Tarlati; e vegnendo gli Aretini co·lloro sforzo per soccorrella, i Perugini con tutta loro lega e forza vi fuoro più grossi e possenti, sì che al tutto rimasono segnori della terra e della rocca, la quale s'arendé loro, salve le persone. E questo fue il cominciamento de la loro rovina e abassamento.
<B>XXVI</B>
<I>D'una rovina che fece parte della montagna di Falterona.</I>
Nel detto anno, a dì XV di maggio, una falda de la montagna di Falterona da la parte che discende verso il Decomano in Mugello, per tremuoto e rovina scoscese più di quattro miglia infino a la villa si chiamava il Castagno, e quella con tutte le case, persone e bestie salvatiche e dimestiche e alberi sobissò, e assai di terreno intorno, gittando abondanza d'acqua ritenuta, oltre a l'usato modo torbida come acqua di lavatura di cenere; e gittò infinita quantità di serpi, e due serpenti con quattro piedi grandi com'uno cane, li quali l'uno vivo e l'altro morto fuoron presi a Decomano. La quale torbida acqua discese nel Decomano, e tinse il fiume della Sieve; e la Sieve tinse il fiume dell'Arno infino a Pisa; e durò così torbido per più di due mesi, per modo che dell'acqua d'Arno a neuno buono servigio si poteva operare, né' cavalli ne voleano bere; e fue ora che i Fiorentini dubitaro forte di non poterlo mai gioire, né poterne lavare o purgare panni lini o lani, e che però l'arte della lana non se ne perdesse in Firenze; poi a poco a poco venne rischiarando, e tornando in suo stato.
<B>XXVII</B>
<I>Di certi scontrazzi che fuoro tra·lla nostra gente e quella di Lucca.</I>
Nel detto anno, a dì VI di giugno, avendo il capitano della guerra de' Fiorentini, messer Beltramone dal Balzo, posto uno battifolle, overo bastita, tra Uzzano e Buggiano in Valdinievole per guerreggiare Buggiano e Pescia, tornando da quello la nostra gente in quantità di CL cavalieri, certi de' nemici per ordine d'aguato uscirono loro adosso, e combattero, e fuoro rotti i nimici, e presine XXII cavalieri, e uno conestabole morto. Intanto, com'era ordinato per li nimici, vennero da Pescia a Buggiano CC cavalieri di quelli di Lucca e assalirono i nostri, che·ssi credeano avere vinto, e misolli in isconfitta, e rimasonvi de' nostri IIII conestaboli presi e uno morto, con più cavalieri presi e morti.
<B>XXVIII</B>
<I>Come i Perugini furo sconfitti da li Aretini.</I>
Nel detto anno, a dì VIII di giugno, avendo i Perugini e i loro collegati presa grande baldanza sopra li Aretini per la rubellazione del Borgo a Sansipolcro, col segnore di Cortona in quantità di VIIIc cavalieri e Vm pedoni erano partiti di Cortona e intrati in sul contado d'Arezzo guastando la contrada di Valdichiana. Messer Piero Saccone segnore d'Arezzo uscito di Castiglione Aretino con Vc cavalieri di sue masnade e pedoni assai, venne arditamente contro a Perugini, i quali, veggendo li Aretini, si cominciarono a ricogliere verso Cortona male ordinati e peggio capitanati. Li Aretini, intra' quali avea di buoni capitani di guerra, veggendo il loro male reggimento, assaliro vigorosamente i cavalieri di Perugia ch'erano ischierati in sulla strada alla guardia de' guastatori, e dopo la prima afrontata alquanto ritenuta i cavalieri perugini furono rotti e sconfitti, e rimaservi de' cavalieri pur de' migliori cittadini e forestieri da C tra presi e morti, e più di CC pedoni, e seguendo la caccia infino a le porte di Cortona; e se non fosse il refugio della terra, pochi ne sarebbono scampati. E ciò fatto, li Aretini cavalcaro guastando e ardendo in sul contado di Perugia per V dì, e fuoro infino a le forche di Perugia presso a la città a due miglia; e per diligione de' Perugini v'impiccarono de' Perugini presi colla gatta, overo muscia, al lato, e colle lasche del lago infilzate pendenti dal braghiere dell'impiccati. Per la qual cosa i Perugini molto aontati, non feciono come genti isbigottiti né sconfitti; ma subitamente raunaro danari, e mandaro in Lombardia per M cavalieri tedeschi, i quali erano stati delle masinade del re Giovanni, molto buona gente, i quali erano di poco partiti di Parma, quando si rendé a messere Alberto e Mastino, e chiamavansi i cavalieri de la Colomba; però che s'erano ridotti a la badia de la Colomba in Lombardia e ne la contrada, vivendo di ratto e sanza soldo. E quelli soldati vennero a Perugia, co' quali, co' Perugini, e coll'aiuto de' Fiorentini, che incontanente saputa la sconfitta mandarono a Perugia CL cavalieri colla 'nsegna del Comune di Firenze feciono apresso di gran cose contra li Aretini, come per lo inanzi leggendo si potrà trovare. E in questo tempo, a dì XV di giugno, passando per Firenze da CL balestrieri genovesi, i quali andavano ad Arezzo in servigio di messer Piero Saccone, che·lli mandavano i parenti della moglie ch'era de li Spinoli di Genova, andando al dilungo per la terra con bandiere levate, e colle sopransegne imperiali e ghibelline, i fanciulli e' garzoni e popolo minuto di Firenze a grido li seguiro fuori della porta, e tutti li rubaro e presono e fediro, sicché non potero andare al servigio delli Aretini, e tornarsi a Genova; e convenne che i mercatanti di Firenze ch'aveano a fare in Genova mendassero loro il danno ricevuto. De la qual cosa, e de' cavalieri che' Fiorentini mandaro loro subitamente sanza richesta, i Perugini ebbono molto a grado da' Fiorentini, che per lo sùbito avenimento della sconfitta erano molto sbigottiti; e per questo piccolo soccorso presono vigore e conforto per lo modo detto di sopra, e 'l consiglio de' Perugini ordinòe di trovare moneta per via di gabelle al modo di Firenze, onde soldaro i detti M cavalieri.
<B>XXIX</B>
<I>D'una armata che 'l re Ruberto fece sopra Cicilia.</I>
Nel detto anno, a dì XIII di giugno, partiti del porto de la città di Napoli una armata di LX galee e più altri legni che il re Ruberto mandòe sopra l'isola di Cicilia con M cavalieri, onde fu capitano il conte Curiliano di Calavra e il conte di Chiermonte rubello di quello di Cicilia. E i Fiorentini li mandaro aiuto al re per quella armata C cavalieri; di più non potero servire il re per la gente de' Fiorentini ch'era in Lombardia in servigio della lega, e sopra la città di Lucca e al servigio di Perugini, come adietro è detto. La detta armata stettono in su l'isola di Cicilia il luglio e l'agosto faccendo grande danno, ma nulla terra murata v'acquistaro, però che e' parenti e' fedeli del conte di Chiermonte non li rispuosono come aveano promesso; e chi disse che 'l detto conte non volle perché il re no·lli fece quello onore quando venne a·llui, come si credette, e per animo imperiale; e a ciò diamo fede, che tornata la detta armata a Napoli, il detto conte si partì dal re e andonne in Alamagna al Bavero, e poi tornò al servigio di messer Mastino della Scala, onde s'era mosso.
<B>XXX</B>
<I>Come la città di Parma e di Reggio s'arendero a' segnori della Scala, e quello che di ciò seguitò.</I>
Nel detto anno, avendo la lega di Lombardia co' cavalieri di Firenze (e al continuo n'avea al loro servigio CCCCL) molto aflitta la città di Parma, dapoi ch'ebbono il castello di Colornio, come adietro facemo menzione, Orlando e messer Marsilio de' Rossi di Parma, che teneano la segnoria della terra, trattato feciono con messer Azzo Visconti da Milano di darli Parma e Lucca; per la qual cosa messer Mastino e li altri segnori de la lega e' Fiorentini si turbaro molto, e ordinaro parlamento... e tutti vi fuoro, e messer Azzo a Solcino, e molto isdegno si scoperse allora tra messer Azzo e messer Mastino, che messer Azzo pur volea seguire la 'mpresa. I Fiorentini temendo di Lucca, che non venisse a le mani di messer Azzo, e confidandosi più di messer Mastino per le impromesse fatte a·lloro di rendere loro Lucca, antipuosono con ogni opera e coll'aiuto delli altri allegati di levare messer Azzo dal suo proponimento, e di paciarlo con messer Mastino, e dopo molti trattati s'accozzaro insieme in sul fiume del Leglio, e rimisesi la questione nelli ambasciadori di Firenze, i quali accordaro che Parma fosse di messer Mastino, e la lega atasse a messer Azzo acquistare Piagenza e il borgo a San Donnino. E ciò fatto, e confermato per solenni strumenti, i Rossi di Parma, non aspettando soccorso dal re Giovanni, trattaro concordia con messer Mastino e con la lega, mosso prima il trattato per Ispinetta marchese, e poi seguito e tratto a fine per mano di messere Marsilio da Carrara di Padova loro zio; e in tutto si rimisono i·llui, e rendero la città di Parma a messer Mastino e a messer Alberto de la Scala con promesse di larghi e grandi patti, lasciando loro Pontriemoli e più castella in parmigiana, e promissione di lasciarli i maggiori cittadini di Parma, e che avessono dal Comune annualmente per loro provisione grande quantità di moneta, in quantità di Lm fiorini d'oro. E elli promisono a meser Mastino d'aoperare con effetto con messer Piero Rosso loro fratello, il quale tenea la città di Lucca per lo re Giovanni, di farliele rendere, acordandosene per certa quantità di moneta col detto re. E questi patti di Lucca, dicea messer Mastino, facea a petizione del Comune di Firenze, per osservare i patti della lega, e così ne scrisse al detto Comune di Firenze, e continuo dicea a li ambasciadori de' Fiorentini ch'erano intorno di lui a Verona, e quando di ciò mancasse messer Piero Rosso, sarebbono di sua gente al servigio de' Fiorentini atare acquistare Lucca Vc cavalieri e tutte queste promesse erano inganno. Ebbono la possessione della città di Parma i segnori della Scala di Verona a dì XXI di giugno il detto anno MCCCXXXV, e entròvi messer Alberto de la Scala con VIc cavalieri, però che messer Mastino per alcuno disagio di sua persona preso a Colornio se n'era ito a Verona; e al cominciamento quelli della Scala osservaro largamente i patti a' Rossi di Parma infino che ebbono la possessione di Lucca. Essendo renduta la città di Parma a messer Mastino, poco apresso i segnori da Fogliano, che teneano la città di Reggio, per non avere adosso l'oste della lega, cercaro trattato con messer Mastino, e con certi patti rendero la città di Reggio a dì IIII di luglio del detto anno, a meser Mastino, il quale incontanente la rinvestì e diede a quelli da Gonzaga segnori di Mantova, com'era in patti de la lega, riconoscendola da·llui per omaggio, dandogline ogn'anno uno falcone pellegrino, il quale li doveano mandare a Verona.
<B>XXXI</B>
<I>Come meser Azzo segnore di Milano ebbe a patti la città di Piagenza e di Lodi, e' marchesi Modana.</I>
E poi per simile modo, a dì XXVII di luglio del detto anno, si rendé la città di Piagenza a meser Azzo segnore di Milano; ma poi li Scotti di Piagenza con certi altri la rubellaro a meser Azzo, e più tempo stettono in trattato col re Ruberto di darli la terra. Il re per sua lunghezza, overo per tema di fare sì grande impresa contra meser Azzo, no·lli soccorse, per la quale cosa sotto certi patti s'arendero a meser Azzo a dì XV di dicembre MCCCXXXV. E poi, a l'entrante di settembre MCCCXXXV, s'arendé la città di Lodi al detto meser Azzo; e così fu a ciascuno de' collegati della lega di Lombardia osservati i patti del conquisto fatto, che a' marchesi da Ferrara, dopo molto stento avutasi la città di Modana per meser Mastino, la diede loro a dì VIII di maggio MCCCXXXVI, salvo che al Comune di Firenze non furo atenute le convenenze de la città di Lucca, onde poi tra 'l Comune di Firenze e meser Mastino ne seguiro grandi novità, sì come apresso per li tempi faremo menzione. Lasceremo alquanto de' fatti di Lombardia, e diremo di quelli di Firenze e d'altre parti che furono in que' tempi.
<B>XXXII</B>
<I>Come i Fiorentini presono in guardia il castello di Pietrasanta, e con vergogna i·lasciaro.</I>
Nel detto anno, a dì VIIII di luglio, tegnendosi il castello di Pietrasanta del contado di Lucca per Niccolaio de' Pogginghi, che·ll'avea avuto in pegno dal conestabole di Francia, al tempo che venne in Lucca col re Giovanni, per Xm fiorini d'oro che·lli avea prestati, non potendo di suo podere guardare la terra, la diede in guardia al Comune di Firenze, salvo si ritenne la rocca; i quali vi mandaro C cavalieri e IIIc pedoni, capitano meser Gerozzo de' Bardi. Per la quale folle baldanza due dì apresso certi usciti di Lucca, in quantità di CC pedoni, presono il poggio della Pedona ch'è tra Pietrasanta e Camaiore, e quello intendeano d'aforzare; incontanente vi cavalcò meser Piero Rosso con le masinade di Lucca a cavallo e a piede, e quello poggio assediaro; e non essendo forniti di vittuaglia né soccorsi, s'arendero, e fuoro menati a Lucca presi; de' quali caporali ne furo impiccati XVIII, intra' quali ebbe due de' Pogginghi. Ma poi l'aprile vegnente il detto Niccolao di Poggio rendé Pietrasanta a meser Mastino de la Scala, che tenea già Lucca, per XIm fiorini d'oro, mandandone fuori le masnade de' Fiorentini; ma non compié l'anno apresso, che meser Mastino fece pigliare il detto Niccolao in Lucca, e opponendoli trattava co' Fiorentini, e tolseli i detti danari e più; e così il traditore dal traditore fu tradito giustamente.
<B>XXXIII</B>
<I>Di grande corruzzione di vaiuolo che fue in Firenze.</I>
Nel detto anno e istate fue in Firenze una grande corruzzione di male di vaiuolo, che tutti i fanciulli di Firenze e del contado ne fuoro maculati diversamente; per la quale malatia più di IIm ne falliro per morte in Firenze tra maschi e femine. Dissesi per alcuni strolagi e naturali, che la congiunzione di Marte e di Saturno nel segno de la Libra, e il Giove a·lloro opposizione nell'Ariete, ne fu cagione.
<B>XXXIV</B>
<I>Come si rubellò Grosseto a' Sanesi, e poi il riebbono per danari.</I>
Nel detto anno, a dì XXVIII di luglio, essendo Batino segnore di Grosseto per tirannia, sì come il più possente cittadino di quella, stato più tempo in Siena a' confini e quasi in cortese pregione (però che i Sanesi li aveano tolto Grosseto tortevolemente e a inganno, e in Siena il teneano per paura) il detto Batino si partì celatamente di Siena, e rubellò Grosseto. Per la qual cosa a' Sanesi surse assai guerra in picciol tempo, per la qual cosa i Sanesi incontanente feciono oste a Grosseto con molto dispendio e mortalità di loro gente per lo pestilenzioso luogo. E essendo ad oste infino a dì VIII di novembre, per certo falso trattato di que' d'entro fu data a' Sanesi una porta de la città, e rotto alquanto del muro; e intrato dentro il conte Marcovaldo de' conti Guidi loro capitano di guerra con più di CCC uomini, com'era ordinato, fuoro rinchiusi e quasi tutti presi; e di grande aventura scampòe il conte. E raforzata l'oste de' Sanesi, Batino essendo andato a Pisa per soccorso, da' Pisani ebbe aiuto de' cavalieri, e ancora per suoi danari soldò cavalieri, sì che menò i·Maremma Vc cavalieri, e francamente levò da oste i Sanesi e villanamente, che lasciaro tutto il loro campo e arnesi, e misonsi in fuga. E poi co' detti cavalieri corse Batino tutte le terre de' Sanesi di Maremma infino al bagno a Petriuolo, levando grandi prede; e ciò fu a dì XXVI di novembre del detto anno. Ma poi i Sanesi trattarono acordo col detto Batino, e promisonli Xm fiorini d'oro, e elli rendesse loro Grosseto, a dì XXVI di luglio MCCCXXXVI; ma rupporli dislealmente la 'mpromessa, che non li pagaro che·lla prima paga di Vm fiorini d'oro; e così fue ingannato il tiranno tirannescamente.
<B>XXXV</B>
<I>Come i Sanesi per inganno presono la città di Massa, e ruppono pace a' Pisani.</I>
Ancora nel detto anno tegnendo i Fiorentini la guardia della città di Massa in Maremma per l'acordo fatto da' Pisani a' Sanesi per lo vescovo di Firenze, come adietro facemo menzione, l'anno MCCCXXXIII, e essendovi per podestà Teghia di meser Bindo de' Bondelmonti e per capitano Zampaglione de' Tornaquinci, la setta de' cittadini ch'amavano i Sanesi, e per loro trattato, cominciarono il romore e battaglia nella città, e abarrarsi ne la terra; e la parte de' Sanesi s'accostaro col detto Zampaglione loro capitano, e dissesi per corruzzione di moneta. Incontanente vi cavalcaro i Sanesi popolo e cavalieri, e entraro ne la terra da la parte di sopra ov'era la forza della loro setta. I Fiorentini vi mandaro allora il loro vescovo e altri ambasciadori per acquetare la terra, ma neente v'adoperaro per la forza de' Sanesi ch'aveano presa gran parte de le fortezze de la città; e convenne per forza ch'al tutto fossono segnori de la terra, e cacciarne i caporali amici de' Pisani; e ciò fu a dì XXIIII d'agosto del detto anno. Per la qual cosa i Pisani si turbaro molto contro a' Sanesi, perch'aveano loro rotta pace, e però diedono i·loro soccorso de' cavalieri a Batino di Grosseto contro a' Sanesi, come detto avemo. Ma più si dolfono de' Fiorentini, perché s'erano fidati di loro, e data in guardia la città di Massa, ed erano mallevadori della pace sotto pena di Xm marchi d'argento, con tutto che noi sapemo di vero che' Fiorentini non ci usaro frode né inganno contra' Pisani, ma falliro in negligenza di non mandare la forza de' loro cavalieri al soccorso della podestà di Massa, e non puliro il capitano loro cittadino, il quale si disse che fu colpevole della rivoluzione della città.
<B>XXXVI</B>
<I>Di certi fuochi appresi in Firenze.</I>
Nel detto anno, a dì XXV d'agosto, s'aprese fuoco in Firenze da San Gilio, e arse una casa de' tintori. E poi a dì XVII di settembre s'apprese nella piazza di San Giovanni verso il corso delli Adimari, e arsono V case.
<B>XXXVII</B>
<I>Come i Perugini e' loro collegati ebbono la Città di Castello.</I>
Nel detto anno, sabato notte ultimo dì di settembre, il marchese di Valliana avendo tenuto segreto trattato con tre fratelli di Monterchi anticamente suoi fedeli, i quali erano a la guardia ne la Città di Castello sopra una porta, per raporto d'una loro madre, subitamente e di notte si partì dal Monte Sante Marie, e cavalcò co' figliuoli di Tano da Castello, e con Nieri da Faggiuola, e con meser Branca da Castello, con Vc cavalieri de' Perugini e pedoni assai; e anzi dì giunsono a le porte di Castello, che dovea loro esere data per li detti traditori: fu loro risposto. E quando meser Ridolfo Tarlati, ch'era in Castello segnore con C cavalieri, sentì i nemici, fue a l'arme per difendere la terra; e vegnendo a la porta ov'erano i traditori, li fu gittato da loro de la torre d'entro: incontanente sbigottito abarrò la via dinanzi per difensione; ma il marchese e' suoi compagni e' maestri di guerra incontanente feciono agirare la loro gente da l'altra parte della terra, faccendo vista con grande tumulto di grida e di sono di trombe e di nacchere d'assalire altra porta; e rimase con pochi a tagliare la detta porta. Que' d'entro storditi per lo sùbito assalto, e male proveduti, corsono per la terra per paura a l'altre porte. Intanto fu tagliata e aperta quella ov'erano i traditori; e tagliato il ponte, e entrati dentro, e poi grande battaglie ebbono a le sbarre de la via, e per forza le vinsono, però che messer Ridolfo e' figliuoli vedendo i nimici dentro si fuggiro con parte di sua gente ne la rocca; che se fosse stato fermo a la difesa, non perdea la terra. La città per li Tedeschi fue tutta corsa e rubata, e 'l castello de la rocca assediato dentro e di fuori; e per la troppa gente in quella rifuggiti, non essendo fornita al bisogno di vittuaglia, s'arrendero pregioni a dì V d'ottobre. E messer Ridolfo con due suoi figliuoli e li altri della rocca n'andaro presi a Perugia. E poco apresso i Perugini ebbono il forte castello di Citerna, e più altre della contrada. Avemo detto sì distesa questa presa di Castello perché fue d'aventuroso avenimento, e con bello accorgimento e prodezza di guerra. E nota che se questa vittoria non fosse avenuta a' Perugini, elli erano per disertarsi de la guerra con li Aretini; però che già cominciava loro a rincrescere la grossa spesa de' cavalieri soldati, sì come popolo e cittadini male proveduti a guerra, e poco mobolati di moneta comunemente.
<B>XXXVIII</B>
<I>Come il re d'Inghilterra isconfisse li Scotti.</I>
Nel detto anno, la state MCCCXXXV, il giovane Adoardo re d'Inghilterra con sua baronia ancora passò in Iscozia con Ruberto di Balliuolo, il quale n'avea fatto nuovo re, e contra Davit re nato di Ruberto di Brus, combattéo con lui e con li Scotti e sconfisseli. Ben vi rimase morto per soperchio affanno il conte di Cornovaglia, fratello carnale del re d'Inghilterra; e prese il re Adoardo quasi tutto il paese di Scozia, salvo le fortezze delle montagne, e de' boschi e maresi. E 'l detto re Davit di Brus si tornò in Francia al re Filippo di Valos suo collegato, avendo quasi perduto il reame. Lasceremo alquanto delli strani, e torneremo a nostra materia de' fatti di Firenze e delle pertinenze.
<B>XXXIX</B>
<I>Come i Fiorentini criarono di nuovo l'uficio del conservadore, e quello ne seguì.</I>
Nel detto anno, per calen di novembre, i Fiorentini che reggeano la città feciono u·nuovo reggimento di segnoria, il quale chiamaro il capitano della guardia e conservatore di pace e di stato de la città. E il primo fue meser Iacopo Gabrielli d'Agobbio; e il detto dì entrò in segnoria con L cavalieri e con C fanti a piè, con salario di Xm fiorini d'oro l'anno con grande arbitrio e balìa sopra li sbanditi; e sotto il suo titolo de la guardia stendea il suo uficio di ragione e di fatto a modo di bargello e sopra ogni altra signoria, e faccendo iustizia di sangue come li piacea, sanza ordine di statuti. E tornò a stare ne palagi che fuoro de' figliuoli Petri dietro e di costa a la chiesa di San Piero Scheraggio, i quali in quelli tempi si comperarono per lo Comune di Firenze da' creditori de la compagnia delli Scali fiorini VIIm d'oro. Questo uficio feciono e criarono quelli cittadini popolari che reggeano la terra per fortificare loro stato e per paura di non perderlo, quasi al modo dell'anno dinanzi aveano fatti i VII bargellini, come adietro facemo menzione. Il detto messere Iacopo stette in segnoria uno anno faccendo aspro uficio, e faccendosi molto temere a' cittadini grandi e popolani; e li sbanditi quasi si cessaro tutti di città e di contado; però che prese Rosso figliuolo di Gherarduccio de' Bondelmonti, il quale avea bando di contumace de la testa per certa riformagione, e non per istatuto né micidio per lui fatto, ma per una cavalcata ch'elli con certi avea fatta a Monte Alcino in servigio de' Tolomei di Siena; e feceli tagliare il capo contro al volere de la maggiore parte de' Fiorentini, però che non avea fatta offensione a nullo cittadino né in nostro distretto, ma per farsi temere: però che chi a uno offende molti minaccia. E poi più altri per simile modo giudicò a morte, e condannò quasi tutti i Comuni e popoli di contado per cagione di ritenere sbanditi a diritto e a torto, come li piacque. E così menando rigido e crudo il suo oficio, molte cose inlicite e di fatto fece in Firenze, a petizione di coloro che l'aveano chiamato e reggeano la città, e ancora per non licito guadagno. Poi compiuto l'anno se n'ando ad Agobbio ricco di molti danari. E in suo luogo ci venne in calen di novembre MCCCXXXVI, per uno anno apresso, messer Accorrimbono da Tolentino, uomo d'età di più di LXXV anni, il quale altra volta stato in Firenze per podestà fu buono rettore. Al cominciamento di suo uficio cominciò bene; ma poco appresso dilatando suo uficio, che l'avea di fatto, infino a' piati minuti intese per guadagneria di sé e di sua corte. E infra 'l suo tempo, a dì XIII di luglio MCCCXXXVII, essendo a sindacato uno meser Niccola de la Serra d'Agobbio stato podestà di Firenze, e trovandosi in defetto, e per l'esecutore delli ordinamenti de la giustizia suo parente, il quale era del contado d'Agobbio, col favore del detto meser Accorrimbono e della nuova podestà, ch'era nipote del detto meser Accorrimbono, non lasciando a' sindachi in ciò fare loro officio, gente minuta si commosse, e fue in parte la città a romore in su le piazze de le segnorie, perché non si facea iustizia de la podestà e di sua famiglia; e co' sassi cacciati fuoro e fediti, e alquanti morti delle famiglie delle dette segnorie a·lloro gran difetto, spezialmente quella del detto meser Accorrimbono, onde tutta la città si comosse. E volendo il detto meser Accorrimbono fare iustizia in persone di certi che avea presi per lo detto romore, per paura del popolo minuto non ebbe l'ardire, e non l'avrebbe potuto fare per la furia del popolo; e convenne fosse condannata la podestà vecchia, e certi de' detti che feciono il romore, in pecunia. Per la quale cosa e cagioni si fece decreto che infra X anni nullo rettore di Firenze potesse esser d'Agobbio o del contado. Conseguendo l'uno errore sopra l'altro, il detto meser Accorrimbono, a petizione di certi caporali che reggeano la città, per cagione di setta fece una inquisizione del mese di settembre contra meser Pino della Tosa, ch'era morto il giugno dinanzi, ch'elli e Feo di meser Odaldo de la Tosa e Maghinardo delli Ubaldini aveano tenuto trattato con meser Mastino de la Scala di tradire Firenze; e fune costretto e martoriato il figliuolo di meser Pino per farlo confessare ciò, ed altri gentili uomini di Firenze amici di messer Pino, per disfare la sua memoria e distruggere i suoi amici; e ciò fu fatto per invidia, e chi disse per operazione d'alcuno consorto del detto messer Pino. La qual cosa non fu né si trovò vero; e il detto Maghinardo se ne venne personalmente a scusare. Ben fu vero che messer Pino per mandato del re Ruberto, da cui tenea terra, cercò con meser Mastino concordia co·llui e col nostro Comune, dandone la città di Lucca libera. E per la detta cagione parendo al detto messer Accorrimbono avere male impreso, per sua ricoperta condannò parte de la casa di messer Pino a disfare, perché cominciò il trattato sanza parola de' priori, e il detto Feo per contumacia; la qual cosa fu molto biasimata da più cittadini, però che messer Pino era stato il più suficiente e valoroso cavaliere di Firenze, e il più leale a parte guelfa, popolo e Comune. Ben fue un grande imprenditore di gran cose per avanzarsi; per la qual cosa il detto oficio di capitano di guardia e conservatore venne sì in orrore de' cittadini di Firenze, che per nullo modo o procaccio di certi caporali che reggeano la città, non potero avere balìa di raffermare il detto messere Accorrimbono né altri in suo luogo; e venne meno il detto oficio, il qual'era arbitraro e di fatto, sanza ordine, legge o statuto osservare, per potere per lo detto oficio disfare e cacciare di Firenze cui fosse piaciuto a certi che reggeano la città, ch'aveano criato il detto uficio, e per tenere in tremore i cittadini. Avemo sì lungo fatta memoria di questo officio e de' suoi processi per lasciarne esemplo a' cittadini che saranno, a ciò che per bene de la nostra città non siano mai vaghi di fare uficiali arbitrari, che perché si criino sotto colore e titolo di bene di Comune, sempre mai fanno dolorosa uscita per le cittadi, e nascene tirannica segnoria.
<B>XL</B>
<I>Come messer Mastino della Scala ebbe la città di Lucca.</I>
Nel detto anno MCCCXXXV, in calen di novembre, dopo molti trattati fatti per Orlando Rosso con messer Mastino de' fatti di Lucca, sempre con parole e promesse di farlo ad istanza de' Fiorentini, tanto si menò il trattato, che messer Piero Rosso, il quale n'avea la possessione, non si potéo più difendere da' fratelli, e mal volontieri andòe a Verona, e aconsentì di dare a messer Mastino la segnoria di Lucca. E così ebbe messere Mastino della Scala la posessione e la segnoria de la città di Lucca e del contado per mano d'Orlando e di messer Piero de' Rossi di Parma, com'erano state fatte le convenenze quando renderono Parma, come dicemo adietro. E partissi messer Piero Rosso a dì XX di dicembre del detto anno de la città di Lucca, e andossene a Pontriemoli, che di patti rimase a' Rossi con più altre castella in parmigiana per lo modo detto; e in Lucca rimase poi vicario per meser Mastino meser Giliberto tedesco con Vc cavalieri, e sempre dando meser Mastino falsa speranza a' Fiorentini per sue lettere, e dicendolo e promettendolo e giurandolo a' loro ambasciadori, ch'al continuo il seguivano per cagione di ciò, di rendere al Comune di Firenze la città e contado di Lucca com'erano i patti de la lega, quando avesse riformata la terra in buono stato; de la quale promessa fallì sì come fellone e traditore, e i Rossi di Parma tradì e disertò, come inanzi faremo menzione, sì come falso e disleale tiranno, che s'avea conceputo con disordinata e folle covidigia e malvagio consiglio che per la città di Lucca e per la sua forza avere la signoria di tutta Toscana, come inanzi per li suoi esordi e processi si potrà trovare; per lo quale tradimento nacquero diverse e maravigliose novità e mutazioni in Lombardia e in Toscana ordinate per li Fiorentini.
<B>XLI</B>
<I>Come le terre del viscontado in Valdambra si diedono al Comune di Firenze.</I>
Nel detto anno, essendo già la segnoria de' Tarlati d'Arezzo molto abassata per la perdita del Borgo a Sansipolcro e per quella de la Città di Castello, come dicemo adietro, e per la forza de' Perugini ch'era col loro ordine montata con l'aiuto de' Fiorentini, che ispesso con le loro masnade correano insino in su le porte d'Arezzo, e aveano riposto il Monte San Savino, e di quello i Perugini faceano guerra al continuo, e più volte vi sconfissono di loro masnade; per la qual cosa quelli del viscontado, cioè il castello del Bucino in Valdambra, e quello di Cenina, Galatrone, Rondine, e la Torricella, i quali teneano i Tarlati, e di gran parte v'aveano su ragione per certe compere per loro fatte da certi de' conti Guidi, temendo de la guerra, e conoscendo che li Aretini non li poteano difendere né soccorrere, si diedono al Comune di Firenze a dì II di novembre, faccendoli franchi per V anni, dando li detti castelli uno cero a la festa di san Giovanni ciascuno anno. Il quale fu un bello acquisto a Fiorentini, e un grande allargamento e aconcio di loro contado per quello che·nne seguìo apresso.
<B>XLII</B>
<I>Come ne la città di Pisa ebbe battaglia, e furone cacciati certa parte.</I>
Nel detto anno e tempo, essendo la città di Pisa in grande setta e divisione, che l'una parte era il conte Fazio con la maggiore parte de' popolani che reggeano li ufici de la città, l'altra setta erano i non reggenti, ond'erano capo messer Benedetto e messer Ceo Maccaioni de' Gualandi, e certi de' Lanfranchi e più altri grandi, e Cola di Piero Bonconti e più altri popolani, i quali ordinarono cospirazione in Pisa per abattere il conte e i reggenti suoi seguaci, con trattato di messer Mastino de la Scala, che·lli aveano promessa la signoria di Pisa, e elli dovea loro mandare le sue forze de' cavalieri da Lucca. La quale cospirazione partorì romore e battaglia cittadina, che a dì XI di novembre del detto anno i detti de' Gualandi e' loro seguaci con armata mano assalirono la podestà di Pisa e cacciarlo di Pisa e rubarlo, e arsono tutti li atti e scritture di Comune, e ruppono le pregioni e liberaro i presi. E poi ne la piazza di San Sisti tutto il dì combattero li anziani e il conte e il popolo di Pisa, ch'erano raunati armati in su la piazza de li anziani. E non potendo resistere al popolo si ridussero la sera al capo del ponte a la Spina a la porta de le Piagge, e quivi s'aforzaro con barre e serragli aspettando il loro soccorso da Lucca da messer Piero Rosso, il quale mandava loro CCCC cavalieri e popolo assai; e già erano presso del castello d'Asciano; sentendolo il conte e il popolo dubitando loro venuta afrettaro la battaglia la notte con fuoco mettendo e con molto saettamento, e promettendo a' loro soldati tedeschi e italiani paga doppia; i quali gran parte scesi de' cavalli manescamente combattero, e per forza d'arme la notte medesima cacciarono i rubelli de la città; che s'avessero indugiato il romore, o sostenuto la notte infino a la mattina che il loro soccorso da Lucca fosse giunto a Pisa, elli avrebbono vinta la città, e messer Mastino n'era segnore. Sentendosi la novella in Firenze, i Fiorentini mandaro incontanente CCC cavalieri di loro masnade a Montetopoli in servigio del conte e delli anziani di Pisa per soccorrella: per lo sùbito riparo non bisognaro, ringraziandone per loro ambasciadori molto i Fiorentini; con tutto che per la loro ingratitudine poco tempo il tennero a mente i Pisani, come per inanzi leggendo si troverà. Poi i Pisani a dì XV di dicembre fecero il conte Fazio loro capitano di guerra, e crebbono le masnade de' soldati infino D e Vc a piè a la guardia de la terra, e isbanditi per ribelli i loro nemici, e disfecero i beni loro, i quali se n'andaro a Lucca; e aforzaro i Pisani di fossi e di steccati Quinzica e 'l borgo di San Marco, e la porta a le Piagge e il ponte a la Spina di ponti e catene, e tagliarono le vie di Lucca, e fecionvi bertesche e ponti e levatoi assai.
<B>XLIII</B>
<I>Come il marchese Spinetta ebbe Serezzano.</I>
Conseguendo messer Mastino de la Scala il suo proponimento d'avere la segnoria di Pisa a suo podere, sì ordinò con Ispinetta marchese Malespina e col vescovo di Luni suo cosorto di fare rubellare a' Pisani la terra di Serezzano; e così fu fatto, che a dì IIII di dicembre del detto anno i detti vescovo e Spinetta, essendo per certi terrazzani di loro parte data una porta de la terra, v'entrarono con M fanti, e presero la segnoria sanza nullo contasto, onde i Pisani si tennero forte gravati da messer Mastino e da Spinetta, e entrato in grande sospetto e paura di loro usciti e di loro séguito, faccendo di dì e di notte guardare la città di Pisa con gente d'arme a cavallo e a piede.
<B>XLIV</B>
<I>Del tradimento che messer Mastino de la Scala fece a' Fiorentini de la città di Lucca.</I>
Nel detto anno, per calen di dicembre, parendo a' Fiorentini che messer Mastino e Alberto de la Scala li menassono per lunga di dare loro la signoria de la città di Lucca, com'era l'ordine e 'l patto de la lega, come adietro è fatta menzione; e tenendo in parole e in vana speranza certi ambasciadori e sindachi del Comune di Firenze, ch'al continuo li seguivano per la detta cagione, sì ordinaro di mandare a Verona, oltre a quelli, una solenne e grande ambasceria da sei de' maggiori cittadini grandi e popolani di Firenze per sapere il fine di loro intendimento. I quali essendo a Verona co' detti tiranni, e nel paese a più parlamenti co·lloro e con li altri caporali lombardi, con cui i Fiorentini aveano fatta la lega, dimandando la posessione di Lucca e che fossero attenuti i patti, i detti de la Scala con belle parole e false promesse menando per lunga di giornata in giornata i detti nostri ambasciadori, alla fine faccendo trattare ad Orlando Rosso di Parma, dimandando di Lucca grossa quantità di moneta, dicendo n'aveano speso, e convenia spendere al re Giovanni di Buemme per avere sua pace de la presa di Lucca. I detti ambasciadori scrivendolo a Firenze, i Fiorentini diliberaro che, dapoi che per altro modo non si potea avere Lucca, non lasciassono per numero di pecunia, rimettendola ne' detti ambasciadori. I quali dopo lungo trattato di parole fuoro con dissimulata concordia da la parte di detti messer Mastino e messere Alberto di darne loro CCCLXm di fiorini d'oro, parte contanti e parte a certi termini, sicurandoli nella città di Vinegia a·lloro volontà. E nota, lettore, l'errore e fallo de' Fiorentini, che nel MCCCXXVIIII potero avere Lucca da' soldati del Cerruglio per LXXX fiorini d'oro, e poi nel MCCCXXX per patti de' cittadini e di messer Gherardino Spinola per minore quantità, sì come adietro facemo menzione; e poi vi spesono e vollono spendere disordinata somma di moneta. Istimo che Idio nol permettesse per purgare i peccati e mali guadagni de' Fiorentini e di Lucchesi, e eziandio de' Lombardi. Torniamo a nostra materia: che quando fu data l'ordine, e trovati i danari e fatti i sindachi per li Fiorentini, il disleale Mastino e traditore per malvagio consiglio del marchese Spinetta e d'altri Ghibellini, ed eziandio con soduzzione del segnore di Milano e de li altri segnori lombardi per farli nimici del Comune di Firenze, però che parea loro che messer Mastino fosse apo loro troppo grande, mostrandoli con vana speranza che tenendo per sé Lucca avrebbe di leggere la città di Pisa per la loro divisione; e avea la città d'Arezzo a sua volontà, e con le sue forze leggere li era d'avere tosto la Romagna e Bologna per le divisioni e mutazioni di quelle, per la partita e cacciata de·legato; e ciò avuta, i Fiorentini non potrebbono resistere a le sue forze, ma li avrebbe come circundati e assediati; faccendoli vedere che per le divisioni di Firenze tra' grandi e' popolani e il popolo minuto per le soverchie gravezze, e i non reggenti de le signorie de li uffici della città, agevole gli era d'avere la città di Firenze a la sua segnoria, e poi tutta Toscana, e più a lunge; il traditore Mastino giovane d'età, e più di senno e fellonia, e trascotato e ambizioso per la felicità dove l'avea messo la fallace fortuna, fue desideroso come tiranno d'acquistare terra e segnoria, e di farsi re in Lombardia e in Toscana, non guardando a fede promessa e giurata a' Fiorentini, né considerando che la potenzia di Dio è più che forza umana, mosse nuova questione a' detti ambasciadori, dicendo: "Noi non vogliamo di Lucca danari, che n'avemo assai; ma volemo che' Fiorentini, se vogliono Lucca, con le loro forze ci aiutino acquistare la città di Bologna, o almeno non li fossero incontro volendola acquistare, come ci promisono per li patti della lega, quando la segnoreggiava il legato". Sapendo ciò i Fiorentini, e avveggendosi però a tardi de la fellonesca intenzione del Mastino e de la non vera e sofistica dimanda di Bologna, che con le loro forze aveano sconfitta l'oste de·legato a Ferrara, per la qual cagione i Bolognesi aveano cacciato il legato e tornati a la lega de' Fiorentini e Lombardi, come è detto adietro, deliberaro che innanzi si lasciasse Lucca, che si fosse contro a' Bolognesi; e però mandaro che i detti ambasciadori, protestato e richesto di loro ragioni il Mastino, e' si partissono; e così feciono, i quali tornaro in Firenze a dì XXIII di febraio del detto anno. E inanzi che fossero giunti in Firenze, o apena partiti da Verona, partorì il Mastino la sua prava intenzione; ciò fu, che a dì XIIII di febraio del detto anno le sue masnade ch'erano in Lucca, sanza richesta o isfidamento alcuno, corsono Valdinievole e 'l Valdarno di sotto, che teneano i Fiorentini, e levando grandi prede. E in quelli giorni simigliantemente le sue masnade ch'erano in Modana corsono in sul contado di Bologna.
<B>XLV</B>
<I>De l'ordine che presono i Fiorentini al riparo del Mastino.</I>
I Fiorentini, tornati i loro ambasciadori da Verona, e avedendosi com'erano stati gabbati e traditi villanamente dal Mastino, tutti di concordia ordinato VI de' maggiori cittadini, uno per sesto, due de' grandi e quattro popolani sopra la guerra col Mastino, e XIIII popolani a trovare moneta con grandissima balìa, ciascuno officio per termine d'uno anno; il quale ordine fue allora lo scampo di Firenze per l'eseguizioni che fecero i·lloro riparo e in guerreggiare i tiranni della Scala, sì come inanzi leggendo potrete trovare. Che il Mastino avea minacciato che innanzi il mezzo maggio prossimo verrebbe a vedere le porte di Firenze con IIIIm armadure a cavallo, per abattere l'orgoglio de' Fiorentini; ed erali possibile, ch'elli era segnore di Verona, di Padova, di Vicenza, di Trevigi, di Brescia, di Feltro, di Civita Belluna, di Parma, di Modona, e di Lucca; e aveano di rendita l'anno di gabelle de le dette X cittadi e di loro castella più di VIIc migliaia di fiorini d'oro, che non ha re de' Cristiani che·lli abbia se none il re di Francia, sanza l'altro loro séguito e amistà de' Ghibellini, che mai non fuoro tiranni in Italia di tanta potenzia; onde a' Fiorentini parea avere forte partito a le mani, ma come franchi e vertudiosi, quasi neuno discordante, recandosi ciascuno in sé la 'ngiuria del tradimento del Mastino, sì diliberaro di seguire magnificamente la 'mpresa. Onde poi i Fiorentini, come piacque a Dio, poco tempo appresso osteggiaro loro più volte infino a Verona villanamente, come inanzi leggendo si potrà trovare, faccendo di magnifiche imprese contra i detti tiranni. E in quelli medesimi giorni per li loro danari avrebbono fatto rubellare al Mastino la città di Modona, ed era già fornita per li soldati ch'erano in Modana, se non che i Bolognesi non vollono in servigio de' marchesi da Ferrara loro amici, di cui per li patti de la lega dovea essere Modana. E poi i Fiorentini per loro ambasciadori si dolfono a tutti li altri collegati lombardi del tradimento de' tiranni de la Scala, per loro scusa richeggendoli d'aiuto, e fecero nuova lega col re Ruberto, co' Perugini, Sanesi e l'altre terre guelfe di Toscana, e co' Bolognesi e co' Guelfi di Romagna, con grandi ordini e aperti per riparare la loro potenzia. Lasceremo alquanto de la guerra cominciata col Mastino per dire d'altre novità state in questi tempi, ritornando poi a quelle; però che in ciò molto ne cresce grande matera e maravigliosa e quasi incredibile, come leggendo per inanzi il processo della detta guerra si potrà trovare.
<B>XLVI</B>
<I>Come i Colligiani si diedono da capo a la guardia de' Fiorentini e fecionvi la rocca.</I>
Nel detto anno MCCCXXXV, all'uscita del mese di gennaio, compiuto o per compiere il primo termine che' Colligiani s'erano dati a la guardia del Comune di Firenze, sì si diedono da capo per tre anni oltre al primo termine e ancora con più liberi patti; per la qual cosa i Fiorentini per volontà de' Colligiani, e per essere più sicuri della guardia e con meno spesa, sì ordinaro e feciono fare in Colle alle spese de' Colligiani una forte rocca al disopra della terra in su la piazza del Comune presso della pieve, con ali di mura e intrata per sé, e ordinaronvi uno castellano fiorentino con XL fanti al continuo a la guardia, de' quali l'una metade de le spese pagavano i Fiorentini e l'altra i Colligiani.
<B>XLVII</B>
<I>Come papa Benedetto determinò l'oppinione di papa Giovanni suo anticessoro de la visione dell'anime beate.</I>
Nel detto anno, essendo per papa Benedetto tenuti più consistori con suoi cardinali apo Vignone, e con molti maestri in divinità fatta per più tempo solenne esaminazione sopra l'oppinione di papa Giovanni de la visione dell'anime beate, se dopo il dì giudicio crescerebbe loro beatitudine o no, onde in qua dietro in più capitoli è fatta per noi memoria sopra la detta questione; e spezialmente per la dechiarazione che ultimamente avea fatta papa Giovanni a la sua fine; patendo al papa e agli altri maestri che in quella parte ove conchiuse che l'anime beate vedeano la divina essenzia faccia a faccia chiaramente, in quanto lo stato e la condizione de l'anima partita dal corpo comporta, non fosse perfettamente dichiarato, ma lasciato ancora in nube il detto oppinione, sì 'l volle dichiarare. E dì XXVIIII di gennaio per lo detto papa in piuvico consistoro fu determinata e dato fine e silenzio santamente a la detta questione, cioè che la gloria de' beati è perfetta, e come i santi sono in vita etterna e veggono la beata speme de la Trinità; e che dopo il giudicio la detta gloria sarebbe istensiva ne l'anima e nel corpo, ma però non crescerebbe a l'anima sensivamente più che si fosse prima nell'anime beate. E sopra ciò fece decreto che chi altro credesse fosse eretico. Lasceremo de la detta materia, che assai n'è detto, e torneremo a nostri fatti di Firenze.
<B>XLVIII</B>
<I>Come il Comune di Firenze ricominciò guerra a' segnori d'Arezzo.</I>
Nelli anni di Cristo MCCCXXXVI, a dì XIIII d'aprile, sentendo i Fiorentini che messer Piero Saccone de' Tarlati segnore d'Arezzo tenea trattato con messer Mastino della Scala di fare con lui lega e compagnia, e di ricevere in Arezzo la sua gente e cavalleria per difendersi, e fare guerra a' Fiorentini e a' Perugini, e al continuo erano in Arezzo suoi ambasciadori, sì·ssi diliberò in Firenze di cominciare aperta guerra a la città d'Arezzo; e il detto dì si sbandiro le strade. Chi disse che i Fiorentini ruppono la pace alli Aretini fatta l'anno MCCCXVI per lo re Ruberto indebitamente, e non si convenia a la magnificenza del Comune di Firenze rompere pace a li Aretini, se prima per loro non fosse mossa guerra apertamente; e chi disse che non era rompimento di pace a l'offese fatte per loro a' Fiorentini in dare sempre aiuto a Castruccio e a li altri nimici del Comune di Firenze, e al presente legarsi con messer Mastino fatto loro nemico, e datali la signoria d'Arezzo. Vedendo li Aretini che 'l Comune di Firenze volea cominciare loro apertamente guerra, per levarsi il furore d'adosso sì cercaro per più trattati d'avere concordia co' Fiorentini e co' Perugini; i quali trattati tornaro tutti in vano, però ch'erano con inganno; che' signori d'Arezzo al continuo atendeano grossa gente da messer Mastino, e vennono infino a Forlì in Romagna più di VIIIc cavalieri; per la qual cagione i Fiorentini mandaro in Romagna di loro masnade VIc cavalieri, e con l'aiuto de' Bolognesi e de li altri Guelfi romagnuoli fuoro più di XIIc di cavalieri; e tutta la detta state stettono in Romagna a la guardia de' passi, per modo che la gente di messer Mastino per nullo modo potero passare ad Arezzo. E infra questo tempo i Fiorentini feciono cavalcata sopra la città d'Arezzo di VIIc cavalieri e popolo assai a dì III di luglio del detto anno. E i Perugini da l'altra parte col loro sforzo infino a le porte d'Arezzo, acozzandosi le dette due osti, faccendo grande guasto di biade, ed arsione di posessioni nel contado d'Arezzo e intorno a la città, dimorandovi ad oste sanza alcuno contasto infino a dì VIII d'agosto con gran danno de li Aretini. E in questo anno, il maggio passato, a petizione de' Perugini e con la loro forza, i Guelfi di Spuleto cacciaro i Ghibellini della città di Spuleto.
<B>XLIX</B>
<I>Come i Fiorentini feciono compagnia e lega col Comune di Vinegia, e l'ordine di quella.</I>
Vedendo i savi uomini di Firenze che governavano la città, com'erano entrati in grande impresa per la guerra incominciata, e che s'apparecchiava maggiore, co' tiranni de la Scala di Verona per lo fatto di Lucca, e considerando che per loro poco si potea fare guerra, se non da la parte di Lucca, sanza aiuto o compagnia di segnore o d'altro Comune di Lombardia per offendere il Mastino, e cessarsi la guerra da presso e recarla da lungi, più trattati cercato col segnore di Milano e con altri tiranni e grandi lombardi. E sentendo che 'l Comune di Vinegia avea grande questione e isdegno preso col Mastino di Verona per le saline da Chioggia a Padova, che per sua forza tenea occupate, e più altri divieti di mercatantie e cose aveano fatte contra loro libertà in padovana e in trevigiana, sì feciono cercare per trattato de' nostri mercatanti usanti a Vinegia, di fare col detto Comune di Vinegia lega e compagnia contro a' detti tiranni de la Scala. Il quale trattato con molte arti e lusinghe fatte a' Viniziani per li Fiorentini per inducerli a·cciò, a' detti Viniziani piacque; e poi secretamente mandati a Vinegia savi e discreti ambasciadori per lo Comune di Firenze, vi si diè compimento in Vinegia per la forma e capitoli specificati qui apresso.
<B>L</B>
<I>La lega tra 'l Comune di Vinegia e di Firenze.</I>
MCCCXXXVI, indizione IIII, a dì XXI di giugno, la lega tra 'l Comune di Vinegia e di Firenze fu fatta a Vinegia per li sindachi de' detti Comuni con questi patti.
In prima fecero tra·lloro lega, compagnia e unità, la quale duri dal detto dì infino a la festa di san Michele di settembre che viene, e da la detta festa ad uno anno;
e che per li detti Comuni si soldino IIm cavalieri e IIm pedoni al presente, i quali steano a far guerra in trevigiana e veronese; e quando parrà a' detti Comuni, se ne soldino maggiore quantità;
e che tutte le mende de' cavalli e ogni spesa che occorresse si debbiano pagare comunemente;
e che per la detta guerra fare si debbia tenere uno capitano di guerra a comuni spese;
e che per lo Comune di Firenze si mandino uno o due cittadini a stare a Vinegia o dove bisognerà, e abbiano balìa con quelli che·ssi eleggeranno per lo Comune di Vinegia di crescere e menomare i detti soldati come a·lloro parrà, e a potere spendere per fare rubellare le terre che si tengono sotto la segnoria di quelli de la Scala;
e che sia licito al Comune di Vinegia e di Firenze possano tenere per fare la detta guerra due cittadini e sue bandiere, come a' detti Comuni piacerà; e abbia il capitano de la guerra pieno arbitrio; e che per tempo di tre mesi, anzi la fine de la detta lega, si convengano insieme ambasciadori de' detti Comuni a prolungare o non prolungare la lega predetta;
e che il Comune di Firenze faccia viva guerra a la città di Lucca; e s'ella s'avesse, facciano guerra a Parma;
e che i detti Comuni, o alcuno di quelli, non faranno pace, triegua, o terranno alcuno trattato con quelli de la Scala, se non fosse di coscienza e di volontà di ciascuno di detti Comuni.
Questi patti traemo de li atti del nostro Comune. E ferma la detta lega, fu piuvicata in Vinegia e in Firenze in uno medesimo dì, XV di luglio de la detta indizione, in pieni parlamenti con grande festa e allegrezza in ciascuna de le dette cittadi. E nota, lettore, che questa fue la più alta impresa che mai avesse fatta il Comune di Firenze, come si potrà trovare apresso; e ancora che ciò fue una grande maraviglia per più ragioni, a legarsi il Comune di Vinegia con quello di Firenze: prima, che non si truova che 'l Comune di Vinegia s'allegasse mai co·neuno Comune o segnore, per la loro grande eccellenza e signoria, se non a l'antico conquisto di Gostantinopoli e di Romania, e dall'altra parte i Viniziani naturalmente sono stati d'animo imperiale e Ghibellini, e' Fiorentini d'animo di santa Chiesa e Guelfi; ancora, stati i Fiorentini contro a' Viniziani in servigio de la Chiesa, quando fuoro sconfitti a Ferrara, com'è fatto menzione adietro, l'anno MCCC... Onde apertamente si manifesta che ciò fue permissione divina per abattere la superbia e tirannia di quelli de la Scala, i quali erano i più trascotati due fratelli, Alberto e Mastino, felli e dileggiati con ogni abominevole vizio che fossono in tutta Italia, montati per la fallace e ingannevole felicità mondana in poco tempo in sì alto soglio, e in sì alto stato e segnoria, non degna a·lloro né per senno né per meriti; onde s'adempié i·lloro le parole del santo Vangelio dette per lo santo Spirito per la bocca in persona de la nostra Donna: "Fecit potentiam in bracchio suo, dispersit superbos mente cordis sui, deposuit potentes de sede, et exaltavit humiles": per certo così avenne, come leggendo si potrà trovare.
E piuvicata la detta lega, i Viniziani fecero loro ordini sopra la detta guerra, come parve loro si convenisse; e' Fiorentini elessono X savi cittadini mercatanti, e de le maggiori compagnie di Firenze, con piena balìa a trovare moneta e fornire la detta guerra; e asegnato loro CCLm di fiorini d'oro per anno sopra certe gabelle, radoppiandole gran parte. E per cagione che 'l nostro Comune in questo tempo, per le guerre e spese fatte per adietro, si trovò indebitate le gabelle e l'entrate del Comune per lo tempo a venire in più di Cm fiorini d'oro, e danari bisognavano maneschi per fornire la detta impresa; i detti X officiali sopra i fatti di Vinegia, col consiglio d'altri mercatanti savi e sottili a ciò fare, e intra' quali altri noi fummo di quelli, si trovò modo che le compagnie e' mercatanti di Firenze prendessono sopra loro lo 'ncarico di fornire di moneta per la detta impresa, infino a guerra finita, in questo modo: ch'elli ordinaro fra loro una taglia di Cm fiorini d'oro, il terzo prestare le dette compagnie a Comune, e le due parti stribuiti tra altre ricchezze e cittadini a prestare sopra le dette gabelle assegnate a certi termini inanzi, quali d'uno anno, e quali in più, come veniano i pagamenti de le dette gabelle; e chiunque prestasse sopr'esse al Comune, avesse di guiderdone libero e sanza tenimento di restituzione a ragione di XV per C l'anno; e chi non volesse credere al Comune sopra le dette gabelle, prendesse la sicurtà e iscritta libera da le dette compagnie e mercatanti, e avesse di guiderdone a ragione di otto per cento l'anno; e quelli che faceano la sicurtà per lo Comune sopra loro aveano de la detta scritta e promessa V per C; e qual uomo avea de la detta prestanza e non era mobolato, sì che non potea prestare né al Comune né la scritta de le compagnie, trovava chi prendea il debito sopra sé, avendo a ragione di XX per C; e così si civia ciascuno: per lo detto modo si fornì la spesa onoratamente per lo nostro Comune. E quando fuoro spesi i detti Cm fiorini d'oro de la prima taglia, si ricominciavano da capo per simile modo, mandando a Vinegia ciascuno mese, come bisognava per li soldi de' cavalieri e pedoni che forniano la guerra. E a Vinegia dimoravano al continuo due savi e discreti cittadini a fornire le dette paghe, e provedere le condotte de' soldati; e simile per lo Comune di Vinegia; e due altri ambasciadori, uno cavaliere e uno giudice, a stare continui in Vinegia col dogi e col suo consiglio a dare ordine a la guerra; e due altri cavalieri militanti stare per ciascuno di detti Comuni ne l'oste, col consiglio del capitano de la guerra. Questo in somma fue l'ordine del fornire de la guerra ordinata per la detta lega, e altro modo non ci avea. E questo per li savi fu molto comendato. E di presente, piuvicata la lega, v'andaro di Firenze M pedoni tutti soprasegnati di soprasberga bianca col segno di san Marco e del giglio vermiglio; e di Romagna v'andòe la nostra cavalleria, che v'era stata a la guardia del passo com'è detto adietro, che fuoro da VIc cavalieri, ond'era capitano messer Pino de la Tosa, e messer Gerozzo de' Bardi: e in Vinegia se ne soldaro di presente per li detti Comuni MD tra Tedeschi e altri oltramontani, e pedoni assai, e miserli in su la trevigiana a cominciare la guerra. E di quelli giorni si rubellò a quelli de la Scala per quelli da Camino il castello d'Ovreggio, non essendovi ancora la nostra gente, né avendovi ordine d'oste o di capitano di guerra. Messer Alberto de la Scala di sùbito vi cavalcò da Trevigi con M cavalieri, e combattendo il racquistò con gran danno di coloro che·ll'aveano rubellato. Lasceremo alquanto de la guerra cominciata in Trivigiana, e diremo de' fatti di Toscana conseguenti per la detta guerra.
<B>LI</B>
<I>Come le masnade di messer Mastino ch'erano in Lucca cavalcaro in sul contado di Firenze.</I>
Nel detto anno, a dì XXV di luglio, le masnade di messer Mastino ch'erano in Lucca, in quantità di IIIIc cavalieri e popolo assai, uscirono di notte di Buggiano e vennero subitamente a Cerreto Guidi in Greti, e quello sproveduto, combattero il borgo ed ebberlo, e feciono grande danno di preda e d'arsione di case e di biade sanza alcun contasto; però che 'l capitano e cavalleria de' Fiorentini erano gran parte in Pistoia per cagione de la festa di santo Iacopo. E poi a dì V d'agosto seguente la gente di messer Mastino, in quantità di VIIIc cavalieri e molti pedoni, onde fue capitano e conducitore Ciupo delli Scolari rubello di Firenze, e uscì di Lucca e guadò Arno e guastò il borgo a Santa Fiore e altre villate di Sa·Miniato, e albergaro due notti a la villa di Martignano sotto San Miniato. La gente de' Fiorentini, ch'erano in Empoli e ne le castella del Valdarno e di Valdinievole, li seguiro francamente; per la qual cosa i nemici temendo la stanza d'essere sorpresi, perché non erano venuti proveduti di vittuaglia, si partiro a dì VII d'agosto con isconcia levata, e passando per lo borgo di Santa Gonda per paura de' Saminiatesi, scesi per comune a' balzi e a le tagliate e isbarre fatte, non ardiro di mettervi fuoco; e molti ve ne rimasono, e li altri fuggendo sanza ordine in più parti si ricolsono, alquanti passando Guisciana, ma i più per lo contado di Pisa straccati, e molti per sete spasimaro e annegaro in Guisciana. E se la nostra cavalleria avesse più studiato il cavalcare, non ne campava uomo per la mala condotta. E per le dette cavalcate il paese di Valdarno e di Greti le terre non murate stavano in grande tremore; per la qual cosa il Comune di Firenze ordinò che subitamente fossero rifatte le mura d'Empoli e di Pontormo, che alquanto n'erano cadute per cagione del grande diluvio, e ordinaro che 'l borgo di Montelupo si compiesse di murare in su la riva d'Arno e del fiume di Pesa; e che fosse rifatto e murato il borgo di Cerreto Guidi; e così fu fatto in poco di tempo, faccendo loro alcuna franchigia e munità. E ordinossi in Firenze di fare grossa cavalcata a Lucca per vendetta di quella, e per oservare la promessa fatta per la lega de' Viniziani, come faremo menzione nel seguente capitolo.
<B>LII</B>
<I>Come i Rossi di Parma tornarono amici di Fiorentini, e come messere Piero Rosso sconfisse il maliscalco di messer Mastino sotto al Cerruglio.</I>
Come dinanzi promettemmo di dire di maravigliosi avenimenti e casi improvisi che avvengono per le guerre, intendiamo apresso narrare e seguire, però che per cagioni di quelle del nimico spesso si fa amico e dell'amico nimico. Prima avemo detto di messer Mastino, che di grande amico del nostro Comune fatto perverso nimico per li suoi vizii e falli e tradimenti fatti contro al nostro Comune dell'opera di Lucca, come adietro avemo detto, e così per converso diremo de' Rossi di Parma, i quali in questi presenti tempi stati grandi aversari e nimici nostri, come adietro è fatta menzione, in picciolo tempo divenuti amici e confidentissimi. E però nelle cose del secolo, e spezialmente ne' casi delle guerre, non si dee avere niuna stabile confidanza, però che per oltraggi ricevuti si fa spesso dell'amico nimico, e per bisogno o per servigi ricevuti, o isperanza di ricevere, si fa del nimico amico. Essendo in Pontriemoli messere Piero e messer Marsilio e Orlando de' Rossi di Parma e' loro consorti, i quali tanti onori e benifici fatti aveano a messer Mastino di darli la città di Parma e quella di Lucca, il detto mesere Mastino a petizione di quelli da Coreggia di Parma suoi cugini, istati nimici e aversari de' detti Rossi, ma maggiormente siccome fanno sovente i tiranni, che promesse fatte non osservano se non a·lloro vantaggio, così a' detti Rossi messere Mastino gli tradì e ingannò; che in piccolo tempo tolse e fece torre loro tutte fortezze e posessioni ch'aveano in Lombardia, e feceli assediare nel detto castello di Pontriemoli, ov'erano ridotti con tutte loro donne e famiglie. I quali Rossi veggendosi così trattati da meser Mastino, e dalle sue forze male si poteno riparare sanza altro aiuto, trattato feciono col Comune di Firenze d'essere di loro parte e lega contro al traditore Mastino, i quali dal nostro Comune, siccome mare ch'ogni fiume riceve, furono ricevuti e accettati graziosamente, dimettendo ogni ingiuria ricevuta da meser Piero Rosso, mentre tenne la città di Lucca; ma maggiormente ricordandosi i Fiorentini dell'antica amistà di mesere Ugolino Rosso stato nostro podestà, coll'oste del nostro Comune alla battaglia da Certomondo contro agli Aretini. Per la qual cosa il detto meser Piero personalmente venne in Firenze a dì XXIII d'agosto del detto anno, il quale da' Fiorentini fu veduto e ricevuto onoratamente, e di presente fu fatto per li Fiorentini loro capitano di guerra. Il quale, come valente cavaliere, con quantità di DCCC cavalieri con certi masnadieri a piè de' Fiorentini, a dì XXX del detto mese d'agosto bene aventurosamente cavalcò sopra la città di Lucca per guastare le vigne e per fare levare l'assedio da Pontriemoli. E il primo dì si puose a Capannole guastando intorno le sei miglia, e poi valicò Lucca e puosesi al ponte a San Quirico. E in quel luogo stette per III dì, correndo sanza alcuno riparo ciascuno giorno infino alle porte di Lucca. Le masnade di Lucca in quantità di DC cavalieri e pedoni assai, ond'era capitano il maliscalco di mesere Mastino, per savia maestria di guerra tutti uscirono di Lucca, e ridussonsi in sul Cerruglio per impedire la vittuaglia e·lla reddita alla nostra gente. Messer Piero per non esere sopreso tornò adietro schierato ordinatamente, e quando furono presso di sotto al Cerruglio al luogo dov'era il fosso ch'avea fatto meser Ramondo di Cardona quando colla nostra oste fu sconfitto ad Altopascio, come adietro facemmo menzione, quello per li nemici alquanto rimesso, e in su quello alla guardia posti VIII bandiere di cavalieri di meser Mastino con certo popolo per contendere il passo a mesere Piero, li nostri scorridori e feditori, in quantità di CL cavalieri, il detto passo combatterono, e per forza d'arme vinsono e sconfissono i nimici, cacciandogli infino al Cerruglio, e credendosi avere il castello contro a volontà di meser Piero, ch'al continuo facea gridare e sonare la ritratta per tema d'aguato. Ma nostri volonterosi di vincere, più che accorti di guerra, intra gli altri mesere Gherardo di Viriborgo tedesco, ch'aveva il pennone de' feditori del nostro Comune, follemente entrò combattendo dentro alla porta del Cerruglio, onde da' nimici, i quali erano proveduti e in posta d'aguato dentro e di fuori, fu abattuto e morto, e tutti i nostri, che co·llui erano saliti al Cerruglio furono morti e sconfitti, e presi conestaboli e altri assai. Il maliscalco di meser Mastino, avuta la detta vittoria, con grande audacia con tutta sua gente venne discendendo il poggio, tuttora cacciando i nostri. Messer Piero come savio e franco capitano, e niente sbigottito per la rotta de' suoi, fece ischiera e capo grosso di sua gente, confortando i suoi e attendendo i nimici vigorosamente; i quali per lo vantaggio della scesa e per la vittoria avuta con grande empito percossono i nostri e assai gli ripinsono adietro; ma per buona capitaneria di meser Piero, e per la franca gente ch'era co·llui, sostennero combattendo vigorosamente, per modo che in poco d'ora la gente di meser Mastino furono messi inn-isconfitta, e rimasonne assai morti, e presi XIII conestaboli e cavalieri assai; il maliscalco di mesere Mastino colla sua insegna e più altre vennero in Firenze; la quale sconfitta fu a dì V di settembre MCCCXXXVI. E·cciò fatto, meser Piero, raccolta sua gente, infino a notte trombando dimorò colle torce accese sul campo, e·lla notte albergò a Gallena, e poi l'altro dì con grande onore tornò a Fucecchio. Avemo sì disteso questo capitolo, perché in sì poco di tempo d'una giornata di tanta gente furono tre sì fatti avenimenti di battaglie e di guerre recate a onorevole fine di vittoria per la valentria di meser Piero Rosso. E poi poco appresso meser Piero partito da Fucecchio, e venne in Firenze con poca gente subitamente, sanza volere alcuno triunfo da' Fiorentini. E per richesta e mandato di Viniziani convenne ch'andasse a Vinegia per essere capitano e duca dell'oste della lega ch'era in trevigiana; e così n'andò a Vinegia all'uscita del mese di settembre, e di là fece di magnifiche cose in opera di guerra contro a meser Mastino, come inanzi leggendo si potrà trovare. E Orlando Rosso suo fratello rimase in Firenze per capitano di guerra de' Fiorentini.
<B>LIII</B>
<I>Di novità di Firenze, e come i Fiorentini tolsono a' conti Guidi certe terre di Valdarno e di Chianti, e feciono Castello Santa Maria.</I>
Nel detto anno, a dì XV d'agosto, la notte vegnente s'aprese il fuoco a casa Toschi al canto di Mercato Vecchio incontro alla chiesa di San Piero Bonconsiglio, e arsonvi IIII case basse con gran danno di pizzicagnoli ch'abitavano in quelle. E in calen di settembre del detto anno fu riposto e aforzato per li Fiorentini il castello di Laterino per contrario delli Aretini. E tornarvi incontanente ad abitare le genti di quello castello, ch'erano in tre borghi recati al piano di sotto, il quale aveva fatto disfare il vescovo d'Arezzo de' Tarlati, come adietro fu fatta menzione. All'entrata del mese d'ottobre del detto anno si rubellò a Guido, figliuolo che·ffu del conte Ugo da Battifolle, il castello del Terraio in Valdarno, e tutti i borghi di Ganghereto, e·lle Conie, e·lle Cave, e Balbischio, e Moncione del Viscontado in Chianti, per male reggimento che 'l giovane facea a' suoi fedeli d'opera di femmine, e ancora per sudducimento e conforto di certi grandi popolari di Firenze reggenti nimici de' conti. E per simile modo si rubellò Viesca in Valdarno a' figliuoli furono del conte Ruggieri da Doadola, volendosi dare le dette terre al Comune di Firenze, il quale le prese poco tempo poi apresso per certe ragioni vi cusava il Comune, come facemmo menzione in questo adietro, ove trattammo di ciò. Intanto i detti conti avendo col loro sforzo andati per raquistare le dette terre, non ebbono il podere; perché tutte le terre del Valdarno per comune l'andarono a·ssoccorrere per mandato del nostro Comune, fatto per rettori tacitamente; onde non potendo a·cciò contradiare, si compromisono in sei popolani di Firenze, i quali elessono i priori, e diedono la rocca di Ganghereta in guardia del Comune di Firenze; i quali sentenziarono a dì XXII di novembre che·lle dette terre fossono del Comune di Firenze, dando al sopradetto Guido delle sue ragioni fiorini VIIIm d'oro; e penogli avere infino a gran tempo apresso, e nogli ebbe poi interamente. E·cciò fu grande ingratitudine, con forza del popolo di Firenze, e poco si ricordarono de' servigi fatti per li loro anticessori al Comune e popolo di Firenze e parte guelfa; che secondo giusto prezzo, alle ragioni v'avieno i conti, valeano più di fiorini XXm d'oro, con tutto fossono terre di giuridizione d'imperio, che male si potea vendere o comperare. Ma come si fosse, i detti conti e·lloro consorti ne rimasono mal contenti. Ma·cciò fece il popolo di Firenze, ricordandosi di quello che 'l conte Ugo avea aoperato a suo torto contro al Comune di Firenze, quando fu la sconfitta d'Altopascio, di riprendere le ville d'Ampinana in Mugello l'anno MCCCXXV. E poi apresso, di calen di settembre MCCCXXXVII, il Comune di Firenze ordinò e fece cominciare una terra in Valdarno infra quelle terre nel piano di Giuffrena i·lluogo propio del Comune di Firenze, e puosele nome Castello Santa Maria, faccendovi tornare dentro uomini di tutte le villate e terre d'intorno con certa franchigia e imunità, per torre a perpetua ogni giuridizione e fedeltà a' detti conti. E poi, in calen di novembre MCCCXXXVIII, quelli della detta terra di Santa Maria andarono e presono la rocca di Ganghereto, ch'era data per gli conti a guardia del Comune di Firenze, e quella misono in puntelli e feciolla rovinare. Credesi fu con consentimento di certi rettori di Firenze, ed eravi alla guardia quelli di Monteguarchi, onde poi fu accusa fatta per quelli di Monteguarchi, e fue condannato il Comune della nuova terra a pagare a' conti fiorini VIIIm d'oro per lo forfatto, rimanendo a·lloro la propietà delle terre de' conti di quello aquisto, che valieno IIIIm fiorini e più. Lasceremo alquanto de' fatti di Firenze, e diremo di quelli della nostra lega e di Viniziani, come operarono contro al Mastino.
<B>LIV</B>
<I>Come l'oste de' Viniziani e Fiorentini, ond'era capitano messere Piero Rosso, si puosono a Bovolento.</I>
Nel detto anno MCCCXXXVI, all'entrante d'ottobre i conti da Collalto in trevigiana si rubellarono da quelli della Scala, e dierono la Motta e altre loro castella al Comune di Vinegia; e alla Motta si fece ragunata e capo la gente della nostra lega e di Viniziani. In quelli giorni a dì XV d'ottobre, credendosi i Viniziani per trattato di moneta avere il castello di Mestri, furono ingannati e traditi dal castellano che v'era per mesere Mastino, credendo prendere de' maggiori di Vinegia che v'andavano; ma non vi giunsono al termine dato; ma di loro masnade a piè vi rimasono presi più di CCL; onde i Viniziani rimasono molto aontati. Poi a dì XX d'ottobre si partirono dalla Motta messere Piero e mesere Marsilio Rossi capitani dell'oste nostra e de' Viniziani con MD cavalieri e IIIm pedoni, vegnendo francamente per trevigiana ardendo e guastando il paese: e sanza alcuno contasto vennero infino alle porte di Trevigi, e di là vennero poi a Mestri e arsono tutti i borghi; e poi si misero a gran pericolo vegnendo in padovana per le molte fiumane e canali che aveano a passare, ond'erano tagliati i ponti; per la qual cagione si missono a grande affanno e rischio, abandonandosi alla fortuna come ardita e valentre gente. E come piacque a·dDio giunsono alla Pieve di Sacco in calen di novembre. La qual cosa apena si potea credere per meser Alberto e meser Mastino della Scala, ch'erano in Padova con più di IIIIm cavalieri, i quali uscirono fuori infino al ponte a..., e se fossono cavalcati inanzi, della nostra gente non iscampava uomo, che non fosse morto o preso; in tale luogo erano condotti, che inanzi non poteano andare né adietro tornare. Ma il senno e ardimento di mesere Marsilio Rosso colla grazia di Dio gli scampò, che incontanente mandò più lettere e messaggi nel campo di quelli della Scala a messere Mastino e conestaboli e baroni richeggendo di volere battaglia. Messere Mastino, che di natura era vile di mettersi a fortuna di battaglia, ancora dubitando de' suoi medesimi per le molte lettere nel suo campo venute, e credendosi sanza mettersi a battaglia soprenderli tutti per istracca, e assediarli, tagliando loro i ponti inanzi e adietro per torre loro la vettuaglia; e ciò fatto, si tornò in Padova con tutta sua cavalleria. Ma a·ccui Iddio vuole male gli toglie il senno e·lla provedenza, e al suo nimico dà ardire e argomento. E così avenne nel nostro bene aventuroso oste: sanza indugio ispogliate d'ogni sustanze le villate di Pieve di Sacco e d'intorno. E di là si partirono con grande affanno, faccendo fare più ponti di graticci, e dove di legname, sopra più riviere e canali salvamente passarono. E a dì V di novembre arrivarono alla terra e villata di Bovolento presso di Padova a VII miglia, e in sul gran canale del fiume dell'Alice che va a Chioggia, per avere da Vinegia e da Chioggia continovo vittuaglia e libero cammino e andamento. Quello Bovolento chiusono e afforzarono di fossi e di steccati, e feciono molte case di legname per potere ivi vernare. La qual bastita e terra di Bovolento fu cagione dello abassamento di quelli della Scala, e·lla loro perdita della città di Padova, come inanzi leggendo si potrà trovare. Lasceremo alquanto di questa nostra guerra di Lombardia, e diremo d'una grande guerra si cominciò tra il re di Francia e quello d'Inghilterra.
<B>LV</B>
<I>Di grande guerra che·ssi cominciò tra il re di Francia e quello d'Inghilterra.</I>
Nel detto anno MCCCXXXVI si cominciò grande guerra intra Filippo di Valois re di Francia e Adoardo il terzo re d'Inghilterra, e·lle cagioni, tutte fossono assai di casi vecchi di loro padri e anticessori e di novelli, intra gli altri fu che il detto Adoardo il giovane re d'Inghilterra radomandò a·re di Francia la contea di Ginese in Aquitania detta Guascogna, la quale meser Carlo di Valois, padre che·ffu del detto re Filippo e fratello del re Filippo il Bello, avea tolto per forza e a inganno ad Adoardo secondo, padre del detto Adoardo il giovane, opponendo ch'era caduta per amenda a·re di Francia per fallimenti d'omaggi che 'l re d'lnghilterra dovea fare al re di Francia per la Guascogna. Ma maggiormente per la covidigia della casa di Francia per volere occupare e sottomettersi la duchea di Guascogna e torla alla casa d'Inghilterra, per la qual contea di Ginese infino al tempo di Carlo il giovane re di Francia avea promessa di rendere a quello d'Inghilterra. E poi non potendola riavere, s'acconciava Adoardo il giovane di lasciarla e di darla in duarda alla serocchia, maritandosi al figliuolo del detto re Filippo di Valois, il quale a·cciò non volle asentire, ma diegli per moglie la figliuola del re Giovanni di Buemia, onde crebbe lo sdegno. E maggiormente perché il detto re di Francia avea ritenuto Davit in qua adietro re di Scozia suo rubello, e datogli aiuto e favore di gente e di moneta alla guerra di Scozia contro al detto re Aduardo, per la qual cosa il detto re Aduardo, ritenne poi mesere Uberto d'Artese della casa di Francia rubello e nimico del detto re Filippo. Onde al re di Francia maggiormente monta lo sdegno diponendo il suo saramento e impromessa del santo passaggio d'oltremare, come adietro facemmo menzione, cominciando il re di Francia al detto re d'Inghilterra grande guerra in Guascogna, e faccendogli ricominciare guerra inn-Iscozia e in mare, faccendo venire galee di Genovesi al suo soldo, rubando ogni Inghilese e Guascone, e tutte maniere di gente ch'andassono o venissono d'Inghilterra. Della qual cosa fu molto ripreso e biasimato i·rre di Francia da tutti i Cristiani e dal papa e dalla Chiesa di Roma, lasciando sì grande e alta impresa promessa, come era il santo passaggio, per cominciare guerra a suo torto co' suoi vicini cristiani. Per la qual cosa il papa rivocò e·lli levò tutto il sussidio delle decime di Cristianità a·llui concedute, salvo quelle del reame di Francia, le quali avea in sua balìa. Il valentre Aduardo però non isbigottito ma francamente imprese sua difesa, allegandosi poi col re d'Alamagna detto Bavero, il quale in questi tempi avea mandati suoi ambasciadori al papa per venire a misericordia e all'amenda della Chiesa, e per avere sua pace; già era ottitriata per la Chiesa, andando al conquisto d'oltremare, e quitando le terre della Chiesa, cioè Cicilia e 'l Regno e 'l Patrimonio, e·lla Marca, e·lla Romagna, e di grazia a Firenze tutto il suo distretto. Il re di Francia per sue lettere e ambasciadori al papa e a' cardinali sturbò l'accordo, perché volea per lo fratello il reame d'Arli e di Vienna; per la qual cosa il Bavero indegnato s'allegò col re d'Inghilterra contro al re di Francia, col duca di Brabante suo cugino, e col conte d'Analdo, e co·messer Gian signore di Bielmonte e zio del conte, e col duca di Ghelleri e col marchese di Giulieri, tutti suoi cognati, il sire di Falcamonte, e più altri baroni della Magna, dimandando ancora Aduardo a Filippo di Valois il reame di Francia, il quale diceva dovea succedere a·llui per ragione del retaggio per la madre d'Aduardo, che·ffu figliuola del re Filippo il Bello re di Francia, del cui non rimase altra reda per linea reale. E così dovea egli succedere al reame, com'elli giudicò la terra d'Artese alla contessa figliuola del conte d'Artese, perché succedesse alla corona di Francia per retaggio delle figliuole della detta contessa maritate a' reali, e tolsela al sopradetto messere Ruberto, che·ffu figliuolo del figliuolo del conte d'Artese, ciò fu mesere Filippo d'Artese, il qual era fratello della detta contessa; perché morì prima che 'l conte suo padre, ne disertò il re messer Ruberto suo figliuolo. Della quale richiesta il re di Francia forte dispettò, e crebbe lo sdegno e·lla guerra. Ma i·rre Aduardo poi apresso cominciò per mare e per terra con suoi allegati aspra guerra al re di Francia come inanzi leggendo si potrà trovare. Lasceremo alquanto de' fatti d'oltremonti, e torneremo a' processi della nostra guerra col Mastino di Verona.
<B>LVI</B>
<I>Come messere Mastino tolse 'l castello di Pontriemoli a' Rossi di Parma.</I>
Nel detto anno, essendo il castello di Pontriemoli, che tenieno i Rossi di Parma, molto stretto d'assedio da quelli di Lucca e marchesi Malespini colla forza di mesere Mastino, Orlando Rosso colla cavalleria e masnada di Firenze in quantità di MCCC cavalieri e IIIm pedoni ond'era capitano... si partirono di Firenze a dì XVII di novembre, e cavalcarono sopra Lucca per soccorrere Pontriemoli e·llevare il detto assedio; ma·ffu tardi, che quelli ch'erano in Pontriemoli per molti difetti s'arrenderono a patti, salve le persone e loro cose; così tornò la detta cavalcata a Fucecchio a dì XXV di novembre, avendo fatto poco danno a' Lucchesi. E·lle famiglie e donne de' detti Rossi uscirono di Pontriemoli e vennero tutti a Firenze; i quali furono ricevuti graziosamente.
<B>LVII</B>
<I>Come i Viniziani tolsono le saline di Padova a mesere Mastino della Scala.</I>
In questo anno, essendo la nostra oste e di Viniziani, ch'era accampata alla bastita e nuova terra di Bovolento, cresciuta in quantità di più di IIIm cavalieri, quasi i più Todeschi al soldo de' detti II comuni, e più di Vm pedoni, i Viniziani mandarono loro oste con grande navilio e barche imborbottate e molti difici da battaglia da Chioggia alle saline di Padova, le quali teneva meser Mastino, e avevavi su fatte due fortezze, ov'erano bastite, quasi come due castella di legname con molto guernimento e gente d'arme alla difesa. E sentendo ciò meser Mastino e messere Alberto ch'erano in Padova con più di IIIm cavalieri e popolo grandissimo, uscirono di Padova per venire alla difesa delle dette saline; messere Piero Rosso con tutta la nostra oste e de' Viniziani gli si fece incontro schierato per combattere, e credettesi a·ccerto che·ssi combattesse, e per tre dì se ne fece in Firenze e in Vinegia solenni processioni con grandi obligazioni e prieghi a·dDio, che·cci desse la vittoria. Il Mastino non si volle recare a battaglia; onde i Viniziani, a cui toccava la detta causa delle saline, ed era la principale cagione della loro impresa, vigorosamente combatterono le dette bastite, e per forza l'ebbono a dì XXII di novembre del detto anno; onde abassò molto l'orgoglio del Mastino e de' suoi. E poi a dì XVI di dicembre vegnente CCCC cavalieri di quelli di mesere Mastino ch'andavano a Monselici furono rotti e sconfitti da' nostri, ch'erano usciti di Bovolento loro incontro.
<B>LVIII</B>
<I>Ancora della detta guerra da·nnoi a mesere Mastino.</I>
Nel detto anno, a dì XXVIIII di gennaio, messere Piero Rosso si partì da Bovolento con IIm cavalieri e gente a piè assai, e andò a Padova, e assalì la porta del borgo d'Ognesanti, ch'era in trattato d'avere il detto borgo per tenervi l'oste, e affocata la porta per entrarvi dentro, e parte di sua gente ve n'entrò. La gente di mesere Alberto, ch'era in Padova, furono accorti, e missono fuoco nel borgo; per la qual cosa veggendo mesere Piero che non potea aquistare, si partì e tornò a Bovolento. Ma poco apresso, a dì VII di febraio, il detto meser Piero si partì di notte dal campo di Bovolento con CCC cavalieri eletti e con alquanti pedoni, e ordinò che MCC cavalieri richesti il seguissono apresso, e giunse di notte meser Piero al borgo di San Marco di Padova; e quello, come ordinato era, li fu dato, ed entrovvi colla sua gente. Li MCC cavalieri e pedoni che venieno apresso fallirono la notte il cammino. E per soperchia freddura e fiumi e canali a passare non poterono giugnere a Padova; ma poi che furono molto ravvolti, si tornarono a Bovolento: alcuni dissono che per inganni furono traviati. Messere Piero essendo nel detto borgo infino a ora di nona, e non giugnendo la sua gente, dubitò della stanza; e bisognava che meser Alberto e sua gente avessono saputo il vero: meser Piero e sua compagnia erano tutti morti e presi, però che in Padova avea più di IIm cavalieri e popolo grandissimo. Il valente messer Piero veggendosi a tal partito, come savio e aveduto capitano, con tutta sua gente armata fece sembianti d'assalire la porta della città e quella combattere, e faccendo vista d'avere presso il suo soccorso della sua gente che gli era fallita. Messere Alberto temendo della città fece di quella chiudere le porti e·llevare i ponti. Messere Piero e sua gente si ritrasse e uscì del borgo, faccendo al fine di quello mettere, fuoco, acciò che' nimici per quello nol potessono seguire, e con tutta sua gente si tornò la sera sano e salvo al campo di Bovolento. E nota che meser Piero andava sì spesso a Padova, però che al continuo era in trattato, con meser Marsilio da Carrara suo zio e co' suoi consorti, i quali, come dicemmo adietro più tempo passato, per gara di loro vicini e cittadini aveano data la signoria di Padova a meser Cane della Scala; e Messere Alberto e Mastino gli trattavano male, e maggiormente per lo 'nganno e tradimento fatti a' detti Rossi di Parma loro nipoti sotto loro confidanza, quando feceno rendere Parma, come adietro facemmo menzione. E poi a dì XX di febraio essendo partiti del campo da Bovolento da DL cavalieri, e cavalcato in sul padovano e·llevata grande preda, que' di Padova in quantità di DCCC cavalieri si pararono loro dinanzi ad un passo e combatterli e' nostri furon sconfitti, e rimasonvi tra morti e presi intorno di cento e più di mezza la preda. Per quella cagione a dì XXIII di febraio, meser Piero cavalcò con MD cavalieri fino alle porte di Padova, e prese un borgo e misevi fuoco, e arsonvi più di CCCC case. In questa cavalcata di meser Piero meser Mastino ordinò con ribaldi, e fece mettere fuoco nel campo da Bovolento, e arse bene il quarto, e tutta la camera dell'oste. E se non fosse il buono soccorso di quelli che v'erano rimasi a guardia, ardeva tutto; e così va ne' casi di guerra per pulire i peccati de' popoli. Tornato mesere Piero al campo, in pochi dì fu ristorato e rifatto l'arsione del detto campo, che i Viniziani di presente vi mandarono ogni guernimento che bisognava a·rraconcio della bastita. E pochi dì apresso all'entrata di marzo, si rubellò a mesere Mastino III ville, ciò furono Coldigrano in trevigiana, e Cittadella e Campo San Piero in padovana. Lasceremo alquanto della guerra del Mastino, e torneremo a' nostri fatti di Toscana e d'altre parti.
<B>LIX</B>
<I>Come sotto trattato d'accordo cogli Aretini vollono i Perugini pigliare Arezzo, e poi ebbono Lucignano.</I>
Nel detto anno, all'entrante del mese di febraio, non lasciando il nostro Comune per la grande impresa di Lombardia e di guerreggiare la città di Lucca e quella d'Arezzo, essendo la città d'Arezzo molto afritta da' Perugini e da' Fiorentini, però che da mesere Mastino non potieno avere soccorso perch'era assediato elli medesimo nella città di Padova, come detto è dinanzi; né d'altra parte da niuno Ghibellino d'Italia non poteano avere soccorso, e per loro male si poteano difendere da' detti due Comuni; in più trattati d'accordo e di pace furono da·lloro a' detti Comuni, ma più co' Perugini, che·lli tenieno più stretti, ed avieno de' loro prigioni. Alla fine i Perugini volieno sì larghi vantaggi e di castella e della signoria della città d'Arezzo, che i Tarlati che·nn'erano signori in nulla guisa si vollono accordare né fidare de' Perugini, però che in que' dì, stando nel detto trattato d'accordo co' detti Perugini, i detti Perugini di notte con grande forza di gente a·ppiè e a cavallo vennero infino alle mura d'Arezzo. E per alcuno della terra fu loro insegnato d'entrare per la fogna, overo cateratta, della gora delle mulina che corre per Arezzo; e alcuni di loro v'entrarono. Ma·cciò sentito nella terra, corsono con arme a·rriparo, e uccisono quelli ch'erano passati dentro; onde i Perugini la mattina si partirono e tornarsi a·cCortona; e per questa cagione si ruppe il trattato dell'acordo dagli Aretini a' Perugini. Ma de' Fiorentini si volieno ben fidare i Tarlati d'Arezzo, e dar loro la guardia della terra, però che meser Piero Saccone e meser Tarlato erano nati per madre di casa i Frescobaldi di Firenze, e aveanvi più singulari amici e parenti, e da' Fiorentini si tenieno meno gravati che da' Perugini. E così per la detta cagione de' Perugini si ruppe il trattato, e si ricominciò guerra contro agli Aretini, con tutto che nel segreto tuttora rimasono gli Aretini in trattato d'accordo co' Fiorentini. E rotto il detto trattato co' Perugini, quelli di Lucignano d'Arezzo, ch'erano molto oppressati da' Perugini per le loro masnade, che stavano nel Monte San Savino, sì mandarono a Firenze loro ambasciadori e sindachi con pieno mandato per dare Lucignano al Comune di Firenze. I Fiorentini no·lli vollono prendere per non dispiacere a' Perugini, né rompere i patti della lega; che intra gli altri patti era che ogni conquisto di terra o castella si facesse sopra il Comune d'Arezzo fosse a comune de' detti II Comuni. Ancora v'era lo 'nfrascritto patto, che i collegati della detta lega durante la detta lega per sé né per altrui né possa né debbia fare pace o triegua overo altra composizione overo alcuno trattato tenere co' nemici de' detti allegati sanza espressa volontà e consentimento de' detti collegati, bene ch'allora era già spirato il termine della detta lega; per la qual cosa i detti sindachi e ambasciadori di Lucignano se n'andarono poi a Perugia, e dieronsi liberi a·lloro: e' Perugini li presono sanza farne nulla richesta al Comune di Firenze. E per simile modo il vescovo d'Arezzo, ch'era de' detti collegati, si prese Montefocappio, un forte castello degli Aretini. Onde i Fiorentini sdegnarono molto, e seguirono apresso il trattato segreto co' Tarlati d'Arezzo, e misero a seguizione, come diremo apresso nel seguente capitolo.
<B>LX</B>
<I>Come i Fiorentini ebbono per patti la città d'Arezzo e 'l suo contado.</I>
Nel detto anno, a dì VII di marzo MCCCXXXVI, si compié il trattato e accordo dal Comune di Firenze a' signori Tarlati d'Arezzo in questo modo, ch'egli ebbono dal Comune di Firenze fiorini XXVm d'oro per la dazione della terra e rinunziagione della signoria di quella; e fiorini XIIIIm d'oro per la loro ragione e parte, che' detti messere Piero e meser Tarlato aveano nel viscontado comperato per lo vescovo d'Arezzo loro fratello da' conti Guidi, il quale, come dicemmo adietro, s'era renduto prima al Comune di Firenze, e fiorini IIImDCCC d'oro n'ebbe per patti Guido Alberti conte per la sua quarta parte del viscontado, e venderlo colla solennità si convenne al Comune di Firenze; che·ffu al Comune di Firenze uno nobile e bello aquisto, tutto fossero terre d'imperio. E oltre a·cciò il comune d'Arezzo ebbe inpresto dal Comune di Firenze fiorini XVIIIm per pagare le loro masnade a cavallo e a piè, ch'erano a pagare di presso a sei mesi; e e·lli diedono con solenni sindachi d'accordo quasi di tutti gli Aretini ch'erano inn Arezzo la signoria e guardia della città d'Arezzo e del contado al Comune e popolo di Firenze per tempo e termine di X anni a venire con mero e misto imperio, rimanendo a' Tarlati tutte loro posessioni e castella, e lasciando i Tarlati ogni signoria, e rimanendo semprici cittadini d'Arezzo alla guardia del Comune di Firenze, faccendoli i Fiorentini cittadini e popolani di Firenze, e altri vantaggi per guardia di loro. E a dì X del detto marzo a ora di nona i Fiorentini ebbono la posessione della città d'Arezzo per lo modo diremo apresso. Che v'andarono a prenderla XII de' maggiori cittadini di Firenze grandi e popolani con sindacato e pieno mandato, e i·lloro compagnia D cavalieri in arme, e IIIm e più pedoni del Valdarno di sopra. A' quali gli Aretini, uomini e donne, piccoli e grandi, con solenne processione e grande allegrezza e buona voglia con rami d'ulivo in mano, gridando: "Pace, pace, e viva il Comune e popolo di Firenze!", vennono loro incontro presso a due miglia. E giunti alla città con grande onore e magnificenza furono ricevuti per meser Piero Saccone che·nn'era stato signore. Fu dato il gonfalone del popolo d'Arezzo e·lle chiavi delle porti al sindaco del Comune di Firenze con nobile diceria e grandi autorità, magnificando il popolo e Comune di Firenze. E poi i detti XII nostri cittadini riformarono la città di podestà per patti, i primi sei mesi meser Currado de' Panciatichi di Pistoia del lato guelfo, e gli altri seguenti VI mesi meser Giovanni Panciatichi suo fratello. Dall'anno inanzi dovieno esere podestà fiorentini alla lezione del Comune di Firenze; e per simile modo rifermarono la città d'Arezzo di nuovi anziani cittadini d'Arezzo, quelli che a·lloro piacque, Guelfi e Ghibellini. E capitano di guardia e conservadore di pace fu Bonifazio de' Peruzzi grande popolano, il primo per termine di VI mesi con XXV cavalieri e fanti; e poi per conseguente di sei in sei mesi il detto uficio, uno popolano guelfo di Firenze alla elezione del detto Comune di Firenze; e rifeciono popolo in Arezzo, e diedono i gonfaloni delle compagnie del popolo. Ed ebbono gli Aretini per lo Comune di Firenze perpetua pace, dimettendo e perdonando ogni ingiuria, interessi e danni ricevuti, l'uno Comune dall'altro, rimettendo i Guelfi in Arezzo, e ogni altro uscito che vi potesse tornare, cancellando ogni bando e levando ogni rapresaglia e divieto dall'uno Comune all'altro, e singulari persone e·lloro seguaci. E poi a dì X d'aprile vegnente mesere Piero Saccone venne in Firenze con certi de' suoi consorti e altri buoni uomini d'Arezzo, con più di cento a cavallo. Da' Fiorentini fu ricevuto onorevolemente come gran signore, e dimorò in Firenze VI dì; e alla fine ricevuti più corredi da' priori, e dati continovo desinare e cene a' cittadini, alla sua partita fece un corredo in Santa Croce molto nobile, ov'ebbe M o più buoni cittadini alla prima mensa, con IIII messe di pesce, molto onoratamente serviti da donzelli di Firenze, fornita tutta la corte di capoletti franceschi molto nobili. E in questa stanza, a dì XVI d'aprile, i marchesi del Monte Sante Marie co' castellani e col favore e masnade di Perugini per tradimento presono il castello di Monterchi, salvo la rocca, che v'era uno de' Tarlati. Per la qual cosa meser Piero e sua gente si partì di Firenze sùbito; ma il capitano della guardia d'Arezzo, sanza attesa, avuta la novella vi fece cavalcare CCCL cavalieri delle masnade di Firenze ch'erano in Arezzo, con popolo assai di volontà colle 'nsegne del Comune di Firenze, e venuti a Monterchi il dì di venerdì santo, trovarono i nimici accampati di fuori del castello e parte dentro; più prieghi furono fatti a' detti marchesi e a' castellani e a quelli conestaboli che v'erano per lo Comune di Perugia, che per amore del Comune di Firenze si dovessono partire e·llasciare il castello ch'era a·lloro guardia; dopo molte parole scusandosi non facieno contro al Comune di Firenze, ma contro a' Tarlati loro nimici, e dilaiando per parole, attendendo la cavalleria di Perugia, che venia al soccorso, quelli che v'erano per lo Comune di Firenze ciò sentendo per loro spie, assalirono il campo de' castellani e de' marchesi ch'erano schierati in arme, e forte combattendo in poca d'ora gli sconfissono; e poi combattendo entrarono nella terra, e per forza d'arme la raquistaro con gran danno di castellani e di loro seguaci; e più sarebbe stato di morti, se non fosse la divozione del dì ch'era. Di questo raquisto di Monterchi i Tarlati e tutti gli Aretini si tennono molto contenti di Fiorentini, e presono di loro maggiore confidanza. E poco apresso i Fiorentini ordinarono in Firenze XII consiglieri popolani due per sesto di tre in tre mesi, con grande balìa co' priori insieme a provedere al continuo sopra lo stato pacifico e guardia d'Arezzo. E di presente per ciò seguire ordinarono e feciono cominciare e compiere uno grande e forte castello al di sopra della piazza di Perci della città d'Arezzo, il quale costò più di XIIm fiorini d'oro pagati per li Fiorentini; e ordinarvi II castellani con C fanti alla guardia, e fornito tuttora per VI mesi di vittuaglia e d'arme e di guernimento grandissimo; e al continuo si teneva in Arezzo per li Fiorentini il meno CCC cavalieri di loro masnade alla guardia, e più come bisognava. Di questo castello parte degli Aretini ne furono contenti, spezialmente i Tarlati e' loro seguaci, per sicurtà di loro, che disposti loro della signoria quasi tutto il popolo gli odiava, i Guelfi perch'erano loro nimici, e i Ghibellini perch'erano mal contenti, perch'aveano data la terra; ma al vero i più degli Aretini ne furono mal contenti. Ma poi vi feciono fare i Fiorentini in Arezzo un altro piccolo castello sopra la porta del piano che va a·lLaterino, per più sicura entrata, con corridoio di fuori grande tra 'l muro e parapetto per li cavalieri, e·ssu per le mura per li pedoni per correre dall'uno castello all'altro. In somma i Fiorentini misero inn-Arezzo in uno anno tra di questo e di dono più di Cm fiorini d'oro, sanza quelli vi si spesono poi, che·ffu un gran fatto, compensando la spesa di Lombardia e·ll'altre spese che facea il Comune di Firenze e a mantenere la guerra al continovo contro a·lLucca. Del detto aquisto della città d'Arezzo, tutto costasse a' Fiorentini danari assai, n'agrandì e montò molto la magnificenza del Comune di Firenze, e da lungi di gran fama per tutti i Cristiani, che 'l sentirono, e d'apresso più onorati e dottati dalle comuni vicinanze. Il detto aquisto, tutto fosse mediante costo di moneta, e industria di certi nostri cittadini che 'l trattarono, che non ne valsono di peggio al modo usato di corrotti cittadini; ma di certo, se non fosse stato la nobile e alta impresa di Lombardia, e risistenza fatta contro a meser Mastino per lo Comune di Firenze e quello di Vinegia, non venia fatto, che i signori Tarlati non vi sarebbono mai aconsentiti; ma feciollo per la cagioni dette per non potere altro, perduta ogni speranza di soccorso. E nota che più di LX anni era stata retta la città d'Arezzo per parte ghibellina e imperiale, e quasi in guerra col Comune di Firenze.
<B>LXI</B>
<I>Ancora delle sequele de' fatti d'Arezzo da·nnoi a' Perugini.</I>
Dapoi che' Fiorentini ebbono la città d'Arezzo per lo modo detto nel passato capitolo, i Perugini isdegnarono forte contro a Fiorentini, tegnendosi da·lloro ingannati e traditi per li patti, ch'avieno avuti insieme della lega fatta tra·lloro e col re Ruberto e co' Bolognesi, e mandarne in Firenze loro ambasciadori a dolersi di ciò e in piuvico consiglio, ove fu loro risposto saviamente a tutti i loro capitoli, come per ragione e secondo i patti contro a·lloro non s'era fallito in niuno articolo, però che·lla lega non conteneva niente, che dandosi la città d'Arezzo a niuno de' detti Comuni, l'uno all'altro fosse tenuto, o·ssi rompesse lega; e già era il termine della lega ispirato; mostrando ancora a' Perugini come gli Aretini in niuna guisa si volieno accordare o fidare di Perugini per cagione delli loro collegati ghibellini, vescovo d'Arezzo, Pazzi, Ubertini, conti da Montefeltro, Nieri da Faggiuola, conti da Montedoglio, e' figliuoli di Tano da Castello, e il signore di Cortona, e tutti i loro usciti, i quali erano nimici caporali de' Tarlati. E se i Fiorentini non avessono preso Arezzo sanza indugio, come feciono, di certo potea riuscire in mal luogo per parte guelfa e per l'uno Comune e per l'altro. Ancora allegando come prima avieno fallito i Perugini e rotti i patti a' Fiorentini, quando presono Lucignano d'Arezzo per lo modo detto per noi nel terzo capitolo innanzi a questo. Ma secondo buona e caritevole compagnia non era però del tutto licito di fare per Fiorentini, che come dice il Provenzale in sua gobola "Uomo saggio non dee faglia per l'altrui faglia". Ben dice la legge in alcuna parte: "Qui frangit fidem, fides frangatur eidem"; ma·cciò non basta alla magnificenza del nostro Comune. Ma come si fosse, o ragione o torto dell'uno Comune o dell'altro, o d'ambedue, i Perugini rimasono mal contenti. Alla fine dibattuta la quistione per ambasciadori dell'uno Comune e dell'altro, si trovò un mezzo d'accordo, che i Perugini avessono in Arezzo un giudice d'appellaggione in termine di V anni sotto titolo di conservadore di pace con salaro di D fiorini d'oro in sei mesi con sua famiglia. Questo uficio fu in nome più che in fatto, però ch'al tutto erano gli ufici e signoria d'Arezzo di Fiorentini. E dopo il termine di V anni dovessono rimanere a' Perugini il castello d'Anghiari, e Foiano, e Lucignano, e Monte San Savino, ch'ellino s'aveano presi e si tenieno; e pace faccendo cogli Aretini, lasciando mesere Ridolfo Tarlati e i figliuoli e più altri prigioni d'Arezzo, ch'elli aveano in prigione in Perugia, presi nella Città di Castello quando l'ebbono, come contammo adietro. Lasceremo alquanto de' fatti di Firenze e d'Arezzo e di Perugia, ch'assai n'è detto, e torneremo a nostra matera a seguire il processo della guerra di Lombardia contro a meser Mastino.
<B>LXII</B>
<I>Come per ordine di mesere Mastino volle esere morto mesere Piero Rosso a Bovolento per rompere l'oste nostra.</I>
All'uscita del mese di marzo, cominciando l'anno MCCCXXXVII, essendo mesere Piero Rosso capitano dell'oste nostro e de' Viniziani all'asedio di Padova a Bovolento, per trattato di Messer Mastino da certi conestaboli tedeschi ch'erano nell'oste, con séguito di mille cavalieri, volle esere tradito e morto; ma come piacque a·dDio, si scoperse il trattato, e non vegnendo loro fatto, si partirono e missono fuoco nel campo, e arsene gran parte; per la qual novità fu grande scompiglio alla nostra oste. Ma il valentre meser Piero per l'accidente occorso, poco ismosso dagli aguati della fortuna, non dubitando; ma a dì V d'aprile apresso con IIIm cavalieri cavalcò subitamente infino alle porte di Trevigi, e fece loro gran danno di preda e d'arsione, lasciando a guardia del campo a Bovolento M cavalieri. E nota che in quelli tempi all'asedio di Padova avea al soldo de' Fiorentini e Viniziani Vm uomini a cavallo con barbute, sanza quelli da·ppiè ch'erano grande quantità, sanza l'oste che in que' tempi il Comune di Firenze fece sopra la città di Lucca, come faremo menzione nel seguente capitolo; che considerato lo stato d'Italia, la città di Firenze mostrò con effetto gran potenza. In questi tempi, a dì XIIII di maggio, si rifermò la lega da·nnoi a' Viniziani cogli altri Lombardi contro a meser Mastino; e·ll'avogaro di Trevigi per soperchi ricevuti si rubellò da meser Mastino col suo forte Castello Nuovo, e venne in persona a Vinegia per allegarsi coll'altra lega.
<B>LXIII</B>
<I>Come i Fiorentini feciono oste sopra Lucca.</I>
A dì XVI di maggio del detto anno MCCCXXXVII mesere Azzo da Coreggia, sentendosi in Lombardia che' Fiorentini volieno fare oste a Lucca, venne per meser Mastino per suo vicaro in Lucca con CCC cavalieri alla guardia della città. I Fiorentini per la sua venuta, e per oservare i patti della lega, avendo ordinata oste sopra Lucca, e·lla lega di Lombardia sopra Verona, a dì XXX di maggio si diedono le 'nsegne, e mosse l'oste; e furono i Fiorentini co·lloro soldati DCCC cavalieri e popolo grandissimo, onde fu capitano Orlando de' Rossi da Parma, uomo grosso e materiale, ma per amore di meser Piero e di mesere Marsilio Rossi, ch'erano in Lombardia al servigio de' Fiorentini e Viniziani, li feciono quello onore. E di Bologna in servigio de' Fiorentini furono CL cavalieri, e da meser Malatesta da Rimino C cavalieri, da Ravenna XXX, da Perugia C cavalieri, d'Arezzo meser Piero Saccone de' Tarlati con LX cavalieri e con C fanti, e del Comune d'Arezzo CCC fanti, d'Orbivieto LX cavalieri, del re Ruberto CLXXX cavalieri, della Città di Castello XXXV cavalieri, da Cortona cento fanti; da Siena C cavalieri, ma non vollono andare in su quello di Lucca, istettono alla guardia di Sa·Miniato, però che non vollono esere alla lega. E poi, partita l'oste, soldarono i Fiorentini CCCXL cavalieri di quelli della compagnia della Colomba, ch'erano stati co' Perugini, e mandarli nella detta oste; sicch'ella fu di IIm cavalieri e popolo assai; e guastarono Pescia e Buggiano e·ll'altre castella di Valdinievole, e andarono infino a Lucca e di là dal Serchio sanza contasto alcuno, faccendo gran guasto. Tornò la detta oste in Firenze a dì XXX di luglio male ordinata, però che fu sanza ordine e male capitanata.
<B>LXIV</B>
<I>Come la forza della lega cavalcarono sopra la città di Verona, e partirsene con poco onore.</I>
Tornando a nostra materia della guerra da·nnoi a meser Mastino, com'era dato l'ordine della lega, esendo la nostra propia oste sopra la città di Lucca, come detto avemo, mesere Marsilio Rosso, uomo di gran senno e valore, si partì dall'oste da Bovolento a dì VIIII di giugno del detto anno con IImCCCC cavalieri di nostri e de' Viniziani, rimanendo al campo di Bovolento mesere Piero Rosso con MDC cavalieri e popolo assai; e andonne a Mantova meser Marsilio per cavalcare sopra Verona, e a dì XX del detto giugno vi giunse in Mantova messer Luchino Visconti di Melano cogli altri allegati di Lombardia, co' marchesi da Esti, e con quelli da Gonzago di Mantova, in somma co' nostri cavalieri e de' Viniziani più di IIIIm, onde fu fatto capitano generale mesere Luchino detto; e di presente cavalcarono fin presso alla città di Verona. E meser Carlo figliuolo del re Giovanni, ch'era alla lega nostra de' Lombardi contro a meser Mastino, venne di Chiarentana con suo sforzo. E in quelli giorni ebbe che·lli si arendero la città di Belluna e poi quella di Feltro, che·ssi tenieno per meser Mastino. Il tiranno mesere Mastino, veggendosi così accanato dalla forza della lega da tante parti, come disperato, ma però francamente, uscì di Verona con IIIm cavalieri e popolo grande, e richiese di battaglia meser Luchino e gli altri allegati. Mesere Luchino o per sua viltà, che così si disse, overo per tema di tradimento, overo che·ll'uno tiranno al tutto non vuole abattere l'altro, ma quale si fosse la cagione, veggendo che meser Mastino colle sue forze uscito a·ccampo per combattere, la notte a dì XXVII di giugno si sbarattò la nostra oste e della lega, e villanamente si dipartirono chi da una parte e chi da un'altra, onde messere Luchino fu molto spregiato. Messere Mastino avendo vinto quella punga prese vigore, e·llasciata fornita Verona, si partì con IImD cavalieri, e venne presso a Mantova a VII miglia sanza alcuno contasto. E poi sentendo che' Padovani tenieno trattato con mesere Piero Rosso perché meser Marsilio Rosso e·lla sua cavalleria non potesse tornare al campo di Bovolento, subitamente si mosse il primo dì di luglio, e in due giorni fu posto in sul canale tra Bovolento e Chioggia, acciò che vettuaglia o altro fornimento non potesse venire da Vinegia né da Chioggia all'oste di Bovolento, e per impedire mesere Marsilio ch'era ivi presso colla sua gente e cavalleria a V miglia, e per la sùbita venuta di meser Mastino non potea andare più inanzi sanza grande pericolo di lui e di sua gente. E venia fatto a meser Mastino al tutto di rompere quella oste, se non fosse la provedenza di meser Piero Rosso ch'era all'oste a Bovolento, che sapiendo che meser Mastino era in parte ch'elli non potea aver acqua per la sua oste, se non di quella del canale, ordinò che tutta l'ordura dell'oste di Bovolento al continuo si gittasse nel canale; e oltre a·cciò in quella contrada ha molta erba, che·ssi chiama cicuta, donde del sugo si fa veleno; faceva cogliere a' ribaldi, e tagliare, e pestare, e gittare per lo canale; per la qual cosa l'acqua del canale venea sì corrotta all'oste di mesere Mastino, che v'era presso a·ttre miglia, che uomini né bestie non ne potieno né ardivano di bere; e quale uomo o bestia ne beveano erano a pericolo di morte. Per la qual cosa convenne di nicissità che meser Mastino colla sua oste si levasse e partisse, e tornandosi a Verona a dì XIII di luglio. E il dì apresso messere Marsilio Rosso colla sua cavalleria passò e venne al campo di Bovolento. E nota, lettore, isvariate vicende e casi che·ffa la fortuna del secolo, spezialmente nelle guerre, che in pochi dì la guerra da·nnoi a meser Mastino fu inn-istretti partiti d'esere vinta e perduta per ciascuna parte, come fatto avemo menzione.
<B>LXV</B>
<I>Come la città di Padova s'arrende a mesere Piero Rosso, e fuvi preso mesere Alberto della Scala.</I>
Partito meser Mastino e perduta la punga della sua impresa, e messere Marsilio Rosso colla sua cavalleria tornato al campo di Bovolento, come detto è, e·ll'oste nostra molto rinvigorita, incontanente mesere Piero con tutta l'oste si partì dal campo di Bovolento, ove tanto era dimorata, e puosonsi presso alle mura di Padova; a dì XXII del mese di luglio del detto anno i Padovani, a' quali pareva male stare per la tirannia di quelli della Scala, spezialmente a meser Albertino da Carrara e a' suoi ch'avieno data la terra a meser Mastino, ed elli in ogni cosa gli trattava come servi o ischiavi, ispezialmente il matto e scellerato mesere Alberto della Scala ch'era alla guardia di Padova, e sentendo partito meser Mastino colle sue forze, e·ll'oste nostra e di Viniziani così possente di costa alla città, dond'erano capitani i suoi parenti messere Piero e mesere Marsilio de' Rossi, ordinarono di tradire e di pigliare meser Alberto della Scala con tutti i suoi consiglieri e caporali e conestaboli ch'erano in Padova; e così venne loro fatto, e·llevarono la città a romore. E quelli del campo con ordine fatta assalirono la terra da più parti: quelli da Carrara col popolo corsono a furore al palazzo e presono mesere Alberto e tutti i suoi seguaci, e apersono la porta verso il campo, e missono nella città meser Piero e meser Marsilio Rosso con tutta la cavalleria; i quali entrarono nella città con più di IIIIm cavalieri, sanza i pedoni, a dì III d'agosto MCCCXXXVII. E corsono la città sanza fare nullo male o ruberia, se nonne a' soldati e gente v'erano con messere Alberto della Scala. E il detto mesere Alberto co' caporali ch'erano co·llui ne furono mandati prigioni a Vinegia. E meser Albertino da Carrara fatto signore di Padova, e messo alla lega con CCCC cavalieri di taglia. Dell'aquisto di Padova si fece grande allegrezza in Vinegia e in Firenze e in tutte le terre guelfe di Toscana.
<B>LXVI</B>
<I>Come morì il valentre capitano messere Piero Rosso, e poco apresso messer Marsilio suo fratello.</I>
Pella perdita di Padova e presura di mesere Alberto della Scala e de' suoi seguaci e consiglieri molto abassò la potenza e·llo stato di meser Mastino e di suoi, e così ne montò la grandezza de' Fiorentini e de' Viniziani e delli altri collegati di Lombardia, e massimamente de' Rossi di Parma, avendo fatta sì alta vendetta di meser Mastino e di messere Alberto della Scala, colla speranza della loro vittoria e stato di raquistare la signoria della loro città di Parma; e sarebbe loro venuto fatto assai tosto coll'aiuto e potenza di Fiorentini e Viniziani e degli altri della lega. Ma·lla fortuna fallace delle cose mondane le più volte dopo la grande allegrezza e vana filicità per lei mostrata è tosto con uscimenti miseri e dolorosi; e così avenne molto poco apresso, che tegnendosi per meser Mastino il forte e ben guernito castello di Monselici, di presente avuta Padova, meser Piero vi cavalcò con grande oste a·ccavallo e a piè, e a' borghi di sotto faccendo dare continovi e solleciti assalti e battaglie da più parti, e quasi vinti per lui parte de' fossi e delli steccati di quelli, aversi i borghi per forza di battaglia, meser Piero per dare più vigore di combattere alle sue genti smontò da·ccavallo, e a piè con più altri cavalieri, la quale capitaneria già non fu lodata, ma ripresa. Combattendo meser Piero l'antiporto, lanciata gli fu una corta lancia manesca, la quale il percosse alla giuntura delle corazze e ficcoglisi per lo fianco. Il valente capitano però non ismagato si trasse il troncone del fianco, e gittossi nel fosso di costa all'antiporto per passare alla terra, credendola avere vinta. Per la qual cosa l'acqua gli entrò per la piaga, e quella incrudelita per lo molto sangue perduto, il valentre e vertudioso duca spasimò, e per li suoi tratto del fosso e portato per lo canale in burchio così fedito a Padova, il quale passò di questa vita a dì VII d'agosto del detto anno MCCCXXXVII: della cui morte fu grandissimo danno a tutta quanta la lega, imperò che egli era il più sofficiente capitano e savio di guerra e prode di sua persona, che nullo altro ch'a·ssuo tempo fosse non che in Lombardia, ma in tutta Italia. Fu soppellito alla chiesa di San Francesco in Padova con grande corrotto, onorato il corpo suo, come a grande signore si convenia; in Firenze e in Vinegia avuta la novella se ne fece grande dolore. E poi fatto per sua anima l'esequio con grande solennità, messer Marsilio suo fratello per soperchio affanno per lui durato nell'aspre cavalcate, com'è detto adietro, innanzi che meser Piero fosse morto, era caduto malato in Padova, e colla giunta del dolore della morte di messer Piero s'accorò duramente l'animo, e come piacque a Dio, passò di questa vita a dì XIIII del detto mese d'agosto, e fu sopellito in Padova di costa al fratello a grande onore. Questo meser Marsilio era de' più savi e valorosi cavalieri di Lombardia, e del migliore consiglio. E così in pochi dì quasi fu annullata la casa de' Rossi di Parma, quand'erano per ricoverare loro stato. Lasceremo alquanto de' fatti di Lombardia, e diremo d'altre novità che furono a que' tempi.
<B>LXVII</B>
<I>Di novità fatte in questi tempi in Firenze, e di grande dovizia fu di vittuaglia.</I>
Ritornando alquanto adietro per seguire l'ordine del tempo nel nostro trattato, all'uscita di giugno del detto anno MCCCXXXVII nacquero in Firenze VI lioncini della lionessa vecchia e delle due giovani sue figliuole. La qual cosa secondo l'agurio delli antichi pagani fu segno di grande magnificenzia della nostra città di Firenze; e certo in questo tempo e poco apresso fu in grande colmo e potenzia, come leggendo poco apresso si potrà trovare. De' detti piccoli lioni alquanto cresciuti il Comune di Firenze ne fece presenti a più Comuni e signori loro amici. E nel detto anno, a dì XXVIIII di luglio, si cominciò a fondare i pilastri della loggia d'Orto Sammichele di pietre conce, grossi e ben formati, ch'erano prima sottili, e di mattoni, mal fondati. Furonvi a·cciò cominciare i priori e podestà e capitano con tutto l'ordine delle signorie di Firenze con grande solennità; e ordinarono che di sopra fosse un grande e magnifico palazzo con due volte, ove si governasse e guardasse la provisione del grano ogn'anno per lo detto popolo. E·lla detta opera e fabrica si diè in guardia all'arte di porta Santa Maria, e diputossi al lavorio la gabella della piazza e mercato del grano e altre gabellette di piccole entrate a tale impresa, a volerla tosto compiere. E ordinossi che ciascuna arte di Firenze prendesse il suo pilastro, e in quello facesse fare la figura di quel santo in cui l'arte ha riverenza; e ogni anno per la festa del detto santo i consoli della detta arte facessono co' suoi artefici offerta, e quella fosse della compagnia di Santa Maria d'Orto San Michele per dispensare a' poveri di·dDio; che·ffu bello ordine e divoto e onorevole a tutta la città. In quel tempo la notte del dì XXX di luglio, che 'l dì era tornata l'oste da Lucca, s'aprese il fuoco Oltrarno in via IIII Leoni, e arsonvi III case con gran danno. E·lla notte medesima s'aprese nel monistero delle donne della Trinita in campo Corbolino, e arse il loro dormentoro. In questo anno in Firenze e d'intorno in Toscana fu grande dovizia e abondanza di vettuaglia, e in Firenze valse lo staio del grano al colmo soldi VIII di soldi LXII il fiorino dell'oro, che·ffu disordinata viltà al corso usato, e a interesso di coloro ch'avieno le posessioni, ed eziandio di lavoratori di quelle; ma poco tempo apresso ne fu vendetta di grande carestia, come inanzi faremo menzione.
<B>LXVIII</B>
<I>Come in questo anno aparirono in cielo due stelle comete.</I>
Nel detto anno, all'entrata di giugno, aparve in cielo la stella comata chiamata Ascone, con grande chioma, cominciandosi quasi a vista sotto la tramontana quasi nella regione del segno del Tauro, durando più di IIII mesi atraversando l'emisperio insino al mezzogiorno, e·llà ebbe fine. E poi apresso, inanzi che quella venisse meno, n'aparve un'altra nella regione del segno del Cancro chiamata Rosa, e durò da due mesi. Queste stelle comate non sono stelle fisse, benché stelle paiano co' raggi, o chiome, o nubolose; ma dicono i filosofi e astrolagi che·cciò sono vapori secchi, e talori misti, che·ssi criano entro l'aria del fuoco sotto il cielo della luna per grandi congiunzioni de' corpi celesti, ciò sono le pianete; e sonne di nove maniere, quale per la potenza di Saturno, e quale di Giove o di Marte, e così degli altri, e tali miste di due pianete o più. Ma quale si sieno, ciascuna è segno di futura novità al secolo, il più in male, e talora segno di morte di grandi re e signori, o tramutagioni di regni e di genti, e massimamente nel crimato del pianeto che·ll'ha criata, dove stende sua signoria; ma·lle più significano male, cioè fame e mortalità, e altri grandi accidenti e mutazioni di secoli; e queste pure significarono grandi cose e novità, come leggendo poco apresso si potrà vedere per buono intenditore e discreto.
<B>LXIX</B>
<I>Di battaglie in mare tra' Genovesi e Viniziani.</I>
Nel detto anno e mese di giugno X galee degli usciti guelfi di Genova armate a Monaco trovandosi in Romania in corso con altre X galee del Comune di Vinegia si combatterono insieme, e·lle Viniziane furono sconfitte e prese la maggiore parte con grande loro dannaggio d'avere e di persone; ma però i Viniziani non s'ardirono di cominciare guerra scoperta co' Genovesi d'entro o quelli di fuori.
<B>LXX</B>
<I>Come la città di Bologna venne alla signoria di meser Taddeo di Peppoli loro cittadino.</I>
Nel detto anno, a dì VII di luglio, essendo i Bolognesi in male ordine e peggiore disposizione tra·lloro di sette e di parti, dapoi che uscirono dalla signoria della Chiesa e del legato, volendo ciascuna casa di coloro che 'l cacciarono esere signori, i Peppoli co·lloro seguaci di popolo furono ad arme, e cacciarono di Bologna meser Brandalis Goggiadini, quelli propio che·ffu principale a cacciarne il legato e' suoi consorti e seguaci. E poi apresso, a dì XXVIII d'agosto, messer Taddeo figliuolo che·ffu di Romeo de' Peppoli coll'aiuto de' marchesi da Ferrara suoi parenti si fece fare capitano di popolo e signore di Bologna. E poi conseguente a dì II di gennaio il papa apo Vignone fece aspri processi contro al detto meser Taddeo e contro al Comune di Bologna, perché non volieno ubidire la Chiesa, né amendare il danno fatto al legato, quando il cacciarono di Bologna. E poi apresso all'uscita del mese di marzo seguente si scoperse tradimento e congiura in Bologna, i quali avieno ordinato d'uccidere il capitano e torli la signoria; e di ciò era caporale Macerello de' conti da Panago stretto parente del detto capitano, e di cui più si fidava, con suo séguito e d'alcuno di Ghisolieri e altri Bolognesi. Il quale trattato scoperto, alcuno ne fu preso e tagliato il capo. Ma quello Macerello con molti altri uscirono di Bologna rubelli. E meser Taddeo al tutto rimase signore, e fortificossi di stato e di gente d'arme, tenendo DCCC soldati alle spese del Comune, e allegossi co' Fiorentini. E nota, lettore, se·lla comata, onde dinanzi facemmo menzione, ch'aparì nel segno del Tauro, il quale troviamo intra altre città e paesi essere attribuito alla città di Bologna, e mostrò assai tosto le sue infruenze di tanta mutazione di signoria alla città di Bologna. E come più adietro facemmo menzione, quando il legato cardinale ne fu cacciato, poco dinanzi scurò la luna nel segno del Tauro, e per alquanti intendenti di quella scienzia fu pronosticato dinanzi la mutazione di Bologna contro al legato, e noi fummo di quelli che·llo 'ntendemmo, con tutto che·ll'operazioni di lui e di sua gente e uficiali assai aparecchiarono l'opere e·lla matera alla costellazione, onde si sperava quella uscita. Assai avemo detto de' fatti di Bologna, ma ènne paruto di nicistà, come di città vicina e amica di Firenze, considerando l'antica unione e libertà e stato e potenza del buono popolo di Bologna, tornato a' nostri tempi per discordie e signoria tirannica di singulare cittadino, per dare asempro alla nostra città e popolo di Firenze a·ssapere i nostri cittadini guardare la libertà della nostra republica, e non cadere a tirannia di signore. Onde mi fa temere della nostra città di Firenze per le discordie e, male reggimento: e questo basti a' buoni intenditori.
<B>LXXI</B>
<I>Della morte del re Federigo di Cicilia, e di novità ne seguì all'isola.</I>
Nel detto anno, a dì XXIIII di giugno, morì di suo male don Federigo re, che tenea l'isola di Cicilia: lasciò più figliuoli, ma il suo maggiore don Piero, cui egli a·ssua vita avea coronato re, come in adietro in alcuna parte si fece menzione, ed era quasi uno mentacatto; per la qual cosa dopo la morte del padre molte mutazioni ebbe l'isola, che 'l conte Francesco di Ventimiglia, de' maggiori baroni dell'isola, per soperchi ricevuti dal detto Federigo prendendo parte contro a·llui per lo conte di Chiermonte suo cognato, si rubellò con tutte le sue castella, e cercò trattato col re Ruberto di Puglia, di cui di ragione era l'isola, e mandò a Napoli un suo figliuolo. Ma per suo poco senno, overo peccato, affrettandosi troppo inanzi ch'avesse soccorso del Regno, male glie n'avenne, che cavalcandogli adosso l'oste del re Piero, subitamente per iscontrazzo presono due suoi figliuoli, e per simile modo egli in persona con un altro suo figliuolo scontrandosi co' nimici, combattendo furono morti. E così fu quasi distrutto quello lignaggio, e perderono tutte loro castella, che·nn'avea assai e forti; ma però l'isola rimase in grande tribolazione e sospetto, come inanzi faremo menzione. Lasceremo di ciò, e diremo alquanto della guerra dal re di Francia e quello d'Inghilterra.
<B>LXXII</B>
<I>Come il re di Francia fece prendere l'Italiani, e piggiorò la sua moneta; e come l'armata del re d'Inghilterra venne in Fiandra.</I>
Nel detto anno MCCCXXXVII Filippo di Valos re di Francia, lasciato il suo buono proponimento giurato del santo passaggio d'oltremare, come adietro facemmo menzione, per seguire la guerra cominciata col re d'Inghilterra, per la sua avarizia cominciò a seguire male sopra male; che inn-una giornata, a dì X d'aprile, per tutto il suo reame subitamente fece prendere tutti l'Italiani, così i mercatanti e·lle compagnie di Firenze e d'altre parti come i prestatori a usura, e tutti gli fece rimedire, pognendo a ciascuno certa grande taglia di moneta, e convennela a ciascuno pagare. E fece fare nuova moneta d'oro, che·ssi chiamavano scudi, piggiorando la lega della buona moneta XXV per C, e·lle monete dell'argento all'avenante. E poi fece un'altra moneta d'oro, che chiamò leoni, e poi un'altra che chiamò padiglioni, piggiorando ciascuna e di lega e di corso, per modo che dove il nostro fiorino d'oro, ch'è ferma e leale moneta e di fine oro, valea alla buona moneta ch'era prima in Francia soldi X di parigini inanzi fosse gli anni MCCCXXXVIIII, valse il fiorino d'oro in Francia soldi XXIIII e mezzo di parigini e il quarto più a tornesi piccioli. E poi l'anno MCCCXL fece un'altra moneta nuova d'oro chiamata agnoli, e peggiorolla tanto, e così quella dell'argento, e' piccioli, che 'l nostro fiorino d'oro valse a quella moneta soldi XXX di parigini. Lasceremo alquanto a dire delle corrotte monete del re di Francia, e seguiremo a nostra matera dell'ordine della detta guerra, cioè che poi del mese di luglio vegnente alla festa della Maddalena, com'era ordinato per la lega e giura fatta contro al re di Francia, il Bavero, che·ssi facea chiamare imperadore, venne a Colonia, che vi dovea esere il re d'Inghilterra, il quale per molto affare dell'isola e per la guerra ch'avea di Guascogna fallì la giornata. Fuvi il duca di Brabante, e quello di Ghelleri, e quello di Giulieri, e il conte d'Analdo, e altri signori allegati, e gli ambasciadori del re d'Inghilterra; e a quella asembrea si rifermò la lega, e gli ambasciadori d'Inghilterra per lo re promisono i gaggi e' soldi alli Alamanni e agli altri allegati e·lla venuta del re in persona alla settembria. Per la qual cosa il detto Bavero e gli altri allegati mandarono disfidando il re di Francia, dicendo di venirlo a vedere insino alla città di Cambragio alla frontiera del reame di Francia, e di tenere campo in su·rreame, e combattere co·llui; del quale sfidamento il re di Francia prese grande sdegno e onta, e providesi di presente di tesoro e d'ordine di cavalieri e di gente d'arme per fornire la sua impresa guerra. E poi conseguente non potendo il re d'Inghilterra passare di qua da mare, come promesso avea alli allegati, per molti affari di là e perché venia il verno, volendo fornire la promessa di gaggi, sì mandò CCC cocche e CXX batti a remi armati; in sulla quale armata fu il vescovo Niccola, e il conte di Monte Aguto, e quello di Sofolco, e meser Gianni d'Arsi, signori di gran valore con molta altra buona gente d'arme, e con danari assai e con XIIm sacca di lana de lo re, istimandosi tra moneta e·lle lane DCm di fiorini d'oro e più; e arrivaro alla Suma in Fiandra all'entrante di novembre, e puosonsi all'isola di Gaggiante alla bocca del porto della Suma detto le Schiuse, e in sull'isola scesero parte di loro gente, e co' Fiamminghi che v'erano per lo conte di Fiandra, il quale ubidia il re di Francia, si combatterono; e al principio furono morti dell'Inghilesi ch'erano scesi non proveduti, e in sull'isola del Gaggiante era il fratello bastardo del conte di Fiandra con gente d'arme alla difesa. Sentendo ciò la gente dello stuolo, isceserne in grande abondanza, e quanti Fiamminghi vi trovarono misono a morte; e presono il fratello del conte, e tutta l'isola misono a fuoco e a fiamma. E poi la detta armata non potendo porre alle Schiuse, perché i Fiaminghi ubidiano il conte loro e·rre di Francia, sì n'andarono a Dordette inn-Olanda, e·llà scaricaro, e vennero in Brabante, e tennero parlamento colli allegati, e diedono ordine alla guerra. Sentendo papa Benedetto e' suoi cardinali la 'mpresa della sopradetta guerra, mandò due legati cardinali in Francia al re per mettere accordo da·llui a quello d'Inghilterra; e parlamentato co·llui assai a Parigi, n'andarono verso Inghilterra, e passarono il mare a dì XXVII di novembre; ma niente adoperaro. Lasceremo alquanto a dire di questa guerra, che assai tosto ce ne converrà dire maggiori cose, e torneremo a dire della nostra guerra col Mastino.
<B>LXXIII</B>
<I>Come la città di Brescia si rubellò a mesere Mastino, e·ssi diede alla nostra lega e altre castella.</I>
Nel detto anno, all'entrante di settembre, s'arrendé alla nostra lega il castello di Mestri e quello delli Orci e quello di Canneto in bresciana. E poi a dì VIII d'ottobre per trattato della detta lega i Bresciani ch'erano sotto la tirannia di meser Mastino, e parea loro male stare, e veggendo che meser Mastino era molto abassato di suo stato e di podere, e perdute le dette castella, sì levarono la città a romore e rubellarono la parte detta la città vecchia di Brescia. In Brescia era per capitano per meser Mastino uno meser Bonetto con D cavalieri tedeschi, il quale si ridusse in parte della città nuova di verso Verona, e mandò per soccorso a meser Mastino. E' cittadini con ordine fatta in quello medesimo dì che' Bresciani levarono la città a romore, certi gentili uomini de' più possenti di Brescia, i quali erano cortesemente istadichi a Verona, subitamente se ne partirono per diverse vie, e vennono a Brescia. Per la qual cosa i Bresciani veggendosi a quello punto, e temendo la venuta della forza di meser Mastino, sì mandarono per la nostra gente della lega; e di presente vi giunsono da MD cavalieri, com'era ordinato, e fu data loro la porta di San Gianni, ed entrarono nella città. E di presente misono fuoco nella porta di San Giustino per assalire nella città nuova la gente di mesere Mastino. Messere Bonetto e sua gente veggendosi a pericolo, dubitando di non esere sopresi dalla forza della nostra cavalleria ch'era nella città, si partì di Brescia per porta Torre Alta e andossene a Verona. E poi quelli della lega colla volontà e procaccio de' Fiorentini ciechi, che·sse ne feciono capo, fu data la signoria di Brescia a meser Azzo Visconti signore di Milano, che·nn'era grande quistione tra' Lombardi, che ciascuno di quelli signori la voleva. E certo i Fiorentini l'aveano a procacciare a messere Azzo, per amore che con Castruccio ci fu a sconfiggere ad Altopascio, e poi alle porte di Firenze. Messer Mastino veggendosi perduta Padova e presovi il fratello, e poi Brescia e più altre terre ch'elli tenea, come per noi è fatta menzione, e fallitoli e venuto meno suo tesoro, isbigottì molto, e mandò suoi ambasciadori a Vinegia per trattato di meser Alberto che v'era prigione, del mese di dicembre; e cercarono co' Viniziani certo accordo sanza saputa dell'altra lega. Onde i Fiorentini e gli altri allegati presono grande sospetto. I Viniziani si scusaro che·cciò che facieno era a onore della lega, e però i Viniziani volieno e dimandavano tali patti e sì larghi, che meser Mastino no·lli volle oservare; e ricominciossi la guerra più aspra che prima, che apresso, all'entrante di marzo, la nostra gente cavalcaro sul veronese sanza trovare alcuno contasto, e passarono il fiume dell'Alice, e guastarono XVI grosse ville con gran danno del paese.
<B>LXXIV</B>
<I>Di certe novità fatte in Firenze.</I>
Nel detto anno MCCCXXXVII, essendosi pacificati insieme la casa di Malatesti da Rimino, i Fiorentini elessono per loro capitano di guerra meser Malatesta il giovane, uomo assai valoroso, e venne in Firenze molto onorevolemente a dì XIII d'ottobre, tegnendo molto onorata vita, sanza prendere parte o setta alcuna nella città, o farsi bargello, però che·cci amava per comune; ma al suo tempo non si fece né oste né cavalcata sopra Lucca, però ch'al continovo i Fiorentini stavano inn-isperanza d'averla per trattati, che' Viniziani tenieno d'accordo con meser Alberto e con meser Mastino; la quale riuscì vana speranza per la dislealtà e tradimento de' Viniziani, come per lo inanzi faremo menzione. In questo anno, a dì VIII di gennaio, meser Benedetto Maccaioni di Lanfranchi ribello di Pisa avendo segretamente soldati in Firenze CCC soldati a cavallo subitamente cavalcò in Maremma e di dì e di notte, che·lli dovea esere dato Castiglione della Pescaia, e fulli data una porta; ma·lla gente della terra subitamente furono alle difese, e cacciarline fuori. Della detta cavalcata si dolfono molto i Pisani de' Fiorentini, ed ebbono gran paura di perdere Castiglione o Piombino. Il vero fu ch'alcuno de' reggenti di Firenze seppono il detto trattato, e diedonvi aiuto e favore; ma i priori non ne sentirono niente; ma per tema di peggio i Pisani ne furono più cortesi contro a' Fiorentini, che prima tutto dì cercavano gavillazioni in Pisa contro a' nostri mercatanti per abattere la nostra franchigia per indirette soffisme. In questo tempo, a l'entrante di febraio, i Fiorentini ebbono in guardia dal vescovo d'Arezzo ch'era degli Ubertini, la forte rocca del suo castello di Civitella e Castiglione degli Ubertini in Valdarno e pacificaro il vescovo e' suoi co' Tarlati d'Arezzo per fortificamento della signoria presa per li Fiorentini della città d'Arezzo. E fecesi legge e decreto in Firenze a dì XIIII di marzo che nullo cittadino comperasse castello alcuno alle frontiere del distretto di Firenze. E·cciò si fece perché quelli della casa de' Bardi per loro grande potenzia e ricchezza avieno in que' tempi comperati il castello di Vernia e quello di Mangone da meser Benuccio Salimbeni da Siena, e quello del Pozzo da Decomano da' conti, dubitando il popolo di Firenze non montassono ellino e gli altri grandi in potenzia e superbia per abassare il popolo, come feciono apresso non gran tempo, come si farà menzione. In quelli giorni s'aprese il fuoco nel popolo di San Brocolo nella casa alta de' Riccomanni presso alla Badia, e arse tutta di mezzogiorno di sopra la volta, non potendo esere difesa. E dopo l'uficio di meser Malatesta, e lui partito, quelli che reggeano Firenze, feciono venire sotto titolo di capitano di guerra, overo per bargello, meser Iacopo Gabrielli d'Agobbio, il quale entrò in uficio in calen di febraio MCCCXXXVIII, e stette II anni con grande balìa; il quale per la sua asprezza fece in Firenze e nel contado di sconce cose e albitrare sanza ordine di ragione, onde nacquero novitadi sconce di città, come inanzi faremo menzione.
<B>LXXV</B>
<I>Come nella città d'Orbivieto feciono popolo, e simile quella di Fabriano.</I>
Alla fine del detto anno MCCCXXXVII, dì XXIIII di marzo, la città d'Orbivieto si levò a romore e inn-arme per soperchio di quelli della casa di Monaldeschi, che tirannescamente la signoreggiavano; e feciono popolo, e cacciarne i detti Monaldeschi e' loro seguaci. E per simile modo si fece in que' dì popolo nella città di Fabriano nella Marca, e cacciarne i loro tiranni e potenti che signoreggiavano la terra.
<B>LXXVI</B>
<I>Come certa gente di Lucca furono sconfitti da' marchesi Malespini guelfi.</I>
L'anno MCCCXXXVIII, a dì XXVI di marzo, essendo cavalcati CC soldati a cavallo della città di Lucca e popolo a piè assai nella contrada di Lunigiana adosso a marchesi Malespini da Villafranca, da' detti marchesi e loro genti furono sconfitti e ricevettonvi gran danno di prigioni e di morti la gente di meser Mastino, secondo la quantità di gente ch'erano, che pochi ne tornarono in Lucca. Lasceremo alquanto delle novità di Firenze e di Toscana e d'altre parti, e torneremo a dire sopra la guerra da·nnoi a meser Mastino, che·nne cresce matera.
<B>LXXVII</B>
<I>Come la nostra oste di Lombardia andarono infino alle porte di Verona, e corsonvi il palio, ed ebbono Montecchio.</I>
Nel detto anno, rotto ogni trattato d'accordo da·nnoi e Viniziani con meser Mastino, la nostra gente intorno di IIIm cavalieri cavalcaro sopra la città di Verona a dì XVIII d'aprile, e per forza combattendo ebbono la terra di Soave presso a Verona, ch'era guernita per meser Mastino, e morìvi di sua gente più di CCCC uomini. E poi a dì XXI d'aprile si strinsono presso alle porte di Verona al gittare d'uno balestro, e' nostri capitani dell'oste, che tuttora v'avea uno cavaliere di nobili e uno popolano di maggiori di Firenze, e simile di Vinegia, per dispetto e vergogna di meser Mastino feciono correre uno palio di sciamito dinanzi alla porta di Verona, mandando bando che ciascuno di Verona che volesse potesse sicuramente venire di fuori a vedere il giuoco e correre il palio; ma pochi n'uscirono. E partitosi l'oste nostra da Verona, a dì III di maggio s'arrendé a·lloro il grande e forte castello di Montecchio, il quale è·lla chiave tra Verona e Vincenza; e quello fornito di vettuaglia e di gente d'arme, la nostra oste si tornò al castello di Lungara, il quale era a quelle frontiere ben disposto a·ffare guerra al Mastino. E nota, lettore, come adopera la fortuna nel secolo, e maggiormente ne' processi delle guerre, che poco tempo dinanzi messere Mastino ch'era in tanto stato e signoria, che signoreggiava Verona, Padova, Trevigi, Vincenza, Parma, Lucca, e·lla città di Feltro, e Civita Belluna, e molti grandi e forti castelli, e avea gran tesoro ragunato, e a' suoi soldi al continovo tenea più di Vm cavalieri tedeschi alle spese delle dette otto città; ed era un grande e possente tiranno, il maggiore di tutta Italia o che fosse stato intra C anni; e poco dinanzi minacciati avea i Fiorentini di venirli a vedere infino alle porte di Firenze con Vm barbute di ferro, e fatta fare una ricchissima corona d'oro e di pietre preziose per coronarsi re di Toscana e di Lombardia; e poi intendea d'andare nel regno di Puglia e torlo per forza d'arme al re Ruberto; e sarebbegli venuto fatto, se non fosse il giudicio di Dio per aumiliare la sua superbia, e·lla potenza del Comune di Firenze e di quello di Vinegia, che ripugnaro e recaro a poca potenza e basso stato co·lloro operazione e danari, per lo modo che leggendo avete inteso; e ancora, come intenderete, il recarono a maggiore stremità, che convenne che 'ngaggiasse a usura la sua corona e tutti i suoi gioelli per avere danari per resistere alla sua guerra; però che per guardare le sue terre e tenute gli convenia in ciascuna mettere grossamente, salvo che di Lucca e di Verona, tiranneggiandole con grandi torzioni traeva alcuna cosa. E però nullo signore o tiranno o Comune si può fidare nella sua potenza, imperò ch'ogni potenza umana è vana e fallace. E·ll'onnipotente Iddio Sabaot dà vinto e perduto a·ccui gli piace secondo i meriti e i peccati. Lasceremo alquanto della guerra da·nnoi a meser Mastino per dire d'altre novità ocorse inn-Italia e oltremonti in questi tempi.
<B>LXXVIII</B>
<I>Come il duca di' Brabante co' suoi allegati fece grande oste sopra il vescovo di Legge, e fer pace.</I>
Nel detto anno MCCCXXXVIII, a dì VIIII d'aprile, il duca di Brabante cogli altri allegati e giurati contro al re di Francia, e col figliuolo del Bavero, con VIIIm cavalieri e più di LXm pedoni brabanzoni e d'intorno al paese, quali tutti armati a corazze e barbute come cavalieri, andarono sopra il vescovo di Legge per la quistione che 'l duca avea co·llui per la terra di Mallina; e maggiormente perché il detto vescovo era in collega col re di Francia, per levarsi di mezzo loro paese, e i·rre di Francia non avesse podere e non potesse fare risistenza alla impresa loro della guerra incominciata. Il vescovo veggendosi sì sùbito assalire da tanta potenza, ed egli male proveduto al riparo della detta oste, e da·rre di Francia non avuto soccorso, s'accordò col duca e colli altri allegati, siccome seppono divisare, giurando loro di non essere più di collega col re di Francia.
<B>LXXIX</B>
<I>D'una grande armata che il re Ruberto mandò sopra l'isola di Cicilia con poco aquisto.</I>
Nel detto anno, sentendo il re Ruberto che·ll'isola di Cicilia era in mala disposizione per lo nuovo re Pietro, e per la rubellazione del conte Francesco di Ventimiglia e di suoi seguaci, ordinò una grande armata per passare in Cicilia; e partissi la detta armata di Napoli a dì V di maggio con LXX tra galee e uscieri, con MCC cavalieri, e di là arrivaro dì VII di maggio nella contrada di Tremole, ed ebbono di presente tre castella d'ivi intorno, e puosonsi ad assedio a Tremole. E poi a dì X di giugno si partì di Napoli la seconda armata con maggior navilio, con gran gente di baroni del Regno e Provenzali, onde furono capitani Carlo il duca di Durazzo nipote del re figliuolo di suo fratello, messer Gianni, e 'l conte Novello di quelli dal Balzo; e puosonsi al detto asedio di Tremole, ed ebbollo a patti all'uscita d'agosto, salvo la rocca, dopo molte battaglie date e fracasso di difici, e arsono la terra tutta. E rubellossi al re Piero il conte Ruggieri da Lentino con tutte le sue castella, ch'era uno de' maggiori baroni dell'isola e di discendenti de' principali baroni che rubellarono l'isola al re Carlo primo: e così si rivolge il secolo. La detta armata per infermità si partì e tornaro a Napoli con poco aquisto od onore; ch'essendo più di IImD cavalieri, potieno cavalcare tutta l'isola sanza contasto, ed e' non si mossono mai da Tremole, onde infracidò l'oste; e corrotta, ingenerò pestilenza d'infermità e di mortalità.
<B>LXXX</B>
<I>Come molte città del regno di Puglia ebbono discordia e divisione tra loro cittadini.</I>
Nel detto anno si cominciò nel regno di Puglia, che signoreggiava il re Ruberto, una grande discordia e maladizione nella città di Sermona, e in quella dell'Aquila, e in Gaeta, e in Salerno, e in Barletta, che in ciascuna delle dette terre si criò parte, e combattendosi insieme; e·ll'una parte cacciò l'altra, e guastarsi quasi le dette terre, e d'intorno a quelle; e il paese per cagione delle dette discordie tutto s'empié di malandrini e di ladroni, rubando per tutto; e a queste discordie tenieno mano molti baroni del Regno, chi coll'una parte e chi coll'altra. E·lla maggiore fu quella di Barletta, e che più durò e con maggiori battaglie. Dell'una parte era capo casa Marra, e co·lloro il conte di Sanseverino e tutti i suoi seguaci; dell'altra la casa di Gatti, e co·lloro il conte di Minerbino, chiamato il Paladino, e co' suoi seguaci, i quali feciono molto di male, e guastando la terra di Barletta e tutto il paese d'intorno. Delle quali discordie il re ne fu molto ripreso, e dovea esere a tanto savio signore come era, e di senno naturale e di scienzie; e per propia avarizia delle pene e composizioni di misfatti di suoi sudditi sofferia il guastamento del suo regno, possendolo correggere e salvare con alquanta giustizia. E niente si ricordava delle parole del savio re Salamone: "Diligite iustitiam, qui iudicatis terram". Bene che poi che·lle dette terre furono ben guaste, il re vi mandò le sue forze assediando Minerbino e 'l conte; e' suoi fratelli vennono a Napoli alla misericordia del re, e tutti i loro beni piubicati alla corona, e venduti e barattati, ed ellino prigioni a Napoli; e furono diserti con male fine e disfatti. Questi conti di Minerbino furo stratti di vile nascimento, che furono figliuoli d'uno figliuolo di meser Gianni Pipino, il quale fu nato d'uno piccolo e vile notaiuolo di Barletta; ma per sua industria fu molto grande al tempo del re Carlo secondo, e guidava tutto il regno, guadagnando d'ogni cosa, e arricchì per modo che lasciò i suoi figliuoli conti; i quali poi per loro superbia e stracotanza, com'è detto, vennero tosto a mal fine. E nota che rade volte i sùbiti avenimenti di grande stato hanno tosto dolorosa fine, e 'l male aquistato non passa le più volte terza reda; e così avenne di costoro. Lasceremo de' fatti del Regno e di Cicilia, e diremo alquanto de' fatti di Firenze stati nel detto anno.
<B>LXXXI</B>
<I>Come i Colligiani si diedono al Comune di Firenze, e di novitadi di Firenze nel detto anno.</I>
Nel detto anno MCCCXXXVIII, il dì di san Giovanni di giugno, cavalcando IIII bandiere da cento a·ccavallo di nostri soldati verso Buggiano per levare preda, messo loro aguato, furo sconfitti, e presi due conestaboli e·lla maggiore parte di loro gente. E nel detto anno, a dì XII di luglio, essendo i Colligiani in grande divisione tra·lloro, e per guastarsi la terra e cacciarne parte, di concordia diedono la signoria della terra e·lloro distretto alla guardia del Comune di Firenze per XV anni, chiamando al continovo podestà e capitano cittadini di Firenze, e·lla guardia della rocca a·lloro spese; e così s'aquetaro le loro discordie sotto il bastone del Comune e popolo di Firenze, rimanendo in pace e buono stato. E nel detto anno, a dì XV di dicembre, s'aprese il fuoco Oltrarno in via Quattro Paoni, e arsonvi II case. E poi a dì VII di febraio di mezzodì s'aprese il fuoco da casa i Cerretani dalla porta del vescovo, e arse il loro palagio con più di X case dall'una via e dall'altra con grande dannaggio, sanza potersi difendere. E nota che apunto in cinquanta anni s'aprese il fuoco e arse il detto palagio de' Cerretani, come in questa adietro si troverrà, che·ffu grande maladizione a quella schiatta non sanza cagione.
<B>LXXXII</B>
<I>Ancora della guerra da·nnoi a mesere Mastino.</I>
Nel detto anno MCCCXXXVIII, tornata l'oste nostra e de' Viniziani al castello di Lungara, come adietro facemmo menzione, messere Mastino con suo sforzo venne ad oste sopra il castello di Montecchio per raquistarlo, non sentendolo ben fornito per la sùbita ribellazione, e perché dubitava, tegnendosi Montecchio per la nostra gente, di perdere la città di Vincenza. La nostra gente, ch'era a Lungara, per soccorrere Montecchio e fornirlo si partiro di Lungara, IIm cavalieri e popolo e fornimento assai, a dì XV di giugno, e vegnendo colle schiere fatte per combattere con meser Mastino e colla sua gente, ch'era con MCC cavalieri, non attese la nostra gente e non volle venire alla battaglia, ma si levò da·ccampo con danno e con vergogna da quelli del castello, per la sùbita levata inanzi che·lla nostra gente vi s'apresasse, lasciando tutto il campo fornito; giugnendovi poi la nostra gente, forniro Montecchio riccamente. Come meser Mastino si partì colla sua gente da Montecchio, se ne venne diritto a Lungara a dì XVII di giugno, credendola avere per battaglia, avisandosi ch'ella fosse sguernita per la cavalcata fatta a Montecchio per li nostri. Ma dentro v'erano rimasi alla guardia D cavalieri de' nostri e de' Viniziani, i quali difesono la terra con danno d'alquanti di quelli di meser Mastino. E partito da Lungara, e·llui tornato a Verona con poco onore, rimandò parte della cavalleria che gli era rimasa alla guardia e guernigione delle sue terre, e con poca gente a cavallo si ritenne in Verona. E poi CCC cavalieri de' nostri da Lungara cavalcarono infino a Verona alle porte sanza alcuno contasto, sì era asottigliata la potenzia del Mastino. E in questi tempi, a dì XVIIII d'agosto, s'arrendé a' Padovani il castello di Monselici, salvo la rocca, la qual poi per difetto di vittuaglia s'arrendé a dì XXV di novembre apresso, salve le persone. E a dì XXVIIII di settembre del detto anno, avendo meser Mastino uno falso trattato d'eserli dato il castello di Montagnana, menato per Spinetta marchese e per due suoi famigliari, ch'erano al soldo nostro a Montagnana, i quali lo scopersono a meser Ubertino da Carrara, ed elli notificandolo alla nostra oste di Lungara che stessono aparecchiati al socorso di Montagnana, messer Mastino seguendo il suo trattato vi fece cavalcare Spinetta marchese con Vc cavalieri e MD pedoni. La nostra gente, ch'avieno ordinato lo 'nganno del trattato, in quantità di D cavalieri si partirono dal nostro campo di Lungara, e andarono di sùbito a Montagnana, e simile CC di quelli di Padova. Vegnendo la detta gente di meser Mastino a Montagnana, per aguato fatto per li nostri gli asalirono e missogli inn-isconfitta; ove rimasono annegati e morti ben CCC tra cavallo e a piè, e presi XXII conestaboli tra·ccavallo e a piè, e de' migliori Italiani da XII che meser Mastino avesse a suo soldo, di quelli da Coreggia, e di quelli da Fogliano, e altri Lombardi e gentili uomini co·lloro e gente a cavallo e a piè presi assai, onde fu gran rotta allo stato di meser Mastino, nel suo dichinamento. Lasceremo alquanto de' fatti della guerra da·nnoi al Mastino, che tosto vi torneremo a darvi fine, e torneremo alquanto adietro a dire della 'mpresa della guerra dal re di Francia a quello d'Inghilterra e suoi allegati e Fiamminghi.
<B>LXXXIII</B>
<I>Come i Fiamminghi cacciaro il loro conte, e rubellarsi al re di Francia.</I>
Essendo la contea di Fiandra in grande bollimento per la guerra cominciata dal re di Francia a·rre d'Inghilterra, e il duca di Brabante e gli altri allegati, che parte di Fiaminghi sarebbono stati contenti di rubellarsi al conte di Fiandra e al re di Francia, e parte ne tenieno col conte; per la qual cosa più discordie ebbono col conte loro signore, perché tenea col re di Francia, e cacciarlo di Fiandra alcuna volta alla cortese a modo di confini, e poi rimandavano per lui, come popolo ch'era in bacillare e in non fermo stato. Alla fine si levò in Guanto uno di vile mestiere, che facea e vendea il melichino, cioè cervogia fatta con mele, ch'avea nome Giacopo d'Artivello, e fecesi mastro della Comuna di Guanto. E questo fu l'anno MCCCXXXVII; e per suo bello parlare e franchezza montò in brieve tempo in tanto stato e signoria col favore della Comune di Guanto, che cacciò di Fiandra al tutto il conte e tutti i suoi seguaci, e così di Guanto e di Bruggia e d'Ipro e delle altre ville di Fiandra ch'amavano il conte; imperò che chiunque facea resistenza si partia di Guanto con VIm o più della Comuna, e venia contro a que' cotali, a combatterli e cacciarli; e così in poco tempo fu al tutto signore di Fiandra. Ben si disse di vero che 'l vescovo di Niccola, ch'era in Brabante per lo re d'Inghilterra, col favore e consiglio di Brabanzoni e con molti danari di quelli del re d'Inghilterra spesi in Fiandra fece fare tutta quella rivoltura; onde poi apresso seguì grande favore al re d'Inghilterra, come inanzi leggendo si troverrà.
<B>LXXXIV</B>
<I>Come 'l re d'Inghilterra passò in Brabante.</I>
Essendo Fiandra quasi rubellata al re di Francia e al conte, come detto avemo, lo re Aduardo il giovane giunse ad Anguersa in Brabante con più di CCC navi e con molta baronia e gente d'arme di suo paese, e con molta lana e danari, e colla moglie e due sue figliuole; e·cciò fu a dì XXII di luglio gli anni MCCCXXXVIII, e in Anguersa fece sua stanza ferma infino all'uscita di settembre, bene che in questa stanza andasse colli allegati a più parlamenti a più ville del paese, intra·lli altri nella contea di Los a' confini d'Alamagna colli ambasciadori del Bavero. E in quello parlamento si piuvicò con privilegi imperiali il re d'Inghilterra essere vicaro dello 'mperio, salvo in Italia; e poi ne venne a Borsella, e·llà fermò parentado col duca di Brabante; ciò fu la figliuola del duca al figliuolo maggiore del re d'Inghilterra. E allora il duca da capo giurò la lega e d'esere contro al re di Francia, e mandolli rinuziando ogni omaggio tenea da·llui nel reame di Francia, e mandollo sfidando infino a Parigi per uno franco e ardito cavaliere brabanzone, e bene parlante; e fornì bene la bisogna.
<B>LXXXV</B>
<I>Come il re d'Inghilterra e' suoi allegati vennero ad oste in su il reame di Francia.</I>
E·cciò fatto, si mosse il re d'Inghilterra e il duca di Brabante da Borsella co·lloro oste, e andarne a Valenzina inn-Analdo; e ivi siccome vicario d'imperio fece richiedere il vescovo di Cambrai che dovesse rendere la città di Cambrai, ch'era dello imperio, il quale non vi comparì. Per la qual cosa, a dì XX di settembre, di Valenzina si mosse inanzi meser Gianni d'Analdo zio del conte con IIm cavalieri tra d'Analdo e Alamanni al soldo, e il sire di Falcamonte con D cavalieri, e puosonsi dinanzi alla città di Cambrai alla villa d'Apre. E bene che Cambrai sia terra d'imperio e tenela l'arcivescovo, il re di Francia l'avea guernita di sua gente, che v'era dentro il conestabole di Francia con IIIm armadure. Il re d'Inghilterra venne alla detta oste con sua gente con IImD cavalieri tra Inghilesi e altri suoi amici. Il duca di Brabante con IIIIm cavalieri, tra di Brabante e di Legge e Alamanni a soldo, e popolo di Brabante e d'Analdo per comune, grandissima quantità; e vennevi il conte, overo duca, di Ghelleri, per simile modo con IIm cavalieri, e quello di Giulieri con MD cavalieri. Tutta questa gente e·lla maggiore parte furono a' gaggi o provisione del re d'Inghilterra. Vennevi il marchese di Brandiborgo figliuolo del Bavero con CC armadure sanza soldo; e più di MD cavalieri tedeschi il seguiro di volontà non richesti; sicché l'oste degli allegati fu più di XIIIIm di cavalieri e più di LXm a piè, armati a corazze e barbute la maggior parte; e di costa a Cambrai stette l'oste da VIIII giorni, e corsono infino a Doai guastando e rubando. E il sire di Falcamonte corse infino a Bapalma e a Ros in Vermandos, però che·rre di Francia era ancora a Compigno. E poi si partì di là la detta oste, e puosonsi al monte Sammartino presso a San Quentino a due leghe; poi a dì XIIII d'ottobre mutarono campo e passarono il fiume dell'Osa, e mutaro su per la riviera tre campi; e poi puosono campo a tre leghe presso alla Cina in Francia. E poi sentendo la venuta del re di Francia, si ritrassono adietro alla Capella, e poi vennero alla Samingheria in Tiracia. E di questi campi corsono infino presso appiè da·lLaona e d'Ares in Francia, faccendo infinito danno di ruberie e d'arsioni, però che 'l detto paese è molto pieno di ricche e buone ville e d'assai. E dal tempo che' Romani si partirono del paese, anticamente quando il signoreggiarono, non aveano sentito che guerra si fosse.
<B>LXXXVI</B>
<I>Come il re di Francia con sua oste venne contro al re d'Inghilterra.</I>
Il re di Francia sentendo come il re Aduardo avea passato in Brabante, e il grande aparecchio del detto re che gli altri allegati ch'avieno fatto a Cambrai, incontanente si provide. E prima avendo richiesti tutti suoi baroni del reame, e il re di Navarra, suo cugino, e il re Giovanni di Buemia, e 'l conte di Savoia, e 'l Dalfino di Vienna, e ciascuno gli venne in aiuto con gente d'arme assai a·ccavallo e a piè. E sentendo ch'erano entrati nel reame i nimici, si partì di Parigi subitamente, però che non avisava che' suoi nimici fossono arditi d'entrare in su·reame: e in questo prese fallo. E sanza attendere tutta sua oste, venne di presente a Compigno, e poi di là venne a Perona in Vermandos. E·llà si trovò tra della gente di suo reame e degli altri detti signori e amici con XXVm di buona gente d'arme a cavallo e popolo a piè infinito, e partissi da Perona, e puosesi a campo di costa al fiume dell'Osa, a petto all'oste di quello d'Inghilterra a una lega e mezzo, essendo intra·lle dette osti la riviera d'Osa; e così stettono afrontati più dì.
<B>LXXXVII</B>
<I>Come l'oste del re di Francia e di quello d'Inghilterra s'affrontaro, e poi si partiro da·ccampo sanza combattere.</I>
Essendo i detti II eserciti così di presso, ch'erano tanta gente, e cavalli, e somieri, e carreggio, che·lla minore oste teneva più d'una e mezza lega, comprendendo tutto il paese, lo re d'Inghilterra e' suoi allegati richiesono di battaglia il re di Francia, però che·lla stanza non facea più per loro, perch'avieno guasto e rubato tutto il paese, e·lla vittuaglia venia alla loro oste molto dalla lunge e con iscorta, e in que' giorni valse il pane uno grosso tornese d'argento in quella oste. Lo re di Francia accettò la battaglia, e prese il gaggio; e 'l sabato, a dì XXIII d'ottobre MCCCXXXVIII, era la giornata. E ciascuna oste s'armò e schierò. E·rre d'Inghilterra venne con sua gente schierato nel luogo ordinato, e stette in sul campo infino a vespro. Il re di Francia e sua oste s'armò, ma però non si mosse con sua gente del campo, ma con inganno e maestria di guerra si credette vincere i nimici. E mandando a uno passo di riviera, onde all'oste del re d'Inghilterra venia la vittuaglia, da IIIm cavalieri e sergenti a piè e balestrieri assai per impedire il detto passo. Ma il re d'Inghilterra e' suoi allegati prima s'erano di ciò proveduti, e guernito il detto passo; ma veggendosi inn-istremo luogo per la vittuaglia, e·cche il re di Francia non venia a battaglia, trombato e ritrombato, e poi si partirono del campo schierati, e andarsene ad Avenes in Tiraccia, e poi a Mabrugam inn-Analdo, e di là n'andarono a Borsella. E là fatto loro parlamento, ordinarono d'essere colle loro forze tornati in Brabante a primo tempo. E diedono congio a tutti gli Alamanni, i quali n'andarono tutti ricchi tra di gaggi del re d'Inghilterra, e·lle ruberie fatte sopra i Franceschi. Lo re di Francia si tornò sano e salvo, ma con poco onore, a Parigi. E per simile modo diè congio alle sue genti, e che fossono tornati a primo tempo. Avemo fatto sì lungo conto delle dette osti sanza battaglia, imperò che·ggià è lungo tempo non si asembrò tanta baronia di presso per combattere, quanto fu quella: che·ssi può dire di vero, che fosse il fiore e·lla forza della cavalleria di Cristiani. E di certo fu grazia e opera di Dio, bene che si puose in viltà del re di Francia e di Franceschi che battaglia non vi fu tra·lloro, né si spargesse tanto sangue cristiano. E·llo re Ruberto suo zio infino da Napoli al continovo per lettere e messaggi confortava il re di Francia che per lo migliore non si mettesse alla battaglia con Bramanzoni, e Tedeschi, e Fiamminghi, gente disperata e crudele, e per alcuno si disse che 'l re di Francia dubitò di tradimento, e però non si mise a battaglia; ma quale si fosse, provide il migliore e il più sicuro per lui. Lasceremo alquanto della guerra de' detti II re, ch'assai tosto apresso ci converrà raccontare come feciono altressì grande assembramento o maggiore, e torneremo a nostra matera a dire degli avenimenti e fine della nostra guerra col Mastino, e dell'altre novità di Firenze e d'Italia e d'altri paesi in questi tempi.
<B>LXXXVIII</B>
<I>Del male stato ch'ebbono la compagnia de' Bardi e quella de' Peruzzi per la detta guerra, e tutta la nostra città di Firenze.</I>
Nel tempo ch'era la detta guerra da·rre di Francia con quello d'Inghilterra sì erano mercatanti del re d'Inghilterra la compagnia di Bardi e quella di Peruzzi di Firenze, e a·lloro mani venia tutte sue rendite, e·llane e cose; ed ellino forniano tutte le sue spesarie, gaggi, e bisogne; e sopramontarono tanto le spese e bisogne del re, oltre alle rendite e cose ricevute per lui, che i Bardi si trovarono a ricevere da·rre, tornato dell'oste detta, tra di capitale e provisioni e riguardi fatti loro per lo re più di CLXXXm di marchi di sterlini; e' Peruzzi più di CXXXVm di marchi, e ogni marco valea fiorini IIII e terzo d'oro, che montarono più di MCCCLXVm fiorini d'oro, che valeano un reame. Ben avea in questa somma assai quantità di provisioni fatte a·lloro per lo detto re per li tempi passati; ma come che si fosse, fu la loro gran follia per covidigia di guadagno o per raquistare il loro follemente prestato mettere così di grosso il loro e l'altrui inn-uno signore. E nota che i detti danari non erano la maggiore parte delle dette compagnie, anzi gli aveano inn-accomanda e in diposito di più cittadini e forestieri. E di ciò fu il grande pericolo a·lloro e alla nostra città, poco apresso come si troverrà leggendo. E·cche n'avenne che per cagione di ciò non potendo rispondere a cui dovieno dare in Inghilterra, e in Firenze, e in altre parti dove avieno a·ffare, e del tutto perderono la credenza, e fallirono di pagare, ispezialmente i Peruzzi, con tutto che non si cessassono per le loro grandi posessioni ch'avieno in Firenze e nel contado, e per loro grande potenzia e stato ch'avieno in Comune. Ma per questa difalta e per le spese del Comune in Lombardia molto mancò la potenzia e stato di mercatanti di Firenze; e però di tutto il Comune e·lla mercatantia e ogni arte n'abassò, e vennero in pessimo stato, come inanzi si farà menzione; però che fallite le dette due colonne, che per la loro potenzia, quando erano in buono stato, condivano colli loro traffichi gran parte del traffico della mercatantia di Cristiani, ed erano quasi uno alimento, onde ogn'altro mercatante ne fu sospetto e male creduto. E per le dette cagioni e per altre, come si dirà tosto, la nostra città di Firenze ricevette gran crollo e male stato universale non guari tempo apresso. E per agiunta del male stato delle dette compagnie il re di Francia faccendo pigliare in Parigi e per tutto il reame i loro compagni e cose e mercatantie, e di più Fiorentini per la detta cagione, e per li molti danari che 'l Comune avea presi per forza in presto da' cittadini e spesi nella 'mpresa di Lombardia e di Lucca, onde poi de' rimbalzi e del mancamento della credenza più altre minori compagnie di Firenze poco tempo apresso ne fallirono, come inanzi si farà menzione. Lasceremo di questa matera, e torneremo a seguire il trattato della guerra con messere Mastino.
<B>LXXXIX</B>
<I>Come la nostra gente e de' Viniziani entrarono ne' borghi di Vincenza.</I>
Tornando a nostra matera della guerra da·nnoi a mesere Mastino, le cui forze erano molto afiebolite, avenne che a dì XVI d'ottobre MCCCXXXVIII, sentendo meser Mastino che·lla città di Vincenza era molto stretta e stava male, sì mandava per loro soccorso e conforto CL cavalieri, i quali passando, dalla gente nostra ch'era in Montecchio furono assaliti e sconfitti, e presi cinque conestaboli e·lla maggiore parte di quelle masnade. E di presente, come era stato trattato, la nostra oste e cavalleria entraro ne' tre borghi di Vincenza a dì XVIII d'ottobre del detto anno, e quasi tutta la terra aveno, se non la parte ch'era col castello; e quello poco tempo sarebbe potuto tenere, avendo perduto ogni speranza di soccorso.
<B>XC</B>
<I>Come i Viniziani tradirono i Fiorentini e feciono pace con messer Mastino, e convennela fare al nostro Comune.</I>
Messer Mastino, veggendosi ch'era per perdere la città di Vincenza, e·sse quella fosse perduta, era assediato in Verona, fece segretamente trattare sua pace co' Viniziani sanza saputa de' Fiorentini, e spese per suoi ambasciadori grossamente in Vinegia a certi maggiorenti, ch'avieno stato e podere nel Comune, e rimissesi liberamente i·lloro, pregandoli che non volessono al tutto disfare; che·cciò faccendo, guastavano e abattevano parte d'imperio e ghibellina inn-Italia, i Viniziani sono per antico naturalmente stati. E per prendere loro vantaggio, col conforto di quelli cittadini che·nne guadagnavano, e ancora per priego de' Pisani e di quelli Ghibellini che teneano Lucca, per loro ambasciadori segreti e lettere con grande stanzia pregando i Viniziani per Dio e per amore di parte non assentissero che' Fiorentini avessero la città di Lucca, essi acordassono con meser Mastino. Per la qual cosa i Viniziani ingannarono e tradirono i Fiorentini e gli altri allegati, che avieno promesso e giurato di non far mai niuno acordo sanza la volontà di tutti gli allegati, e·cche i Fiorentini avessono libera la città di Lucca e 'l suo distretto; ma·cciò non oservarono, ma fecionsi l'accordo a·lloro volontà, e vollono ed ebbono la città di Trevigi a dì II di dicembre del detto anno, e Castello Franco e Basciano, e·cciò ch'era aquistato per la nostra gente e per la loro. E·cciò fatto mandarono loro ambasciadori a Firenze a dì XVIIII di dicembre, e diedono il partito a' Fiorentini in pieno consiglio, che·sse noi volessimo la pace ch'ellino avieno fatta con messere Mastino, che ci farebbono confermare per la detta pace a meser Mastino e al Comune di Lucca le terre e castella che·nnoi avavamo di quelle di Lucca; ciò erano Fucecchio, Castello Franco, Santa Croce, Santa Maria a Monte, Montetopoli in Valdarno, e Montecatini, e Montesommano, e Montevettolino, e·lla Massa e il Cozzile e Uzzano in Valle di Nievole, e Avillano, e Sovrano, e Castello Vecchio in Valle di Lima, arogendo loro per la detta pace faccendo il castello di Pescia e quello di Buggiano e loro tenitori, e Altopascio. E se·cciò non volessono prendere, e' s'aveano fatta la loro pace, e quella oserverebbono, o prendessino i Fiorentini il partito o non con messer Mastino. A' Fiorentini del detto partito parve troppo male, però che' Fiorentini si stimavano d'avere affare co' Viniziani come co·lloro medesimi, e·cche per loro fosse osservata leale compagnia, però che fermamente si credieno i Fiorentini avere Lucca secondo i patti giurati per li Viniziani, e gli altri Lombardi della lega dovieno avere Parma. Per lo detto partito più consigli segreti si tennono in Firenze, o di prendere o di lasciare la detta pace; e fuvi il pro e 'l contro: che molti cittadini per lo sdegno del tradimento de' Viniziani allegando ch'era pericolo della città fare pace col nimico tiranno, rimanendo vicino colla forza e riparo di Lucca, per dotta de' suoi tradimenti non s'accordavano alla detta pace; e ch'era meglio a rimanere co·llui inn-iscoperta guerra, e più sicuro partito. Altri consigliarono che, considerando i molti danari ispesi per lo Comune nella detta guerra, onde il Comune era indebitato a' suoi cittadini e altri di bene di CCCCLm di fiorini d'oro e più sopra le gabelle ed entrate del Comune, che·bbene per più di sei anni a venire erano asegnate, si prese per lo meno reo che·ssi mandassono solenni ambasciadori a Vinegia a pregare quello Comune che·cci oservassono i patti della lega giurati, o migliorassono i patti offerti a·lloro podere; o se meglio non potessono (e questo fu segreto commesso loro), che non si partissono da mercato per lo migliore del Comune nostro, acciò che per lo detto accordo il Comune prendesse lena e uscisse di debito, e avanzassonsi le dette castella, che sono nel cuore di Lucca, da potersi difendere e guerreggiare il tiranno se bisognasse. E questo partito si vinse a dì XI di gennaio. E andarono a Vinegia mesere Francesco di meser Pazzino de' Pazzi, e mesere Alesso de' Rinucci giudice, e Iacopo degli Alberti, e sindaco con pieno mandato. E in Vinegia istettono alquanti dì per prendere vantaggio co' Viniziani. Ma i perfidi, stratti del sangue d'Antenore traditore della sua patria di Troia, seguendo il loro pertinace proponimento non si vollono smuovere, se non ch'arrosono Asciano e 'l Colle, ch'era sopra Buggiano, i quali, avendo noi Buggiano, no poteno tenere. E così si fermò la sforzata e non volontaria pace in Vinegia tra 'l Comune di Vinegia e di Firenze con meser Mastino a dì XXIIII di gennaio MCCCXXXVIII. E uscì di prigione meser Alberto della Scala e gli altri ch'erano presi co·llui in Vinegia. E fu la pena di Cm fiorini d'oro per osservare la detta pace sanza altra malleveria, possendo i Guelfi ribelli di Lucca tornare in Lucca e riavere i beni loro, salvo XXX caporali stare a' confini. Per la qual pace pochi Guelfi s'asicurarono di tornare a Lucca. E poi tornati i nostri ambasciadori in Firenze, a dì VII di febraio del detto anno furono date le dette castella a' Fiorentini. E poi a dì XI di febraio si bandì la pace, ma però che nullo andasse a Lucca sanza licenzia. Notate, e sievi a perpetua memoria a voi Fiorentini che questo leggerete, il villano tradimento fatto al nostro Comune per li Viniziani, essendo per noi tanto adoperato e con tanto ispendio, il quale troviamo che·ffu in XXXI e mezzo mesi più di DCm di fiorini d'oro, sempre adoperandosi per lo nostro Comune con fede e fervore per farli grandi, e abattere la superbia del loro vicino nimico tiranno; e oltre a·cciò per agiunta al loro fallire, avendo ellino ad avere di resto dal nostro Comune alla fine della guerra intorno di XXVm di fiorini d'oro, e meno, faccendo ragione, per risidui delle paghe di cavalieri nostri e d'arnesi mandati nell'oste prestati per loro, perché talora indugiava alquanto d'andare la moneta a Vinegia per le nostre paghe, e' Viniziani n'adomandavano fiorini XXXVIm d'oro, avendo avanzato il quarto danaio di tutta la spesa fatta per loro nella detta guerra sopra i nostri e loro cavalieri e pedoni per gabelle gravi e imposte fatte per loro sopra·cciò ch'andava nell'oste; e non volieno isbattere la parte nostra del conquisto di Mestri e del ponte di Praga, ch'era e sono di grande entrata di passaggi; e volendo il nostro Comune contare co·lloro e pagarli di ciò, che restassono ad avere, e però vi mandarono ambasciadori e ragionieri, mai non ne vollono mostrare ragione, né commetterla inn-amici comuni fuori di Vinegia, se non "ego voleo, ego giubeo", cioè così vuole meser lo doge e il Comune di Vinegia. E sopra·cciò feciono rapresaglia sopra i Fiorentini con forti e aspre leggi, onde tutti i Fiorentini se ne partirono all'uscita di gennaio MCCCXXXVIIII. E simili leggi e più forti furono fatte per Fiorentini sopra i Viniziani, o sopra quale Fiorentino vi stesse o avesse a·ffare. Cotale fu la partita della disleale compagnia del Comune di Vinegia contro al nostro Comune di Firenze.
<B>XCI</B>
<I>Del podere ed entrata ch'avea il Comune di Firenze in questi tempi.</I>
Acciò che' nostri discendenti possano comprendere lo stato ch'avea il nostro Comune di Firenze in questi tempi, e come si fornì lo spendio della detta guerra del Mastino, la quale volea il mese il meno XXVm di fiorini d'oro ch'andavano a Vinegia, sanza le spese oportune che bisognavano di qua al nostro Comune, che·lle più volte sanza quelli di Lombardia avea a soldo M cavalieri, sanza la guardia delle terre e castella si teneno, in brieve il narreremo apresso del podere del nostro Comune, l'entrata e così l'uscita, e messioni del Comune, dall'anno MCCCXXXVI al MCCCXXXVIII, che durò la guerra da·nnoi e meser Mastino. Il Comune di Firenze in questi tempi signoreggiava la città d'Arezzo e 'l suo contado, e Pistoia e 'l suo contado, Colle di Valdelsa e·lla sua corte, e in ciascuna di queste terre avea fatto fare un castello, e tenea XVIIII castella murate del distretto e contado di Lucca, e del nostro contado e distretto XLVI castella forti e murate, sanza quelle de' propii cittadini, e più terre e villate sanza mura, ch'erano grandissima quantità.
<B>XCII</B>
<I>Entrata del Comune di Firenze.</I>
Il Comune di Firenze di sue rendite assise ha picciola entrata, come si potrà vedere, ma reggevasi in que' tempi per entrata di gabelle; e quando bisognava, come dicemmo adietro al cominciamento della guerra del Mastino, si civiva per prestanze e imposte a' mercatanti e ricchezze e altri singulari, assegnandole con guidardoni sopra le gabelle. E in questi tempi queste infrascritte erano le gabelle levate per noi diligentemente de' ligistri del Comune, che, come potrete vedere, montarono in questi tempi da CCCm di fiorini d'oro l'anno, talora più, talora meno, secondo i tempi; che sarebbe gran cosa a uno reame, e non n'ha più il re Ruberto d'entrata, né tanti d'assai quello di Cicilia né quello di Raona. Vendesi l'anno la gabella delle porti di mercatantie e vettuaglia e cose ch'entravano e uscieno della città fiorini LXXXXmCC; la gabella del vino si vendea a minuto, pagando il terzo, fiorini LVIIIImCCC. L'estimo de' contadini, pagando l'anno, soldi X per libra di loro estimo si vende fiorini XXXmC d'oro; la gabella del sale, vendendo a' cittadini, soldi XL di piccioli lo staio, e a' contadini soldi XX, vendesi fiorini XIIIImCCCCL d'oro. Queste IIII gabelle erano diputate alla spesa della guerra di Lombardia. I beni de' ribelli sbanditi e condannati valeano l'anno VIIm d'oro. La gabella sopra i prestatori a usura fiorini IIIm d'oro. I nobili del contado pagavano l'anno fiorini IIm d'oro. La gabella de' contratti l'anno fiorini XIm d'oro. La gabella del macello delle bestie della città fiorini XVm d'oro; quella del macello del contado fiorini IIIImCCCC d'oro. La gabella delle pigioni l'anno fiorini IIIImCL d'oro. La gabella della farina e macinatura fiorini IIIImCCL d'oro. La gabella di cittadini che vanno di fuori in signoria valea l'anno fiorini IIImD d'oro. La gabella dell'acuse e scuse fiorini MCCCC d'oro. Il guadagno della moneta dell'oro valea l'anno, pagate le fatture, fiorini IImCCC d'oro. L'entrata del guadagno della moneta di quattrini e di piccioli, pagato l'ovraggio, fiorini MD d'oro. I beni propi del Comune e passaggi fiorini MDC d'oro. I mercati di città delle bestie vive fiorini IImCL d'oro. La gabella di segnare pesi e misure e paci e beni in pagamento l'anno fiorini DC d'oro. La spazzatura d'Orto Sa·Michele e prestare bigonce fiorini DCCL d'oro. La gabella delle pigioni di contado fiorini DL d'oro. La gabella de' mercati di contado fiorini IIm d'oro. Le condannagioni che·ssi riscuotono si ragiona l'anno, e·lli più anni monta troppo più, fiorini XXm d'oro. L'entrata de' difetti de' soldati a cavallo e a·ppiè, non contando quelli ch'erano in Lombardia, fiorini VIIm d'oro. La gabella delli sporti delle case l'anno fiorini VmDL d'oro. La gabella delle trecche e trecconi fiorini CCCCL d'oro. La gabella del sodamento fiorini MCCC d'oro, cioè di portare arme di difensione, a soldi XX di piccioli per uno. L'entrata delle prigioni fiorini M d'oro. La gabella de' messi fiorini C d'oro. La gabella de' foderi del legname vien per Arno fiorini L d'oro. La gabella degli aprovatori de' sodamenti si fanno al Comune fiorini... d'oro. La gabella de' richiami a' consoli a dell'arti, la parte del Comune, fiorini... d'oro. La gabella sopra le posessioni del contado fiorini... d'oro. La gabella delle zuffe a man vote fiorini... d'oro. La gabella da Firenzuola fiorini... d'oro. La gabella di coloro che non hanno casa in Firenze, e vale il loro da fiorini M in su, fiorini... d'oro. La gabella delle mulina, entrata e pescaie, fiorini... d'oro. Somma da fiorini CCCm, e più. O signori Fiorentini, come è mala provedenza acrescere l'entrata del Comune della sustanza e povertà de' cittadini colle sforzate gabelle per fornire le folli imprese! Or non sapete voi che come è grande il mare è grande la tempesta, e come cresce l'entrata è aparecchiata la mala spesa? Temperate, carissimi, i disordinati disideri, e piacerete a·dDio, e non graverete il popolo innocente.
<B>XCIII</B>
<I>Ispese del Comune di Firenze in que' tempi.</I>
Le spese ferme e di nicessità del Comune di Firenze per anno, e valea libre III soldi II il fiorino dell'oro. Il salaro del podestà e di sua famiglia l'anno libre XVmCCXL piccioli. Il salaro del capitano del popolo e sua famiglia l'anno libre VmDCCCLXXX piccioli. Il salaro dell'eseguitore degli ordini della giustizia contro a grandi per sé e sua famiglia libre IIIImDCCC piccioli. Il salaro del conservadore del popolo e sopra gli sbanditi, con L cavalieri e C fanti, fiorini VIIImCCCC d'oro: questo uficio nonn-è stanziale, se non come occorrono i tempi di bisogno. Il giudice dell'appellagione sopra le ragioni del Comune libre MC di piccioli. L'uficiale sopra gli ornamenti delle donne e altri divieti libre M di piccioli. L'uficiale sopra la piazza d'Orto Sa·Michele della biada libre MCCC di piccioli. Li uficiali sopra la condotta de' soldati e notai e messi libre M di piccioli. Li uficiali e notai e messi sopra i difetti de' soldati libre CCL di piccioli. I camarlinghi della camera del Comune, e·lloro uficiali e massari, e·lloro notai e frati, che guardano gli atti del Comune, libre MCCCC di piccioli. Li uficiali sopra le rendite propie del Comune libre CC di piccioli. I soprastanti e guardie delle prigioni libre DCCC di piccioli. Le spese del mangiare e bere de' signori priori e di loro famiglia costa l'anno libre IIImDC di piccioli. I salari de' donzelli e servidori del Comune e campanai delle due torri, cioè quella de' priori e della podestà, libre DL di piccioli. Il capitano con LX berrovieri che stanno al servigio e guardia de' priori libre VmCC di piccioli. Il notaio forestiere sopra le riformagioni e suo compagno libre CCCCL di piccioli. Il cancelliere e dittatore delle lettere e suo compagno libre CCCCL piccioli. Per lo pasto de' lioni, e torchi, e candele, e panelli per li priori libre IImCCCC di piccioli. Il notaio che ligistra nel palagio de' priori i fatti del Comune libre C di piccioli. I messi che servono tutte le signorie, per loro salaro libre MD di piccioli. Trombadori e banditori del Comune, che sono i banditori VI e trombadori, naccheraio e sveglia, cenamelle e trombetta, X, tutti con trombe e trombette d'argento, per loro salaro l'anno libre M di piccioli. Per limosine a' religiosi e spedali l'anno libre IIm piccioli. Secento guardie che guardano di notte alle poste per la città libre XmDCCC di piccioli. Il palio di sciamito che·ssi corre l'anno per san Giovanni, e quelli di panno per santo Bernaba e santa Reparata costano l'anno fiorini C d'oro. Per ispie e messi che vanno fuori per lo Comune libre MCC di piccioli. Per ambasciadori che vanno per lo Comune stimati l'anno più di fiorini Vm d'oro. Per castellani e guardie di rocche si tengono per lo Comune fiorini IIIIm d'oro. Per fornire la camera dell'armi e balestra e saettamento e pavesi fiorini MD d'oro. Somma l'opportune ispese sanza i soldati a·ccavallo e a piè da fiorini XLm d'oro o più l'anno. A' soldati a·ccavallo e a piè non era né regola né numero fermo, ch'erano quando più e quando meno secondo i bisogni che occorrono al Comune. Ma al continovo si può ragionare, sanza quelli della guerra di Lombardia, e non faccendo oste, da DCC a M, e simile pedoni continui. E non facciamo conto delle spese delle mura e de' ponti, e di Santa Reparata, e di più altri lavori di Comune, che non si può mettere numero ordinato.
<B>XCIV</B>
<I>Ancora della grandezza e stato della città di Firenze.</I>
Dapoi ch'avemo detto dell'entrata e spesa del Comune nostro di Firenze in questi tempi, ne pare si convenga di fare menzione dello stato e condizione di quella, dell'altre grandi cose della città; perché i nostri successori che verranno per li tempi s'avegghino del montare o bassare di stato o potenzia che facesse la nostra città, acciò che per li savi e valenti cittadini, che per li tempi saranno al governo di quella, per lo nostro ricordo e asempro di questa cronica procurino d'avanzarla inn-istato e podere. Trovamo diligentemente che in questi tempi avea in Firenze circa a XXVm d'uomini da portare arme da XV in LXX anni, cittadini, intra' quali avea MD nobili e potenti che sodavano per grandi al Comune. Avea allora in Firenze da LXV cavalieri di corredo. Ben troviamo che anzi che fosse fatto il secondo popolo, che regge al presente, erano i cavalieri più di CCL, che poi che 'l popolo fu, i grandi non ebbono lo stato e signoria sì grande come prima, e però pochi si facieno cavalieri. Istimavasi avere in Firenze da LXXXX di bocche tra uomini e femmine e fanciulli, per l'aviso del pane bisognavano al continuo alla città, come si potrà comprendere apresso; ragionandosi avere comunemente nella città da MD uomini forestieri, e viandanti e soldati, non contando nella somma di cittadini riligiosi e frati e religiose e rinchiuse, onde faremo menzione apresso. Ragionasi in questi tempi avere nel contado e distretto di Firenze da LXXXm uomini. Trovamo dal piovano che battezzava i fanciulli (imperò che per ogni maschio che battezzava in San Giovanni, per avere il novero, mettea una fava nera, e per ogni femmina una bianca) trovò ch'erano l'anno in questi tempi dalle VmD in VIm, avanzando le più volte il sesso mascolino da CCC in D per anno. Trovamo che' fanciulli e fanciulle che stavano a leggere del continuo da VIIIm in Xm. I garzoni che stavano ad aprendere l'abbaco e algorisimo in VI scuole da M in MCC. E quelli che stavano ad aprendere gramatica e loica in IIII grandi scuole da DL in DC. Le chiese ch'erano allora in Firenze e ne' soborghi, contando le badie e·lle chiese de' frati e religiosi, trovamo CX, delle quali erano LVII paroccie con popolo, V badie con due priori con da LXXX monaci, XXIIII monisteri di monache con da D donne, X regole di frati con più di DCC frati, XXX spedali con più di mille letta per albergare poveri e infermi, e da CCL in CCC cappellani preti. Le botteghe dell'arte della lana erano CC e più, e faceano da LXXm in LXXXm di panni, di valuta di più di MCC migliaia di fiorini d'oro; che bene il terzo e più rimaneva nella terra per overaggio, sanza il guadagno de' lanaiuoli; del detto ovraggio viveano più di XXXm persone. Ben trovamo che da XXX anni adietro erano CCC botteghe o circa, e faceano per anno più di Cm panni; ma erano più grossi della metà valuta, però ch'allora non ci venia né sapeano lavorare lana d'Inghilterra, com'hanno fatto poi. I fondachi dell'arte di Calimala di panni franceschi e oltramontani erano da XX, che faceano venire per anno più di Xm panni di valuta di più di CCCm di fiorini d'oro, che tutti si vendeano in Firenze sanza quelli che mandavano fuori. Banchi di cambiatori LXXX banchi. La moneta dell'oro battea per anno CCCLm di fiorini d'oro, talora CCCCm; e di danari da quattro più di XXm libre. Le botteghe di calzolai e zoccolai e pianellai erano da CCC. Il collegio di giudici da LXXX in C; e notari da DC; medici di fisica e di cirogia da LX; e botteghe di speziali allora da C. Mercatanti e merciai, grande numero, da non potere bene stimare per quelli ch'andavano fuori di Firenze a negoziare; e molti altri artefici di più mestieri, maestri di pietra e di legname. Fornora avea allora in Firenze CXLVI, e trovamo per la gabella della macinatura e per fornari ch'ogni dì bisognava alla città dentro CXL moggia di grano, onde si può stimare quello bisognava l'anno; non contando che·lla maggiore parte degli agiati e ricchi e nobili cittadini co·lloro famiglie più di IIII mesi, e tali più dell'anno, in villa in contado. Troviamo che intorno gli anni MCCLXXX ch'era la città in filice e buono stato, ne volea la settimana da DCCC moggia. Di vino trovamo per la gabella delle porte n'entrava l'anno da LVm di cogna, e inn abondanza talora più Xm cogna. Bisognava l'anno IIIIm tra buoi e vitelle; castroni, pecore LXm; capre e becchi XXm; porci XXXm. Entravano del mese di luglio per la porta a San Friano CCCC some di poponi per dì, che tutti si stribuivano nella cittade. In questi tempi avea in Firenze le 'nfrascritte signorie forestieri, che ciascuno tenea ragione, e aveano colla da tormentare, la podestà, il capitano del popolo, l'assecutore degli ordini della giustizia, il capitano della guardia, overo conservadore del popolo; tutte queste signorie avieno albitro di pulire reale e personale: il giudice della ragione e apellagione, il giudice sopra le gabelle, l'uficiale sopra la piazza e vittuaria, l'uficiale sopra gli ornamenti delle donne, quello della mercatantia, quello sopra l'arte della lana, gli uficiali ecresiastici, la corte del vescovo di Firenze e di quello di Fiesole, e dello inquisitore della eretica pravità. Altre degnità e magnificenza della nostra città di Firenze non sono da lasciare di mettere in memoria per dare aviso a quelli verranno dopo noi. Ell'era dentro bene albergata di molti belli palagi e case, e al continovo in questi tempi s'edificava, migliorando i lavori di farli agiati e ricchi, recando di fuori asempro d'ogni miglioramento e bellezza. Chiese cattedrali e di frati d'ogni regola, e monisteri magnifichi e ricchi; oltre a·cciò non era cittadino che non avesse posessione in contado, popolano o grande, che non avesse edificato od edificasse riccamente troppo maggiori edifici che in città; e ciascuno cittadino ci peccava in disordinate spese, onde erano tenuti matti. Ma·ssi magnifica cosa era a vedere, ch'uno forestiere non usato venendo di fuori, i più credeano per li ricchi difici d'intorno a tre miglia che tutto fosse della città al modo di Roma, sanza i ricchi palagi, torri e cortili, giardini murati più di lungi alla città, che inn-altre contrade sarebbono chiamati castella. In somma si stimava che intorno alla città VI miglia avea più d'abituri ricchi e nobili che recandoli insieme due Firenze non avrebbono tante: e basti assai avere detto de' fatti di Firenze.
<B>XCV</B>
<I>Di che progenia furono quelli della Scala di Verona.</I>
Ancora ne pare che·ssi convenga, dapoi ch'assai avemo detto de' fatti di Firenze, fare menzione del cominciamento di quelli della Scala di Verona, che tanto hanno fatta risonare Lombardia e Toscana di loro guerre e tirannie, come adietro è fatta menzione. Che pare che Idio permetta sovente di fare nascere di picciola progenia tiranni possenti per abattere l'orgoglio e superbia de' popoli e di nobili per li loro peccati. Troviamo che al tempo del grande tiranno Azzolino di Romano, onde adietro facemmo menzione, il quale disertò quasi tutti i noboli della Marca Trevigiana, di Padova e di Verona, intorno fa da LXXXX anni, in Verona avea un vile uomo, chiamato Giacomo Fico; chi dice che questo Giacomo faceva le scale e vendeale, e da questo prencipio presono l'arme e 'l nome, e chi dice che fu mercatante di Montagnana; questi ebbe due figliuoli Mastino e Alberto. Quello Mastino era grande e forte della persona e azuffatore e giucatore, ma pro', valoroso e savio nel suo mestiere. E alla prima fu capitano di ribaldi, seguendo Azzolino a piè nelle sue cavalcate. Poi per suo franco adoperare piacendo al tiranno, il fece capitano delle sue masnade a piè; poi gli venne in tanta grazia, che 'l fece quasi proveditore e dispensatore di tutte le sue masnade da·ccavallo e da·ppiè. E quando Azzolino fu morto, trovandosi in quello uficio col séguito di soldati si fece fare capitano di Verona, e poi si fece fare cavaliere sé e Alberto suo fratello, il quale fu savio, e valoroso, e da bene; e così per la fortuna montati inn-istato, che 'l Mastino era signore di Verona, e mesere Alberto podestà di Mantova, e il figliuolo del signore di Mantova mesere Botticella per mesere Mastino era podestà di Verona. Avenne che certi gentili uomini rimasi in Verona avendo inn-orrore e invidia della signoria e tirannia del Mastino, essendo di vile nascimento, e per forza e tirannia fatto loro signore, feciono congiura d'ucciderlo, e furono XXV; e ciascuno promise e giurò di fedirlo. E così aseguiro, che vegnendo un giorno al palagio del Comune sanz'arme a modo di signore, che non si prendea guardia, e giugnendo in sulla piazza, tutti i detti congiurati, colle coltella in mano ciascuno, il fedì e·ll'uccisono sanza contrario niuno, e nullo fu ardito di levarlo di terra. La podestà, meser Botticella, di presente il fece asapere a meser Alberto a Mantova, il quale tutta la notte apresso che l'ebbe saputo cavalcò segretamente, venne in Verona, ed entrò nel palagio, lasciando che tutta la cavalleria di Mantova il seguisse apresso; e così feciono. La podestà la mattina vegnente fece richiedere tutti i buoni uomini di Verona a consiglio, e quelli medesimi ch'avieno morto meser Mastino, propognendo che volea che·lla terra si rifermasse a reggimento comune e di popolo. E ragunato il consiglio, mesere Alberto uscì della camera disarmato e venne nel consiglio, e salì nella ringhiera, donde tutti quelli del consiglio s'amiraro. E meser Alberto con allegro viso cominciò disimulatamente a biasimare le tirannie e male opere del suo fratello, e lodava ciò che di lui era fatto, onde il consiglio erano tutti contenti; ma come seppe ch'erano venute le masnade da Mantova, com'era ordinato il tradimento per lui e per lo podestà, fece serrare il palagio e uscire fuori i fanti armati, e uccisono tutti coloro che aveano ucciso meser Mastino, e gittarli morti per le finestre del palazzo, e poi meser Alberto corse la terra e fecesene signore; e perseguì tutte le schiatte di coloro ch'avieno morto messere Mastino, e cacciolli di Verona. Questa fu la morte e vendetta del primo Mastino. Il detto meser Alberto ebbe più figliuoli, i quali fece tutti cavalieri essendo quasi garzoni. Rimasene dopo la sua morte tre in vita; messer Bartolomeo, questi regnò signore di Verona apresso al padre, non ebbe figliuolo. Il secondo fu meser Checchino, ch'anche regnò apresso. Il terzo fu messere Cane, che·ffu valente tiranno e signore da bene, di cui adietro facemmo menzione, e fu amico del nostro Comune; di costui non rimase figliuolo niuno madornale. Dopo lui regnarono i nipoti figliuoli di meser Checchino, ciò furono meser Alberto e messer Mastino, di cui lungamente avemo fatta menzione. E assai sia detto di quelli della Scala, tornando a nostra materia.
<B>XCVI</B>
<I>Come i Romani feciono pace intra·lloro e popolo, e mandarono a Firenze per avere leggi.</I>
Nel detto anno, in calen di novembre, i Romani per certe revelazioni di sante persone, e fu quasi spirazione divina, si convertirono a pace generale i noboli insieme e' popolani, dimettendo per l'amore d'Iddio l'offensioni l'uno all'altro, che·ffu una mirabile cosa. E poi l'agosto vegnente feciono popolo, e mandarono loro ambasciadori a Fiorenza a pregare il nostro Comune, che mandassono loro gli ordini della giustizia, che·ssono sopra i grandi e possenti in difensione de' popolani e meno possenti, e altri buoni ordini che·nnoi avemo. Il Comune di Firenze mandaro a Roma loro ambasciadori co' detti ordini, i quali da' Romani furono onoratamente ricevuti e graditi. E nota come si mutano le condizioni e·lli stati del secolo, che' Romani che anticamente feciono la città di Fiorenza e diedolle le loro leggi, in questi nostri tempi mandaro per le leggi a' Fiorentini.
<B>XCVII</B>
<I>Di più battaglie e sconfitte che furono in uno giorno in sul contado di Milano.</I>
Nel detto anno, essendo rimasi ne' borghi di Vincenzia gran parte delle masnade da cavallo state in Lombardia al nostro servigio e di Viniziani, com'è detto adietro, dapoi che·ffu fatta la pace col Mastino e pagati cortesemente per li nostri Comuni, sì feciono una compagna, e furono bene IImD cavalieri; e non si vollono partire da Vincenza, se non avessono moneta da meser Mastino. Messer Loderigo Visconti, consorto di meser Azzo Visconti signore di Milano e suo ribello, andò a Vincenza con sua moneta, e col favore e moneta di meser Mastino, il quale per levarsi delle sue terre la detta gente stati suoi aversari, e per mandarli adosso a meser Azzo suo nimico, fece conducere al detto meser Loderigo la detta compagna. E all'entrante del mese di febraio gli condusse in su il milanese passando il fiume dell'Adda; e sopra quello di Melano stettono XII dì faccendo gran danno di ruberie, ma non d'arsione. Alla fine s'accamparo alla villa di Lignano presso di Milano a XII miglia. Sappiendosi la novella in Milano, ebbono grande turbazione, e uscirono di Milano, popolo e cavalieri, a dì XV di febraio, con ordine di loro strolago, promettendo loro di vincere i nimici, ma male provide la dolorosa vittoria che a·lloro ne seguì, della quale oste fu capitano meser Luchino Visconti zio di messer Azzo, però che 'l detto meser Azzo era gravato di gotte, e furo da IIIm cavalieri e Xm pedoni. Ed essendo una parte della gente di Milano da M cavalieri e IIIm pedoni nella villa d'Aro, e di quella poi andaro alla villa di Parobico, la detta schiera, ond'era capitano Giovannuolo Visconti e messere Giovanni dal Fiesco, e più di XX gentili uomini di Brescia; il maliscalco dell'oste tedesco, messere Luchino coll'altra gente s'acamparo nella villa da Nervia. Sentendo ciò meser Loderigo, sabato notte, a dì XVIIII di febraio, in sull'ora del mattutino colla sua gente cavalcò alla detta villa di Parobico, e di notte assalì i nimici, i quali accampati di fresco, e non proveduti per l'asalto della notte, ella detta villa schiusa, furono sconfitti in poca d'ora, e mortine grande quantità, ispezialmente di pedoni per la notte, e morivvi meser Giovanni dal Fiesco di Genova capitano di quella gente, e più altri Lombardi e Tedeschi. La domenica mattina, a dì XX del mese, avendo messere Loderigo avuta la vittoria detta mandò di sua gente da DCC cavalieri verso Milano a uno passo di fiume per torlo a' Milanesi, i quali feciono grande danno al popolo che fuggieno a Milano per la detta sconfitta; e lasciò a Parobico CCCC cavalieri co' prigioni e colla preda, e poi col rimanente di sua oste, ch'erano MD cavalieri, si tenne schierato a·ccampo di fuori della villa uno miglio. Messere Luchino sentendo la notte l'assalto fatto alla sua gente a Parobico, uscì di Nerviano e fece due schiere, elli con MCCCC cavalieri tedeschi, ed Ettorre da Panago con DCC italiani, tra' quali avea CC cavalieri del Comune di Bologna al servigio di que' di Milano, e venia per soccorrere la sua gente, e trovolli sconfitti. Ettorre entrò in Parobico, ove avea i detti CCCC cavalieri di quelli di meser Loderigo che guardavano la preda, e quelli assalirono, e dopo lunga battaglia Ettorre gli sconfisse. Messer Luchino s'affrontò con meser Loderigo la domenica in sull'ora di terza, e·ffu tra·lloro aspra battaglia che durò infino a nona passata. Alla fine fu scavalcato e fedito messer Luchino e preso, e rotta la sua gente e messi in caccia. In quest'ora sopravennero alla battaglia detta Ettorre da Panago co' suoi Italiani, ch'avieno sconfitto i CCCC cavalieri che meser Loderigo avea lasciati in Parobico, e percossono sopra la gente di meser Loderigo, i quali credendosi avere vinto il campo erano sciarrati cacciando li sconfitti; per la qual cosa furono di presente rotti e sconfitti, e riscosso mesere Luchino e gli altri prima presi; e·ffu preso meser Loderigo e maggior parte di sua gente, e menati a Milano. E così fu rotta e morti e presi quasi tutta la detta infortunata compagna; che tornando meser Luchino verso Milano, per la via al sopradetto passo fu sconfitto Malerba tedesco capitano de' detti DCC cavalieri che meser Loderigo avea mandati al passo verso Milano. Ma·lle dette vittorie del signore di Milano furono con grande dannaggio di sua gente, che·vvi morirono più di D uomini di cavallo, e più di IIIm a piede del popolo di Milano. Avenne fatto sì lungo conto per le svariate battaglie e rotte che furono tra·lle dette genti; che in una giornata furono fatte V sconfitte tra dall'una parte e dall'altra, che non fu mai inn-Italia; e di questo sapemo il vero da più genti di fede che vi furono presenti. Lasceremo di questa matera e torneremo a nostro conto.
<B>XCVIII</B>
<I>Come messere Mastino venne a Lucca.</I>
L'anno MCCCXXXVIIII, fatta la pace da·nnoi a meser Mastino, come adietro facemmo menzione, messer Mastino venne a Parma, e riformò la terra, e fecesene signori i suoi cugini figliuoli di meser... da Coreggia, volendo elli tuttora eserne sovrano; ma poco apresso la tolsono al tutto a·llui, come inanzi faremo assai tosto menzione. Poi a dì XI d'aprile venne a Lucca, e fece a' Lucchesi una imposta di XXm fiorini d'oro, che·nn'avea gran bisogno. E poco stette in Lucca, che come l'ebbe riformata, vi lasciò per suo vicaro Guiglielmo Canaccio delli Scannabecchi di Bologna, antichi Ghibellini usciti di quella; e tornossi a Verona. Nella sua stanza a Lucca in Firenze n'ebbe gran sospetto per li suoi trattati e tradimenti, e fecesi grande guardia e in Firenze e nelle castella delle frontiere. Lasceremo alquanto de' nostri fatti d'Italia, e diremo come il re di Spagna sconfisse grande oste di Saracini in Granata.
<B>XCIX</B>
<I>Come i Saracini furono sconfitti dal re di Spagna in Granata.</I>
Nel detto anno MCCCXXXVIIII, del mese di giugno, il figliuolo del re di Morocco saracino passò in Granata con molto navilio e con innumerabile gente di Mori detti Saracini per andare sopra il re di Spagna. Sentendo ciò il re di Spagna fece armare XXX galee e XII legni di corso e XX navi, overo cocche, per contastare il detto passaggio; ma fu a tardi, che i Mori del Garbo, che sono vicini al contro di Granata, presono tempo fatto, e passarono sanza contasto alcuno anzi venisse l'armata del re di Spagna. Poi venuto il re di Spagna, isceso in terra si puose ad assedio alla città di Linda. I Saracini vennono per comune alla 'ncontra de' Cristiani per guarentire la terra. Il re di Spagna per maestria di guerra e per sottrarre i Saracini si levò dall'asedio a dì XXXI di luglio, faccendo sembiante di dubitare e di fuggire; e prima messi in aguato della migliore gente a cavallo e a piè ch'egli avesse in sua oste, i Saracini veggendo che' Cristiani quasi si partieno a modo di rotta, gli seguiro sanza alcuno ordine in grandissima moltitudine; e passati gli aguati, i Cristiani percossono sopra loro, e in poca d'ora gli misono inn isconfitta, nella quale rimasono de' Mori tra morti e presi più di XXm. E nota che come noi Cristiani solavamo tenere la Terrasanta in Soria, e chi v'andava o mandava o dava sussidio avea grande perdonanza da santa Chiesa, così i Saracini dell'universo infino in Arabia mantengono il reame di Granata in Ispagna, e al continovo vi mandano gente e moneta, e talora generali e grandi passaggi ad obrobbio della Chiesa di Roma e del re di Francia e degli altri Cristiani, avendo il reame di Granata tra·lle terre de' Cristiani intorneata, ed essendo sì presso ov'è oggi la sedia apostolica, sanza avere a passare mare. E intendesi solo a tesorizzare sanza volerlo spendere al servigio della Cristianità e sostenere, ma nutricare le guerre dall'uno re de' Cristiani all'altro; ma tale peccato non passerà guari impunito.
<B>C</B>
<I>Di certi segni ch'aparvono in Firenze e altrove, onde poco apresso seguì assai di male.</I>
Nell'anno MCCCXXXVIIII, a dì VII di luglio, tra·lla nona e 'l vespro scurò il sole nel segno del Cancro più che·lle due parti; ma perché fu dopo il merigge al dicrinare del sole non si mostrò di scurità come fosse notte, ma pure si vide assai tenebroso. E nota, secondo che scrivono gli antichi dottori di strologia, ogni scurazione del sole nel Cancro, che viene quasi de' cento anni una volta, è di grande significazione di mali a venire al secolo; imperò che 'l Cancro è ascendente del mondo, e più significa dove è in quella parte dell'emisperio ove fa tenebre, cioè essendo il sole al merigge, che·nnoi volgarmente diciamo l'ora di nona; ma pure, come allora avenne, significò in Firenze e d'attorno fame e mortalità grande, come inanzi leggendo si troverrà. E per agiunta avenne in Firenze il primo dì d'agosto seguente grandi e disordinati truoni e baleni, gittando più folgori in città e in contado di Firenze; intra·ll'altre una ne cadde in sulla torre della porta della città contro a San Gallo, e abatté parte d'uno merlo, e poi percosse e arse dell'uscio della porta, e uccise uomini. E poi, a dì IIII di settembre, simile furono diversi truoni e folgori, e una ne percosse in sulla torre del palagio del popolo, e abatté parte d'uno merlo, e tutti furono segni di futuri mali alla nostra città, come tosto apresso seguirono; che il detto anno in sulla ricolta valse lo staio del grano soldi XX, e poi montò in soldi L, e inanzi che fosse l'altra ricolta; se non fosse la provedenza del Comune di farne venire per mare, il popolo moria di fame, e costò al Comune lo 'nteresso più di Lm fiorini d'oro, tutto che certi uficiali cittadini ne feciono baratteria assai con meser Iacopo Gabrielli insieme, ch'era capitano della guardia del popolo, overo tiranno de' popolani reggenti, condannando gl'innocenti ingiustamente, perch'avieno grano per loro vivere e per loro famiglie, e·llasciando i possenti colle grandi endiche, onde seguì assai di male apresso. E·ffu il detto anno simile gran caro di vino, che di vendemmia valse il cogno del comunale vino fiorini VI d'oro, e ciascuna arte di Firenze fu in male stato per guadagnare.
<B>CI</B>
<I>Come morì messer Azzo Visconti e·ffu fatto signore di Melano messer Luchino.</I>
Nel detto anno, a dì XVI d'agosto, morì mesere Azzo Visconti signore di Milano, e 'l dì apresso furono fatti signori il vescovo di Noara meser Giovanni, che·ffu cardinale dell'antipapa, e meser Luchino suo fratello e figliuoli di meser Maffeo Visconti; ma a meser Luchino rimase la signoria. E poi a XXI mesi apresso s'accordò con papa Benedetto e colla Chiesa per lo misfatto d'esere stati coll'antipapa e favorato il Bavero per prezzo di Lm fiorini d'oro contanti, e poi ogn'anno Xm per censo. E per simile modo s'accordò meser Mastino della Scala colla Chiesa per Vm fiorini d'oro per anno. O Chiesa pecuniosa e vendereccia, come i tuoi pastori t'hanno disviata dal tuo buono e umile e povero e santo cominciamento di Cristo!
<B>CII</B>
<I>Come la città di Genova e quella di Saona feciono popolo e chiamarono dogio.</I>
Nel detto anno MCCCXXXVIIII, a dì XVIIII di settembre, quelli della città di Saona feciono popolo, e tolsono le due castella ch'erano nella terra a quelli di casa Doria e di Spinoli di Genova che·lle teneano, e cacciarline fuori. E poi tre dì apresso i cittadini di Genova si levaro a romore e dispuosono i capitani, ch'era l'uno delli Spinoli e·ll'altro Doria, e cacciarono della terra loro e' loro consorti e altri possenti; e feciono popolo, e chiamarono dogio al modo di Viniziani uno Simone di Boccanegra de' mediani del popolo. Questo dogio fu franco e valentre. E poi l'anno apresso, per cospirazione di certi grandi fatta contro a·llui, fece prendere e tagliare il capo a due delli Spinoli e a più altri loro seguaci. E·ffu aspro in giustizia, e spense i corsali di Genova e della riviera, tuttora ritenendo la sua signoria a parte ghibellina, e tenendo in mare più galee armate per lo Comune a guardia della riviera.
<B>CIII</B>
<I>Di novità furono in Romagna, e poi pace tra·lloro.</I>
Nel detto anno, del mese di settembre, essendo la gente del capitano di Furlì a oste sopra Calvoli, il capitano di Faenza colla forza di Bolognesi e d'altri di loro parte gli levarono d'assedio inn-isconfitta. E poi, l'ottobre apresso, per procaccio de' Fiorentini fu trattato di pace tra' signori e Comuni di Romagna. L'una parte erano quelli di Forlì e Cesena, e meser Malatesta da Rimino e que' da Polenta di Ravenna, tutto fosson Guelfi co' Ghibellini a·llega; e·ll'altra parte Faenza, Imola, i conti Guidi, e altri loro seguaci. E per sindachi e ambasciadori delle parti si rimisono nel Comune di Firenze. E in sul palagio de' priori si diè sentenzia, e·ssi baciaro in bocca faccendo pace.
<B>CIV</B>
<I>Come il marchese di Monferrato tolse la città d'Asti al re Ruberto.</I>
Nel detto anno, a dì XXVI di settembre, il marchese di Monferrato tolse la città d'Asti, e fecela rubellare al re Ruberto, per cui si tenea, e furonne cacciati quelli dal Soliere di sua parte e' Guelfi. E furonne signori i Gottineri e' Ghibellini. E·lla cagione fu perché il re Ruberto per sua avarizia non pagava le sue masnade che vi tenea, onde al bisogno non feciono retta né difesa, ch'avieno pegno l'armi e cavalli. La qual perdita fu gran danno a·rre Ruberto per le sue terre di Piemonte e a tutta parte guelfa di Lombardia.
<B>CV</B>
<I>D'accordo e lega fatta da' Fiorentini a' Perugini.</I>
Nel detto anno, a dì VI di novembre, i Fiorentini feciono lega e compagnia co' Perugini per lo nostro vescovo e altri ambasciadori di Perugia, e di nostri a Licignano di Valdambra, e quitarono i Perugini a' Fiorentini ogni ragione dell'aquisto d'Arezzo, rimanendo a' Perugini libero Licignano d'Arezzo e 'l Monte San Savino e altre castella d'Arezzo che si teneano.
<B>CVI</B>
<I>Di certi ordini della lezione de' priori di Firenze, i quali furono corretti per lo migliore.</I>
A dì XXIII di dicembre del detto anno si fece parlamento in Firenze, ove si corresse l'ordine della elezzione di priori e di XII loro consiglieri e di gonfalonieri delle compagnie, i quali in prima com'erano eletti, erano i loro nomi iscritti in polizze, e messe in borse, e per sesti. A' tempi, quando si traieno per detti ufici, si rimettieno in altre borse, infino che tutti n'erano tratti; e poi ricominciavano, sicché si può dire ch'erano a vita, ch'era sconcia cosa e disonesta a volere gli eletti signoreggiare la replubica sanza dare parte agli altri così o più degni di loro. E corressesi che come fossono tratti la prima volta si stracciasse la polizza del loro nome, e alla riformazione delli ufici si rimettano da capo allo squittino cogli altri insieme. E·ffu ben fatto per levare la superbia e tirannia a' cittadini reggenti.
<B>CVII</B>
<I>Come le città della Marca uccisono e cacciarono i loro tiranni e feciono popolo.</I>
In questo anno, del mese di febraio, quasi tutte le terre della Marca d'Ancona feciono popolo, e uccisono Marcennaio che signoreggiava Fermo e meser Accorrimbono da Tolentino, e quello da Mattelica e il marchese; e i tiranni che quelli popoli non poterono uccidere cacciarono inn-esilio.
<B>CVIII</B>
<I>Come la gente del re Ruberto presono l'isola di Lipari e sconfissono i Messinesi.</I>
Nel detto anno, a dì XVII di novembre, avendo la gente del re Ruberto presa l'isoletta di Lipari in Cicilia e assediato il castello di quella e molto stretto, il conte di Chiermonte di Cicilia colla forza de' Missinesi armò in Cicilia VIII galee e VII uscieri e XL legni con gente assai, e venne al soccorso di Lipari. E·ll'amiraglio del re Ruberto, ch'era messer Giufredi di Marzano conte di Squillace, maestrevolmente fece ritrarre suo oste dal castello e ridurre al suo navilio dall'una parte del golfo, e armò XVIII galee e VI uscieri e una cocca che v'avea, e diede luogo a' Ciciliani, sicché forniro il castello con grande festa e gazzara. La mattina apresso volendosi partire il conte di Chiermonte per tornare a Messina, l'amiraglio del re Ruberto gli asalì, e·lla battaglia fu in mare aspra e dura. Alla fine i Ciciliani furono sconfitti e morti, e preso il conte di Chiermonte con molta buona gente di Messina, che pochi ne scamparo. E arrendessi il castello alle genti del re Ruberto. E tornando l'amiraglio a Napoli, essendo sopra l'isola d'Ischia, fortuna forte gli prese e menolli infino in Corsica, e rupponvi IIII galee feggendo a terra cariche di prigioni, che i più iscamparo. Lasceremo alquanto di fatti di Firenze e dell'altre novità d'Italia, e diremo della guerra dal re di Francia a quello d'Inghilterra e suoi allegati Fiamminghi e Bramanzoni e Anoieri.
<B>CIX</B>
<I>Come si ricominciò la guerra dal re di Francia a quello d'Inghilterra e suoi allegati.</I>
Nel detto anno, a dì VIIII di dicembre, i Fiaminghi e Brabanzoni colli Anoieri rifermaro lega insieme contro al re di Francia. E poi, a dì XXIII di gennaio, Aduardo terzo re d'Inghilterra venne d'Analdo a Guanto, e giurò alla detta lega, faccendosi nominare re di Francia per la redità della madre, portando inn-insegne e suggello l'arme di Francia e d'Inghilterra dimezzata. E poi, a dì XX di febraio, si partì di Bruggia, e andonne in Inghilterra, promettendo di tornare assai tosto con tutto suo isforzo. Partito il re d'Inghilterra, la gente di Francia ch'erano in Tornai corsono infino ad Odanardo in Fiandra all'entrante d'aprile MCCCXL, faccendo arsione e gran danno al paese. Per la qual cosa quelli di Bruggia e quelli di Guanto per comune cogli altri Fiaminghi vennero ad oste sopra Tornai, e stettonvi più dì guastandolo intorno V giorni. E in quelli giorni quelli d'Ipro col conte di Sofolco e con quello di Salisbiera e altra gente del re d'Inghilterra cavalcaro sopra Lilla, e per aguato furono sconfitti, e presi i detti conti. Per la qual cosa i Fiaminghi, ch'erano a oste sopra Tornai, se ne partirono isconciamente. E poi in quelli giorni, del mese d'aprile, il conte, e meser Gianni d'Analdo, e il signore di Falcamonte cavalcaro in su il reame di Francia infino a Rens, faccendo grande uccisione e incendi, levando gran preda sanza contasto alcuno. E poi, IIII di maggio, il conestabole di Francia con gente d'arme assai a cavallo e a piè venne sopra Valerzina inn-Analdo, e stettevi tre settimane faccendo al paese grandissimo danno. E così per guerra guerriata si consumaro gran parte di quelli paesi a danno di ciascuna parte.
<B>CX</B>
<I>Come il re d'Inghilterra sconfisse in mare l'armata del re di Francia.</I>
Li anni di Cristo MCCCXL, il dì di san Giovanni, a dì XXIIII di giugno, il buono Aduardo terzo re d'Inghilterra arrivò in Fiandra al porto della Suina con CXX cocche armate; ivi su IIm cavalieri gentili uomini e popolo infinito con molti arcieri inghilesi; e trovovvi l'armata del re di Francia, ch'erano da CC cocche con XXX tra galee di Genovesi e barche armate a remi, delle quali era amiraglio Barbavara da Portoveneri grande corsale, il quale avea fatto grande danno in mare sopra gl'Inghilesi e' Guasconi e' Fiaminghi e alle loro riviere, e presa l'isola del Gaggiante, ch'è alla 'ncontra della detta Suina, e rubata e arsa, e mortovi più di CCC Fiamminghi. Quelli di Bruggia come sentirono la venuta del re d'Inghilterra, sì·lli mandaro loro ambasciadori alle Schiuse, pregando per Dio e per loro amore che non si mettesse a battaglia contro l'armata del re di Francia, ch'erano altrettanti e più della sua, e più le galee genovesi; e ch'elli attendesse due giorni e riposasse sé e sua gente, e che di presente armerebbono C cocche di buona gente in suo aiuto, e potea avere sicura vittoria. Il valente re non volle attendere, ma fece armare i suoi cavalieri e sergenti, e partiti per le navi, oltre a' marinai, e cominciò la battaglia francamente; la qual fu aspra e dura, durando tutto il giorno, che non si sapea chi avesse il migliore, infino alla notte. Il franco re con L cocche bene armate di sua baronia, e riposato e fresco, percosse la sera con piena marea e a piene vele sopra i nimici sparti e stanchi del combattere, e misseli in rotta e inn-isconfitta; e tutti furo tra presi e morti, che non ne scamparo se non due galee e XX barge, e·cciò fu perch'elli era di notte, e' Fiaminghi v'erano tratti delle marine d'intorno, e co·lloro legni e barche, e chiusono le due bocche della Suina intra·ll'isola del Gaggiante, ch'è alla bocca del porto, alla terra ferma, sicché tutti rimasono rinchiusi siccome in una gabbia. E rimasonvi tra morti e annegati più di Xm uomini, e più d'altrettanti presi dell'armata del re di Francia. E tutto il suo navilio e armi e arnesi rimasono in preda agl'Inghilesi e a' Fiaminghi.
<B>CXI</B>
<I>Come parte di Fiaminghi furono sconfitti a Santo Mieri.</I>
Per lo caldo della sopradetta vittoria que' di Bruggia e d'Ipro con meser Ruberto d'Artese vennero sopra Santo Mieri, che dovea loro esere dato per trattato; erano da Xm a piè. In Santo Mieri era il duca di Borgogna e 'l conte d'Armignacca con MCC cavalieri. Que' di Bruggia assalirono una porta, che dovea loro essere data, e quella già presa, que' d'Ipro rimasi adietro male ordinati, il conte d'Armignacca uscì fuori colla cavalleria per un'altra porta, e assalì que' d'Ipro, i quali non ressono, ma si misero in fuga; e poi sanza seguire la caccia asaliro que' di Bruggia, i quali feciono alcuna retta, e morinne più di D; e veggendo in fuga que' d'Ipro, e già era notte, si fuggiro al loro campo sanza séguito di nemici; e·lla notte per paura si fuggiro verso Casella, e·llasciarono tutto il loro campo, e·cciò fu a dì XXVIII di luglio.
<B>CXII</B>
<I>Come il re d'Inghilterra co' suoi allegati si puosono ad assedio alla città di Tornai, e fu triegua da·lloro al re di Francia.</I>
Lo re Aduardo, avuta la detta vittoria di mare, come dicemmo adietro, non istette ozioso; incontanente scese in terra con sua gente, e venne a Bruggia e poi a Guanto, e da' Fiaminghi gli fu fatto onore, come a·lloro signore, faccendogli omaggio come a·rre di Francia. E·llà fece parlamento, dove fu il duca di Brabante e 'l conte d'Analdo e tutti gli allegati, e quivi ordinaro generale oste sopra la città di Tornai; e sanza indugio vi cavalcaro e acamparsi intorno il detto re d'Inghilterra, e il duca di Brabante, e il conte d'Analdo, e il duca di Giullieri, e quello di Ghelleri, e il conte di Los, e il sire di Falcamonte, con più baroni di Valdireno d'Alamagna in quantità di più di VIIIm cavalieri; e·lle ville di Fiandra, e di Brabante e d'Analdo per comuni con più di LXXXm d'uomini bene armati, i più a corazzine e barbute, e fecionvi IIII campi; né già per quella piccola rotta avuta a Santo Mieri non lasciaro, ma vigorosamente seguiro l'oste del re d'Inghilterra. I due campi furono di qua dal fiume dello Scalto, e due di là dal fiume, faccendo grandi e più ponti in sulla riviera da potere andare dall'una oste all'altra e potere avere spedita la vittuaglia e guernigione dell'oste. In Tornai era il conestabole di Francia con bene IIIIm cavalieri e Xm sergenti a piè, sanza i cittadini, ch'erano più di XVm; e tra quelli dentro e quelli di fuori ebbe molti assalti e pugnazzi e badalucchi a cavallo e a piè; ma per la molta gente ch'era nella città, e bestie, e non proveduta di vettuaglia a sofficienza, avea assai difetti. Onde i cittadini si cominciarono a dolere al conestabole, e che levasse loro l'assedio, o elli cercherebbono loro accordo. Il conestabole mandò per soccorso al re di Francia, mostrandogli come la terra era per perdersi. Il re Filippo di Valos vi venne al soccorso in persona con più di Xm cavalieri e popolo grandissimo, e acampossi presso alla città a una lega. Ma però l'oste del re d'Inghilterra e degli altri allegati non si mossono, ch'erano molto aforzati i campi loro, e signori del combattere e schifare la battaglia. I·rre di Francia non potendo combattere co' nimici, né impedire la vittuaglia a' loro campi, né fornire Tornai sanza grande pericolo, dubitò forte di perdere la terra. E incontanente cercò trattati d'accordo per mano del duca di Brabante con grosso spendio a' caporali delle Comuni di Brabante, che non erano così costanti alla guerra come i Fiamminghi e li Anoieri. Il re d'Inghilterra non volea intendere trattato, conoscendo che·lla terra non si potea difendere né tenere per difetto di vittuaglia; e avendo la città di Tornai, ch'è·ssì forte e possente e acostata a Fiandra e Analdo e al Brabante e all'altre terre dello 'mperio, e·lla chiave del reame di Francia, avea per vinta la guerra; che·rre di Francia non avrebbe tenuta terra da Compigno i·llà. Ma i Brabanzoni sentendo il trattato che menava il loro duca, e per la corruzione della moneta del re di Francia, come dicemmo dinanzi, feciono punta falsa, e subitamente si levaro da campo e tornarono i·lloro paese. Il re d'Inghilterra e gli altri allegati veggendosi ingannato e fallito da' Brabanzoni, e a·rre d'Inghilterra fallia moneta, che i suoi uficiali di là il ne tenieno a dieta e scarso, compié il trattato al meglio che potero, faccendo triegua fino alla san Giovanni all'avenire, rimettendosi della pace nel papa e·lla Chiesa di Roma. E se infra 'l termine non fosse fatto l'accordo, riporre la città di Tornai nello stato ch'allora era, che non vi si trovò da vivere per VIII giorni. E così si giuraro le triegue e·ll'accordo per li due re e gli altri allegati, e·llevarsi da oste a dì XXVI di settembre MCCCXL. Ma·llo re di Francia non tenne fede, ma come riebbe libero Tornai, il fece fornire per II anni; e poi andaro di triegue in triegue, e altre mutazioni di guerre, come 'nanzi per li tempi faremo menzione. Lo re d'Inghilterra ristette in Fiandra infino a mezzo novembre, che si partì dalle Schiuse, e andonne inn-Inghilterra. E incontanente fece prendere i suoi tesorieri e uficiali, che no·ll'aveano ben fornito di moneta, e tolse loro molti danari.
<B>CXIII</B>
<I>Come l'armata del re d'Ispagna quasi perì per fortuna.</I>
Nel detto anno, del mese d'aprile, mandando il re d'Ispagna sua armata di LXXX galee sopra i Saracini di Granata, che teneano monte Giobeltaro, acciò che no·llo potessono venire a fornire i Saracini di Setta, grande fortuna di mare li soprese; e·lli percossono a·tterra e ruppono XXIIII galee con grande danno de' Cristiani. Lasceremo alquanto de' fatti degli oltramontani, e torneremo alquanto adietro a raccontare delle novità state in questi tempi alla nostra città di Firenze e per l'altra Italia.
<B>CXIV</B>
<I>Di grande mortalità e carestia che·ffu in Firenze e d'intorno, e d'una cometa ch'aparve.</I>
In detto anno MCCCXL, all'uscita di marzo, aparve inn-aria una stella cometa in verso levante nel fine del segno del Virgo e cominciamento della Libra, i quali sono segni umani, e mostrano i beni sopra i corpi umani di grande ditreazione e morte, come diremo apresso; e durò la detta commeta pochi mali, ma assai ne seguiro di male significazioni sopra le genti, e spezialmente alla nostra città di Firenze. Che incontanente cominciò grande mortalità, che quale si ponea malato, quasi nullo ne scampava; e morinne più che il sesto di cittadini pure de' migliori e più cari, maschi e femmine, che non rimase famiglia ch'alcuno non ne morisse, e dove due o·ttre e più; e durò quella pestilenza infino al verno vegnente. E più di XVm corpi tra maschi e femmine e fanciulli se ne sepellirono pure nella città, onde la città era tutta piena di pianto e di dolore, e non si intendea apena ad altro, ch'a sopellire morti. E però si fece ordine che come il morto fosse recato alla chiesa la gente si partisse; che prima stavan tanto che si facea l'asequio, e a tali la predica con solenni ufici a' maggiorenti; e ordinossi che non andasse banditore per morti. In contado non fu sì grande la mortalità, ma pure ne morirono assai. Con essa pistolenza seguì la fame e il caro, agiunta a quello dell'anno passato; che con tutto lo scemo di morti valse lo staio del grano più di soldi XXX, e più sarebbe assai valuto, se non che 'l Comune ne fece provedenza di farne venire di pelago. Ancora aparì un altro nuovo segno; che a dì XVI di maggio del detto anno, di mezzogiorno, cadde in Firenze e d'intorno una gragnuola grossa e spessa, che coperse le tettora, le terre e·lle vie, alta come grande neve, e guastò quasi tutti i frutti. Per questa mortalità, a dì XVIII di giugno, per consiglio del vescovo e di riligiosi si fece in Firenze generale processione, ove furono quasi tutti i cittadini sani maschi e femmine col corpo di Cristo ch'è a Santo Ambruogio, e con esso s'andò per tutta la terra infino a ora di nona, con più di CL torchi accesi. E poi apresso agiunsono di mali segni, che·lla mattina di san Giovanni essendo uno grande e ricco cero in su uno carroccio fatto per li signori della moneta per offerere a san Giovanni, si stravolse sprovedutamente con tutto il carro, e cadde in su' gradi della porta de' priori, e tutto si spezzò; e bene fu segno dovea cadere la moneta de' Fiorentini e rompere quelli che·lla guidavano, come seguì apresso poco tempo con gran danno de' Fiorentini. Quella mattina in San Giovanni cadde uno palchetto, che v'era fatto di costa dal coro, dov'erano su tutti i cantori cherici ch'uficiavano, e molti se ne magagnaro delle persone. E poi s'agiunse male sopra male, che a dì XX di luglio apresso la notte seguente s'aprese uno gran fuoco in Parione, e valicò nella gran ruga da San Brancazio, ove si facea l'arte della lana, insino presso alla chiesa, ove arsono XLIIII case con gran danno di mercatantie, panni e lane, e maserizie, e di case e palazzi. I Fiorentini isbigottiti e impauriti per li detti segni e danni e·ll'arti e·lle mercatantie non istettono mai peggio per guadagnare; quelli che reggeano il Comune, per conforto di riligiosi per mostrare alcuna piatà, ordinarono che·ssi traessono certi sbanditi di bando, pagando al Comune certa gabella, e che' beni de' rubelli ch'erano in Comune fossono renduti alle vedove e a' pupilli, a·ccui succedeano; ma non fu perfetta la grazia e misericordia, che dovesse piacere a·dDio, però che·ssi dovea ristituire il prezzo che in prima li avieno per ordini fatti ricomperare dal Comune alle dette vedove e popilli, e non si fece; onde non ristettono a tanto le nostre pestilenze, che per le nostre peccata ne seguirono assai apresso, come inanzi leggendo si troverranno, che avenne poi in più casi che i vivi ebbono astio de' morti per le soperchie tribolazioni occorse alla nostra città. Lasceremo alquanto de' fatti di Firenze, e diremo d'altre novità d'intorno, tornando assai tosto a seguire dell'aversità ch'avennono alla nostra città di Firenze
<B>CXV</B>
<I>Come li Spuletani levaro da oste inn-sconfitta quelli di Rieti.</I>
Nel detto anno, all'uscita di giugno, il conte di Triveti del regno di Puglia, essendo per lo re Ruberto vicaro nella città di Rieti, essendo posto ad oste sopra il castello di Luco co' cittadini di Rieti insieme, li Spuletini co·lloro amistà vennero al soccorso di quello, e sconfissono il detto conte e quelli di Rieti, con gran dannaggio di presi e di morti.
<B>CXVI</B>
<I>Come messere Attaviano de' Belforti si fece signore di Volterra.</I>
Nel detto anno, a dì VIII di settembre, nella città di Volterra si levò romore, e·ffu ad arme e battaglia cittadina. L'una parte era capo meser Attaviano di quelli di Belforte, che·sse ne volea fare signore; e dall'altra parte il vescovo suo nipote nato per femmina, con certi popolani che volieno vivere in libertà; ma·lla tirannia colla forza di forestieri invitati per meser Attaviano furono vincitori, e cacciarne il vescovo e suoi seguaci, i quali si ridussono in Berignone suo castello, e meser Attaviano si fece signore della città, e poi seguitandoli, onde seguì assai di male; e fece il detto meser Attaviano uccidere due fratelli del vescovo a tradimento avendoli sicurati, costrignendoli per avere il detto castello di Berignone ch'elli avea asediato; e 'l vescovo che v'era dentro soferse innanzi di vederli morire che rendere il castello.
<B>CXVII</B>
<I>Come certe galee di Genovesi sconfissono i Turchi.</I>
Nel detto anno XII galee di Genovesi ch'erano ite in Romania per loro mercatantia, ritrovandosi nel mare Maggiore di là da Gostantinopoli con CL o più legni tra grossi e piccoli armati di Turchi saracini, i Genovesi francamente l'assalirono e missogli inn-isconfitta faccendo di loro grande molesta d'ucciderli, ed annegarli in mare, dove ne rimaseno morti più di VIm, e guadagnarono i Genovesi molta roba e danari. In questo anno VI altre galee di Genovesi ch'andavano in Fiandra furono prese dall'armata dell'Inghilesi a Samavi in Brettagna, e perdervi il valere di CCm di fiorini d'oro; e così va della fortuna della guerra di mare.
<B>CXVIII</B>
<I>Come in Firenze fu fatta una grande congiurazione, e·lla città fu a romore e ad arme.</I>
Tornando a nostra matera in raccontando l'aversità occorse alla nostra città di Firenze in questi tempi per lo suo male reggimento, mi fa molto turbare la mente sperando peggio per l'avenire. Considerando che per segni del cielo, né per pistolenze di diluvio, né di mortalità, e di fame, i cittadini non pare che temano Iddio, né si riconoscano di loro difetti e peccati; ma al tutto abandonata per loro la santa carità umana e civile, e solo a baratterie e tirannia con grande avarizia reggere la republica. Onde mi fa temere forte del giudicio d'Iddio. E acciò che meglio si possano intendere le motive delle disensioni e delle novità occorse, e perché sia assempro a que' che sono a venire, acciò che mettano consiglio e riparo a simili casi, sì il narreremo brievemente il difetto del male reggimento ch'allora era in Firenze, e quello ne seguì di male, bene che non sia però scusa di mali adoperanti contra il Comune. Per difetto di mali uficiali e reggenti la città di Firenze si reggea allora e poi un tempo per due per sesto di maggiori e più possenti popolani grassi. Questi non volieno a reggimento né pari né compagnoni, né all'uficio del priorato né agli altri conseguenti ufici mettere, se non cui a·lloro piacea, che facessono a·lloro volontà, schiudendo molti de' più degni di loro per senno e per virtù, e non dando parte né a grandi né mezzani né minori, come si convenia a buono reggimento di Comune. E oltre a questo, non bastando loro la signoria del podestà, e quella del capitano del popolo, e quella dell'asecutore degli ordini della giustizia contro a' grandi, ch'erano ancora di soperchio a buono reggimento comune, si criarono l'uficio del capitano della guardia; e a·cciò elessono e feciono ritornare in Firenze messer Iacopo Gabrielli d'Agobbio, uomo sùbito e crudele e carnefice, con C uomini a cavallo e CC a piè al soldo del Comune, ed elli con grosso salaro, acciò che facesse a senno de' detti reggenti. Il quale a guisa di tiranno, o come esecutore di tiranni, procedea di fatto in civile e cherminale a sua volontà, come gli era posto in mano per li detti reggenti, sanza seguire leggi o statuti, onde molti innocenti condannò a·ttorto inn-avere e in persona, e tenea i cittadini grandi e piccoli in grande tremore, salvo i suoi reggenti, che col suo bastone faceano le loro vendette e talora l'offese e·lle baratterie; non ricordandoci noi Fiorentini ciechi, overo infignendoci di ricordare quello di male ch'avea operato il detto meser Iacopo al simile uficio l'anno MCCCXXXV, e poi mesere Accorrimbono: onde per loro difetto era fatto divieto X anni, e no·llo oservaro. Di questo inniquo uficio e reggimento erano mal contenti i più di cittadini, e massimamente i grandi e possenti; e però certi grandi cercaro cospirazione in città per abattere il detto mesere Iacopo, e suo uficio e suoi seguaci reggenti. E più tosto li fece muovere, che in que' tempi fu condannato per lo detto mesere Iacopo mesere Piero de' Bardi in libre VIm, perch'avea offeso un suo fedele da Vernia, non istrettuale di Firenze, onde gli parve ricevere torto. E meser Andrea de' Bardi era costretto di rendere al Comune il suo castello di Mangone, ch'elli s'avea comperato. Questi Bardi erano di più possenti cittadini di Firenze d'avere e di persone; e di loro danari aveano comperato dalla figliuola d'Alberto conte Vernia e Mangone, e il castello dal Pozzo da' conti da Porciano, onde il popolo di Firenze era male contenti, però che il Comune vi cusava suso ragione, come inn-adietro inn-alcuna parte facemmo menzione. Per lo detto sdegno e superbia di Bardi, e simile di Frescobaldi, per una condannagione fatta a meser Bardo Frescobaldi di libre IIImDCC per la pieve a San Vincenzo (dissero a·ttorto furono capo della detta congiura e cospirazione, con tutto ch'assai dinanzi fosse conceputo per lo male reggimento, come detto è adietro). Co' detti Bardi teneno parte di Frescobaldi e di Rossi, e di più case di grandi, e d'alcuna possente di popolani di qua da Arno; e rispondea loro il conte Marcovaldo, e più suoi consorti da' conti Guidi, i Tarlati d'Arezzo, i Pazzi di Valdarno, Ubertini, Ubaldini, Guazalotri da Prato, i Belforti di Volterra e più altri, e ciascuno dovea venire con gente a cavallo e a piè in gran quantità, e mandare la notte di Tutti Santi; e·lla mattina vegnente, come le genti fossero allo esequio de' morti, levare il romore e correre la città, e uccidere mesere Iacopo Gabrielli e' caporali de' reggenti, e abattere l'uficio di priori e rifare in Firenze nuovo stato, e·cchi disse disfare il popolo. E sarebbe loro venuto fatto certamente per la loro forza e séguito, se non che 'l sopradetto meser Andrea de' Bardi, o che·lli paresse mal fare, o per altra cagione o quistione con suoi consorti, manifestò la detta congiura a Iacopo degli Alberti suo cognato e di caporali reggenti. Incontanente il detto Iacopo il rivelò a' priori e agli altri suoi compagni reggenti, essi guerniro d'armi e di gente, essendo la città in gran paura e sospetto, e ciascuna parte temea di cominciare. Ma acciò ch'a' congiurati non giugnesse il loro sforzo, il dì d'Ognisanti nel MCCCXL, in sull'ora di vespro, i caporali de' reggenti salirono in sul palagio de' priori, e quasi per forza feciono sonare a stormo la campana del popolo, che alcuno di priori amici de' Bardi la contesono assai, ciò fu meser Francesco Salvesi e Taldo Valori, l'uno priore e·ll'altro gonfaloniere per porta San Piero; onde molto furon ripresi di presunzione, e·cche sentissono il trattato. Come la campana cominciò a sonare, tutta la città fu commossa a romore, e ad arme a cavallo e a piè, in sulla piazza de' priori co' gonfaloni delle compagnie, gridando: "Viva il popolo e muoiano i traditori!". E incontanente feciono serrare le porte della città, acciò che gli amici e soccorso de' congiurati non potessono entrare nella città, i quali i più erano in via e presso alla terra per entrare la notte con gran forza di gente. I congiurati veggendo scoperto il loro trattato e fallito il loro aiuto, che quasi nullo di loro congiurati di qua dall'Arno rispuose loro né·ssi scopersono per paura del popolo, e 'l popolo commosso a furore contro a' congiurati, si tennero morti, e intesono solo al loro scampo e riparo, guardando i detti casati d'Oltrarno i capi de' ponti, saettando e uccidendo chi di là volesse passare; e misono fuoco a capo di due ponti di legname, ch'allora v'erano, l'uno contra le case de' Canigiani e·ll'altro di Frescobaldi; acciò che 'l popolo nogli assalisse, credendosi tenere il sesto d'Oltrarno tanto che 'l soccorso venisse. Ma·cciò venne loro fallito, che i popolani d'Oltrarno francamente gli ripugnaro, e tolsono loro i ponti coll'aiuto di popolani di qua dall'Arno, ch'andaro i·lloro aiuto per lo ponte alla Carraia. Messer Iacopo Gabrielli capitano si stava armato a·ccavallo in sulla piazza colla cavalleria, con gran paura e sospetto, sanza usare alcuno argomento o riparo di savio e valente capitano; istando fino alla notte quasi come stupefatto; onde molto fu biasimato. Ma il valente messer Maffeo da Ponte Carradi, allora nostro podestà, francamente con sua compagnia armato a cavallo passò il ponte Rubaconte con pericolo grande e rischiò di sua persona, e parlò a' congiurati con savie parole e cortesi minacce, li condusse la notte sotto sua sicurtà e guardia a partirsi fuori della città per la porta da San Giorgio, sanza quasi romore d'uomini o spargimento di sangue, o incendio o ruberie, onde molto fu commendato, ch'ogni altro modo era con grande pericolo della cittade. E come furono partiti, il popolo s'aquetò, e l'altro di apresso fatta di loro condannagione si disarmaro i popolani, e ciascuno fece i suoi fatti come prima. Per sì fatto modo guarentì Idio la nostra città di grande pericolo, non guardando a' nostri peccati e male reggimento di Comune; ma per non essere di tanto benificio grati a·dDio, la detta congiura ebbe apresso di male sequele a danno della nostra città, come inanzi si farà menzione.
<B>CXIX</B>
<I>Chi furono i congiurati che furono condannati.</I>
Partiti i detti congiurati, il dì apresso si tenne consiglio come si dovesse procedere contro a·lloro; per lo migliore del Comune si prese di non fare grande fascio, però ch'a troppi cittadini sarebbe toccato, che sentiro la detta congiura e·ss'aparecchiarono con arme e cavalli, ma non si mostrarono; ma solamente si procedesse contro a quelli caporali che si mostraro e furono in arme, i quali furono citati e richesti; e non comparendo subitamente furono condannati nell'avere e nelle persone, siccome ribelli e traditori del loro Comune. I quali furono la prima volta l'infrascritti: messere Piero di meser Gualterotto de' Bardi e Bindo e Aghinolfo suoi fratelli, Andrea e Gualterotto di Filippozzo e Francesco loro nipote, messer Piero di Ciapi suo nipote, messer Gerozzo di meser Cecchino e meser Iacopo di meser Guido, mesere Simone di Gerozzo, ma non v'ebbe colpa di certo; Simone e Cipriano di Geri, e Bindo di Benghi, tutti della casa de' Bardi; messer Iacopo priore di Sa·Iacopo, messer Albano, messer Agnolo Giramonte e Lapo suoi nipoti, messer Bardo Lamberti, Niccolò e Frescobaldo di Guido, Giovanni e Bartolo di mesere Fresco, Iacopo di Bindo e Geri di Bonaguida, Mangeri di meser Lapo, tutti di Frescobaldi; e Andrea Ubertelli, Giovanni di Nerli, ser Tomagno degli Angiolieri, capellano del detto priore, Salvestrino e Ruberto di Rossi, più de' suoi consorti che vi tenieno mano, non si mostrarono; di qua dall'Arno non si mostrò alcuno. I loro palazzi e beni in città e in contado a·ffurore furono disfatti e guasti. E ordinossi con tutte le terre vicine guelfe e quelli della lega di Lombardia che non ritenessono i detti nuovi ribelli. E di ciò feciono il peggiore, per la qual cosa i detti n'andaro i più a Pisa, e il priore a corte di papa a procurare quanto poterono in detto e in fatto contro al Comune di Firenze. Per la detta diliberazione della nostra città per lo Comune a dì XXVI di novembre si fece una grande processione e offerta a San Giovanni per tutte l'arti, e s'ordinò ch'ogni anno per l'Ognisanti si facesse; e ordinossi di trarne di bando gli sbanditi per certa gabella per fortificare il popolo; che·ffu gran male a recare in città molti rei uomini e mafattori. Ma altro rimedio ci voleva per apaciare Iddio, a·llui la gratitudine e tra' prossimi cittadini la carità, ma ad altro s'intese; e ordinossi che ogni popolano che potesse fosse armato di corazze e barbute alla fiamminga, e impuosone VIm, e molte balestra per fortificare il popolo. E del mese di gennaio seguente il Comune comperò Mangone da meser Andrea de' Bardi VIImDCC fiorini d'oro, scontandone MDCC che 'l Comune v'avea spesi inn-acconcime inanzi si rendesse a messere Benuccio Salimbeni marito della detta contessa da Mangone. E il castello di Vernia s'arrendé al Comune di Firenze pagandone a meser Piero de' Bardi, che v'era dentro asediato, fiorini IIIImDCCCLX d'oro. E fecesi dicreto per lo Comune che nullo cittadino potesse aquistare o tenere castello di fuori di nostro contado e distretto di lungi il meno per venti miglia. E del detto mese di gennaio furono condannati VIIII di conti Guidi ch'avieno tenuta mano alla sopradetta congiura; e furo quasi tutti i loro caporali, salvo il conte Simone e Guido suo nipote da Battifolle che non assentiro alla detta congiura. Di ciò furono ripresi molto da' savi quelli che governavano la città, di condannare i nostri possenti vicini i conti Guidi, a recarline a scoperti nimici di quello peccato che non condannaro i nostri cittadini ch'erano colpevoli, come co·loro alla detta congiura; bene s'aparecchiarono in arme co·lloro fedeli per venire a Firenze. E poi più d'un anno apresso fu scoperto un altro trattato co' detti nuovi ribelli, onde fu preso Schiatta de' Frescobaldi, e tagliatogli il capo, e condannati Paniccia di Bernardo, e Iacopo di Frescobaldi, e Biordo di meser Vieri, e Giovanni Ricchi de' Bardi, e Antonio degli Adimari, e Bindo di Pazzi, tutti come ribelli. Lasceremo alquanto de' nostri fatti di Firenze, ch'assai ce n'è convenuto dire a questa volta, faccendo incidenzia per dire alquanto d'altre novità istate in questi tempi per l'universo; ma tosto vi torneremo a dire, ch'assai ci cresce materia a' nostri fatti.
<B>CXX</B>
<I>Come il re di Spagna sconfisse i Saracini in Granata.</I>
Nel detto anno, in calen di novembre, furono sconfitti i Saracini di Setta e dell'altro paganesimo di Barberia e di Levante ch'erano passati di qua da·mmare, innumerabile quantità, al soccorso di quelli di Granata, per lo buono re di Spagna; e rimasene tra morti e presi più di XXm, con molto tesoro e arnesi di Saracini.
<B>CXXI</B>
<I>Come arse Portoveneri.</I>
Nel detto anno, il dì di calen di gennaio, s'aprese fuoco in Portoveneri nella riviera di Genova, e·ffu sì impetuoso, che non vi rimase ad ardere casa piccola o grande, salvo i due castelli, overo rocche, che v'hanno i Genovesi, con infinito danno d'avere e di persone, e non sanza giudicio di Dio, che quelli di Portoveneri erano tutti corsali, e pirati di mare, e ritenitori di corsali.
<B>CXXII</B>
<I>Come in Firenze si feciono due capitani di guardia.</I>
Nel detto anno, in calen di febraio, si partì di Firenze il tiranno, meser Iacopo de' Gabrielli d'Agobbio, ricco delle sangui de' Fiorentini ciechi, che più di XXXm fiorini d'oro si disse ne portò contanti. Ver'è che per la sua partita i savi rettori di Firenze corressono il loro errore del suo tirannico uficio, e scemaro le spese del Comune, overo le radoppiarono, che là dove prima avieno uno bargello per loro esecutore ne elessono due, l'uno a petizione del detto meser Iacopo e suo parente (ciò fu meser Currado della Bruta, capitano della guardia in città per arricchire la povertà di Marchigiani), l'altro a guardia in contado sopra gli sbanditi, meser Maffeo da Ponti Carradi di Brescia stato nostro podestà: questi n'era più degno per le sue virtù e operazioni; ma·ll'uno e·ll'altro uficio era d'oltraggio e a grande danno e spesa del Comune. Ma i reggenti cittadini per mantenere le loro tirannie, e tali di loro baratterie, come dicemmo adietro, gli sostenieno a tanto danno di Comune e gravezza di cittadini per essere temuti e grandi. Ma poco apresso Iddio ne mostrò giudicio assai aperto per le loro prave operazioni, a gran danno e vergogna e abasamento del nostro Comune, come inanzi faremo menzione. Ma gravami che non fu sopra le loro persone propie, com'erano degni i mali operanti, e come toccò ad alquanti di loro. Ma Iddio si riserba e non lascia nullo male impunito, bene non sia a tempi e piacere de' disideranti; e spesso pulisce il popolo per li peccati de' rettori, e non sanza giusto giudicio, però che il popolo è bene colpevole a sostenere le male operazioni di loro reggenti; e questo basti a tanto.
<B>CXXIII</B>
<I>Come i Pugliesi e' loro seguaci furono cacciati di Prato.</I>
Nel detto anno, del mese di febraio, i Guazaliotri di Prato col caldo e favore di certi Fiorentini levarono a romore la terra di Prato per sospetto de' Pugliesi e Rinaldeschi loro vicini, overo per rimanerne signori; e battaglia ebbe nella terra, e morivvi alquanti dell'una parte e dell'altra; alla fine i detti Pugliesi e Rinaldeschi co·lloro seguaci furono cacciati della terra, e molti altri fatti confinati, e' Guazzalotri ne rimasono signori.
<B>CXXIV</B>
<I>Come la città di Lucca volle essere tolta a messere Mastino da Verona.</I>
Nel detto anno e mese di febraio meser Francesco Castracani delli Interminelli ordinò col favore di Pisani di torre la città a mesere Mastino con alcuno trattato d'entro, vegnendo di fuori con gente assai a cavallo e a piè. Guiglielmo Canacci vicario di meser Mastino scoperto il trattato prese il Ritrilla delli Uberti e XIII cittadini, che vi teneano mano, e corse e guarentì la terra, come piacque a·dDio per riserballa a' Fiorentini per loro grande danno e vergogna, come in poco tempo apresso si potrà trovare. E poi il detto Guiglielmo fece oste in Carfagnana, e tolse più terre che tenea il detto meser Francesco Castracani.
<B>CXXV</B>
<I>Come il castello di San Bavello s'arrendé a' Fiorentini.</I>
Nell'anno di Cristo MCCCXLI, a dì XV d'aprile, i Fiorentini avendo fatto porre oste al castello di San Bavello di Guido Alberti di conti Guidi, infino che fu condannato cogli altri conti, come dicemmo poco adietro, per cominciare l'esecuzioni delle loro condannagioni, essendo molto stretto, e non attendea soccorso, s'arrendé al Comune di Firenze salve le persone. Il quale feciono tutto diroccare per ricordo e vendetta contro al detto Guido: che più tempo dinanzi avendo il Comune di Firenze per sua lettera richesto e citato il detto Guido per alcuna cagione, per dispetto del nostro Comune nel detto San Bavello dinanzi a più suoi fedeli al messo del Comune fece mangiare la detta lettera con tutto il sugello, e poi accomiatandolo villanamente, dicendo per dispetto del Comune, se più vi tornasse, o egli o altri, gli farebbe impiccare per la gola; onde sentendosi in Firenze, grande sdegno ne venne quasi a tutti i cittadini.
<B>CXXVI</B>
<I>D'uno fuoco s'aprese in Firenze.</I>
Nel detto anno, la notte seguente di calen di maggio, s'aprese il fuoco in Terma in una casa ch'abitava Francesco di meser Rinieri Bondelmonti, e arsonvi IIII suoi fanciulli maschi con ciò ch'elli v'avea, non potendoli iscampare; onde fu una grande pietade; ma non sanza giudicio di Dio, che 'l detto Francesco aveva occupata la detta casa e tolta a una donna vedova cui era; ma il peccato fu delli innocenti figliuoli, che portarono la pena a' loro corpi della colpa del padre.
<B>CXXVII</B>
<I>Come mesere Azzo da Coreggia rubellò e tolse Parma a meser Mastino.</I>
Nel detto anno, tornando da Napoli dal re Ruberto mesere Azzo da Coreggia di Parma, avendo trattato col re e colli ambasciadori di meser Luchino ch'erano a Napoli lega e compagnia, e di rubellare Parma a meser Mastino. Valicò per Firenze chiusamente, e poi ristette alla Scarperia in Mugello per VIII dì, tenendo trattato e ragionamento con certi nostri cittadini reggenti di torre e rubellare la città di Parma a meser Mastino suo nipote e benefattore per esserne al tutto signore; che meser Mastino l'avea tolta a' Rossi e a Gran Quirico, e rimessi que' da Coreggia suoi zii in Parma, tutto ne volesse esere signore e sovrano. I Fiorentini intesono al trattato e favorallo, isperando come Parma fosse tolta a meser Mastino di potere avere agevolmente la città di Lucca; il detto meser Azzo ci tradì poi, come si vedrà pe' suoi processi. E com'elli fu in Lombardia diè compimento all'opera coll'aiuto di quelli da Gonzago signori di Mantova e di Reggio, e fatti nimici di quelli della Scala. E a dì XXII di maggio datali l'entrata di Parma da quelli di sua parte dentro, corse la terra, e con tradimento ne cacciò la gente di meser Mastino che di lui non si prendieno guardia, e fecesene signore. Per la qual mutazione di Parma si può dire fosse assediata la città di Lucca e quasi perduta per meser Mastino, che no·lla potea fornire sanza grande costo; onde i Fiorentini si mostrarono molti allegri; ma non sapeano il futuro che·nne dovea loro avenire. Messere Mastino veggendosi tolta Parma, la quale a·llui era la chiave e porta di potere entrare a sua posta in Toscana, e per quella forma mantenea la città di Lucca, veggendo che no·lla potea tenere sanza suo gran costo e pericolo, incontanente con savia e sagace pratica cercò di venderla e co' Pisani e co' Fiorentini, che a gara ciascuno ne volea esere signore, e con ciascuno tenea trattato. I Pisani per paura di non volere i Fiorentini vicini, e così di presso e colla forza di Lucca, temieno di loro stato, e cercarono in prima di torla a mezzo co' Fiorentini; ma tutto era con frode e con vizio Pisanoro. Ancora sentendo questa cerca meser Luchino Visconti signore di Melano, che·ssi facea nimico di meser Mastino, proferse a' Fiorentini, se·lla città di Lucca volessono asediare e torla a meser Mastino, di darne aiuto all'asedio M de' suoi cavalieri fermi, e volerne da·lloro certa somma di moneta; ed era il meglio a·ffarlo per vendicarsi del tradimento del Mastino; e venia tosto fatto con poco affanno e spesa, a comparazione di quello ne seguì poi. Ma i Fiorentini, non fidandosi dell'antico nimico, non vi si vollono accordare, overo nol promisse il divino distino overo providenza. Ma i Fiorentini come grandi e·llarghi e sicuri mercatanti, e migliori d'altre mercatantie che di guerra, vollono fare a·lloro senno, e i Pisani il somigliante; onde fu e seguì molto male per l'uno Comune e per l'altro, ma più per li Fiorentini in questo anno medesimo e apresso, come assai tosto faremo menzione, spedite, prima di raccontare altre novità state d'intorno in questo tempo.
<B>CXXVIII</B>
<I>Come il re Ruberto ebbe Melazzo in Cicilia per assedio.</I>
Nel detto tempo, avendo il re Ruberto presa l'isola di Lipari in Cicilia, come adietro facemmo menzione, e veggendo per lo detto aquisto assai gli era possibile d'avere Melazzo che v'è alla 'ncontra, e quello avuto potere più strignere Messina, sì fece armare a Napoli XLV tra galee e uscieri, e più altro navilio grosso e minuto da portare foraggio e altro guernimento d'oste, con DC cavalieri e M pedoni oltre a' marinieri. Col suo amiraglio partì di Napoli la detta armata a dì XI di giugno del detto anno, e per terra mandò il re in Calavra messer Ruggieri di Sanseverino con gente d'arme a cavallo e a piè per rinfrescare l'armata, come avesse presa terra. La quale armata giunse in Cicilia a dì XV di giugno, e bene aventurosamente si puosono all'asedio della terra di Melazzo per terra e per mare, chiudendola dal lato fra terra ove si ricoglie quasi a isola per ispazio d'uno migliaio, con grande fosso e isteccati con molte bertesche; e simile verso la terra di Melazzo con fosso e steccati, sicché non ne potea uscire né entrare persona, se non per furto, sanza gran pericolo. E il navilio era d'intorno alla guardia del porto e della piaggia. Melazzo era ben fornito e di gente d'arme e di vettuaglia per più d'uno anno, e poco curavano l'assedio; ma lo re Ruberto il fece continovare con molto affanno e spendio, e fece cominciare a far fare un grosso muro dentro al fosso e steccato detto dinanzi sì che il campo era molto forte. E veggendo don Piero signore dell'isola che·ll'asedio pure continovava, e a quelli di Melazzo venia fallendo la vittuaglia, tre volte vi venne con tutto lo sforzo di Ciciliani ad asalire il campo, e simile feciono que' della terra dal lato d'entro; ma invano furono gli asalti, ma con gran danno de' Ciciliani, per la fortezza del campo e rinfrescamento che facea fare al continuo il re Ruberto all'oste. Fallendo la vettuaglia alla terra per lo lungo assedio e per l'affanno del detto osteggiare, don Piero, che·ssi facea re di Cicilia, amalò e morìo. Per la qual cosa Melazzo s'arrendé all'amiraglio del re Ruberto a dì XV di settembre MCCCXLI, salvo l'avere e le persone, e di terrazzani e di forestieri. Il quale fu un bello aquisto al re Ruberto, tutto gli costasse più di Lm once d'oro; fece lasciare guernita la terra di gente d'arme e di vittuaglia.
<B>CXXIX</B>
<I>Come messer Alberto della Scala andò sopra Mantova e tornonne in isconfitta.</I>
Nel detto anno, a dì XI di giugno, messer Alberto della Scala venne ad oste sopra il mantovano con M cavalieri e MD pedoni di masnade sanza i paesani, per l'aiuto che quelli da Gonzago signori di Mantova aveano dato a messere Azzo da Coreggia, quando rubellò Parma a meser Mastino, mandando loro soccorso. A' detti signori di Mantova, e coll'aiuto di quelli da Melano, furono loro alla 'ncontra con DCCC cavalieri e popolo assai, e ingaggiarsi di combattere. Alla fine meser Alberto rifiutò la battaglia, e partissi quasi inn-isconfitta, lasciando ciò ch'avea nel campo suo con gran danno e vergogna.
<B>CXXX</B>
<I>Come i Fiorentini patteggiarono di comperare Lucca da meser Mastino, e mandaro però loro stadichi a Ferrara.</I>
Tornando a nostra matera, mi conviene raccontare della folle impresa fatta per lo nostro Comune di Firenze della città di Lucca, come cominciammo a narrare nella fine del terzo capitolo iscritto adietro. Avendo i caporali rettori di Firenze a mano il trattato con meser Mastino della Scala di comperare da·llui la città di Lucca e 'l suo distretto, ch'elli tenea libera e spedita, la quale, come dicemmo adietro, tenea bargagno co' Pisani e col nostro Comune di darla a·cchi più glie ne desse, si criò in Firenze, del mese di luglio MCCCXLI, uno uficio di XX cittadini popolani a seguire il detto trattato con piena balìa di ciò fare, e di fare venire danari in Comune per ogni via e modo ch'a·lloro paresse, e fare guerra, e oste, e pace, e lega, e compagnia, come e con cui a·lloro piacesse, per termine di loro uficio d'uno anno, non possendo essere asindacati di cosa che facessono. La qual cosa fu confusione e pericolo del nostro Comune, come si mosterrà apresso per loro processi. I nomi de' quali non ligisterremo in questo, però che non sono degni di memoria di loro virtù o buone operazioni per lo nostro Comune, ma del contrario, come inanzi per le loro operazioni si potrà vedere, acciò che' nostri successori si guardino di dare le sformate balìe a' nostri cittadini per lunghi tempi. Le quali per isperienza si manifesta per antico e per novello essere la morte e abassamento del nostro Comune, però che nulla fe' o carità era rimasa ne' cittadini, e spezialmente ne' reggenti, a conservare la republica; ma ciascuno alla sua singularità o di suoi amici per diversi studi o modi. E però cominciò ad andare al dichino il nostro Comune al modo di Romani, quando intesono alle loro singularità e·llasciarono il bene comune. E non sanza cagione, quando de' maggiori e de' più possenti popolani di Firenze diputati al detto uficio ne furono capo ed esecutori. Bene ve n'ebbe alcuni tra·lloro innocenti, secondo si disse. Confermato il detto uficio per consigli, incontanente seguiro il trattato con meser Mastino, e per ingannare i Pisani overo noi medesimi, li si promisono e fermaro co' suoi procuratori di dare CCLm di fiorini d'oro in certe paghe; avendo il nostro Comune debito a dare a' cittadini per la guerra del Mastino più di CCCCm di fiorini d'oro; e potendola avere Lucca da' Tedeschi dal Cerruglio l'anno MCCCXXVIIII, come dicemmo adietro, per LXXXm di fiorini d'oro, che·ffu savia provedenza, overo molto folle per lo nostro Comune; e più ancora, essendo in quistione e in bargagno co' Pisani, e quasi come tutta guasta e assediata. E per osservare i patti a mesere Mastino a dì VIIII d'agosto del detto anno mandarono a Ferrara sotto la guardia de' marchesi, siccome amici e mediatori dal nostro Comune, a meser Mastino L stadichi: II de' detti XX in persona, e XVIII figliuoli o fratelli o nipoti degli altri XX, e XXX altri cittadini; de' quali L stadichi v'ebbe VII cavalieri e X donzelli delle maggiori case di Firenze, e gli altri di maggiori e più ricchi popolani e mercatanti della nostra città. E noi autore di questa opera, tutto ch'a·nnoi non si confacesse e fosse contra nostra volontà, fummo del detto collegio e numero per lo sesto di porta San Piero, e istemmo in Ferrara due mesi e mezzo con più di CL cavalli al continovo, e ciascuno con famigliari vestiti d'assise, con grandi e onorate spese, sperando d'avere gran vittoria della detta impresa, e ricevendo grande onore da' signori marchesi di conviti al continuo. E meser Mastino vi mandò uno suo figliuolo bastardo con LX stadichi gentili uomini di Verona e di Vincenza e del suo distretto, o loro figliuoli. Ma non comparivano in Ferrara apo i Fiorentini d'assai di nobiltà e d'orrevolezza. I detti XX, fatta la detta impresa, feciono al continovo molte disordinate spese, gravezze a' singulari cittadini di prestanze e d'imposte per essere forniti di moneta; veggendosi venire in aspra guerra co' Pisani per la detta compera di Lucca, e' soldarono di nuovo gente da cavallo e da piè d'arme in grande quantità; e spendieno ogni mese più di XXXm fiorini d'oro. E richiesono d'aiuto i vicini e·lli amici. E nota, lettore, se meser Mastino seppe fare savia e alta vendetta della guerra e ingiuria ricevuta da' Fiorentini per lo suo tenere di Lucca, vendendola loro per ingordo pregio, sì fatta medesima azione di Lucca assediata, e con aspra guerra co' Pisani e cogli altri loro vicini e co' Lombardi suoi nimici, come apresso faremo menzione, tornando alquanto adietro.
<B>CXXXI</B>
<I>Come i Pisani si puosono ad assedio alla città di Lucca.</I>
I Pisani sentendo al continuo il trattato che' Fiorentini tenieno con messere Mastino d'avere la città di Lucca, ed ellino con meser Mastino non potendosi accordare, riserbando la fortuna a' Fiorentini la mala derrata di Lucca colle sue sequele, nonn-istettono i Pisani oziosi, ma inanzi che' Fiorentini compiessono la folle compera di Lucca, di più mesi si providono, e incontanente soldarono cavalieri, sicché da·lloro ebbono MCC cavalieri e CCC cavallate di cittadini. E·cciò potieno bene fare, che il loro Comune avea di mobile ragunati più di CLm di fiorini d'oro, e mandaro loro ambasciadori a Milano, e feciono lega e compagnia con meser Luchino Visconti signore di Milano e fatto nimico di meser Mastino. E nonn-è da dimenticare di mettere in nota uno crudele tradimento commesso per li Pisani per recarsi ad amico meser Luchino. Uno messere Francesco da Postierla di nobili di Milano, cui n'avea cacciato, il quale ito a·ccorte a lamentarsi al papa, e volendo tornare in Toscana, essendo amico al suo parere de' Pisani, mandò a·lloro per navile che 'l levasse da Marsilia, e per sicurtà di suo salvocondotto il Comune di Pisa gli mandaro una loro galea armata passaggera, e lettera di salvocondotto, ove si ricolse. Arrivato a Pisa, com'era ordinato il tradimento con meser Luchino, incontanente il detto meser Francesco, uomo di grande autorità e valore, con due suoi figliuoli i Pisani mandaro legati a Milano; a·ccui meser Luchino fece tagliare la testa. E per tale vittima si fece la lega e compagnia da meser Luchino e Pisani, della quale per lo innormo peccato commesso per li Pisani poco apresso fu aperta vendetta fatta contro a' Pisani, come si troverrà leggendo. Ma il detto messer Luchino oltre a·cciò volle promissione da·lloro di L mila fiorini d'oro in certi termini, e dierli XII stadichi i Pisani di figliuoli di loro conti e di migliori e di più cari cittadini per osservare i patti; e meser Luchino mandò loro M cavalieri colle sue insegne a soldo di Pisani, e capitano meser Giovanni Visconti suo nipote. E' signori di Mantova e di Reggio mandaro loro CC cavalieri, e quelli da Coreggia di Parma CL cavalieri, e meser Albertino da Carrara di Padova CC cavalieri per contrari di meser Mastino; e feciono lega con tutti i conti Guidi salvo col conte Simone e 'l nipote, e cogli Ubaldini, e col signore di Furlì, e cogli altri Ghibellini di Romagna, e col dogio di Genova, che tutti diedono loro aiuto di cavalieri o di balestrieri; e tali colle loro forze mossono guerra e ruppono le strade a' Fiorentini; e·cciò fu per procaccio e trattato di nostri nuovi ribelli. E ciò fatto per li Pisani, come seppono che i Fiorentini avieno fermo il patto con meser Mastino, e mandati gli stadichi, di presente a dì... d'agosto ebbono il castello del Cerruglio, quello di Montechiaro per IIIm fiorini d'oro ne spesono a' masinadieri che·ll'aveano in guardia per meser Mastino; e guernirli di loro gente, per impedire gli andamenti de' Fiorentini al soccorso di Lucca. E·cciò fatto, con tutta la loro cavalleria e popolo per comune subitamente a dì... d'agosto del detto anno vennero alla città di Lucca, e puosonvi l'assedio intorno intorno, e 'n poco tempo apresso l'affossaro e steccaro con bertesche dalla Guscianella, che va a Pontetetto, infino al fiume del Serchio, che·ffu per ispazio di più di VI miglia. E simile teneno il procinto della Guscianella insino al Serchio di sopra guernito di fortezze e di gente, ch'era altressì grande spazio o più. E poi apresso alla città feciono un altro fosso con isteccati, che·ffu una maravigliosa opera fatta in poco tempo, per modo che nullo potea entrare o uscire di Lucca sanza grande pericolo; e al continovo v'era per comune i due quartieri di Pisa a muta, e talora i tre quartieri, e così di loro molti contadini e balestrieri, assai genovesi; e bisognava bene, sì era lungo il procinto. E in mezzo di detti due procinti era accampata l'oste de' Pisani e di Lombardi in tre siti e campi spianati dall'uno campo all'altro. E·cciò poterono fare liberamente e sanza contasto, perciò che' Fiorentini per la 'mprovisa e sùbita impresa di Pisani non erano ancora aparecchiati al contasto e in Lucca non avea da CL cavalieri di meser Mastino e D pedoni di soldo, ond'era capitano Guiglielmo Canacci; e co·llui Frignano da Sesso, e Ciupo delli Scolari, e meser Bonetto tedesco, ch'avieno assai a·ffare pure di guardare la città. Ma il detto Guiglielmo Canacci al continuo proccurava Lucca per li Pisani. E partissi di Lucca e andò però a meser Mastino, e·llasciò la guardia agli altri detti capitani. Lasceremo alquanto di Pisani e del loro assedio di Lucca, e diremo tornando alquanto adietro quello che i Fiorentini feciono per la detta guerra mossa per li Pisani.
<B>CXXXII</B>
<I>Come i Fiorentini si forniro essendo i Pisani all'assedio di Lucca, e cavalcaro sopra quello di Pisa.</I>
Sentendo i Fiorentini l'aparecchio d'oste che faceano i Pisani, inanzi che ponessono l'assedio alla città di Lucca incontanente crebbono la loro cavalleria, sicché egli ebbono IIm cavalieri a soldo loro, e mandaro per l'amistadi, per esser aparecchiati se' Pisani movessono loro guerra. I Sanesi ne mandarono CC cavalieri il Comune, e C le case guelfe di Siena, e CC balestrieri, i Perugini CL cavalieri, quelli d'Agobbio con meser Iacopo Gabrielli con L cavalieri, il signore di Bologna CCC cavalieri, il marchese da Ferrara CC cavalieri, meser Mastino CCC cavalieri, e dalle terre guelfe di Romagna CL cavalieri, dal signore di Volterra il figliuolo con L cavalieri e CC pedoni, messere Tarlato d'Arezzo con L cavalieri e CC pedoni. Prato XXV cavalieri e CL pedoni, San Miniato CCC pedoni, San Gimignano e Colle ciascuno CL pedoni. Come i Fiorentini ebbono ragunata loro gente e amistadi elessono per capitano di guerra messer Maffeo da Ponte Carradi di Brescia, ch'era loro capitano di guardia. E questo fu il secondo gran fallo de' Fiorentini apresso al primo della folle compera di Lucca che con tutto che meser Maffeo fosse un valente e buono cavaliere, non era sofficiente duca a guidare sì grande esercito. Che nella nostra cavalleria aveva L o più conestaboli di maggiore affare di lui; ma·ll'ambizione dell'uficio de' XX e delli altri reggenti ebbono a schifo il savio consiglio del re Ruberto, ch'al tutto biasimava la 'mpresa di Lucca. E però non vollono per capitano niuno de' reali suoi nipoti né altri grandi baroni, per guidare la 'mpresa più a·lloro senno. E ciò fatto, feciono cavalcare loro capitano colla sopradetta cavalleria e popolo grandissimo a Fucecchio e all'altre terre del Valdarno. E mandaro loro ambasciadori a Pisa a richiedere e protestare a' Pisani che non si travagliassono della 'mpresa di Lucca, com'era ne' patti della pace spressamente tra·lloro. I Pisani diedono loro infinte e false scuse, e di presente presono il Cerruglio e Montechiaro, e puosono l'assedio con tutta loro oste alla città di Lucca. E come dicemmo nel passato capitolo, i Fiorentini aveggendosi della impresa e tradimento di Pisani di presente feciono cavalcare la loro oste, ch'era nel Valdarno di sotto, in sul contado di Pisa, e furono IIImDC cavalieri e più di Xm pedoni di soldo. E di presente presono il Ponte ad Era e il fosso Arnonico, e guastarono e arsono tutto il borgo di Cascina, e·lla villa di San Sevino e di San Casciano, e infino al borgo delle Campane presso a Pisa a due miglia. E poi si rivolsono per la via che va in Valdera, e andaro fino a Ponte di Sacco, levando grandi prede e faccendo grandi arsioni sanza contasto alcuno, istando sopra il contado di Pisa per più dì; e più sarebbono stati, se non che grande fortuna di pioggia li sopprese; onde avendo arse e guaste le villate non vi potero dimorare né andare più inanzi, e tornarsi a Fucecchio e nell'altre castella di Valdarno. E nota che questo fu il terzo gran fallo della impresa di Lucca e mala capitaneria, e·cciò non si riprende dopo il fatto. Ch'assai si vide chiaro, e si disse inanzi per li savi e intendenti, ch'a volere levare l'assedio da Lucca e disertare i Pisani l'oste di Fiorentini si dovea porre al fosso Arnonico ch'era bene albergato, e quello aforzare verso Pisa di fossi e steccati e aforzare il Ponte ad Era, e fare un piccolo battifolle a piè di Marti o in su Castello del Bosco, e in quelli lasciare guardia e guernigione di gente d'arme per avere ispedito il cammino e·lla vittuaglia. E poi al continovo fare grosse cavalcate in Valdera, e a Vada, e a Porto Pisano, e Livorno, e infino alle porte di Pisa intorno intorno, faccendo ponte di legname sopra l'Arno; e potieno di continovo cavalcare i·loro Piemonte e 'n Valdiserchio, e 'mpedire la vettuaglia ch'andava da Pisa all'oste di Lucca onde convenia per nicistà si levasse l'oste da Lucca. E·cciò sentimmo poi da' Pisani, che di questo istavano continovo in gran paura; e convenia per forza venissono a battaglia co' Fiorentini, e·lla battaglia era a lezione e con vantaggio dell'oste de' Fiorentini. Ma il distino ordinato da Dio per punire le peccata non può preterire, ch'accieca l'animo de' popoli e di loro duchi e rettori in non lasciare prendere il migliore partito. E così avenne al nostro Comune.
<B>CXXXIII</B>
<I>Come i Fiorentini compiuto il mercato della città di Lucca con meser Mastino presono la posessione essendo asediata.</I>
Infra·lla detta stanza il Mastino non dormia, ma sagacemente prese suo tempo e mandò suoi ambasciadori a Firenze, richiesono e protestarono il Comune che prendesse la posessione della città di Lucca e delle castella che tenea; e se·cciò non facessono, s'accorderebbe co' Pisani e darebbela a·lloro. E per alzare la sua mercatantia e fare la sua vendetta di Fiorentini, come dicemmo adietro, al continovo stava in bargagno co' Pisani per trattato di Guiglielmo Canacci, ribello di Bologna, stato per suo capitano in Lucca. Sopra·cciò si tennono in Firenze più consigli, e per li più savi si consigliava per lo migliore che·lla 'mpresa si lasciasse, e guerreggiassesi sopra il contado di Pisa, e com'era gran follia a prendere la posessione di terra assediata; e che molto pericolo e spesa ne potea venire, e potiesi lasciare ragionevolemente coll'onore del Comune; però che 'l primo patto era che per lo prezzo detto di CCLm di fiorini d'oro meser Mastino dovea dare la città e·lle castella libere e spedite. Ma·ll'ambizione dell'uficio de' XX e de' loro seguaci, ch'aveano fatta la prima impresa, vinse contra il savio e buono consiglio, ma pur volerla, dicendo che lasciarla troppo era gran vergogna e abassamento del Comune di Firenze; questo fu il quarto gran fallo sopra fallo fatto per l'uficio di XX. E incontanente mandaro due altri dell'uficio de' XX e altri ambasciadori con quelli di meser Mastino al marchese da Ferrara, ch'era mediatore per migliorare i patti. E giunti a Ferrara tosto s'acordò la bisogna, scemando della prima somma LXXm di fiorini d'oro per l'asedio di Lucca e perdita del Cerruglio e di Montechiaro, sicché rimase il patto a CLXXXm di fiorini d'oro: i Cm pagare infra uno anno, avendo XXVII nuovi stadichi per sicurtà di ciò, e·lli LXXXm fiorini in cinque anni apresso, ogni anno XVIm fiorini d'oro, mallevadori di ciò il marchese e 'l signore di Bologna, e tenere meser Mastino al suo soldo D cavalieri infino che fosse levato l'assedio di Lucca. Che 'nanzi che messere Mastino si fosse partito da mercato l'avrebbe fatto per Cm fiorini d'oro, siccome posessione disperata e ch'avea perduta, e a' Pisani in nulla guisa la volea dare, tutto ne facesse il sembiante, e per dispetto di meser Luchino, che co·lloro insieme l'avea assediata in sua vergogna; e questo sapemmo di certo, però ch'eravamo presenti al trattato, del numero delli stadichi. Ma·lla fretta e troppa volontà di chi l'avea a·ffare, o altra privata cagione, e bene si disse per molti cittadini che baratteria s'usò per li trattatori del primo mercato dall'una parte e dall'altra, e noi ne sentimmo tanto in Ferrara, quando si recò il mercato a CLXXXm, che quelli che v'erano per messere Mastino dissono ch'elli non avea mai sentito che·lla prima somma fosse più che CCm di fiorini d'oro. E così, se vero fu, i nostri cittadini savi ingannaro l'oste, overo il nostro Comune cieco; e fermo il secondo patto, incontanente tornaro da Ferrara i nostri ambasciadori co' sindachi di meser Mastino. E di presente feciono i nostri rettori muovere l'oste ch'era in Valdarno, e col capitano agiunsono II cittadini per sesto per consiglieri della guerra; e andarono in arme con compagnia nobilemente a' gaggi del Comune, e andarono in sul contado di Lucca, parte per la via d'Altopascio e parte dell'oste andò per Valdinievole; e accampossi tutta la detta nostra oste in sul colle delle Donne a dì... di settembre; e poi ebbono la posessione di Pietrasanta e di Barga da' proccuratori di meser Mastino. Come l'oste de' Fiorentini fu acampata, l'oste de' Pisani, ov'era a tre campi, si recarono a uno; e tegnendosi ancora per que' di Lucca la fortezza di Pontetetto, che impedia molto la scorta di Pisani, sì v'andò gran parte dell'oste de' Pisani e stettonvi più dì ad assedio, e per forza combattendo l'ebbono. In quella dimora la gente di meser Mastino con suoi sindachi e nostri, e colla gente che si volea mettere in Lucca, che furono CCC cavalieri e D pedoni, con Xm fiorini d'oro per pagare le masnade che·nn'uscirono poi, e co·lloro Ciupo delli Scolari e tutti i Ghibellini, che v'erano per meser Mastino in Lucca, con cenni di fuoco ordinati que' di Lucca a un'ora uscendo fuori co' nostri che v'andavano, si scontraro al luogo ordinato, ruppono parte delli steccati e apianaro i fossi, e sanza contasto entraro in Lucca sani e salvi. E di vero, se grossa gente fosse cavalcata co·lloro, rotta era la gente de' Pisani, che in quello punto non erano rimasi alla guardia dell'oste che D cavalieri. Entrata la detta gente in Lucca v'ebbe grande allegrezza; e i nostri sindachi, ch'erano Giovanni Bernardini di Medici, e Naddo di Cenni di Naddo, e Rosso di Ricciardo de' Ricci, presono la posessione del castello dell'Agosta e della città dal sindaco di meser Mastino, ch'era Arriguccio Pegolotti nostro antico cittadino ghibellino, a dì... di settembre. E il detto Giovanni de' Medici, ch'era ordinato ad esservi capitano, si fece fare cavaliere, e i detti Naddo e Rosso rimasono camarlinghi per lo Comune a ricevere la moneta che vi si mandava, e pagare le masnade a·ccavallo e a piè, e fornire l'ordine della vittuaglia. E feciolla sì bene ciascuno de' detti, come inanzi si leggerà.
<B>CXXXIV</B>
<I>Come l'oste de' Fiorentini fu sconfitta a Lucca da quella di Pisani.</I>
Istando la detta nostra oste in sul colle delle Donne e in su quello di Grignano, più scaramucci ebbono la nostra gente con quella de' nimici, ch'erano in San Gromigno e in San Gennaio, quando a danno dell'una parte e quando dell'altra; e fornendo Lucca del continovo di moneta, ch'altro non bisognava loro, però che per danari i Tedeschi dell'oste de' Pisani di dì e di notte fornivano Lucca di ciò che bisognava. Ma·lla 'ngannevole fortuna, ma più la mala provedenza dell'uficio de' XX e del loro consiglio di reggenti ch'erano in Firenze, e che a ciascuno per loro ambizione parea essere il buono, mesere Alardo di Valleri, o il conte Guido da Montefeltro mastri di guerra, si diliberaro che·lla detta nostra oste iscendesse al piano verso Lucca, e fossero alla battaglia co' Pisani. E questo mandaro, aspramente comandando a' capitani dell'oste. E questo fu il quinto fallo, e sanza rimedio, che Lucca era fornita ancora per più di VIII mesi; e ciò sapieno di certo, e tutto dì si fornia per lo modo detto; che stando a bada co' Pisani e fermi, gli straccavano e consumavano di spese in poco di tempo. E di vero si seppe che, 'ndugiandosi pure XV dì, meser Giovanni Visconti si partia con tutta la cavalleria del capitano di Milano, perché i Pisani non gli oservavano i patti promessi; e·cciò disse poi in Firenze, quando vi fu prigione, palesemente. L'altro gran fallo, ma pazzia, fu andare a combattere a posta e vantaggio del nimico, ch'erano dentro alla fortezza del fosso e steccati di loro campo, e poteno prendere e lasciare la battaglia, e rinfrescarsi a·lloro posta e vantaggio; e oltre a·cciò e' nonn-erano meno ma più gente di nostri a·ccavallo e a piè; ma al fallo della guerra segue incontanente la disciplina. I capitani dell'oste ubidendo il comandamento da Firenze, overo per le nostre peccata pulire, il distino di Dio li vi condusse. Il dì di calen di ottobre iscesono al piano di Lucca, e accamparsi la notte al luogo detto la Ghiaia e greto di Serchio, presso al campo di nimici a meno d'uno miglio, e·ll'una parte e·ll'altra feciono la spianata; e que' del campo di Pisa abattero verso la spianata una parte dello steccato, e richiesono la battaglia, e' nostri l'accettarono lietamente per lo giorno apresso. E così martedì, a dì II d'ottobre del detto anno MCCCXLI, le due osti s'affrontaro. I nostri ch'erano rimasi IImDCCC cavalieri e popolo grandissimo feciono due schiere, l'una di MCC cavalieri per feditori, la qual conducea il nostro capitano messer Maffeo con quelli Fiorentini che v'erano, con iscelta delle migliori masnade ch'avessono e co' Sanesi, che più donzelli delle case di Siena guelfe si feciono il dì cavalieri, e portarsi francamente. E in quella schiera fu mesere Ghiberto da Fogliano, e Frignano da Sesso, e uno conte d'Alamagna, e meser Bonetto tedesco colla gente di meser Mastino, che in quella giornata cogli altri feditori insieme feciono maraviglie d'arme, essendo fasciati di costa con più di IIIm balestrieri. La schiera grossa con tutta l'altra cavalleria e popolo e colla salmeria caricata che·ffu follia, guidavano gli altri capitani. E messere Gian della Vallina borgognone avea la 'nsegna reale, che per bontà de' nostri cittadini nullo la richiese di portare. I Pisani, ch'erano da IIIm cavalieri, feciono III schiere; l'una di feditori da DCCC cavalieri, la quale conducea... fasciata con molti balestrieri genovesi e pisani, che·nn'avieno più di noi e migliori. L'altra grossa schiera co' cavalieri del signore di Milano guidava meser Giovanni Visconti colla insegna della vipera. Un'altra schiera di CCCC cavalieri riposta adietro presso alla bocca de' loro steccati e a quella guardia, perché li nostri di Lucca ch'erano usciti della città non assalissono il campo. Quella terza schiera di Pisani guidava meser Ciupo delli Scolari, che 'l dì si fece cavaliere, e meser Francesco Castracane. Fatte le dette schiere delle due osti, s'affrontaro insieme in sull'ora della terza; e prima i feditori dall'una parte e dall'altra. La battaglia fu aspra e forte, però che da ciascuna parte di feditori era il fiore della cavalleria dell'oste; e per la forte percossa di feditori di Pisani, tutto fossono meno gente di nostri, feciono assai rinpignere adietro la nostra schiera de' feditori; ma poco apresso i feditori di Pisani furono rotti e sconfitti; e fuggendo parte si tornarono dentro alli steccati e parte alla loro schiera grossa. I nostri feditori avendo avuta la vittoria de' feditori di Pisani, francamente asaliro la loro schiera grossa; e quella fu una ritenuta e aspra battaglia, e durò infino dopo nona, e gran mortalità v'ebbe di cavalli, e abattuta di cavalieri per li molti balestrieri dell'una parte e dell'altra, e fu abattuta la 'nsegna di meser Luchino, e preso messer Giovanni Visconti capitano della sua gente, e Arrigo di Castruccio, e messer Bardo Frescobaldi, e più di migliori Pisani da cavallo e d'altri nostri usciti, e quasi rotta e sbarattata la detta schiera, con tutto rilevassono un'altra insegna della vipera di Melano, parte di loro si rannodaro colla schiera di meser Ciupo delli Scolari che stava ferma. E con tutto che' nostri feditori combattessono e cacciassono i nimici, la nostra ischiera grossa non si mosse né pinse inanzi a favorare i nostri feditori, che·ffu gran fallo e mala capitaneria; ma dissesi fu per difetto di meser Gianni della Vallina, ch'avea la 'nsegna reale, che non volle andare contro alla 'nsegna di meser Luchino per saramento fatto essendo suo prigione in Lombardia. Ma maggior fallo fu de' nostri rettori a darli la 'nsegna reale, e che sì grande oste non capitanaro di sofficienti duci, e non vi furono di nobili cittadini a·ccui ne calesse. I nostri della prima schiera credendosi avere la vittoria, si partiro di qua e di là seguendo prigioni. Dissesi che mesere Ciupo delli Scolari, che stava colla schiera disparte a vedere le contenenze della battaglia, e raccogliendo a·ssua schiera que' che fuggivano, usò una maestria di guerra, che mandò più ribaldi alla nostra schiera grossa e tra·lla nostra salmeria, gridando e dando boce che' nostri feditori erano sconfitti; onde la salmeria si cominciò tutta a partire. Quelli della nostra grossa schiera, ch'erano di lungi, ov'era la battaglia e caccia per uno terzo di miglio, tra per la detta falsa voce, e veggendo i nostri sciolti di schiera alla caccia de' nimici e mischiati tra·lloro, e veggendo fuggire la salmeria, e·lla schiera di meser Ciupo ferma e cresciuta colle 'nsegne levate, credettono a·ccerto che' nostri fossono rotti, e sanza rotta o caccia di nimici si ruppono tra·lloro e missonsi in fuga; e simile i pedoni. Messer Ciupo colla sua riposata schiera veggendo in fuga la nostra schiera grossa, percosse a' nostri feditori stati prima a due battaglie vincitori, ch'erano sparti e ricogliendo prigioni sanza ordine o ritegno alcuno, fedirono tra·lloro, e ruppogli e sconfissolli di presente, e ricoveraro i loro prigioni, salvo messere Giovanni Visconti, ch'era menato alla schiera grossa, e più altri barattati, che·ssi ricomperaro poi da quelli che·lli avieno presi, sanza rassegnarli al Comune. In questa battaglia non moriro di nostri oltre a CCC uomini tra cavallo e a piè, e niuno uomo di nome salvo Frignano da Sesso, e certi conestaboli di meser Mastino e di marchesi, ch'alla battaglia si portaro valentremente. Cavalli vi moriro più di IIm tra dall'una parte e dall'altra per le molte balestre e per lo modo della battaglia, che·ffu quasi com'uno torniamento con più riprese. Prigioni non vi rimasono de' nostri che da DCCC a M tra a cavallo e a piè, però che·lla nostra schiera grossa si partì salva per lo modo detto, e ricoveraro in Pescia, e' nimici non seguiro caccia, e molti de' nostri si fuggiro in Lucca; e meser Tarlato d'Arezzo fu di quelli. Questi furono i prigioni di rinomea di nostri che vi rimasono: cittadini, messer Giovanni della Tosa, messer Francesco Brunelleschi, messer Barna de' Rossi, Albertaccio da Ricasoli, che·ssi ricomperaro per danari; di forestieri, messer Maffeo nostro capitano, messer Bonetto tedesco, e VI altri conestaboli di meser Mastino, e de' marchesi, e del signore di Bologna, che poi di Pisa si fuggiro. E rimasonvi presi da VIII tra cavalieri e donzelli di Siena, e 'l figliuolo del signore di Volterra; tutti questi furono presi nel mezzo del campo combattendo tra' nimici. E meser Iacopo Gabrielli fu preso fuggendo in Lucca. E se non che a' Pisani rimase il campo e l'onore, per lo giudicio e volere d'Iddio e per lo nostro male provedimento, più di Pisani vi morirono assai che di nostre genti; e il costo a·lloro innumerabile per le paghe doppie e mende de' cavalli. Ma pure la nostra mal guidata oste fu sconfitta con nostro danno e vergogna e disinore, sventuramente a dì II d'ottobre MCCCXLI.
<B>CXXXV</B>
<I>Digressione sopra la detta sconfitta.</I>
Quando fu la detta sconfitta, noi Giovanni Villani autore di questa opera eravamo in Ferrara stadico di meser Mastino per lo nostro Comune cogli altri insieme, come dicemmo adietro; e in due giorni apresso avemmo la novella assai più grave ch'ella non fu, onde ci cusammo tutti essere prigioni di meser Mastino, stimandoci che 'l nostro Comune per la detta sconfitta fosse rotto e sbarattato, e che·cci convenisse ricomperare non solamente Cm fiorini d'oro promessi, ma·lla redenzione de' prigioni e·lla menda de' cavalli di meser Mastino. E compiagnendoci insieme amaramente sì del pericolo incorso al nostro Comune, e sì del nostro propio danno e interesso, uno de' nostri compagni cavaliere compiagnendosi quasi verso Iddio, mi fece quistione dicendo: "Tu hai fatto e fai memoria de' nostri fatti passati e degli altri grandi avenimenti del secolo, quale puote esere la cagione, perché Iddio abbia permesso questo arduo contro a·nnoi, essendo i Pisani più peccatori di noi, sì di tradimenti sì d'essere sempre stati nimici e persecutori di santa Chiesa, e·nnoi ubidenti e benefattori?". Noi rispondemmo alla quistione, come Iddio ne spirò oltre alla nostra piccola scienza, dicendo che in noi regnava solo un peccato intra gli altri che più spiacea a Dio che quelli de' Pisani; ciò era non avere in noi né fede né carità. Rispuose il gentiluomo quasi commosso, dicendo: "Come la carità, che più se ne fa in Firenze in uno dì, che in Pisa in uno mese?". Dissi ch'era vero; ma per quello membro di carità che·llimosina si chiama, Iddio ci ha guardati e guarda di maggiori pericoli; ma·lla vera carità è fallita in noi; prima verso Iddio, di non esere a·llui grati e conoscenti di tanti benifici fatti e in tanto podere e stato posta la nostra città, e per la nostra prosunzione non istare contenti a' nostri termini, ma volere occupare non solamente Lucca, ma l'altre città e terre vicine indebitamente. Come col prossimo eravamo caritevoli, a ciascuno è manifesto a ditrarre e tradire e volere disertare l'uno vicino compagno e consorto l'altro, ed eziandio tra fratelli carnali, e colle pessime usure contro a' meno possenti e bisognosi. Della fe' e carità verso il nostro Comune e replubica è anche manifesto tutta esere fallita; che venuto è tempo, per li nostri difetti, che ciascuno cittadino per una sua piccola utilità ditrae e froda e mette a non calere ogni gran cosa di Comune, che che pericolo ne corra. Ove i Pisani sono il contrario, cioè che sono uniti tra·lloro, e fedeli e·lleali al loro Comune, benché in altre cose sieno così, o maggiori peccatori di noi; ma come disse il nostro signore Gesù Cristo nel Vangelo: "Io pulirò il nimico mio col nimico mio etc.". E fatto silenzio alla detta quistione, che ciascuno fu contento della detta difinizione, e riconoscemmo i nostri difetti e poca carità tra·nnoi in comune e in diviso. Il marchese da Ferrara sentendo la nostra turbazione mandò per noi, e tutti ci ebbe in sua presenza e del suo privato consiglio. Prima dolutosi con noi del sinistro caso e fortuito avenimento occorso alla nostra gente e alla sua; ma poi, come il buono padre fa al suo figliuolo, confortandone, mostrandone la piccola perdita ricevuta, e com'era de' casi della guerra, e da non curare, potendosi ricoverare, magnificando il nostro Comune di gran potenzia, e per sé e per li amici dicendo che di ciò si farebbe alta e grande vendetta, profferendo al nostro Comune tutto suo podere, e di venire in persona elli o il suo fratello con tutte sue forze, e così ci pregò significassimo al nostro Comune. E immantenente mandò in Firenze suoi ambasciadori colla detta proferta, onde prendemmo gran conforto. E per simile modo fece al nostro Comune meser Mastino e 'l signore di Bologna. Ma meser Albertino da Carrara signore di Padova fece della nostra sconfitta falò e grande allegrezza per dispetto di meser Mastino, e avea di sua gente C cavalieri coll'oste de' Pisani contro a·nnoi; ma male si ricordava o era grato, ma ingratissimo de' benifici ricevuti elli e' suoi antichi dal nostro Comune. Ed elli, colla nostra potenza e de' Viniziani, di servo di quelli della Scala fatto signore di Padova, come adietro facemmo menzione al conquisto di quella. Avemo per questo capitolo fatta sì lunga digressione sopra la detta nostra sconfitta per dare assempro di correzione di nostri difetti a' nostri successori, e perch'abbino ricordo e memoria di quelli che·cci sono stati amici e contrari nella nostra aversità, ritornando apresso a nostra materia.
<B>CXXXVI</B>
<I>Della materia medesima.</I>
Come in Firenze giunse la prima e sùbita novella della detta sconfitta, tutta la città fu commossa di grande dolore e paura, e faccendo grande guardia di dì e di notte, istimandosi che·lla rotta e dannaggio fosse più grande che nonn-era. Ma il giorno apresso fu saputo il vero della piccola perdita di morti e di presi, e·cche la città di Lucca non era perduta, ma si tenea francamente, né perduto nullo altro castello che per noi si tenesse, s'apersono le botteghe, e ciascuno disarmato intese a·ffare i fatti suoi come prima, non parendo che battaglia o sconfitta fosse fatta; e in ciò per li cittadini si mostrò grande magnificenza. E poi apresso che incontanente s'ordinò di rifare maggiore oste che·lla prima, richeggendo d'aiuto il re Ruberto e gli altri amici, con soldando gente d'arme a cavallo e a piè, quanti se ne potessero avere; ed elessono per capitano di guerra, per averlo più tosto, meser Malatesta da Rimino tenuto savio uomo in guerra, il quale venne in Firenze a dì... di febraio con CC cavalieri, intra' quali avea de' migliori uomini di Romagna e della Marca e oltramontani, e CC pedoni alla guardia di sua persona; e per lo suo uficio da' Fiorentini fu ricevuto a grande onore avendo di lui grande speranza di vittoria. E oltre a·cciò non potendosi avere dal re Ruberto per capitano uno di nipoti, ch'assai si prontò per li Fiorentini, come inanzi si farà menzione, e sentendo che 'l duca d'Atene venia di Francia a Napoli, certi reggenti della nostra città scrissono al detto duca, e feciono scrivere a' suoi amici e mercatanti alla sua venuta a Vignone in Proenza dov'era la corte, che·lli piacesse di fare la 'mpresa d'essere sovrano capitano al servigio del nostro Comune. Il gentile signore e bisognoso pellegrino per suo avantaggio e a richiesta de' detti suoi amici e grandi di Firenze, che di ciò il confortaro e richiesono ad altro maggiore intendimento, come inanzi lui venuto in Firenze si potrà comprendere, accettò la 'mpresa, e sanza indugio con C gentili uomini avea in sua compagnia per mare venne a Napoli, che a Pisa, né in quelle marine, non potea porre e non avea cavalli. E giunto a Napoli, sanza fare asapere di suo intendimento al re Ruberto si venne fornendo d'arme e di cavalli, dando voce di volere andare in sua terra in Romania. Lasceremo alquanto della 'mpresa del duca d'Attene, ma assai tosto vi ci converrà tornare, crescendone di suoi fatti grande e nuova matera, e diremo alquanto di processi che 'l re Ruberto tenne col nostro Comune ne' fatti di Lucca.
<B>CXXXVII</B>
<I>Come il re Ruberto domandò a' Fiorentini la signoria di Lucca ed ebbela, promettendogli d'atase.</I>
Lo re Ruberto essendo molto infestato per lettere del nostro Comune, e per quelli delle nostre compagnie e suoi mercatanti ch'erano intorno di lui, che mandasse uno di nipoti con gente d'arme all'aiuto dell'oste che 'l nostro Comune intendea di fare contra i Pisani per levare l'assedio di Lucca, per la sua grande avarizia non volendo fare la 'mpresa e disdire l'aiuto al nostro Comune non potea con suo onore, sì volle fare e fece una sottile segacità, che mandò a Firenze del mese di novembre una grande ambasciata, ciò fu il vescovo di Grufo grande maestro, e meser Gianni Barili de' maggiori di Napoli, e Niccola degli Acciaiuoli con grande compagnia, e fece per quella dimandare inn-un grande e bello consiglio la posessione e signoria della città di Lucca, come sua e di sua giuridizione, tutta gli fosse tolta da Uguiccione dalla Faggiuola e Comune di Pisa, come assai adietro facemmo menzione. E se·cciò si facesse per li Fiorentini promettea tutte le sue forze per mare e per terra contra li Pisani, a·ffare le nostre vendette e levare l'oste loro da Lucca, stimandosi di certo che' Fiorentini per loro alterezza così gran costo e danno e vergogna, com'avieno ricevuta per la 'mpresa di Lucca, negassono la sua dimanda e richiesta, e·cciò faccendo avea giusta causa di negare l'aiuto dimandato per lo nostro Comune. I Fiorentini sopra·cciò saviamente avisati e con buono consiglio liberamente rispuosono agli ambasciadori, e in loro presenza rifermaro in quello consiglio di dare al re, o a·lloro per lui, libera la posessione di Lucca; e feciono sindachi a·cciò fare, e andaro per scorta co·lloro in Lucca, e diedono la posessione e 'l dominio con bollate carte. E·cciò fatto, i detti ambasciadori andaro a Pisa, e richiesono i Pisani da parte del re con solenni protestagioni che·ssi levassono dallo assedio della sua città di Lucca. I Pisani parendo a·lloro che·lla detta richiesta fosse opera disimulata a posta de' Fiorentini, la quale nel vero non era, ma come che fosse, a·lloro ne parea avere mal partito a mano a recarsi il re Ruberto incontro, e d'altra parte da·lLucca l'assedio non volieno levare; disimulatamente dissono di rispondere al re per loro ambasciadori; e così feciono dilaiando e menando il re per parole, e non ne vollono in fine far niente; ma rafforzando al continovo l'assedio di Lucca colle forze di meser Luchino Visconti e degli altri tiranni di Lombardia di parte imperiale; ed era a' Pisani assai agevole, essendo sì presso di Lucca, essere afforzati.
<B>CXXXVIII</B>
<I>Come i Fiorentini mandarono al re Ruberto per aiuto e no·ll'ebbono, e·cciò che·nne seguì.</I>
I Fiorentini veggendosi così menare mandaro ambasciadori a Napoli a richiedere al re Ruberto il suo aiuto, e uno de' nipoti per loro capitano, e che oservasse quello avea fatto promettere a' suoi ambasciadori quando li fu renduta la possessione di Lucca, come detto avemo adietro; i quali ambasciadori con grande stanzia e studio seguiro; ma poco valse che a nulla si movesse, bargagnando di mandare il duca d'Attene con DC cavalieri, pagando il Comune di Firenze la metà del soldo ed elli l'altra metà; e ancora non potendo meglio, per lo nostro Comune fu accettato, ma no·llo volle il re oservare. O avarizia, nimica della reale vertù di magninimità, come guasti ogni bene e onorata impresa! Che·sse lo re Ruberto ci avesse oservata la 'mpromessa fatta fare al nostro Comune per li suoi ambasciadori, e mandato uno de' nipoti con M cavalieri a mezzo nostro soldo all'oste de' Fiorentini, e XII galee armate sopra i Pisani a tor loro l'entrata del porto, ch'assai gli era leggere a fornire, colla gran forza e ragunata di Fiorentini col loro oste, di certo i Pisani con tutto l'aiuto di meser Luchino di Milano e d'altri Lombardi non avieno podere di tenere campo né assedio a Lucca. Per lo quale difetto del re Ruberto nacquono molte sconvenenze e pericoli e danni con sua vergogna e del nostro Comune, come apresso si potrà comprendere, che' Fiorentini si condussono di fare oste per loro, per soccorrere Lucca di più di IIIIm cavalieri e popolo infinito, come nel seguente capitolo si farà menzione, con poco onore e grande spendio. Ma quello che più portò di rischio e di pericolo, non solamente al nostro Comune ma a tutta parte guelfa e di Chiesa, e a tutta Italia, ed eziandio al re Ruberto e al suo regno, si fu che per lo sopradetto isdegno preso col re Ruberto a·ssuo gran difetto certi reggenti del nostro Comune per sodducimento e consiglio di meser Mastino della Scala mandaro segretamente due popolani di maggiori reggenti ambasciadori con quelli di meser Mastino a Trento in Alamagna, ov'era venuto il Bavero, che·ssi facea chiamare imperadore, per altre sue bisogne, e co·llui trattaro per tal modo che mandò a Firenze e poi alla nostra oste più di suoi baroni con da L cavalieri, la maggiore parte di corredo; intra gli altri caporali furo il duca di Tecchi col suo grande sugello e il suo Luffo Mastro e il Porcaro conte, promettendo se 'l nostro Comune il volesse ricevere il duca di Techi per suo vicario co·llarghi patti, farebbe partire tutti i Tedeschi del campo de' Pisani, incontanente vedessono quello sugello, e rompere l'oste di Pisani, e tornare tutti dal nostro. E di certo venia fatto; ma di ciò avuti i nostri reggenti segreto consiglio, e certi savi amatori di parte guelfa e di Chiesa, e a·ccui toccava lo stato e parte più che a coloro ch'avieno menato il detto trattato, s'avidono che·cciò faccendo era pericolo di tornare il reggimento di Firenze e di tutta Toscana assai tosto a parte ghibellina e d'imperio; consigliarono che non si seguisse il detto trattato per lo migliore, che che della 'mpresa seguisse da·nnoi a' Pisani; e così rimase, e' detti baroni si tornaro in Alamagna. Ma per la detta loro venuta il re Ruberto entrò in tanta gelosia, che non sapea che·ssi fare, temendo forte Firenze non prendesse rivoltura di parte d'imperio e ghibellina. E molti suoi baroni e prelati e altri del Regno ricchi uomini, ch'aveano dipositati loro danari alle compagnie e mercatanti di Firenze, per la detta cagione entraro in tanto sospetto, che ciascuno volle esere pagato, e fallì a' Fiorentini la credenza in tutte parti dove avieno affare, per modo che poco tempo apresso per cagione di ciò, e gravezze di Comune e per la perdita di Lucca, apresso molte buone compagnie di Firenze falliro, le quali furono queste: quella de' Peruzzi; gli Acciaiuoli, tutto non cessassono allora, per loro grande potenza in Comune, ma poco apresso; e' Bardi ebbono gran crollo, e non pagavano a cui dovieno, e poi pur falliro; falliro i Bonaccorsi, i Cocchi, li Antellesi, quelli da Uzzano, i Corsini, e Castellani, e Perondoli, e più altri singulari mercatanti e più artefici e piccole compagnie a gran danno e rovina della mercatantia di Firenze, e universalmente di tutti i cittadini; che·ffu maggiore danno al Comune che·lla sconfitta o perdita di Lucca. E nota che per li detti fallimenti delle compagnie mancarono i danari contanti in Firenze, ch'apena se ne trovavano. E·lle posessioni in città calarono a volerle vendere le due derrate per uno danaio, e in contado il terzo meno a valuta, e più calaro. Lasceremo a dire della detta matera, e diremo della grande oste, che' Fiorentini feciono per diliberare Lucca dall'asedio di Pisani, e non venne loro fatto.
<B>CXXXIX</B>
<I>D'una grande e nobile oste che' Fiorentini feciono poi per levare i Pisani dallo assedio di Lucca.</I>
Volendo i Fiorentini seguire la loro folle impresa di fare oste per levare i Pisani dall'asedio di Lucca, e sentendo fallia a quelli d'entro assai tosto la vittuaglia, ebbeno più di IIm oltramontani cavalieri, buona gente al loro soldo; cittadini a cavallo ve n'ebbe XL con VI consiglieri del capitano, che·ffu mala providenza; e non si ricordavano i rettori di Firenze di quello che scrive Lucano di Cesare quando facea le sue osti, non dicea alle sue milizie: "Andate!", ma: "Venite!"; e·cciò faccendo avea sempre vittoria e onore. E così aviene il contrario a' signori e rettori de' Comuni, quando personalmente non sono a guidare i loro eserciti, lasciando la cura e providenza a' soldati e strani: e questo basti, che·lla sperienza fa pruova del fatto. Alla nostra oste mandò aiuto D cavalieri meser Mastino, e D il signore di Bologna, CCCC cavalieri i marchesi da Ferrara, e CC dalle terre guelfe di Romagna, e CCC da' Sanesi, e CL da Perugia, e CL dall'altre terre d'intorno; e' conti Guidi guelfi con Xm tra pedoni e balestrieri di masnada, sanza i contadini e distrettuali: e diedonsi le 'nsegne domenica d'ulivo, a dì XXIIII di marzo. E il dì di nostra Donna apresso, MCCCXLII, si mosse l'oste e andarne in Valdinievole. E questo fu il sesto gran fallo e errore di XX che guidavano la guerra e 'l reggimento della città. Che·sse ancora fossono iti assediare o porre oste a Pisa, era vinta la guerra, e levato l'assedio da Lucca; ma no·llo permise Iddio per li nostri difetti e peccati, e per arogere alle nostre disciprine e spendio e abassamento della nostra città, e con nostra vergogna avendo ragunata sì grande potenzia e nobile oste, che sarebbe stato sofficiente a uno reame. Ben fu gran colpa di questo difetto di nostri cittadini ch'erano caporali in Lucca, ch'al continuo scriveano a Firenze: "Soccorrete, soccorrete, che·lla terra nonn-è fornita per uno mese"; ed era fornita per più di tre. E tutto fu del fallo della guerra veduto dinanzi per li savi. Partissi la detta oste da Pescia e di Valdinievole dì XXVII di marzo, e puosesi ed acampossi sul poggio di Grignano e in sul colle delle Donne, ove fu l'altra volta; e in que' luoghi tenne l'oste il nostro capitano, meser Malatesta, uno mese e mezzo, istando in vani trattati di corrompere i soldati dell'oste de' Pisani, non faccendo pruova o valoria alcuna, come potea e dovea avendo tanta buona gente a·ccavallo e a piè; ma meser Malatesta trovò il rocco a petto al cavaliere, che 'l capitano dell'oste de' Pisani era Nolfo figliuolo del conte Federigo da Montefeltro suo parente, che sapea delle volte romagnuole tenendolo in trattato vano altressì bene com'elli; e molti cittadini ne presono sospetto d'inganno e tradimento per la lunga stanza, perdendo tanto tempo bello e utole con tanto possente oste; onde molto fu ripreso meser Malatesta, e mandato gli fu da Firenze riprendendolo forte, che movesse l'oste verso i nimici, che che avenire ne dovesse. In questa stanza i Pisani e loro allegati non dormiro, che i Tarlati d'Arezzo si disse trattaro di rubellare la città d'Arezzo al nostro Comune. E Guiglielmo degli Altoviti, ch'era per capitano di guardia inn-Arezzo, fece per la detta cagione pigliare mesere Piero Saccone e meser Ridolfo e messere Luzimborgo e Guido e... de' Tarlati, e mandogliene presi a Firenze; e nel palagio de' priori di sopra fu loro prigione più tempo, e chi·lli facea colpevoli e chi no; ma per quello seguì apresso pure mostrò fossono colpevoli; e più volte si tennero consigli di giudicarli a morte, ma vinsene il peggio per corrotti cittadini. E fu fatto prendere in Lucca meser Tarlato e tenuto sotto cortese guardia, il quale poco apresso uscendo fuori di Lucca a diporto con meser Giovanni de' Medici si fuggì nel campo de' Pisani. E poi e per l'altri Tarlati si rubellaro molte castella di loro e del contado d'Arezzo alli Aretini, faccendo loro guerra. Gli Ubaldini si rubellaro al nostro Comune, e colla forza de' Ghibellini di Romagna e con certe bandiere a·ccavallo di meser Luchino di Milano assediarono la terra di Firenzuola; e andandovi di nostre genti di Mugello, ond'era guidatore uno de' Medici, per soccorrella male ordinati, furono per aguato sopresi e rotti a Rifredo; e pochi dì apresso ebbono Firenzuola per tradimento d'alcuno loro fedele che v'abitava dentro, e tutta l'arsono e disfeciono e ripuosono di sopra a quella Montecoloreto, e afforzallo; e per tradimento ebbono il castello di Tirli che nonn-era fornito, a gran vergogna del nostro Comune. E gli Ubertini e' Pazzi rubellarono Castiglione loro castello e Campogiallo e-lla Treggiaia, sicché intorno al nostro contado avea gran bollore stando la nostra oste in su quello di Lucca.
<B>CXL</B>
<I>Come l'oste de' Fiorentini si strinse a Lucca per fornilla e nol potero fare, e Lucca s'arrendé a' Pisani.</I>
Partissi meser Malatesta colla nostra oste a dì VIIII di maggio da Grignano; e' Tedeschi delle nostre masnade per essere male ordinati rubarono tutto il nostro campo; e scesi al piano, s'accampò l'oste a San Piero in Campo di costa al fiume del Serchio, presso a' nimici intorno di due miglia; e quello dì giunse nel nostro per la via di Bologna e da Pistoia il duca da·tTecchi e Luffo Mastro e 'l Porcaro baroni del Bavero, con L armadure con XXV cavalieri a spron d'oro, ciascuno a grandi destrieri, molto nobile gente, col trattato ordinato a Trento in Alamagna col Bavero co' nostri ambasciadori, come adietro facemmo menzione. E il detto dì giunse alla detta nostra oste da Firenze il duca d'Atene con meser Uguiccione de' Bondelmonti e meser Manno de' Donati con da C cavalieri franceschi a nostri gaggi in sua bandiera. E a dì X di maggio la mattina per tempo si mosse l'oste da San Piero in Campo cavalcando schierati da uno e mezzo miglio verso i nimici richieggendogli di battaglia. Non vollono uscire di loro steccati, e di ciò feciono saviamente. La nostra oste, non potendo avere la battaglia, passarono due rami del fiume del Serchio; il terzo ramo era sì ingrossato per acqua ritenuta per li nimici e pioggia cominciata, che·lla sera non potero passare, e quella notte con gran disagio e sofratta di vittuaglia e di tutte cose, e asaliti da' nimici stettono in su quella isola, faccendo quella notte fare uno ponte di legname per passare sopra quello ramo di Serchio. E il dì apresso passò tutta l'oste di là alquanto sopra il colle di San Quirico, ov'era un forte battifolle guernito per li Pisani alla guardia del poggio e del ponte a San Quirico. Veggendo i Pisani passato per li nostri il fiume, temendo di perdere la fortezza di San Quirico sì vi mandarono più gente alla difesa, ed ebbe tra·lla nostra gente e·lla loro più badalucchi a danno di Pisani. E di certo si disse, se 'l capitano nostro avesse fatto pugnare l'oste verso la fortezza, i Pisani l'abandonavano ed era vinto il passo; che nonn-era comparazione la forza di nimici alla nostra gente, che solo i ribaldi e' ragazzi dell'oste nostra avrebbono vinto colle pietre il battifolle e 'l ponte. E di ciò fu assai ripreso meser Malatesta, il quale colla nostra oste valicò oltre, e accamparsi su 'n un poggio incontro al prato di Lucca, lasciandosi adietro la bastita e fortezza di San Quirico. E se 'l capitano fosse almeno isceso al piano di contra al prato di Lucca, si fornia allora la terra per forza, e partivasi l'oste di Pisani in rotta; però che non era ancora per li Pisani fatta chiusa né fortezza alcuna al prato di Lucca da quella parte. E oltre a·cciò i nostri ch'erano in Lucca, uomini e femmine e fanciulli, veggendo la potenza della nostra oste armati e disarmati uscirono nel prato sanza contasto di nimici. Il capitano nostro pur volle che·ll'oste s'accampasse al poggio quel dì, e·lla notte cominciò gran pioggia; ma però i Pisani non lasciaro di rafforzare il battifolle di San Quirico, e affossaro e steccarono il prato presso al Serchio, sicché i nostri non potessono valicare, e in sul prato ridussono tutta la loro potenza d'oste apetto a' nostri. E quivi dimorò la nostra oste per IIII dì sanza fare alcuna cosa con molta soffratta di vittuaglia per lo male tempo, e fu talora vi valse il pane soldi III; poi a dì XV di maggio raconciò il tempo. Uno messer Bruschino tedesco con sua bandiera e compagni valicò il Serchio in sull'ora di vespro, e cominciò badalucco co' nimici, e seguillo il duca d'Atene con sua gente, e ingrossò sì il badalucco, che più di MD cavalieri e più pedoni di nostri valicaro il fiume, e per forza ruppono gli steccati e misero in fuga i nimici; e se fossono seguitati da' nostri, e fosse stato più di giorno, e rimasi i nostri in sul prato, i nostri avieno la vittoria; ma la notte fece fare la ritratta. E in quella medesima notte i Pisani con molto affanno e sollecitudine rifeciono i fossi e steccati più forti che prima; e ricominciò la pioggia e 'l Serchio a crescere, sì che non si potea ben guadare in quello luogo, tante furono le traverse e difalte della nostra oste per mala condotta. Veggendo il nostro capitano così aforzato il campo di Pisani e non potendo fornire Lucca con sua grande vergogna e del nostro Comune e d'amici, si partì coll'oste domenica a dì XVIIII di maggio, e per li guadi de' rami del Serchio, ond'erano venuti; ripassaro il fiume e per la via d'Altopascio, e puosonsi in sul Cerruglio a dì XXI di maggio, e a quello dierono battaglia e no·ll'ebbono; e poi si partiro e tornaro in Valdarno con onta e vergogna e grande spendio di Fiorentini. E da Fucecchio si partiro a dì VIIII di giugno IIm cavalieri con molti pedoni, e cavalcaro in sul contado di Pisa faccendo danno assai; e CL cavalieri che de' Pisani venieno a Marti furono presi da' nostri. Ma dopo volta fu la buona providenza a venire sopra quello di Pisa. Quelli ch'erano in Lucca, veggendosi abandonati del soccorso di tanta potenza, cercaro loro accordo co' Pisani, e rendero loro la città di Lucca salve le persone con ciò che·nne vollono trarre, a dì VI di luglio MCCCXLII. E nota ch'al principio che·ll'oste nostra era a Grignano i Pisani vollono di patti, pace faccendo, dare di Lucca al nostro Comune CLXXXm di fiorini d'oro in sei anni, per quelli promessi a meser Mastino; e oltre a·cciò per omaggio dare a perpetuo ogn'anno per san Giovanni Xm fiorini d'oro, e uno palio con uno cavallo coverto di scarlatto di valuta di più di CC fiorini d'oro. I più di Fiorentini vi s'acordavano per fuggire spese e·lla guerra. Ma Cenni di Naddo, ch'allora era priore e il figliuolo in Lucca, uomo presuntuoso, no·ll'asentì mai, ma il contrariò con sua setta, e presesi il piggiore, come siamo usati. Onde per quello ch'avenne abassò molto lo stato de' Fiorentini, avendo più di IIIIm buoni cavalieri e popolo grandissimo, e perdere sì fatta gara e impresa per male consiglio e mala condotta e capitaneria; overo più tosto per lo giudicio di Dio, e per abassare la superbia e avara ingratitudine di Fiorentini e di loro rettori. Lasceremo alquanto di nostri fatti, ch'assai n'avemo detto a questa volta, e diremo d'altre cose che furono in altre parti in questi tempi. Ma non volemo lasciare di fare memoria della profezia, overo predestinazione, che·cci mandò da Parigi il savio e valente maestro Dionigi dal Borgo della nostra impresa di Lucca, come facemmo menzione adietro nell'altro volume nel capitolo della morte di Castruccio, che tutto fu vero; che quelli per cui mano avemmo la tenuta della signoria di Lucca fu Guiglielmo Canacci delli Scannabecchi di Bologna, vicario in Lucca e sindaco di mesere Mastino, ch'avea l'arme, come disse, nera e rossa, ciò era il campo rosso e uno becco nero. E come fu con grande affanno e spendio e vergogna del nostro Comune, assai chiaro si mostra a·cchi ha ben compreso l'aventure che di ciò occorsono, siccome per noi è fatta col vero adietro etterna memoria.
<B>CXLI</B>
<I>Come in Mallina in Brabante s'aprese fuoco, e arse le due parti della terra.</I>
All'entrata di maggio MCCCXLII disaventurosamente s'aprese fuoco nella terra di Mallina in Brabante, e·ffu sì impetuoso e sanza avere rimedio di soccorso, che v'arsono più di Vm case, e andando l'uno parente a soccorrere la casa dell'altro, in poca d'ora avea novella la sua ardeva. E arse la grande chiesa e 'l palagio dell'Alla con più di XIIIIm panni, e morivvi molte persone, uomini e femmine e fanciulli, con infinito danno di case e maserizie e arnesi e altre mercatantie, che·ffu uno grande giudicio di Dio.
<B>CXLII</B>
<I>Come il popolo d'Ancona cacciarono della terra i loro grandi.</I>
All'entrante di giugno del detto anno per ingiurie ricevute da certi grandi si levò in furia il popolo minuto d'Ancona, e si levò a romore e assaliro i nobili e grandi di loro città; e molti n'uccisero e fediro, e cacciaro della terra, e rubarono le loro case; e·cciò fu crudele operazione, che per alquanti accessi fatti per alcuni, tutti i noboli e·lli innocenti come i colpevoli così aspramente fossono puniti.
<B>CXLIII</B>
<I>Come morì il duca di Brettagna, e·lla guerra ne seguì.</I>
Nel detto anno MCCCXLII morì il duca di Brettagna di suo male e sanza ereda maschio. Questi era per lo suo signoraggio il maggiore barone di Francia, e di XII peri; rimase di lui una figliuola la qual era moglie del siri di Valghere, e visconte di Limoggia; e questa donna avea una figliuola la quale Filippo di Valos re di Francia, morto il detto duca, maritò a Carlo di Bros suo nipote figliuolo della sirocchia, e fecelo duca di Brettagna, onde i Brettoni furono mal contenti, e quasi la maggior parte si rubellaro, e feciono duca il conte di Monforte, figliuolo che·ffu del fratello carnale del sopradetto duca, a·ccui succedea il retaggio per linea masculina; onde il re di Francia fu molto ripreso d'ingiustizia, mutando l'ordine e·lla consuetudine di baronaggi di Francia per lo nipote, e fece contro alla sua elezione medesima del reame, come è detto per noi inn altra parte, succedendo il retaggio per femmina. A·rre Aduardo d'Inghilterra succedea il reame di Francia per la madre; ma i signori si fanno e disfanno le leggi a·lloro vantaggio. Onde nacque grande guerra; che 'l detto conte di Monforte con parte di Brettoni s'allegò col re d'Inghilterra, e colle loro forze feciono molta guerra al re di Francia, come seguirà per inanzi. E del detto torto fatto al conte di Monforte per Filippo re di Francia tosto ne fece Iddio vendetta contro al detto re e contra il detto Carlo di Bros, come si troverrà inanzi l'anno MCCCXLVI e·ll'anno MCCCXLVII; però che niuna giusta vendetta rimane impunita, bene ch'ella s'indugi; e questo basti alla presente materia. Lasceremo al presente de' fatti d'oltremonti, e torneremo quando fia tempo e·lluogo; e cominceremo il tredecimo libro, come i Fiorentini per lo loro male stato elessono per loro signore il duca d'Atene, e conte di Brenna di Francia, onde seguì alla nostra città di Firenze grandi mutamenti e pericolosi come inanzi leggendo si potrà trovare.
Qui finisce il dodecimo libro
<B>LIBRO TREDECIMO</B>
<B>I</B>
<I>Incomincia il tredecimo libro, come il duca d'Atene occupò la signoria di Firenze, e quello ne seguì.</I>
Convienne cominciare il XIII libro, però che richiede lo stile del nostro trattato; perch'è nuova materia, e grandi mutazioni e diverse rivoluzioni avennero in questi tempi alla nostra città di Firenze per le nostre discordie tra' cittadini, e male reggimento de' XX uficiali, come adietro fatto avemo menzione; e fieno sì diverse, ch'io autore, che fui presente, mi fa dubitare che per li nostri successori apena fieno credute di vero; e fu pur così, come diremo apresso. Tornata la detta nobile e grande oste e male aventurosa da Lucca, e rendutasi Lucca a' Pisani, i Fiorentini, parendo loro male stare, veggendo che meser Malatesta nostro capitano non s'era ben portato nella detta guerra, e per tema del trattato avuto col Bavero, come adietro toccammo, per istare più sicuri, elessono per capitano e conservadore del popolo messere Gualtieri duca d'Atene e conte di Brenna francesco, all'entrante di giugno MCCCXLII, col salaro, cavalieri e pedoni ch'avea mesere Malatesta, per termine d'uno anno. E vollesi a suo diletto overo segacità, per quella seguì apresso, tornare a Santa Croce al luogo di frati minori, e·lla gente sua d'intorno. E poi in calen di agosto apresso, finito il termine di meser Malatesta, gli fu agiunta la capitaneria generale della guerra, e che potesse fare giustizia personale in città e di fuori. Il gentiluomo veggendo la città in divisione, ed essendo cupido di moneta, che·nn'avea bisogno siccome viandante e pellegrino, e ben ch'avesse il titolo del ducato d'Atene no·llo possedea, e per suduzione di certi grandi di Firenze, che al continovo cercavano di rompere gli ordini del popolo, e di certi grandi popolani per essere signori e non rendere i debiti loro a·ccui dovieno dare, e·lle loro compagnie sentendosi in male stato, i quali per inanzi al luogo e tempo ci converrà per necessità fare memoria, al continuo a Santa Croce l'andavano a consigliare, di dì e di notte, che si recasse al tutto la signoria libera della città in mano; il quale duca per le cagioni dette, e vago di signoria, cominciò a seguire il malvagio consiglio, e ad essere crudele e tiranno, per lo modo che nel seguente capitolo faremo memoria, sotto titolo di fare giustizia, per essere temuto, e al tutto farsi signore di Firenze.
<B>II</B>
<I>Di certe giustizie che 'l duca fece in Firenze per essere signore.</I>
Avenne che il dì di san Iacopo di luglio MCCCXLII, essendo molti Pratesi iti alla festa a Pistoia, Ridolfo di meser Tegghia de' Pugliesi venne per entrare in Prato, che·nn'era ribello, con forza degli Ubaldini e con Niccolò conte da Cerbaia, e con certi suoi fedeli, nimici de' Guazalotri, e de' nostri contadini masnadieri sbanditi in quantità di XL a cavallo e CCC a piè, che·lli dovea esere data l'entrata della terra; e per sua sventura no·lli venne fatto, ma fu preso con da XX nostri isbanditi andandosene per Mugello agli Ubaldini, e menato a Firenze. Il duca lasciò i nostri isbanditi, di cui avea la giuridizione, e al detto Ridolfo, che non gli era suddito né sbandito di Firenze, a torto gli fece tagliare il capo; e questa fu la prima giustizia che fece in Firenze, onde molto fu biasimato da' savi uomini di Firenze di crudeltà, e dissesi n'ebbe moneta da' Guazalotri di Prato suoi nimici, overo il fece come dice il proverbio di tiranni: "Chi a uno offende molti minaccia". Apresso all'entrante d'agosto fece pigliare meser Giovanni di Medici stato per lo nostro Comune podestà in Lucca, e fecegli tagliare il capo, aponendoli (e fece confessare) che per danari avea lasciato fuggire di Lucca nel campo di Pisani meser Tarlato d'Arezzo, cui avea in sua guardia; e i più dissero che non v'ebbe colpa, se non di mala guardia. Apresso del detto mese d'agosto fece pigliare Guiglielmo Altoviti stato per lo nostro Comune capitano d'Arezzo, e feceli tagliare il capo, trovando per sua confessione per lui fatte molte baratterie, e alcuni dissono fu procaccio e spendio di Tarlati d'Arezzo, i quali avea mandati presi a Firenze, come è detto adietro; e a·cciò diamo in parte fede; e condannò uno nipote di quello Guiglielmo e Matteo di Borgo stati inn-Arezzo e Castiglione Aretino, ciascuno in D fiorini d'oro, per baratterie. Ancora fece pigliare Naddo di Cenni di Naddo grande popolano, il quale era stato in Lucca camarlingo sopra le masnade, e fecegli rimettere in camera del Comune IIIIm fiorini d'oro, i quali si disse che con inganno avea avuti da' Pisani sotto falso trattato tenuto co·lloro, e giurato sopra <I>Corpus Domini</I> di far loro compiere l'accordo d'avere Lucca, quando Cenni di Naddo suo padre era priore di Firenze, come toccammo nel quinto capitolo adietro. E oltre a·cciò gli fece rimettere in camera fiorini IImD d'oro, i quali confessò avere guadagnati in Lucca nelle paghe de' soldati e vittuaglia; e per grazia e prieghi di molti popolani gli perdonò la vita, e prese da·llui mallevadori di fiorini Xm d'oro, e diegli i confini a Perugia. E per simile modo fece rimettere in camera a Rosso di Ricciardo de' Ricci, compagno e camarlingo del detto Naddo in Lucca, fiorini IIImDCCC d'oro confessati avuti in sua parte, e guadagnati in Lucca sopra i soldati e vittuaglia, e per simile modo per grandi prieghi perdonatogli la vita, e messo in prigione per l'avere e per la persona.
<B>III</B>
<I>Come il duca ingannò e tradì i priori e prese la signoria di Firenze.</I>
Per le sopradette giustizie fatte per lo duca in persone e inn-avere di IIII popolani delle maggiori case di Firenze di popolo, Medici, Altoviti, Ricci, e Oricellai, il duca fu molto temuto e ridottato da tutti i cittadini, e i grandi ne presono grande baldanza, e il popolo minuto grande allegrezza, perch'avea messo mano ne' reggenti, magnificando il duca, gridando quando cavalcava per la città: "Viva il signore "; e quasi in ogni canto o palazzo di Firenze era dipinta l'arme sua per li cittadini, per avere sua benivolenza, e·cchi per paura. E in questi tempi ispirò e si compié l'uficio di XX rettori stati in Firenze e guastatori della republica per le cagioni dette ne' loro processi adietro, e lasciando il Comune in debito di più di CCCCm di fiorini d'oro a cittadini, sanza il debito promesso a meser Mastino. Per le quali cagioni il duca ne montò in grande pompa, e crebbegli la speranza del suo proponimento d'essere al tutto signore di Firenze col favore di grandi e del popolo minuto; e per consiglio di certi de' detti grandi ne richiese i priori ch'allora erano all'uficio. I detti priori cogli altri ordini, dodici e' gonfalonieri, e gli altri consiglieri, in nulla guisa vollono asentire di sottomettere la libertà della republica di Firenze sotto giogo di signore a vita, il quale non mai fu aconsentito o soferto per li nostri padri antichi né a 'mperadori, né a·rre Carlo, né suoi discendenti, e tanto fossero amici o confidenti in parte guelfa o ghibellina, né per isconfitte o male stato ch'avesse il nostro Comune. Il detto duca per sudducimento e conforto quasi di tutti grandi di Firenze, e spezialmente principali quelli della possente casa de' Bardi, e Frescobaldi, Rossi, e Cavalcanti, Bondelmonti, e Cavicciuli, e Donati, e Gianfigliazzi, e Tornaquinci, per rompere gli ordini della giustizia ch'erano sopra i grandi, e così promise loro il duca; e di popolo: Peruzzi, Acciaiuoli, Baroncelli, Antellesi e loro seguaci, per cagione del male stato delle loro compagnie, perché il duca gli sostenea inn-istato, non lasciandoli rompere, né strignere a' loro creditori; e gli artefici minuti, a·ccui spiacea il reggimento stato de' XX e di popolari grassi: tutti gli profersono aiuto in arme. Il duca, il qual era segace e nudrito in Grecia e in Puglia più che in Francia, veggendosi tanto favore, la vilia di nostra Donna di settembre mandò un bando per la città di fare parlamento la mattina vegnente in sulla piazza di Santa Croce per bene del Comune. I priori e gli altri rettori sentendo la traccia del duca e il suo male consiglio, e non sentendosi forti né proveduti, e temendo che faccendosi il detto parlamento non fosse discordia, e romore, e commovizione di città, sì andarono parte de' priori e di loro consiglio la sera a Santa Croce a trattare acordo col duca; e dopo molta tirata e dibattuta la querela, rimase molto di notte in questa concordia col duca, che 'l Comune di Firenze gli darebbe la signoria della città e contado per uno anno, oltre al tempo ch'elli l'avea, con quella giuridizione e patti e gaggi ch'ebbe meser Carlo duca di Calavra e figliuolo del re Ruberto gli anni MCCCXXVI; e questo accordo si fermò per vallate carte per più notai dell'una parte e dell'altra, e per suo saramento che conserverebbe in sua libertà il popolo e·ll'uficio di priori e gli ordini della giustizia, riducendosi il detto ordinato parlamento la mattina in sulla piazza di priori per confermare i patti di su detti. La mattina di nostra Donna, dì VIII di settembre, il duca fece armare sua gente intorno di CXX uomini a cavallo, ch'avea in Firenze de' suoi, e da CCC fanti a piè. Ma quasi tutti i grandi, salvo meser Giovanni della Tosa e' suoi consorti, furonvi co·llui, ch'aveno cavalli, e i detti popolani suoi amici con armi coperte, e l'acompagnaro da Santa Croce alla piazza de' priori presso ad ora di terza. I priori e gli altri ordini scesono del palagio, e assettati a·ssedere col duca sulla ringhiera, e fatta la proposta per meser Francesco Rustichelli giudice allora priore e aringando sopra·cciò; ma com'era ordinato il tradimento, non fu lasciato più dire, ma a grido di popolo per certi scardassieri e popolazzo minuto, e masnadieri di certi grandi, dicendo: "Sia la signoria del duca a vita a vita, e viva il duca nostro signore!". E preso per li grandi pesolone per metterlo in sul palagio, e perché il palagio era serrato gridarono: "Alle scure! "; sicché convenne s'aprisse, e tra per forza e inganno il misono in sul palagio in signoria; e' priori furono messi di sotto nel palagio nella camera dell'arme vilmente. E fu per certi grandi istracciato il libro degli ordini e gonfalone della giustizia, e poste le bandiere del duca in sulla torre, sonando le campane a Dio laudiamo. E fece la mattina due cavalieri, messer Cerritieri de' Visdomini suo scudiere e famigliare, e Rinieri di Giotto da San Gimignano capitano stato di fanti di priori, il quale aconsentì al tradimento a dare e aprire il palagio, ch'agevole gli era a difendere, com'era tenuto e dovea fare per suo uficio; e assentì al detto tradimento messer Guiglielmo d'Ascesi allora capitano del popolo, il quale rimase poi co·llui per suo bargello e carnefice, dilettandosi di fare crudeli giustizie d'uomini. Ma meser Meliaduso d'Ascoli allora podestà non volle consentire al tradimento del popolo di Firenze, anzi volle rinuziare l'uficio della podesteria; ben si disse per alcuno, tutto fece a frode e ipocresia, però che poi pure rimase uficiale del duca. I grandi feciono gran festa d'armeggiare, e·lla sera grandi luminare e falò. Ivi a due dì apresso si fece il duca confermare signore a vita per li opportuni consigli, e mise i priori nel palagio fu de' figliuoli Petri dietro a San Piero Scheraggio con XX fanti solamente, ove n'avieno prima cento, levando loro ogni uficio e signoria; e levò l'arme a tutti i cittadini brivileggiati, o di che stato si fosse, e poi all'ottava di nostra Donna fece il duca gran festa e solennità a Santa Croce per la sua signoria, e fece offerere più di CL prigioni; e 'l nostro vescovo sermonando molto il lodò e magnificò al popolo. In questo modo e tradimento usurpò il duca d'Atene la libertà della nostra città, e anullò il popolo di Firenze ch'era durato intorno di L anni, in grande libertà, e stato, e signoria. E noti chi questo leggerà come Iddio per le nostre peccata in poco di tempo diede e promise alla nostra città tanti fragelli, come fu diluvio, carestie, fame, e mortalità, e sconfitte, vergogne d'imprese, perdimenti di sustanza di moneta, e fallimenti di mercatanti, e danni di credenza, e ultimamente di libertà recati a tirannica signoria e servaggio. E però, per Dio, carissimi cittadini presenti e futuri, correggiamo i nostri difetti. Abbiamo tra noi amore e carità, acciò che piacciamo all'Altissimo, e non ci rechiamo a l'ultimo giudicio della sua ira, come assai chiaro e aperto ci mostra per le sue visibili minacce: e questo basti a' buoni intenditori, tornando a nostra matera de' processi del duca; che poi apresso ch'ebbe la signoria di Firenze, a dì XXIIII di settembre la signoria d'Arezzo, e quella di Pistoia, ove avea già suoi vicari il duca per lo Comune di Firenze, gli si dierono a vita, e poco apresso per simile modo gli si diè Colle di Valdelsa e San Gimignano e poi la città di Volterra, onde molto li crebbe lo stato e signoria, e ricolse a·ssé tutti i Franceschi e Borgognoni ch'erano al soldo inn-Italia, sicché tosto n'ebbe più di DCCC, sanza gl'Italiani; e molti suoi parenti e baroni vennero a·llui infino di Francia per la novella ita di là della sua signoria e groria. E quando ciò fu raportato al re Filippo di Francia suo sovrano, subitamente disse a' suoi baroni che gli erano d'intorno in sua lingua: "Alberges est le pelegrin, mas il i a mavoes ostes", il quale fu un propio motto e di vera sentenzia e profezia, come poco tempo apresso gli avenne. Ancora nonn-è da dimenticare di mettere in nota una brieve lettera d'amunizione di grande sentenzia, che·ssi trovò in uno suo forziere quando fu cacciato di Firenze, la quale gli avea mandata il re Ruberto come seppe ch'egli avea presa la signoria di Firenze sanza sua saputa o consiglio, la quale di latino facemmo recare in volgare per seguire il nostro stile, la quale dicea [...].
<B>IV</B>
<I>La lettera che i·rre Ruberto mandò al duca d'Atene, quando seppe ch'avea presa la signoria di Firenze.</I>
"Non senno, non vertù, non lunga amistà, non servigi a meritare, non vendicatogli di loro onte, t'ha fatto signore de' Fiorentini, ma·lla loro grande discordia e il loro grave stato, di che se' loro più tenuto, considerando l'amore che t'hanno mostrato, credendosi riposare nelle tue braccia. Il modo ch'hai a tenere a volerli bene governare si è questo. Che·tti ritenghi col popolo che prima reggea, e reggiti per lo loro consiglio, non loro per lo tuo; fortifica giustizia e i loro ordini, e come per loro si governavano per sette, fa' che per te si governino per diece, cioè numero comune, che lega in sé tutti i singulari numeri, ciò vuol dire no·lli reggere per sette né divisi, ma a comune. Abbiamo inteso che traesti quelli rettori della casa della loro abitazione, cioè de' priori, nel palagio del popolo fatto per loro contentamento del propio; rimettilivi, e abiterai nel palagio ove abitava nostro figliuolo, cioè nel palagio della podestà, ove abitava il duca di Calavra, quando fu signore in Firenze. E se questo non farai, non ci pare che·ttua salute si possa stendere inanzi per ispazio di molto tempo. Re di Gerusalem e di Cicilia. Data a Napoli a dì XVIIII di settembre MCCCXLII,... indizione". E nonn-è da lasciare di fare memoria d'una sformata mutazione d'abito che·cci recaro di nuovo i Franceschi che vennero al duca in Firenze; che colà dove anticamente il loro vestire ed abito era il più bello, nobile e onesto, che null'altra nazione, a modo di togati Romani, sì·ssi vestieno i giovani una cotta overo gonnella, corta e stretta, che non si potea vestire sanza aiuto d'altri, e una coreggia come cinghia di cavallo con isfoggiate fibbie e puntale, e con grande iscarsella alla tedesca sopra il pettignone, e il capuccio vestito a modo di sconcobrini col batolo fino alla cintola e più, ch'era capuccio e mantello, con molti fregi e intagli; il becchetto del capuccio lungo fino a terra per avolgere al capo per lo freddo, e colle barbe lunghe per mostrarsi più fieri inn-arme. I cavalieri vestivano uno sorcotto, overo guarnacca stretta, ivi su cinti, e·lle punte de' manicottoli lunghi infino in terra foderati di vaio e ermellini. Questa istranianza d'abito, non bello né onesto, fu di presente preso per li giovani di Firenze e per le donne giovani di disordinati manicottoli, come per natura siamo disposti noi vani cittadini alle mutazioni de' nuovi abiti, e i strani contraffare oltre al modo d'ogni nazione sempre al disonesto e vanitade; e non fu sanza segno di futura mutazione di stato. Lasceremo di ciò, e diremo d'altre novità di fuori che furono ne' detti tempi.
<B>V</B>
<I>Come i Ghibellini d'Arezzo entrarono per furto nella terra, e furonne cacciati.</I>
Nel detto anno, a dì VII di giugno, non esendo ancora il duca al tutto signore di Firenze, se non capitano della guardia della terra e come generale della guerra, i Tarlati rimasi fuori d'Arezzo coll'aiuto del capitano di Furlì, e di quello di Cortona, e que' da Faggiuola, e Pazzi di Valdarno, e Ubertini, in quantità di CCC cavalieri e IIIm pedoni, la mattina per tempo, per trattato di certi Ghibellini ch'erano dentro, furono intorno ad Arezzo, e·ffu data loro porta Buia, e quella tagliata ed aperta, e buona parte entrati dentro per correre la terra. Le masnade del duca e del Comune di Firenze ch'erano in Arezzo a·ccavallo e a piè cogli altri cittadini guelfi francamente combattendo difesono la terra, e cacciarne fuori per forza i nimici con gran danno di morti e di presi. E poi cacciarono d'Arezzo molti Ghibellini chi per ribelli e·cchi a' confini, i quali poi con molte castella de' Tarlati, e che rubellaro, feciono gran danno ad Arezzo. E poi, a dì XXVIIII di luglio, meser Tarlato con CCCC cavalieri e pedoni assai valicò l'Ambra, e venne di qua da Montevarchi, guastando quello ch'era di fuori sanza niuno contasto. E in que' tempi Francesco di Guido Molle degli Ubertini, fratello del vescovo d'Arezzo, rubellò al Comune di Firenze il loro Castiglione per tradimento di certi terrazzani, salvo la torre ch'era in sulla porta, che v'era il castellano per lo duca; il quale Francesco male proveduto, e per lo soccorso tostano delle nostre masnade a cavallo e a piè ch'erano in Montevarchi, cogli altri Valdarnesi si ricoverò il castello, e fu preso il detto Francesco e menato a Firenze, e il duca gli fece tagliare il capo; e poi il detto Castiglione delli Ubertini prima tutto rubato, e poi tutto arso e diroccato e disfatto.
<B>VI</B>
<I>Quando morì Carlo Uberto re d'Ungheria.</I>
Nel detto anno, d'agosto, morì Carlo Uberto re d'Ungheria nipote del re Ruberto e figliuolo fu di Carlo Martello; del quale fu gran danno, però ch'era signore di gran valore in prodezza. Rimasene III figliuoli, Lodovico, e Andreas; il quale Lodovico primogenito fu coronato d'Ungheria, e... secondo overo terzo figliuolo fu coronato re di Pollonia, e poco tempo apresso la reina d'Ungheria, moglie che·ffu del detto Carlo Uberto e figliuola del re di Pollonia valente e savia donna, saputa la morte del re Ruberto, che morì il gennaio vegnente, come tosto apresso si farà menzione, sì passò in Puglia e a Napoli all'altro suo figliuolo Andreas, a·ccui succedea il reame di Cicilia e di Puglia, con molti grandi baroni ungheri, per dare favore e consiglio al detto Andreas, ch'era molto giovane; e all'altro figliuolo... rimase il reame da Pollonia per retaggio della madre.
<B>VII</B>
<I>Come il papa fece più cardinali, tra' quali fu un nostro Fiorentino.</I>
Nel detto anno, per le digiune di settembre, papa Clemento sesto apo Vignone, ov'era la corte, fece X cardinali, i nove oltramontani, e·ll'altro messere Andrea Ghini Malpigli di Firenze antico cittadino d'Orto San Michele, il quale era vescovo di Tornai, e molto amico del re di Francia, e a·ssua preghiera fu fatto cardinale. Ma, come piacque a·dDio, morì fra·ll'anno andando inn-Ispagna per legato, onde fu gran danno, ch'era savio e valoroso, e·sse fosse vivuto avrebbe fatto onore e pro alla nostra città. Abbianne fatta memoria, perché pochi cardinali o papa sono stati in tanta città com'è Firenze, per lo poco studio che' Fiorentini fanno fare a' loro figliuoli in chericia, a·lloro difetto. Funne il cardinale Attaviano degli Ubaldini; e dicesi, ma no·llo afermiamo, fu un papa fiorentino di casa Papeschi, e uno cardinale di Bellagi di porta San Piero al tempo d'Arrigo terzo imperadore. Lasceremo alquanto delle novità d'intorno, e seguiremo i processi del duca d'Atene.
<B>VIII</B>
<I>Quello che 'l duca d'Atene fece in Firenze mentre ne fu signore.</I>
Come il duca d'Atene fu fatto a vita signore di Firenze per lo modo detto adietro, per avere meno a contendere di fuori, e credendosi fortificare dentro il suo stato e signoria, sì fece di presente pace e accordo co' Pisani e con tutti i loro allegati, non guardando ad onte o vergogne del Comune di Firenze ricevute, ove i Fiorentini speravano ch'elli facesse ogni loro vendetta; e a dì XIII d'ottobre si piuvicò e bandì in questo modo, che·lla città di Lucca rimanesse a' Pisani per XV anni, e poi lasciarla inn-stato comune, e rimettendo al presente li usciti guelfi in Lucca che tornare vi volessono, e rendendo loro i loro beni, mettendovi il duca podestà cui elli volesse, il detto tempo rimanendo a' Pisani la guardia del castello dell'Agosta ch'è in Lucca, e tutta la guardia e dominazione della terra, che·lla podestà per lo duca non avea altro che 'l salaro e 'l nome, che altra signoria poco potea fare più che piacesse a' Pisani, ma pure era una posessione per lo nostro Comune, e freno a' Pisani mentre che 'l duca dominava Firenze, e dando i Pisani al duca ogn'anno per censo per lo san Giovanni VIIIm fiorini d'oro in una coppa dorata d'argento, faccendo franchi i Fiorentini in Pisa per V anni, ove prima eravamo franchi per sempre per li patti antichi, rimanendo d'accordo a' Fiorentini tutte le castella di Valdarno e di Valdinievole, che·ssi tenieno, e Barga e Pietrasanta; e che i Fiorentini dovessono rimettere in Firenze e trarre di bando tutti i loro rubelli e usciti, e nuovi e vecchi, stati al servigio e lega di Pisani, e perdonare agli Ubaldini e Pazzi e Ubertini, e lasciare di prigione i Tarlati d'Arezzo e rendendo loro pace, e trarre di prigione meser Giovanni Visconti di Milano; e così fu fatto di presente; al quale meser Giovanni Visconti il duca vestì nobilemente, e diè cavalli e danari, e fatto acompagnare infino a Pisa, e domandando a' Pisani il mendo di suoi danni e interessi avuti per loro, gli ingrati Pisani nol vollono udire, ma apuosogli ch'egli era venuto in Pisa per trattare cospirazione nella terra per lo duca, e convenne si partisse villanamente nella terra; della quale cosa meser Luchino signore di Milano prese molto sdegno contro a' Pisani, come si potrà trovare leggendo. Per lo detto accordo dal duca a' Pisani tornaro i Bardi e' Frescobaldi e' loro seguaci in Firenze, e' Pisani lasciarono ogni prigione fiorentino e·lloro allegati ch'erano presi in Pisa e in Lucca. A dì XV d'ottobre il duca fece nuovi priori, i più artefici minuti, e mischiati di quelli che loro antichi erano stati Ghibellini; e diè loro un gonfalone di giustizia così fatto di tre insegne, ciò fu di costa all'asta l'arme del Comune, il campo bianco e 'l giglio rosso; e apresso in mezzo la sua il campo azurro biliottato col leone ad oro, e al collo del leone uno scudetto dell'arme del popolo; apresso l'arme del popolo il campo bianco e·lla croce vermiglia, e di sopra il rastrello del re; e mise i priori nel palagetto ove prima stava l'esegutore in sulla piazza con poco uficio e minore balìa, se non il nome, e sanza sonare le campane a martello o congregare il popolo, com'era usanza. Del detto nuovo e disimulato gonfalone i grandi ch'avieno fatto signore il duca e crediansi ch'al tutto il duca annullasse il popolo in detto e in fatto, come avea promesso loro, si turbarono forte, e massimamente perché in que' dì fece condannare subitamente uno de' Bardi in Vc fiorini d'oro o nella mano, perch'avea stretta la gola a uno suo vicino popolano che·lli dicea villania. E così puttaneggiava e disimulava il duca co' cittadini, togliendo ogni baldanza a' grandi che·ll'aveano fatto signore, e togliendo la libertà e ogni balìa e uficio, altro che 'l nome de' priori, e al popolo; e cassò l'uficio di gonfalonieri delle compagnie del popolo, e tolse loro i gonfaloni, e ogni altro ordine e uficiali di popolo cassò, se non a suo beneplacito ritegnendosi co' beccari, vinattieri, scardassieri e artefici minuti, dando loro consoli e rettori al loro volere, dimembrando gli ordini antichi dell'arti a·ccui erano sottoposti per volere maggiori salari di loro lavorii. Per le sudette cagioni e altre fatte per lui, come si troverrà leggendo assai poco apresso, si criò conspirazione contro al duca per li grandi e popolani medesimi che·ll'avieno fatto signore, come tosto si potrà trovare. E fece torre tutte le balestra grosse a' cittadini, e fece fare l'antiporte al palagio del popolo, e ferrare le finestre della sala di sotto per gelosia e sospetto de' cittadini, e fece comprendere tutto il circuito dal detto palazzo a quelli che furono di figliuoli Petri, e·lle torri e case di Manieri e di Mancini, e di Bello Alberti, comprendendo tutto l'antico gardingo e ritornando in sulla piazza. E il detto compreso fece cominciare e fondare di grosse mura e torri e barbacani per farne col palagio insieme uno grande e forte castello, lasciando il lavorio di deficare il ponte Vecchio, ch'era di tanta necessità al Comune di Firenze, togliendo di quello le pietre conce e legname. Fece disfare le case di Santo Romolo per fare piazza al castello infino nel Garbo. E mandò a corte al papa per licenza di disfare San Piero Scheraggio, e Santa Cicilia, e Santo Romolo, ma no·lli fu assentito per la Chiesa. Fece torre a' cittadini certi palagi e fortezze e belle case ch'erano nelle circustanze del palagio, e misevi suoi baroni e sua gente sanza pagare alcuna pigione. Fece fare alle porti nuovi antiporti di costa a' vecchi per più fortezza, e rimurare le porte. Di donne e di donzelle di cittadini per sé e per sue genti cominciato a·ffare di forze e villanie e di laide cose; intra·ll'altre per cagione di donna tolse San Sebbio a' poveri, della guardia dell'arte di Calimala, e diello altrui illicitamente. E per amore di donna rendé gli ornamenti alle donne di Firenze, e fece fare il luogo comune delle femmine mondane, onde il suo maliscalco traeva molti danari. Fece fare le paci tra' cittadini e contadini, e questo fu il meglio che facesse, ma bene ne guadagnò egli e' suoi uficiali grossamente da coloro che·lle richiedieno. Levò gli assegnamenti a' cittadini sopra le gabelle, di danari convenuti loro prestare per forza al Comune per fornire la 'mpresa di Lombardia e quella di Lucca, come adietro è fatta menzione, ch'erano più di CCCLm di fiorini d'oro, asegnati in più anni con alcuno guiderdone. E questo fu gran male, e onde i cittadini più si gravaro, e·ffu rompimento di fede al Comune; e molti cittadini, che dovieno avere grossamente dal Comune, ne furono diserti; e recò a·ssé tutte le gabelle, che montavano l'anno più di CCm di fiorini d'oro sanza l'altre entrate e gravezze. Fece fare e pagare l'estimo in città e in contado, che montò più di LXXXm di fiorini d'oro, onde i grandi e' popolani e' contadini, che vivono di loro rendite, si tennono forte gravati. E quando fece fare l'estimo, promisse e giurò a' cittadini di non fare loro altre gravezze d'imposte o di prestanze, o di nuove gabelle, ma no·llo oservò, ma al continovo gravava i cittadini di prestanze, e facea criare e crescere nuove e sforzate gabelle per uno ser Arrigo Fei; e quelli era suo amico, che sapea trovare modi d'avere danari, onde che venissono. E in X mesi e XVIII dì ch'elli regnò gli vennero a mano di gabelle e d'estimo, gravezze, e condannagioni, e altre entrate presso di CCCCm di fiorini d'oro pure di Firenze, sanza quelli che traeva delle terre vicine ch'elli signoreggiava, de' quali rimandò tra in Francia e in Puglia più di CCm di fiorini d'oro, però che non tenea tra tutte le terre che signoreggiava DCCC cavalieri, e quelli mal pagava; ma al bisogno della sua rovina se n'avide a suo danno e vergogna. Gli ordini de' suoi uficiali e consiglieri erano in questo modo. I priori, come avemo detto, erano in nome, ma non in fatto, sanza alcuna balìa. Era la podestà mesere Baglione da Perugia, che guadagnava volentieri; messer Guiglielmo d'Ascesi chiamato conservadore overo assessino di lui e bargello, e stava nel palagio de' Cerchi bianchi nel Garbo. Tre giudici avea ordinati, che·ssi chiamavano della Sommaria, che tenieno corte nelle nostre case e cortili e logge de' figliuoli Villani da San Brocolo; questi giudici rendieno ragione di fatto con molte baratterie; e uno meser Simone da Norcia giudice sopra rivedere le ragioni del Comune, ed era più barattiere che coloro cui condannava per baratterie, abitava nel palagio fu de' Cerchi dietro a San Brocolo. Di suo consiglio era il vescovo della Leccia sua terra di Puglia; e suo cancelliere Francesco il vescovo d'Ascesi fratello del conservadore; il vescovo d'Arezzo degli Ubertini, e meser Tarlato, e il vescovo di Pistoia e quello di Volterra, e messere Attaviano de' Belforti: questi tenea per sicurtà delle loro terre, e vescovi per una sua coperta ipocresia. Con cittadini avea di rado consigli, e poco gli prezzava e meno gli oservava, ristrignendosi solo al consiglio di meser Baglione, e del conservadore, e di mesere Cerritieri de' Visdomini, uomini corrotti in ogni vizio a·ssua maniera, faccendo i suoi dicreti di fatto e sotto suo sugello, il quale il suo cancelliere si facea bene valere. Signore era di poca fermezza e di meno fede di cosa che promettesse, cupido e avaro e mal grazioso; piccoletto di persona e brutto e barbucino; parea meglio Greco che Francesco, segace e malizoso molto. Fece al suo conservadore impiccare meser Piero di Piagenza uficiale della mercatantia opponendoli baratterie, e che mandava lettere a meser Luchino da Melano, e·cchi disse li fé in parte torto. Fece costrignere i mallevadori di Naddo di Cenni, ch'era a' confini a Perugia, che tornasse con sua sicurtà, e·llui tornato a dì XI di gennaio, non oservandoli fede, il fece impiccare e colla catena in collo, acciò che non si potesse ispiccare, e tolse a' suoi mallevadori VmDXV fiorini d'oro, opponendo gli avea frodati al Comune in Lucca, oltre agli altri levatoli prima, e tutti i suoi beni confiscò a·ssé, opponendogli ch'egli avea trattato col Comune di Siena e con quello di Perugia contro a·llui, i quali non amavano la vicinanza e signoria del duca; e forse in parte fu vero. Questo Naddo fu un sottile e sagace uomo, e molto grande e prosuntuoso in popolo e in Comune, ma bene guadagnava volontieri. Il padre, Cenni di Naddo, stato molto grande in Comune, per dolore del figliuolo e tema del duca si fece frate di Santa Maria Novella, e fece bene dell'anima sua, se 'l fece con buona intenzione, per fare penitenzia delle colpe commesse in Comune, e spezialmente inn-isturbare l'accordo co' Pisani onorevole assai per lo nostro Comune, come toccammo adietro. In questi tempi, del mese di marzo, fece il duca lega e compagnia co' Pisani, e taglia di IIm cavalieri contro a ogni loro aversaro, i Pisani tenere DCCC cavalieri e 'l duca MCC cavalieri; la qual compagnia molto spiacque ai Fiorentini e a tutti i Toscani guelfi, e poco s'oservò, perché non era piacevole mischiato, né buona compagnia. Del mese di marzo detto il duca fece in contado VI podestadi, uno per sesto, con grande balìa di potere fare giustizia reale e personale e con grandi salari, e i più furono de' grandi, che di nuovo erano stati rubelli, rimessi in Firenze di poco. La qual nuova signoria molto spiacque a' cittadini, e più a' contadini, che portavano la spesa e gravezza. Fece pigliare uno Matteo di Motozzo, e in su uno carro atanagliare, e poi tranare sanz'asse, e impiccare, perch'avea rivelato uno trattato de' Medici e d'altri che doveano offendere il duca, e nol volle credere, a suo pericolo e danno di quello, gli avenne. L'ultimo dì di marzo fece impiccare in su Monterinaldi Lamberto degli Abati, il quale era stato valente uomo all'oste nostra a Lucca della masnada di meser Mastino, perch'elli gli avea rivelato uno trattato che certi grandi tenieno contro al duca con meser Guidoriccio da Fogliano capitano della gente di mesere Mastino, opponendoli il contrario, che tenea trattato con meser Mastino di torli la signoria. La qual cosa non fu vero, ma·ffu vero quello ch'è detto; ma per le sue opere vivea in grande sospetto e gelosia, e chiunque gli rivelava trattato o da beffe o da dovero, o parlava contro a·llui, facea morire; onde più altri di piccolo affare fece a torto morire di crudeli tormenti per mano del suo carnefice conservadore di male opere. Per la Pasqua della Resurresione, MCCCXLIII, tenne gran festa a' cittadini e suoi baroni conostaboli e soldati con grandi corredi, ma con mala voglia di cittadini, e fece tenere giostre nella piazza di Santa Croce per più dì, ma pochi cittadini vi giostrarono, che·ggià a' grandi e a' popolani cominciavano a spiacere i suoi processi. All'uscita d'aprile MCCCXLIII ordinò e cominciò ad afforzare e chiudere San Casciano e afforzare per riducervi dentro le villate d'intorno, e che·ssi chiamasse Castello Ducale, ma poco andò inanzi. Fecesi in Firenze sei brigate di festa, di gente di popolo minuto vestiti insieme ciascuna brigata per sé, e danzando per la terra. La maggiore fu nella Città Rossa, e il loro signore si nomò lo 'mperadore. L'altra a San Giorgio col Paglialoco; ed ebbono zuffa tra queste due. E una ne fu a San Friano, e una nel borgo d'Ognisanti. L'altra in quello di San Pagolo. L'altra nella via larga delli spadai; e·ffu motiva e assento del duca per recarsi all'amore della Comune e popolo minuto, per quella sforzata vanità; ma poco gli valse al bisogno. Per la festa di san Giovanni fece fare l'oferta all'arti al modo antico sanza gonfaloni, e·lla mattina della festa oltre a' ceri usati delle castella, ch'erano da XX, ebbe da XXV pali di drappi ad oro, bracchetti, sparvieri e astori per omaggio d'Arezzo, Pistoia, Volterra, San Gimignano, Colle, e da tutti i conti Guidi, da Mangona, Cerbaia, e da Montecarelli, e Puntormo, Ubaldini, Pazzi, e Ubertini, e d'ogni baroncello d'intorno, che·ffu coll'oferta de' ceri una nobile festa; e raunarsi i detti ceri e pali e·lli altri tributi in su la piazza di Santa Croce, e poi l'uno apresso l'altro andaro al palagio ov'era il duca, e poi a San Giovanni. Fece aggiugnere al palio dello sciamito chermisi di foderallo a rovescio di vaio isgrigiato quant'era l'asta, ch'era molto ricco a vedere. La festa fece ricca e nobile, e·ffu la prima e sezzaia che dovea fare in Firenze per le sue opere. All'uscita di giugno fece fare una sconcia giustizia, che a uno Bettone Cini da Campi, de' menatori de' buoi dell'antico carroccio, il quale di poco l'avea il duca fatto di priori, e per la dignità del carroccio vestitolo di scarlatto, però che, poi ch'elli uscì dell'uficio, si dolfe e disse alcuna parola oziosa per una imposta gli era fatta per lo duca, gli fece cavare la lingua infino allo strozzule e con essa inanzi in su una lancia per diligione mandandolo per la terra, e poi pintone fuori a' confini a Pesero, ove poco apresso per quella tagliatura della lingua morì. Di questa giustiza si turbaro molto i cittadini, e ciascuno la riputava in sé di non potere parlare, né dolersi de' torti e oltraggi; ma la persona di Bettone era degna di quello, e di peggio, ch'egli era publicano e villano gabelliere, e colla piggiore lingua ch'uomo di Firenze, sì che morì nel peccato suo. A dì II di luglio il duca fermò compagnia e taglia con messere Mastino della Scala, e co' marchesi da Esti, e col signore di Bologna, e co·llui contrasse parentado, ma più gli era utole la compagnia e benivolenza de' buoni cittadini di Firenze, la quale al tutto s'avea levata e tolta, e quella che fece con quelli signori poco o niente li valsono al suo bisogno, e poco durò. Assai avemo detto sopra i processi e opere del duca d'Atene fatte in Firenze mentre ne fu signore, e non si potea fare di meno, acciò che sieno manifeste le cagioni perché i Fiorentini si rubellaro della sua signoria, e prendano assempro per lo innanzi quelli che sono a venire di non volere signore perpetuo né a vita. Lasceremo alquanto di questa matera, faccendo incidenza, per raccontare altre novità che furono altrove in questi tempi, tornando assai tosto a contare la fine ch'ebbe in Firenze la sua signoria. Ma di tanto volemo fare prima memoria, e questo sentimmo e sapemmo di vero. Il dì e·ll'ora che prese la signoria, per savi astrolaghi fu preso l'ascendente che·ffu gradi XXII del segno della Libra, segno mobile e opposito del segno d'Aries significatore di Firenze, e in termine di Marti, e Marti nostro significatore era nel detto segno della Libra contrario alla sua casa, e il suo signore Venus nel Leone gradi VIII faccia di Saturno e contradio alla sua tripricità. Per la quale costellazione dissono d'accordo che·lla sua signoria non dovea compiere l'anno, e con mala uscita e vituperevole e con molti tradimenti e romori con arme, ma con pochi micidi. Ma più credo che fosse la cagione il suo male reggimento e·lle sue ree opere per lo suo pravo libero albitro, male usandolo.
<B>IX</B>
<I>D'una compagna di gente d'arme che feciono i soldati de' Pisani.</I>
Come fu fatta la pace dal duca d'Atene e Pisani, come dicemmo adietro, quasi tutti i soldati ch'erano co' Pisani, intorno di MD Tedeschi a cavallo e più di IIm pedoni di masnade Ghibellini, si partirono di Pisa e feciono una compagna con alcuno piccolo soldo de' Pisani per levarglisi d'adosso, e fare far danno a' loro vicini. Vennero per quello di San Miniato, e di San Gimignano, e Colle sanza fare danno alcuno, né toccaro di nostro contado, perch'erano alla signoria del duca; il borgo di Staggia guastarono, e poi stettono più dì a fonte Beccia, tanto che' Sanesi si ricomperarono IIIIm fiorini d'oro; e però non lasciarono di rubare e ardere più loro villate di Valdambra, e simile feciono in Valdichiane sopra quello di Perugia; e dissesi che·cciò fu ordine del duca d'Atene co' Pisani; e·cche vi misse danari per fare danno a' Sanesi e Perugini, però ch'avieno rifiutata sua signoria e compagnia, e voleano vivere liberi e franchi. E poi cresciuta la detta compagnia, valicaro in Romagna e sopra a Rimino per fare vergogna a meser Malatesta stato nostro capitano di guerra, e feciono danno assai; poi si distribuì e partì a soldo di signori e Comuni tra in Romagna e in Lombardia, e venne meno la detta compagna.
<B>X</B>
<I>Quando morì il re Ruberto.</I>
Nell'anno MCCCXLII, a dì XVIIII di gennaio, passò di questa vita il re Ruberto re di Gerusalem e di Cicilia e di Puglia di sua malattia nella città di Napoli. E inanzi che morisse, come savio signore dispuose i suoi fatti per l'anima cattolicamente, siccome a tanto signore e divoto di santa Chiesa si convenia. Vivette da LXXX anni, e regnò in Puglia anni XXXIII e mesi. E perch'egli non avea figliuoli altro che due nipote, figliuole che furono del duca di Calavra suo figliuolo, inanzi che morisse, la maggiore fece sposare ad Andreas duca di Calavra e figliuolo che fu del re d'Ungheria suo nipote, come gli avea promesso, e fecelo cavaliere, e farli fare omaggio a·llui e alla moglie a tutti i baroni del Regno, siccome succedente re e reina. Lasciolli grande tesoro, e perch'egli era di piccola età, ordinò i suoi principali baroni governatori e guardiani di lui e del regno a beneplacito della Chiesa. Sopellissi al monistero di Santa Chiara in Napoli, il quale elli avea fatto fare e riccamente dotato a grande onore. E in Firenze se ne fece cordoglio ed esequio molto solenne e di grande luminaria, e di molta buona gente e signori cherici e laici al luogo de' frati minori a dì XXXI di gennaio. L'aprile seguente il duca di Durazzo nipote del re Ruberto, figliuolo di meser Gianni suo fratello, con dispensagione del papa per procaccio del cardinale di Peragorgo zio del detto duca, sposò l'altra figliuola fu del duca di Calavra, per retare il reame, se·ll'altra sirocchia morisse sanza reda, onde nacque grande isdegno tra·lloro e·lla reina sua zia figliuola fu del re di Maiolica, e moglie del re Ruberto; non avendo figliuolo, compiuto l'anno, si commisse nel monistero a Santo Piero a Castello, ch'ella fatto fare. Questo re Ruberto fu il più savio re che fosse tra' Cristiani già·ffa cinquecento anni, sì di senno naturale sì di scienzia, come grandissimo maestro in teologia e sommo filosofo. Dolce signore e amorevole fu, e amicissimo del nostro Comune, di tutte le virtù dotato, se non che poi che cominciò a 'nvecchiare l'avarizia il guastava in più guise; iscusavasene per la guerra ch'avea per raquistare la Cicilia, ma non bastava a tanto signore e così savio com'era in altre cose.
<B>XI</B>
<I>Come papa Clemento VI ordinò il giubileo e perdono a·rRoma nel L anno.</I>
Nel detto anno MCCCXLII, del mese di gennaio, papa Clemento VI apo Vignone in Proenza, dov'era la corte co' suoi cardinali e molti vescovi e arcivescovi, ricordandosi che papa Bonifazio VIII avea ritrovato che 'l giubileo, cioè di C anni in C anni chi andasse a Roma confesso e pentuto di suoi peccati e vicitasse per XV dì continui la chiesa di San Piero e di San Pagolo, gli era perdonato colpa e pena, durando per uno anno il detto perdono, e quello confermato l'anno MCCC, come adietro facemmo menzione, parendo al detto papa e cardinali ch'aspettando l'altro centesimo molti fedeli cristiani che sono vivi per le corte vite degli uomini saranno morti, onde molto perderebbono la grazia e 'l benificio, sì ordinò e confermò che 'l detto giubileo e perdono fosse di L anni in L anni, cominciando l'anno MCCCL per la natività di Cristo, ritraendo per l'autorità della sacra iscrittura che di L anni in L anni si celebrava il giubileo di figliuoli d'Isdrael per comandamento di Dio, tutto fosse in altra forma. Della qual cosa il detto papa e suoi cardinali molto furono commendati da tutti i Cristiani, e maggiormente da' Romani, che·nn'aspettavano la grascia.
<B>XII</B>
<I>D'uno gran fuoco che·ffu in Pietrasanta.</I>
Nel detto anno, del mese di febraio, per fuoco apreso, e·cchi disse fatto mettere per li Pisani, arse gran parte di Pietrasanta, salvo la rocca, e·lli abitanti la volieno abandonare, se non che 'l duca d'Atene, a·ccui guardia era per lo nostro Comune, mandò loro danari e C moggia di grano per sovvenire la loro necessità, e fu ben fatto.
<B>XIII</B>
<I>D'alcuna novità stata in Firenze in questo anno.</I>
Nel detto anno e mese di febraio per impetuoso vento caddono le mura del nuovo dormentoro di frati di San Marco, e morìvi sotto due frati e uno laico; ben erano le mura per povertà assai sottili e mal fondate. E nel detto anno si mise la nuova via dal Pozzo Toscanelli su per la costa di sopra Santa Felicita e sopra la chiesa di San Giorgio infino alla porta che va inn-Arcetri, acciò che' popolani d'Oltrarno potessono soccorrere al bisogno la detta porta, e andare spediti intorno alle mura d'Oltrarno sanza convenirli andare sotto la forza di Rossi e di Bardi, e fu ben fatto per lo popolo. Ancora si recò la misura dello staio, ove si facea al colmo, perché vi s'usava frode si recò a raso, crescendo il colmo nel raso, e più da libra I e mezza in II lo staio del grano; e questo anno valse lo staio del grano da soldi XX, e il seguente anno del MCCCXLIII valse da soldi XXV. E il vino comune di vendemmia carissimo da fiorini V in VI cogno, di soldi LXV e mezzo il fiorino.
<B>XIV</B>
<I>Come Messina fu rubellata a que' d'Araona che·lla signoreggiava, e come la raquistò.</I>
Nel detto anno, anzi da due mesi che il re Ruberto morisse, per suo trattato con certi rubelli di quello don Piero che tenea Cicilia, ciò erano que' della casa de' Palizzi i più possenti di Messina, per loro amici e di loro setta corsono la città di Messina con armata mano, e uccisono il vicaro, overo capitano, che v'era per lo loro re, e più di sua gente, e presono il forte castello di San Salvadore, ch'è sopra il porto di Messina; e·cciò fatto, mandarono XXX di loro stadichi a Melazzo per dare di loro fidanza al conte Scalore delli Uberti di Firenze, che v'era per capitano per lo re Ruberto, fatto rubello di don Piero, che mandasse sua gente per la terra e per lo castello, il quale vi mandò quelli che poté, non isfornendo Melazzo. Ancora mandarono a Napoli al re Ruberto per soccorso, il quale se di sùbito v'avesse mandato, come potea e dovea, sanza fallo avea raquistata Messina, e poi tutta l'isola; ma·lla tardezza del re Ruberto e·lla sua avarizia, la quale guasta ogni nobole impresa, o forse volle Idio o promisse per non darli tanta gloria mondana inanzi che morisse, tardò tanto il soccorso, che in quella stanza don Guiglielmo figliuolo fu di don Federigo, guardiano e vicario dell'isola per lo figliuolo del re Piero suo fratello, ch'era di poca età, venne a Messina con CCCC cavalieri e popolo assai, e per li cittadini di sua setta contradi di Palizzi li fu data l'entrata della terra, e corse la città di Messina, e uccisono e cacciaro tutti i loro ribelli e genti che v'erano per lo re Ruberto; e per forza di navi e cocche ch'erano nel porto fece combattere Santo Salvadore, e raquistollo, uccidendo quanti dentro ve n'avea. E nota, che·ssi confa alquanto alla presente matera, ch'è delle maraviglie del secolo, i figliuoli di meser Scalore delli Uberti nostri cittadini Ghibellini e rubelli, e quelli d'Antioccia della casa di Soave, e quelli da Lentino, e 'l conte di XX Miglia, e que' di meser Palmieri Abati principali, che rubellarono i loro antichi l'isola di Cicilia al re Carlo vecchio, e de' detti Palizzi di Messina, e altri loro seguaci per soperchio e ingratitudine di Catalani s'erano ribellati da quelli che tenea la Cicilia, e tornati al re Ruberto, ed elli ricevutoli e dotatili nel regno di grande baronie. E ben disse il propio meser Farinata, l'antico delli Uberti, dimandato che cosa era parte, cavallerescamente in brieve rispuose: "Volere e disvolere per oltraggi e grazie ricevute"; e·ffu vera sentenzia.
<B>XV</B>
<I>Come il re di Raona tolse Maiolica al re di quella suo cugino.</I>
Nel detto anno il re d'Araona con trattato di grandi borgesi di Maiolica tolse Maiolica al re di quella, suo cugino; la qual cosa fu molto biasimata, e messa per grande tradigione, con tutto che quelli che·nn'era re era uomo di cattiva vita e di poco valore, e tenea per sua amica la nipote, e cacciava la moglie, e non amato da sua gente. Lasceremo di più dire de' fatti delli strani, e torneremo a nostra matera, a racontare de' fatti di Firenze; e come il duca d'Atene, che se n'era fatto signore per lo modo detto adietro, ne fu cacciato; e molte revoluzioni e novità che alla nostra città ne seguiro apresso, le quali a·nnoi autore, che·lle vedemmo e fummo presenti, ci paiono quasi impossibili a credere, tanto furono diverse e maravigliose.
<B>XVI</B>
<I>Di certe congiurazioni che furono fatte in Firenze contra il duca d'Atene che·nn'era signore.</I>
E' si dice fra·nnoi Fiorentini uno antico e materiale proverbio, cioè: "Firenze non si muove, se tutta non si duole"; e bene che 'l proverbio sia di grosse parole e rima, per isperienza s'è trovato di vera sentenzia, e viene a caso della nostra presente matera; che a certo il duca nonn-ebbe regnato III mesi, che quasi a' più di cittadini non dispiacesse nella sua signoria per li suoi inniqui e malvagi processi, come detto avemo adietro, e più ancora che scritto non s'è per noi; però ch'ogni singulare cosa e sue operazioni nonn-ho potuto sapere né ricogliere, ma per le generali e aperte assai si può comprendere. Prima che' grandi che·ll'aveano fatto signore, e aspettavano da·llui stato e grandezza, come avea loro promesso, sì trovato ingannati e traditi, ed eziandio que' grandi ch'elli avea rimessi in Firenze, non parea loro esere ben trattati; e i grandi e possenti popolani che prima avieno retta la terra, ch'al tutto gli avea anullati e tolto loro ogni stato, onde il nimicavano a morte. A' mediani e artefici dispiacea la sua signoria per lo non guadagnare, e per lo male stato della città, e per le 'ncomportabili gravezze sì d'estimo, sì di prestanze, e d'intollerabili gabelle, e per levare che fece a' cittadini gli asegnamenti sopra le gabelle di danari prestati al Comune. E dove i cittadini avieno speranza che per lo suo reggimento scemasse le spese, e desse loro buono stato, fece il contrario; e per le male ricolte montò il grano in più di soldi XX lo staio, onde il popolo minuto male si contentava. E per li oltraggi delle donne fatti per lui e per le sue genti, e altre forze, e crude giustizie, per le quali cagioni quasi i più di cittadini commossi a mala volontà contro a·llui, onde più congiurazioni s'ordinaro per torli la signoria e·lla vita, chi per una forma, e·cchi per un'altra, non sappiendo al cominciamento l'una setta dell'altra, né s'ardieno a scoprire per le sue crudeli giustizie; che eziandio chi·lle rivelava gli facea morire, come detto è adietro. E principali furono III sette e congiurazioni; della prima fu capo il nostro vescovo degli Acciaiuoli frate predicatore, che al cominciamento delle sue prediche tanto il magnificava e gloriava, e co·llui tenieno i Bardi; ciò furono principali: messere Piero, messere Gerozzo, messere Iacopo, e Andrea di Filippozzo, Simone di Geri, tutti della casa de' Bardi, e rimessi in Firenze per lo duca, e di Rossi Salvestrino e meser Pino, e più suoi consorti. E de' Frescobaldi i caporali il priore di Sa·Iacopo meser Agnolo Giramonte anche di rimessi in Firenze per lo duca, e Vieri delli Scali, e più altri grandi e popolani, Altoviti, Magalotti, Strozzi, e Mancini. Dell'altra congiura era capo meser Manno e Corso di meser Amerigo de' Donati, Bindo e Beltramo e Mari de' Pazzi, e Niccolò di mesere Alamanno, e Tile Benzi de' Cavicciuli e certi degli Albizi. Della terza era capo Antonio di Baldinaccio degli Adimari, e Medici, e Bordoni, Oricellai, e Luigi di Lippo Aldobrandini, e più altri popolani mediani. E più modi si trovò che cercaron di torli la signoria e·cchi la vita, chi con trattato di Pisani, chi con Sanesi e Perugini e con conti Guidi, alcuni d'asalirlo in palagio andando al consiglio; ma per sua gelosia, di ciò si provide, che due volte mutò i sergenti e' famigliari che guardavano il palagio, e per sospetto fece ferrare le finestre del palagio; alcuni di saettarlo quando andava per la terra. L'altra setta ordinaro d'asalirlo in casa gli Albizi il dì di san Giovanni, che vi dovea venire a vedere correre il palio; anche per sospetto non v'andò. La terza setta aveno ordinato, imperò ch'egli cavalcava sovente per amore di donna da casa i Bordoni alla Croce a Trebbio. Questi v'allogaro due case, una da ciascuno capo della via, e quelle guernirono d'arme e di balestra e di sbarre per asserragliare la via dall'uno capo e dall'altro e inchiuderlo nel mezzo, e ordinati da L masnadieri arditi e franchi, che 'l dovieno assalire con certi caporali giovani e grandi e popolani a·ccui ne calea, e aveano voglia di farlo, e assalito il duca, levare la terra a romore, e' caporali di fuori dovieno esere in arme a cavallo e a piè al soccorso e per atterrare lui e sua compagnia; che al principio cavalcava con XXV o XXX di sua gente disarmati, con alquanti cittadini grandi e popolani, di coloro medesimi ch'erano congiurati contro a·llui. Ma tanto gli fu messo sospetto, che poi menava a sua guardia II masnade di L di sue genti a cavallo armati e da C fanti, e smontato lui da cavallo restavano armati in sulla piazza del palazzo a sua guardia: ma poco gli valieno al suo riparo per l'ordine preso per le dette congiure alla sua rovina; però che quasi tutti i cittadini erano commossi contro a·llui per le sue ree opere. Ma come piacque a Dio, per lo meno male, la terza setta e congiura, la qual era più pronta a·cciò fare, fu scoperta per uno masnadiere sanese, che dovea essere a·cciò fare; il rivelò a meser Francesco Brunelleschi, non per tradimento, ma per consiglio e come a suo signore, credendo il sapesse e tenesse mano alla congiura; il quale cavaliere per paura di non esere incolpato, overo per male di suoi nimici, che di tali erano caporali alla detta congiura, il manifestò al duca, e menogli il detto fante sotto fidanza, il quale ritenne segreto e disaminollo, e seppe d'alcuno ch'era de' detti congiurati e caporali di masnadieri; e di presente fece pigliare Pagolo di Francesco del Manzeca orrevole popolano di porta San Piero, tutto fosse brigante, e uno Simone da Monterappoli a dì XVIII di luglio, e questi per tormento confessarono e manifestaro come Antonio di Baldinaccio era loro capo con più altri; il quale Antonio richesto, per sicurtà di sua grandezza comparì. Il duca il fece ritenere nel palagio; e·llui preso, tutti gli altri principali d'ogni setta per tema di loro chi·ssi partì della città, e·cchi si nascose, onde tutta la città fu in gelosia e in grande sospetto e tremore. Il duca trovando la congiura contro a·llui sì grande, e·cche tanti grandi e possenti cittadini vi tenieno mano, non ardì di fare giustizia de' detti presi; che·sse di sùbito l'avesse fatta, e corsa la terra colla sua gente e popolazzo minuto che 'l seguiva, rimaneva signore; ma il suo peccato l'accecò, e·lli misse tanta viltà e paura nell'animo, che non sapea che·ssi fare; e mandò d'intorno alla terre e castella per la sua gente, e al signore di Bologna per aiuto, il quale gli mandò CCC cavalieri. E pensossi di fare una grande vendetta e crudele di molti cittadini con grande tradimento, che perché sabato mattina a dì XXVI di luglio era il dì di santa Anna, e il dì dinanzi fece richiedere più di CCC di maggiori cittadini di Firenze, grandi e popolani d'ogni famiglia e casato, che venissono dinanzi a·llui in palagio per consigliarlo quello ch'avesse a·ffare de' presi, con intenzione (e questo fu poi fuori di Firenze manifesto) che come fossono ragunati nella sala del palagio, ch'avea le finestre ferrate, come detto avemo, di fare serrare la sala, e quanti dentro ve n'avesse fare uccidere e tagliare, e correre la terra al modo fece l'empissimo Totila <I>Fragellum Dei</I> quando distrusse Firenze. Ma Iddio, che sempre ha guarentita al bisogno la nostra città per le limosine e per li meriti delle sante persone religiose e laici, che vi sono innocenti, la guardò di tanto male e pericolo; che prima misse sospetto in cuore a tutti i richiesti di non andare in palagio al detto consiglio, intra' quali ve n'avea molti di congiurati, e poi il dì medesimo quasi tutti i cittadini di grande accordo insieme, diponendo tra·lloro ogni ingiuria e malavoglienza, scoprendosi l'una setta all'altra, di loro ordine e trattati tutti s'armarono per rubellarsi da·llui, come diremo apresso nel seguente capitolo.
<B>XVII</B>
<I>Come la città di Firenze si levò a romore, e cacciaronne il duca d'Atene che·nn'era signore.</I>
Essendo la città di Firenze in tanto bollore, e sospetto e gelosia, sì per lo duca avendo scoperte le congiurazioni fatte per tanti cittadini contra·llui, e fallitoli il suo proponimento di non potere raccogliere i nobili e possenti cittadini al falso e disleale consiglio, e d'altra parte i cittadini i più possenti sentendosi in colpa della congiura, e sentendo il mal volere del duca, e che già nella terra avea più di DC cavalieri di sue masnade, e ogni dì agiugneva; e·lla gente del signore di Bologna e certi altri Romagnuoli che venieno in suo aiuto avieno già valicata l'alpe, dubitarono che·llo indugio non fosse a·lloro pericolo, ricordandosi del verso di Lucano: "Tolle mora, semper etc. ". Gli Adimari, e Medici, e Donati principali, sabato sonata nona, usciti i lavoranti delle botteghe dì XXVI di luglio, il dì di santa Anna anni <I>Domini</I> MCCCXLIII, ordinarono in Mercato Vecchio e in porta San Piero che certi ribaldi fanti fitiziamente s'azzuffassono insieme, e gridassono: "All'arme, all'arme!"; e così feciono. La terra era insollita e in paura, incontanente tutta corse a furore e a sgombrare i cari luoghi; e di presente, com'era ordinato, tutti i cittadini furo armati a cavallo e a piè, ciascuno alla sua contrada e vicinanza, traendo fuori bandiere dell'armi del popolo e del Comune, com'era ordinato, gridando: "Muoia il duca e' suoi seguaci, e viva il popolo e 'l Comune di Firenze e libertà!". E di presente fu abarrata e aserragliata tutta la città ad ogni capo di vie e di contrade. Quelli del sesto d'Oltrarno, grandi e popolani, si giurarono insieme e baciarono in bocca, e abarraro i capi de' ponti, con intenzione che se tutta la terra di qua si perdesse, di tenersi francamente di là. E mandato il dì dinanzi da parte del Comune segretamente per soccorso e aiuto a' Sanesi; e certi di Bardi e Frescobaldi stati a Pisa e tornati di nuovo in Firenze mandarono per loro ispezialtà per aiuto a' Pisani. La qual cosa quando si seppe per lo Comune e per li altri cittadini, forte se ne turbaro. La gente del duca sentendo il romore s'armaro e montaro a cavallo, e chi potéo di loro al cominciamento corsono alla piazza del palagio in quantità di CCC a cavallo; gli altri, chi·ffu preso, e rubato per li alberghi, e·cchi per le vie fediti e morti e scavallati, e per li serragli impacciati, e rubati i cavalli e·ll'arme. Al cominciamento trassono al soccorso del duca in sulla piazza di priori certi cittadini amici del duca, cui avea serviti, che non sapieno il segreto delle congiure; ciò furono de' principali: messer Uguiccione Bondelmonti con alcuno suo consorto e cogli Acciaiuoli, e meser Giannozzo Cavalcanti e di suoi consorti, e Peruzzi, e Antellesi, e certi scardassieri e alcuno beccaio, gridando: "Viva lo signore lo duca!". Ma come s'avidono che quasi tutti i cittadini erano sommossi a furore contro a·llui, si tornarono a casa, e seguirono il popolo, salvo messere Uguiccione Bondelmonti, cui il duca ritenne seco in palagio, e i priori dell'arti per sicurtà di sua persona, i quali erano rifuggiti in palagio. Essendo levato il detto romore e tutta gente ad arme, quelli de' cinque sesti, ond'erano capo gli Adimari, per scampare Antonio di Baldinaccio loro consorto e gli altri presi per lo duca, e Medici, e Altoviti, e Oricellai, e degli altri offesi da·llui, com'è detto adietro, presono le bocche delle vie che menano in sulla piazza del palagio de' priori, ch'erano più di XII vie, e quelle abarrarono e aforzarono sicché nullo non potea entrare né uscire del palagio e piazza, e di dì e di notte si combattero colla gente del duca, ch'erano in sul palagio e 'n sulla piazza, ov'ebbe alquanti morti, ma molti fediti di cittadini per lo molto saettamento e pietre che venia del palagio dalla gente del duca. Ma alla fine la gente del duca ch'era in sulla piazza, la sera medesima, non poterono durare e non avendo da vivere, lasciando i loro cavalli, i più di loro si fuggiro nel compreso del palagio ov'era il duca e' suoi baroni, e alquanti si guerentirono tra' nostri lasciando l'armi e cavalli, e·cchi preso e·cchi fedito. E come si cominciò il detto romore, Corso di meser Amerigo Donati co' suoi fratelli e altri seguaci ch'avieno loro amici e parenti in prigione assaliro e combattero la carcere delle Stinche, mettendo fuoco nello sportello e bertesca ch'era di legname, e collo aiuto de' prigioni dentro ruppero le dette carcere, e uscinne tutti i prigioni, e con quello empito, crescendo loro séguito di meser Manno Donati, e di Niccolò di meser Alamanno, e Tile di Guido Benzi de' Cavicciuli, e Beltramo de' Pazzi, e di più altri, ch'avieno loro amici in bando e presi in palagio, assalirono combattendo il palagio della podestà, ov'era mesere Baglione da Perugia podestà per lo duca, il quale né egli né sua famiglia si misono a risistenza, ma con grande paura e pericolo si fuggì a guarentigia in casa gli Albizi, che 'l ricolsono; e·cchi di sua famiglia si fuggì in Santa Croce; e rubato il palagio d'ogni loro arnesi infino alle finestre e panche del Comune; e ogni atto e scritture vi furono prese e arse, e rotta la carcere della Volognana, e scapolati i prigioni; e poi ruppono la camera del Comune, e di quella tratti tutti i libri ov'erano scritti gli sbanditi e rubelli e condannati, e arsi tutti; e simile rubati gli atti dell'uficiale della mercatantia sanza contasto niuno. Altra ruberia od offensione corporale non fu fatta in tanto scioglimento di città, se non contro alla gente del duca; che·ffu gran cosa, e tutto avenne per l'unità in che·ssi trovaro i cittadini a ricoverare la loro libertà e quella della republica del Comune. E·cciò fatto, il detto sabato quelli d'Oltrarno apersono l'entrata de' ponti, e valicaro di qua a cavallo e a piè in arme, e cogli altri cittadini de' V sesti feciono levare le sbarre e serragli delle rughe mastre, colle 'nsegne del Comune e del popolo cavalcarono per la città gridando: "Viva il popolo e Comune in sua libertà, e muoia il duca e' suoi! "; e trovarsi i cittadini più di mille a cavallo ben montati, e inn-arme tra di loro cavalli e di quelli tolti alla gente del duca, e più di Xm cittadini armati a corazze e barbute come cavalieri, sanza l'altro minuto popolo tutto in arme, sanza alcuno forestiere o contadino; il quale popolo fu molto amirabile a vedere, e possente, e unito. Il duca e sua gente veggendosi così fieramente assaliti e assediati dal popolo nel palagio con più di CCCC uomini (e non avea quasi altro che biscotto e aceto e acqua), ma credendosi guarentire dal furioso popolo, la domenica fece cavaliere Antonio di Baldinaccio il quale non si volea fare di sua mano; ma i priori, ch'erano rinchiusi in palagio, vollono si facesse a onore del popolo di Firenze; poi lasciò lui e gli altri cui avea presi, e puose in sul palagio bandiere del popolo, ma però non cessò l'asedio e furia del popolo. La domenica di notte giunse il soccorso di Sanesi, CCC cavalieri e CCCC balestieri molto bella gente, e co·lloro sei grandi e popolani cittadini di Siena per ambasciadori. I Saminiatesi mandato al servigio del nostro Comune IIm pedoni armati, e' Pratesi D. E venne di presente il conte Simone da Battifolle, e Guido suo nipote con CCCC fanti. E di nostri contadini armati il seguente dì vennero in grandissima quantità al Comune e a' singulari cittadini, onde tutta la città fu piena d'innumerabile gente. I Pisani mandavano alla richiesta di loro amici, come toccammo adietro, sanza assento del Comune, D cavalieri, i quali vennero infino al borgo della Lastra di là da Settimo. Sentendosi in Firenze, se n'ebbe grande gelosia e grande mormorio contro a que' grandi a·ccui richiesta venivano; e per lo Comune e per loro fu contramandato che non venissono, e così feciono; ma tornandosi adietro, da quelli di Montelupo e di Capraia e d'Empoli e di Puntormo furono assaliti, e tra morti e presi più di cento pure de' migliori; e perderono più di CC cavalli, che furono loro tra morti e rubati.
Arezzo sentito come il duca era assediato da' cittadini di Firenze, incontanente si rubellarono alla gente e uficiali del duca per li Guelfi. E il castello dentro fatto per li Fiorentini rendé Guelfo di meser Bindo Bondelmonti. E Castiglione Aretino rendé Andrea e Iacopo Laino de' Pulci, che·nn'erano castellani, a' Tarlati. Pistoia si rubellò, e ridussonsi a·lloro libertà e a popolo guelfi, e disfeciono il castello fatto per li Fiorentini e ripresono Serravalle. E rubellossi Santa Maria a Monte e Montetopoli tenendosi per loro; rubellossi Volterra, e tornò alla signoria di meser Attaviano de' Belforti, che prima la signoreggiava; e Colle, e San Gimignano dalla signoria del duca, e disfeciono le castella, e rimasono i·lloro libertà. Tale fu la rovina della signoria del duca in Firenze e d'intorno. In pochi giorni venuti in Firenze i Sanesi e·ll'altra amistà, il vescovo con certi buoni cittadini grandi e popolani feciono richiedere a bocca tutta buona gente, e sonare la campana della podestà, e bandire parlamento per riformare lo stato e signoria della città. E congregati tutti in Santa Reparata in arme il lunedì apresso, di grande accordo elessono l'infrascritti XIIII cittadini, VII grandi e VII popolani con piena balìa di riformare la terra e fare uficiali e leggi e statuti, per tempo fino a calen di ottobre vegnente; ciò furono del sesto d'Oltrarno messer Ridolfo di Bardi, messer Pino de' Rossi, e Sandro di Cenni Biliotti; di San Piero Scheraggio messer Giannozzo Cavalcanti, messer Simone Peruzzi, Filippo Magalotti; per Borgo meser Giovanni Gianfigliazzi, Bindo Altoviti; per San Brancazio messer Testa Tornaquinci, Marco degli Strozzi; per porta del Duomo messer Bindo della Tosa, messer Francesco de' Medici; di porta San Piero mesere Talano degli Adimari, messer Bartolo de' Ricci. I detti XIIII elessono per podestà il conte Simone, e ragunavansi nel vescovado. Ma il detto conte, come savio, rinuziò e non voll'essere giustiziere de' Fiorentini; e però chiamato meser Giovanni marchese da Valiano, e infino che penasse a venire elessono luogotenente di podestà l'infrascritti VI cittadini, uno per sesto, III grandi e III popolani; messer Berto di meser Stoldo Frescobaldi, Nepo delli Spini, meser Francesco Brunelleschi, Taddeo dell'Antella, Paolo Bordoni, Antonio degli Albizi; e stavano nel palagio del podestà con CC fanti pratesi, tegnendo ragione sommaria di ruberie e forze e di simili, sanz'altro uficio. In questa stanza non cessava l'assedio del duca, di dì e di notte combattendo il palagio, e di cercare di suoi uficiali. Fu preso uno notaio del conservadore per li Altoviti stato crudele e reo, fu tutto tagliato a bocconi. E apresso fu trovato meser Simone da Norcia stato uficiale sopra le ragioni del Comune, il quale molti cittadini cui a diritto e cui a torto avea tormentati crudelmente e condannati, per simile modo a pezzi tutto tagliato. E uno notaio napoletano, ch'era stato capitano di sergenti a piè del duca, reo e fellone tutto fu abocconato dal popolo. E ser Arrigo Fei, ch'era sopra le gabelle, fuggendosi da' Servi vestito come frate, conosciuto da San Gallo fu morto, e poi da' fanciulli tranato ignudo per tutta la città, e poi in sulla piazza de' priori impeso per li piedi, e sparato e sbarrato come porco: tal fine ebbe della sua isforzata industria di trovare nuove gabelle, e·lli altri di su detti della loro crudeltà. I signori XIIII col vescovo, e 'l conte Simone e·lli ambasciadori di Siena al continuo erano in trattato col duca per trarlo di palagio, e sovente a vicenda a parte a parte di loro entravano e uscivano di palagio, benché poco piacesse al popolo. Alla fine nulla concordia asentiva il popolo, se non avessono dal duca il conservadore, e 'l figliuolo, e meser Cerritieri per farne giustizia. Il duca in nulla guisa l'asentiva, ma i Borgognoni ch'erano assediati in palagio s'allegarono insieme, e dissono al duca che inanzi che volessono morire di fame e a tormento, darebbono preso lui al popolo, non che i detti tre, e ordinato l'avieno, e il podere avieno di farlo, tanti erano, e sì erano forti. Il duca veggendosi a tal partito acconsentì; e venerdì, a dì primo d'agosto, in sull'ora della cena i Borgognoni presono meser Guiglielmo d'Ascesi, detto conservadore delle tirannie del duca, e un suo figliuolo d'età di XVIII anni, di poco fatto cavaliere per lo duca, ma bene era reo e fellone a tormentare i cittadini, e pinsollo fuori dell'antiporto del palagio in mano dell'arrabbiato popolo, e di parenti e amici cui il padre avea giustiziati, Altoviti, Medici, Oricellai, e quelli di Bettone principali, e più altri, i quali, in presenza del padre per più suo dolore, il suo figliuolo pinto fuori inanzi il tagliarono e smembrarono a minuti pezzi; e·cciò fatto pinsono fuori il conservadore e feciono il somigliante, e chi·nne portava un pezzo in sulla lancia e·cchi in sulla spada per tutta la città; ed ebbevi de' sì crudeli, e con furia bestiale e tanto animosa, che mangiaro delle loro carni cruda e cotta. Cotale fu la fine del traditore e persecutore del popolo di Firenze. E nota che·cchi è crudele crudelmente dee morire, <I>disit Domino</I>. E fatta la detta furiosa vendetta molto s'aquetò e contentò la rabbia del popolo; e·ffu però scampo di meser Cerritieri, che dovea esere il terzo; ma saziati i loro aversari no·llo domandaro; e fuggendosi la sera fu nascosto e poi traviato da certi di Bardi, e altri suoi amici e parenti. E per la detta furiosa vendetta fatta sopra il conservadore e 'l figliuolo, ch'avea giudicati Naddo di Cenni e Guiglielmo Altoviti e gli altri, poco apresso si feciono cavalieri due delli Oricellai e poi due delli Altoviti; la qual cosa poco fu loro lodata da' cittadini. Ma torniamo a nostra matera de' fatti del duca, che·lla domenica apresso, dì III d'agosto, il duca s'arrendé e diede il palagio al vescovo e a' XIIII e a' Sanesi e conte Simone, salve le persone di lui e di sue genti. La qual sua gente n'uscirono con gran paura acompagnati da' Sanesi e da più buoni cittadini. E il duca rinuziò con saramento ogni signoria e giuridizione e ragione ch'avesse aquistata sopra la città contado e distretto di Firenze, dimettendo e perdonando ogni ingiuria; e a cautela promettendo di retificare ciò, quando fosse fuori del contado di Firenze. E per paura della furia del popolo, con sua privata famiglia rimase in palagio alla guardia de' detti signori infino mercoledì notte di VI d'agosto; e raquetato il popolo, in sul mattutino uscì di palagio acompagnato dalla gente de' Sanesi e del conte Simone, e di più nobili e popolani e possenti cittadini ordinati per lo Comune. E uscì per la porta di San Niccolò e passò Arno al ponte a Rignano salendo a Valembrosa e a Poppi; e·llà fatta la ritificagione promessa, passò per Romagna a Bologna, e dal signore di Bologna fu bene ricevuto, e donatogli danari e cavalli; e poi se n'andò a Ferrara e a Vinegia. E·llà fatte armare II galee, sanza prendere congio di più di sua gente che gli erano iti dietro, lasciandogli mal contenti di loro gaggi, privatamente di notte si partì di Vinegia, e·nn'andò in Puglia. Cotale fu la fine della signoria del duca d'Atene, ch'avea con inganno e tradimento usurpata sopra in Comune e popolo di Firenze, e il suo tirannico reggimento mentre la signoreggiò, e com'elli tradì il Comune, così da' cittadini fu tradito. Il quale n'andò con molta sua onta e vergogna, ma con molti danari tratti da·nnoi Fiorentini, detti orbi e inn-antico volgare e proverbio per li nostri difetti e discordie, e lasciandoci di male sequele. E partito il duca di Firenze, la città s'aquetò e disarmarsi i cittadini, e disfecionsi i serragli, e partirsi i forestieri e' contadini, e apersonsi le botteghe, e ciascuno attese a·ssuo mestiere e arte. E detti XIIII cassarono ogni ordine e dicreto che 'l duca avea fatto, salvo che confermarono le paci tra' cittadini fatte per lui. E nota che come il detto duca occupò con frode e tradigione la libertà della republica di Firenze il dì di nostra Donna di settembre, non guardando sua reverenza, quasi per vendetta divina così permisse Iddio che i franchi cittadini con armata mano la raquistassono il dì di sua madre madonna santa Anna, dì XXVI di luglio MCCCXLIII; per la qual grazia s'ordinò per lo Comune che·lla festa di santa Anna si guardasse come pasqua sempre in Firenze, e si celebrasse solenne uficio e grande oferta per lo Comune e per tutte l'arti di Firenze.
<B>XVIII</B>
<I>Come la città di Firenze si recò a quartieri e si raccomunarono gli ufici co' grandi, ma poco durò.</I>
Riposato alquanto la città di Firenze del furore della cacciata del duca, i signori XIIII col vescovo tennero più consigli co' cittadini di riformare la terra dell'uficio di priori e collegio di XII e gonfalonieri e degli altri ufici. A' grandi parea loro ragionevole, siccom'erano stati principali a ricoverare la libertà del Comune, d'avere parte degli ufici del priorato e di tutti gli altri; e certi popolani grassi ch'erano usi di regnare vi si accordavano per tornare inn-istato collo apoggio di grandi, co' quali aveano molti parentadi. Gli altri artefici e popolo minuto erano contenti di dare parte loro d'ogni uficio, salvo del priorato e di dodici e gonfalonieri delle compagnie del popolo, e a questi s'acordavano per pace del popolo più al convenevole. Ma pure si vinse per lo vescovo, per l'oficio de' XIIII e col consiglio di Sanesi che' grandi avessono parte di tutti gli ufici per più unità di Comune. E con ciò sia cosa che quelli del sesto d'Oltrarno e di San Piero Scheraggio parea loro, che non fosse giusto d'avere uno priore per sesto, ed ellino più grandi che gli altri quattro, e portavano delle gravezze del Comune più che·lla metà, cioè il sesto d'Oltrarno della 'mposta di Cm fiorini d'oro XXVIIIm e San Piero Scheraggio XXIIIm, e Borgo XIIm, e San Brancazio XIIIm; e porta del Duomo XIm, e porta San Piero XIIIm; sì·ssi acordarono di recare la terra a quartieri in questo modo; Oltrarno il primo, e chiamossi il quartiere di Santo Spirito colla 'nsegna in arme, il campo azurro, e una colomba bianca co' razzi d'oro in becco. Il secondo quartiere fu tutto il sesto di San Piero Scheraggio, togliendo più che 'l terzo di porta San Piero, cominciandosi in Calimala fiorentina al chiasso di Rimaldelli con tutto Orto San Michele, e giù per la via di Sa·Martino, e della Badia e di San Brocolo, rimanendo le dette chiese e più che mezzi i popoli loro nel detto quartiere; e·ffu al diritto per la via di San Brocolo per la Città Rossa infino di costa alla porta Guelfa e mura nuove, togliendo del popolo di San Piero Maggiore e di Santo Ambruogio infino a mezza alla via Ghibellina, e più quello ch'era di là dalla via Ghibellina del detto popolo; e questo si chiamò il quartiere di Santa Croce, coll'arme il campo azurro e·lla croce ad oro. Il terzo quartiere fu tutto il sesto di Borgo e quello di San Brancazio, e chiamarlo il quartiere di Santa Maria Novella, coll'arme il campo azurro e uno sole con razzi d'oro. Il quarto quartiere fu tutta porta del Duomo col rimanente di porta San Piero, e chiamarlo il quartiere di San Giovanni, coll'arme il campo azurro e colla cappella di San Giovanni ad oro, con due chiavi dal lato al Duomo per contentare in parte quelli di porte San Piero, che solo di cinque sesti era partito quello per lo modo ch'è detto; che in prima erano i confini di porte San Piero cominciando alla casa dell'arte della lana e tutto Orto San Michele, dividendo la via che viene da casa i Cerchi Bianchi, volgendosi nel Garbo al chiasso che parte le case de' Sacchetti alle case della Badia e mezzo il palagio del podestà, e tutta quasi quella via dall'uno lato e dall'altro infino alla via delle Taverne, e poi mezza la via Ghibellina, e poi passava quella al crocicchio di sopra infino al Tempio, e tutta quasi l'isola dentro alle mura e del popolo di Santo Ambruogio, ed era del sesto di porta San Piero. Partita la terra a quartieri, sì s'ordinò per lo vescovo e per li XIIII lo squittino per fare i priori, ed elessono XVII popolani e VIII grandi per quartiere, e co·lloro i detti XIIII e 'l vescovo, sicché in tutto furono CXV; e per lo consiglio de' Sanesi e del conte Simone, per recare la città più a comune, sì ordinaro d'eleggere XII priori per uficio, III per quartiere, uno di grandi e II di popolo, e VIII consiglieri a diliberare le gravi cose co' priori, in luogo di XII come solieno esere, cioè IIII grandi IIII popolani, II per quartiere, e tutti gli altri ufici fossero per metà co' grandi. Compiuto il detto squittino di grande acordo, fu messa una voce per la terra, che de' priori dovea esere meser Manno Donati e di simili caporali di case troppo possenti, onde il popolo si turbò forte, e·ffu quasi in arme per contradiare infino che non furono tratti e palesati i nuovi priori; ciò fu dì II all'uscita d'agosto, dovendo stare infino a Ognisanti. I nomi de' quali furono questi: nel quartiere di Santo Spirito Zanobi di meser Lapo di Mannelli di grandi, Sandro da Quarata, Niccolò di Cione Ridolfi popolani; nel quartiere di Santa Croce meser Razzante di Foraboschi di grandi, Borghino Taddei, Nastagio Tolosini popolani; nel quartiere di Santa Maria Novella Ugo di Lapo delli Spini di grandi, meser Marco di Marchi giudice, Antonio d'Orso popolani; nel quartiere di San Giovanni meser Francesco Trita delli Adimari di grandi, e Billincione degli Albizi e Neri di Lippo popolani. E gli otto consiglieri de' priori, II per quartiere, furono questi: Bartolo di meser Ridolfo de' Bardi, Adoardo Belfredelli, Domenico di meser Ciampolo Cavalcanti, meser Francesco Salvi giudice, Nepo delli Spini, ser Piero di ser Feo da Signa, Beltramo de' Pazzi, e Piero Rigaletti. Veggendo il popolo ch'erano convenevoli e pacifichi grandi, e non di tiranni gli eletti, s'aquetarono, ma però malcontenti di sì fatto mischiato, come poco apresso si mostrò. E messi i detti priori in palagio, i XIIII si tornarono a·ccasa loro, riserbandosi la loro balìa, e ragunandosi alcuno dì della settimana in vescovado col vescovo a ordinare l'altre bisogne del Comune.
<B>XIX</B>
<I>Come il popolo trassono i grandi dell'uficio del priorato, e riformaro la terra.</I>
Ma il nimico dell'umana generazione e d'ogni concordia seminò la sua superbia e invidia nell'animo di certi malvagi grandi e popolani. Prima veggendosi certi rei de' grandi il favore della signoria, e non essendo rifermi gli ordini della giustizia; e bene avieno ordinato i XIIII che·ssi facesse uno libro di malabbiati, ove si scrivessono i mafattori de' grandi, e quelli fossero puniti, ma però non si raffrenavano i malvagi grandi, ma cominciaro a·ffare delle forze e micidi in città e in contado, e di false accuse contra i popolani, onde i popolani si tenieno mal contenti della loro consorteria delli ufici, e cominciaro forte a dubitare di maggiore pericolo, sentendo che colle borse dello squittino avea di maggiori caporali grandi di Firenze. Onde il popolo si commosse contro a' grandi, e collo aiuto e favore di meser Giovanni della Tosa, e di mesere Antonio degli Adimari, e di meser Geri de' Pazzi cavalieri del popolo, a' quali dispiacea i modi di tali di loro consorti e degli altri grandi contro al popolo, e non parea loro stato fermo. Bene ci ebbe anche colpa la 'nvidia di certi popolani, che non volieno negli ufici volentieri la compagnia di loro maggiori, e per essere più signori e fare del Comune a·lloro guisa; onde segretamente trattato co' detti cavalieri e con certi caporali di popolo, e col vescovo, e con certi de' priori medesimi, ch'erano all'uficio e popolani, di recare il secondo uficio di priori ch'uscisse pure agli otto popolani, due per quartiere, e uno gonfaloniere di giustizia, e nullo de' grandi per lo meglio del Comune e del popolo, rimanendo a comune co' grandi gli altri ufici; ed era ben fatto per aquetare il popolo. Il vescovo credendo ben fare, se ne scoperse a' compagni suoi XIIII, ch'erano, come detto è, VII grandi pure di maggiori, dicendo ch'era il meglio di farlo d'amore e d'accordo co' grandi, onde ne tenne co' detti suoi compagni e con altri grandi più consigli in Santa Felicita Oltrarno, ov'erano capo i Bardi e' Rossi e' Frescobaldi e di più altre case di grandi di Firenze, pregandoli che·cciò asentissono; i quali nulla ne vollono udire, parlando di grosso e con minacce: "Noi vedremo chi·cci torrà la parte nostra della signoria, e·cci vorrà cacciare di Firenze, che·lla francammo dal duca". E di ciò erano più principali i Bardi, chiamando il vescovo traditore, ch'avea tradito prima il Comune e popolo, e data la signoria al duca, e poi tradito e cacciato lui, "e ora vuogli tradire noi"; e cominciarsi a fornire d'armi e di gente, e a mandare per amici di fuori. Sentendosi questo per la città, tutta fu in gelosia e sotto l'arme, col consiglio e ordine di sopradetti III cavalieri del popolo, che·nn'erano capo; sì vennero molti popolani armati sulla piazza de' priori gridando: "Viva il popolo, e muoiano i grandi traditori!"; gridando a' priori popolani ch'erano in palagio: "Gittatene dalle finestre i priori vostri compagni de' grandi, o·nnoi v'arderemo in palagio co·lloro insieme"; e recarono la stipa, e misono il fuoco all'antiporto del palagio. I priori popolani scusavano i loro compagni di grandi, dicendo ch'erano diritti e·lleali e bene inn-accordo, con tutto che i più di loro il dicevano alla 'nfinta, ed era stato loro operazione. Alla fine crescendo la forza e furore del popolo, convenne che' detti priori de' grandi rinuziassono all'uficio, e per grazia uscissono di presente di palagio sotto sicurtà del popolo, e con grande paura acompagnati a casa loro; e·cciò fu lunedì a dì XXII di settembre MCCCXLIII. E nota che in così piccolo tempo la città nostra ebbe tante novità e varie rivoluzioni, come avemo fatto menzione, e faremo nel seguente e terzo capitolo. E bene difinì il grande filosofo maestro Michele Scotto quando fu domandato anticamente della disposizione di Firenze, che·ssi confa alla presente matera; disse in brieve motto in latino: "Non diu stabit stolida Florenzia florum; decidet in fetidum, disimulando vivet". Ciò è in volgare: "Non lungo tempo la sciocca Firenze fiorirà; cadrà in luogo brutto, e disimulando vive". Ben disse questa profezia alquanto dinanzi la sconfitta di Monte Aperti; ma poi pure asseguito ciò si vede manifesto per nostri processi. E 'l nostro poeta Dante Allighieri scramando contra al vizio della incostanza de' Fiorentini nella sua Commedia, capitolo VI Purgatoro, disse intra·ll'altre parole:
Attena e·lLacedemonia, che fenno
L'antiche leggi e furon sì civili,
Feciono al viver bene un piccol cenno
Verso di te, che·ffai tanto sottili
Provedimenti, ch'a mezzo novembre
Non giugne quel che·ttu d'ottobre fili.
E bene fu profezia e vera sentenzia in questo nostro fortuito caso, e in quelli che seguiranno apresso, per le nostre disimulazioni. Partiti i quattro priori di palagio di grandi, e disfatto l'uficio delli otto loro consiglieri mischiato co' grandi, col consiglio delle capitudini delle XXI arti, i priori popolari ch'erano rimasi all'uficio elessono i XII consiglieri de' priori, tutti popolani, ed elessono gonfalonieri delle compagnie del popolo; e de' XVIIII ch'erano prima che 'l duca regnasse gli recarono a XVI, quattro per quartiere; e feciono gonfaloniere di giustizia Sandro da Quarata, ch'era de' priori; e feciono il consiglio del popolo LXXV per quartiere. Così fortunando e disimulando si rifermò la città alla signoria del popolo.
<B>XX</B>
<I>Di quello medesimo, e d'altre novità che·nne seguirono.</I>
Tegnendosi i grandi forte gravati della villana disposizione di loro priori, e volentieri a·lloro podere n'avrebbono fatta vendetta, e minacciavano al continuo, e d'altra parte temieno della forza e furia dell'arrabbiato e commosso popolo, sì·ssi guernirono d'arme e di cavalli, e mandarono per gente e·lloro amistà. Il popolo non raquetato, rifeciono i serragli per la città più grandi e più forti che quando fu cacciato il duca, faccendo grande guardia di dì e di notte e stando sotto l'arme, temendo che i grandi non facessono novità, e rimandaro pe' Sanesi e per altra amistà. In questo bollore di città si levò uno folle e matto cavaliere popolano, messere Andrea delli Strozzi, contro a volere de' suoi consorti, montò a cavallo coverto armato, ragunando rubaldi e scardassieri e simile gente volonterosi di rubare, in grande numero di parecchie migliaia, promettendo loro di farli tutti ricchi, e dare loro dovizia di grano, e farli signori, menandoglisi dietro per la terra, il martedì apresso, dì XXIII di settembre, gridando: "Viva il popolo minuto, e muoiano le gabelle e 'l popolo grasso!"; e così ne vennono sanza contasto in sulla piazza de' priori per assalire il palagio, dicendo di volervi mettere e fare signore del popolo messere Andrea. E fattigli ammunire da' priori e da' consorti di meser Andrea e altri buoni popolani, e comandare al detto commosso popolo e a meser Andrea che·ssi si partissono, non ebbe luogo infino che dal palagio non si cominciò a gittare e pietre e saettare verrettoni, onde alcuno ne fu morto e molto fediti. Allora lo scomunato e disarmato popolazzo col loro pazzo caporale si partiro, e vennero al palagio della podestà per prenderlo, ma per simile modo saettandosi di palagio per la gente del marchese da Valiano podestà, e collo aiuto di buoni popolani vicini, gli mandarono via, e cominciarsi a sciarrare, e·cchi andare in una parte e·cchi in un'altra lo scomunato popolo; e mesere Andrea bestia, tornato a casa, fu preso da' consorti suoi e vicini, e mandato a suo contrario fuori della città, e·ffu poi condannato nell'avere e nella persona siccome ribello, e somovitore di romore e di congiura contro alla republica e pacifico stato di Firenze. Di questa commovizione del popolo minuto i grandi, ch'avieno mal volere contro al popolo, furono molti allegri, credendo si dovidessono insieme il popolo; e presono speranza d'acostarsi insieme col popolo minuto, gridando a' loro ridotti e serragli in simile voce: "Viva il popolo minuto, e muoia il popolo grasso e·lle gabelle!", afforzandosi al continuo e aspettando gente i·lloro aiuto. E sentendo i grandi che' Sanesi venieno a richiesta e servigio del Comune e popolo, mandarono alcuno di loro per ambasciadore, meser Giovanni Gianfigliazzi e altri, infino a San Casciano, pregando che non venissono in Firenze, e che·lla loro venuta poteva generare scandalo tra' cittadini. E credendolo i Sanesi, s'arestarono più d'uno dì. Questo si disse che i grandi feciono per paura di loro, ma i più dissono il facieno acciò che il loro soccorso giugnesse prima che·lla venuta de' Sanesi per assalire il popolo; ma a buona opinione noi crediamo che il guernimento che facieno i grandi era più per paura di loro che per assalire il popolo; con tutto ci fosse la loro mala voglia, non ci era il podere, se·ggià il popolo minuto non gli avesse seguiti, onde pure avieno alcuna vana speranza. Ma i priori, ciò sentendo di Sanesi, vi mandarono per lo Comune ambasciadori popolani con lettere, pure che venissono, che n'avieno gran bisogno per sicurtà e aiuto del Comune e del popolo, per la scomovizione della città per li malvagi cittadini che·lla voleano guastare. I quali Sanesi vennero incontanente molto bella gente a·ccavallo e a piè, altrettanti e più che quando il duca fu cacciato; e i Perugini ci mandarono CL cavalieri, e d'ogni parte venia gente d'arme, chi in servigio del popolo e chi in servigio di grandi, onde la città era tutta inn-arme, e con molti forestieri e contadini, e tutta iscommossa in gelosia e paura, il popolo di grandi, e' grandi del popolo. Ma il Comune e popolo si trovò più possente, ch'avieno i palagi e·lle campane e·lla dominazione delle porte della città, salvo di quella di San Giorgio tenieno i Bardi. E avea il Comune da CCC soldati a cavallo sanza l'amistadi, sicché la forza di grandi nonn-era a comparazione con quella del popolo, se nuovo soccorso non venisse da Pisa o di Lombardia a' grandi, onde per lo popolo s'avea grande gelosia; e chi avea cose care o mercatantie le fuggia in chiese e in luoghi di riligiosi sicuri. Tal era la disposizione della nostra infortunata città.
<B>XXI</B>
<I>Come il popolo di Firenze assaliro e combattero i grandi e rubarono i Bardi e missono fuoco in casa loro.</I>
Stando tutta la città inn-arme e gelosia, i grandi del popolo e 'l popolo de' grandi, com'è detto, dicendosi molte e varie novelle per la terra, e come i grandi arebbono grande aiuto da' conti e Ubaldini e Pisani e d'altri tiranni di Lombardia e di Romagna, e che dovieno afforzarsi Oltrarno, ch'avieno la signoria di tutti i ponti, e di qua fare cominciare l'assalto giovedì a dì XXV di settembre; i popolani del quartiere di San Giovanni, onde si feciono capo i Medici e' Rondinelli e meser Ugo della Stufa giudice, e' popolani di borgo Sa·Lorenzo co' beccari e altri artefici, sanza ordine di Comune, in quantità di mille uomini sanz'altra compagnia o forza di gente al cominciamento, mercoledì dopo desinare, dì XXIIII di settembre, per non aspettare il giovedì vegnente, che·ssi dicea che' grandi doveano fare l'assalto e correre la terra, con tre di loro gonfaloni delle compagnie del loro quartiere, tutti armati a barbute e corazze a piè, e molte balestra, asalirono da più parti quelli del lato degli Adimari chiamati i Cavicciuli, i quali con grandi serragli e guernimento di torri e di palagi e loro case dal crocicchio del Corso dalla loggia loro alla piazza di San Giovanni s'erano aforzati con molta gente d'arme. E cominciato per lo popolo l'asalto e battaglia manesca a' serragli, saettando e gittando pietre l'una parte all'altra, crescendo al continovo la forza del popolo; i Cavicciuli veggendo non poteano resistere, e aiuto di fuori d'altri grandi non avieno né attendeano, patteggiati s'arrenderono al popolo, salve le persone e·lloro cose, e disfeciono i loro serragli, e puosonsi in su' loro palagi le bandiere del popolo. E·cchi di loro andò inn-uno luogo e chi inn-altro a casa di loro amici e parenti popolani, sanza danno niuno, se non di fediti dall'una parte e dall'altra. Vintosi per lo detto popolo la detta prima punga e asalto sopra i Cavicciuli, ch'erano i più virili e arditi e possenti grandi di Firenze, presono i popolani molto ardire e vigore, e al continovo crescendo loro la massa del popolo e aiuto d'alquanti di soldati del Comune ch'erano in Firenze, corsono a casa i Donati e poi a casa i Cavalcanti. Ellino sentendo come i Cavicciuli s'erano arrenduti al popolo, non feciono nulla risistenza, ma per simile modo s'arrenderono al popolo. In somma, in poca d'ora tutte le case di grandi di qua da Arno feciono il somigliante, e disarmarsi e disfeciono loro guernigioni e serragli. Le case de' grandi d'Oltrarno, Bardi, e Rossi, e Frescobaldi, e Mannelli, e Nerli s'erano aforzati molto, e prese le bocche de' ponti. Il detto commosso popolo volendo passare Oltrarno per lo detto ponte Vecchio, ch'ancora era di legname, non ebbe luogo, però che·lla forza di Bardi e di Rossi era sì grande e di sì forti serragli, e armata la torre della parte e 'l palagio de' figliuoli di meser Vieri de' Bardi e·lle case di Mannelli di capo del ponte Vecchio, che 'l popolo non vi potea accedere né passare. Ma combattendo però francamente il serraglio, molti ve n'ebbe fediti di sassi e di verrettoni di balestri. Veggendo il popolo che da quella parte non poteano passare, e dal ponte Rubaconte peggio, per la fortezza de' palagi de' Bardi da San Ghirigoro, sì presono partito di lasciare alla guardia del ponte Vecchio parte de' gonfaloni del quartiere di Santa Croce e di quelli di borgo di Santo Apostolo, e parte rimasono alla guardia del ponte Rubaconte di qua. L'altro popolo molto cresciuto co' soldati a cavallo si misono ad andare dal ponte alla Carraia, il quale guardavano i Nerli; ma·lla forza di popolani di borgo San Friano e della Cuculia e del Fondaccio fu sì grande, che inanzi che passasse il popolo di qua da Arno presono il capo del ponte e·lle case de' Nerli, e loro ne cacciaro; e preso per li popolani d'Oltrarno il ponte alla Carraia, il vittorioso popolo di qua passaro al detto ponte incontanente, e acozzatosi co' popolani d'Oltrarno, e furiosamente assaliro i Frescobaldi, i quali prima assaliti e combattuti a' loro serragli da quelli di via Maggio e circustanti popolani, ma però non vinti; ma veggendosi venire adosso la furia del detto popolo di qua da Arno, ebbono gran paura, e abandonarono la piazza loro, lasciando ogni fortezza e guernigione, balestra, pavesi, saettamento, fuggendosi in casa, e faccendo croce colle braccia, chieggendo mercé al popolo, il quale gli ricevette sanza fare loro alcuno male. E·cciò fatto, corsono alla piazza a ponte sopra i Rossi, i quali saputo come i Frescobaldi s'erano arenduti al popolo, e tutte le case di grandi di qua da Arno, sanza alcuna risistenza s'arrenderono al popolo. Que' di casa Bardi veggendosi abandonati da' Rossi e Frescobaldi ebbono gran paura, ma pure francamente si misono alla difesa de' loro serragli combattendo, gittando, saettando, dov'ebbe di morti alcuno e di fediti assai, d'una parte e d'altra, però che' Bardi erano molto forti e guerniti a cavallo e a piè, e con molti masnadieri, sicch'era invano al popolo di vincere il serraglio per forza; ma ordinaro que' del popolo che i tre di gonfaloni d'Oltrarno salissono al poggio di San Giorgio per la via nuova dal pozzo Toscanelli, e così feciono; e cominciaro loro la battaglia al di dietro. I Bardi veggendosi sì aspramente asaliti da tante parti, isbigottirono forte, e cominciaro abandonare parte di loro il serraglio della piazza a ponte, ch'era sotto la guardia della torre della parte guelfa e del palagio di figliuoli di meser Vieri de' Bardi, per difendersi di dietro dal canneto e San Giorgio. Allora uno Strozza tedesco conestabole con sua masnada si misse dentro al serraglio della piazza al ponte a grande pericolo, ricevendo di molti sassi e quadrella, e corse infino a Santa Maria sopr'Arno, e il popolo francamente dietro; e quelli del popolo ch'erano di qua alla guardia del ponte Vecchio allora ruppono il serraglio del capo del ponte e valicarono di là, e al tutto cogli altri popolani, ch'erano di là, ruppono la resistenzia e forza di Bardi, i quali tutti si fuggirono nel borgo di San Niccolò, raccomandandosi alla vicinanza, onde furono le loro persone guarentiti da quelli da Quarata e da quelli da Panzano e·ll'altra vicinanza del gonfalone della Scala, i quali per lo popolo avieno in prima alquanto, per non esere corsi e rubati, presi i palagi di Bardi da Santo Ghirigoro ella guardia del capo del ponte di là incontanente i popolani, ch'erano alla guardia del capo del ponte Rubaconte di qua del quartiere di Santa Croce; e quello iscampò i Bardi da morte, i quali per la loro buona vicinanza da San Niccolò ritennero il furioso popolo con quella forza e per guardare la loro contrada. Ma tutti i palagi e case di Bardi da Santa Lucia alla piazza a ponte furono rubate dal minuto popolo d'ogni sustanzia, maserizie e arnesi, quello dì e·ll'altro, ed eziandio di loro vicini non possenti. E·ll'arabbiato popolo, rubate le case, misono fuoco in casa loro, e arsonvi XXII tra palagi e case grandi e ricche, e stimossi il loro danno tra di ruberie e d'arsione il valere di più di LXm fiorini d'oro. Tale fu la fine della risistenza de' Bardi contro al popolo per la loro superbia e maggioranza e per lo sfrenato popolo. Ma·ffu grande maraviglia e grazia di Dio, che di tanta furia di popolo e di tanti assalti e battaglie fatte in quella giornata, come avemo raccontato, non morì in Firenze nullo uomo di rinomea, e d'altri pochi, ma fediti assai. Per la ghiottornia della ruberia da casa i Bardi, che infino alle lastre de' tetti e ogni vili cose, non che le care, tale fu il giudicio contro a' Bardi, che infino alle femminelle e' fanciulli, non che gli uomini, non si potieno saziare né raffrenare di rubare. Il giovedì medesimo si levò una compagna di malandrini in quantità di più di mille a piè, e si ragunarono per combattere i Visdomini e rubarli sotto titolo di difetti di mesere Cerritieri loro consorte fatti intorno al duca; ma non ci era a ciò giusta cagione, che de' difetti e falli di meser Cerritieri i Visdomini erano stati crucciosi; ma non movea se non solo per potere rubare, e non sarebbero rimasi a tale, ma tutta la città corsa e rubata, e grandi e popolani; ma·lla vicinanza con molta altra buona gente armata, e·lle signorie e soldati del Comune a cavallo e a piè corsono al soccorso e riparo, e cessarono tanta rovina e pistolenza alla nostra città, andando per la terra le signorie in più parti coll'aiuto della gente di Sanesi, e Perugini, e dell'altre amistadi, e degli altri buoni cittadini a cavallo e a piè, con ceppi e mannaie, tagliando di fatto piedi e mani a' mafattori; e in questo modo s'atutò la furia dello sfrenato popolo disposti a rubare e a mal fare, e cominciarsi aprire i fondachi e botteghe, e ciascuno fare i fatti suoi.
<B>XXII</B>
<I>Come si fece nuovo squittino di lezione di priori e de' XII e gonfalonieri per più tempo, e tutti popolani.</I>
Riposata la città di Firenze di tanta furia e pericolo, e il popolo fatta sua pruova contro a' grandi, e vinte le loro forze e risistenze in ogni parte, il popolo montò in grande stato e baldanza e signoria, ispezialmente i mediani e artefici minuti, ch'al tutto il reggimento della città rimase alle XXI capitudini dell'arti. E per riformare la terra di nuovi priori e gonfalonieri delle compagnie, e de' XII consiglieri di priori, i priori e' dodici col consiglio delli ambasciadori di Siena e di Perugia e del conte Simone, acciò che·lla lezione andasse più comune, diedono l'ordine nello 'nfrascritto modo, e di grande concordia s'aseguì, e celebrarono in casa i priori nuovo squittino; ciò furono VIIII i priori, e XII consiglieri, e XVI gonfalonieri, e V della mercatantia, e LII uomini delle XXI capitudini, e XXVIII arroti per quartiere, popolani tutti artefici, sicché in somma furono CCVI, mettendo allo squittino ogni buono uomo popolaro degno d'essere all'uficio, e vincendosi, chi rimanesse priore e gonfaloniere di giustizia, e di dodici per CX fave nere il meno; e andato allo squittino IIImCCCCXLVI uomini, ma non ve ne rimasono il decimo, ordinaro che fossono VIII priori, II per quartiere, e uno gonfaloniere di giustizia, acoppiandoli insieme in questo modo, che dovessono esere per priorato popolani II grassi, III mediani, III artefici minuti, e 'l gonfaloniere della giustizia per simile modo, uno d'ogni sorta detta, traendosi a vicenda a quartiere a quartiere come venisse, cominciando a Santo Spirito. E il detto squittino fu compiuto dì XX d'ottobre MCCCXLIII. L'ordine fu assai comune e buono, quando non fosse poi corrotto. Ma trovossi poi per li tempi, quando si traevano i priori, che degli artefici minuti v'aveva più per la rata, che non fu l'ordine dato; e·cciò adivenne, che quando si fece lo squittino furono più forti nelle boci gli artefici delle XXI capitudini e·lli arroti popolani minuti, che·lle boci de' popolani grassi e de' mediani; e però si corruppe il buono ordine dato per li ambasciadori di Siena e per lo conte Simone.
<B>XXIII</B>
<I>Come si riformaro gli ordini della giustizia sopra i grandi, e·ssi ricorressono in alcuna parte; e più casati di grandi furono recati a essere popolani.</I>
Riformata la città di Firenze a signoria del popolo, come detto avemo, volendo il popolo rifare gli ordini della giustizia contro a' grandi, i quali aveva anullati il duca e poi l'uficio de' XIIII, come è detto adietro, gli ambasciadori di Siena e quelli di Perugia e 'l conte Simone, che a ogni nostra fortuna e pericolo ci avieno soccorsi e difesi, e col loro buono consiglio riformata la città a signoria del popolo, per amore e grazia di loro Comuni e di loro e pacifico stato di Comune e di popolo, e contentamento in alcuna parte di grandi che volieno bene vivere, e dimandarono al popolo due pitizioni: l'una, che i capitoli della giustizia dov'era la rigidezza e crudeltà, che' buoni uomini grandi consorti di mafattori portassono la pena di loro malifici, si correggesse; l'altra, che certe schiatte di grandi meno possenti e non malificiosi si recassono a popolo. Le quali petizioni furono asaudite in parte, come diremo apresso, e fermate per li consigli dì XXV d'ottobre MCCCXLIII. Prima dove diceva l'ordine della giustizia che dove il malfattore di grandi facesse micidio contra la persona d'alcuno popolare, oltre alla sua pena, tutta la casa e schiatta pagasse al Comune libre IIIm, si corresse che non toccasse, se non a' suoi propinqui, infino terzo grado per diritta linea; e dove mancasse il terzo grado, toccasse al quarto, con patto dove e quando rendessono preso il malfattore, o l'uccidessero, riavessono dal Comune le libre IIIm ch'avessono pagate. Tutti gli altri ordini della giustizia rimasono i·lloro primo stato. Le schiatte de' nobili di città e di contado che furono recate a popolo furono questi: i figliuoli di meser Bernardo de' Rossi, IIII de' Mannelli, tutti i Nerli di borgo Sa·Iacopo, e due di quelli dal ponte alla Carraia, tutti i Manieri, tutti gli Spini, tutti gli Scali, tutti i Brunelleschi, e parte degli Agli, tutti i Pigli, tutti li Allotti, tutti i Compibiesi, tutti gli Amieri, meser Giovanni di Tosinghi e fratelli e nipoti, e Nepo di meser..., messere Antonio di Baldinaccio degli Adimari e fratelli e nipoti, e alcuno altro loro consorto, tutti i Giandonati e Guidi, e altre schiatte quasi spente. Di nobili di contado, il conte da Certaldo e' figliuoli e' nipoti, il conte da Puntormo e' figliuoli e' nipoti; e con tutto ch'avessono nome di conti erano sì annullati, ch'erano al pari d'altri meno possenti gentili uomini; tutti quelli da Lucardo, quelli da Cacchiano, quelli da Monterinaldi, quelli dalla Torricella, quelli da Sezzata, quelli da Mugnano, i Benzi da Feghine, e da Lucolena, quelli da Colle di Valdarno, e quelli da Monteluco della Gerardinga, e più altre schiatte di contado anullati e divenuti lavoratori di terra. In somma furon Vc i tratti di grandi e recati a esere popolari, per fortificare il popolo e afiebolire e partire la potenza de' grandi coll'infrascritti patti e ordini. Ma certi altri grandi, onde non faremo menzione, che s'erano messi nella detta petizione, che s'erano messi a morte per francare il popolo, e francaro, per invidia non furono accettati per lo 'ngrato popolo; e tali sono le più volte i meriti de' servigi si fanno a' popoli, ispezialmente a quello di Firenze. I patti e' salvi furono questi. Che i detti grandi e nobili recati a benificio d'essere di popolo non possino esere di priori, dodici e gonfalonieri delle compagnie del popolo, o capitani di lega del contado infra cinque anni; ogni altro uficio possano avere; e·sse alcuno de' detti infra X anni pensatamente facesse micidio o tagliasse membro, o desse fedita innorma in persona d'alcuno popolano, o facesse fare, o ingiuriasse posessione di popolano, dichiaritosi per lo consiglio del popolo, dee a perpetuo esere rimesso tra' grandi. Ma nota che parecchie schiatte e case di popolani erano più degne d'esere messe tra' grandi, che·lla maggior parte di que' che per grandi rimasono, se andasse pari la bilancia della giustizia, per le loro ree opere e tirannie; e tutto è questo per difetti del nostro male reggimento. Fermati i detti ordini, e tratti del nuovo squittino i priori, e' dodici, e' gonfalonieri, ch'entrarono in calen di novembre apresso, si trovarono i più artefici minuti, onde il popolo fu contento, e aquetossi la città d'ogni sospetto e gelosia. E nota ancora e ricogli lettore che quasi in poco più d'uno anno la nostra città avute tante rivolture, e mutati stati di reggimento, ciò sono; inanzi che fosse signore il duca d'Atene signoreggiavano i popolari grassi, e guidarla sì male, come adietro avete inteso, che per loro difetto venne alla tirannica signoria del duca; e cacciato il duca tessono i grandi e' popolani insieme, tutto fosse piccolo tempo, e con uscita di gran fortuna. Ora siamo al reggimento quasi delli artefici e minuto popolo. Piaccia a·dDio che sia asaltazione e salute della nostra republica, onde mi fa temere per li nostri peccati e difetti, e perché i cittadini sono voti d'ogni amore e carità tra·lloro, ma pieni d'inganni e tradimenti l'uno cittadino contro all'altro; ed è rimasa questa maladetta arte in Firenze in quelli che·nne sono rettori, di promettere bene e fare il contrario, se non sono proveduti o di grandi prieghi o d'onde aspettino utile; onde, e non sanza cagione, permette Iddio il suo giudicio a' popoli; e questo basti a chi sente e intende.
<B>XXIV</B>
<I>Alquante cose fatte in Firenze di nuovo.</I>
Ne' detti tempi e mese di settembre, per servigi ricevuti dal conte Simone da Battifolle e da Guido suo nipote figliuolo del conte Ugo, il Comune gli ristituì le terre d'Ampinana, Moncione e Balbischio. E diliberossi il Comune d'Arezzo della signoria del Comune di Firenze, dando al servigio del Comune a' suoi bisogni C cavalieri di qui a IIII anni, rendendo al Comune fiorini... in... anni, che v'avea messi CCm di fiorini d'oro. Diedesi il castello di Pietrasanta al vescovo di Luni, acciò che guerreggiasse i Pisani coll'aiuto di meser Luchino signore di Melano suo cognato, come assai tosto faremo più stesa menzione. Per la rivoltura del duca si perdé la signoria d'Arezzo, e di Pistoia, e Serravalle, e di Volterra, e San Gimignano, e Colle, Pietrasanta, Santa Maria a Monte, e Montetopoli, Castiglione Aretino, e più altre castella, per colpa i più di nostri rei e barattieri cittadini castellani di quelle. E così riescono i nostri mali aquisti, quando il Comune è in divisione e male guidato. Ancora del detto mese s'apresono in Firenze più fuochi da Santo Apostolo e arsonvi XII case, e una a San Giorgio, e una a San Piero Gattolino, e una nel Corso di Tintori, e una a San Piero Celoro con grande danno; e tutto questo è del giudicio di Dio per li nostri peccati.
<B>XXV</B>
<I>Come i Fiorentini rifeciono di nuovo pace co' Pisani.</I>
Riformato il nuovo stato del popolo in Firenze per lo modo ch'avemo detto, per nonn-avere guerra di fuori per lo nostro variato stato, si fece accordo co' Pisani per lo nostro Comune con poco nostro onore, e guardando più secondo il tempo, con questi patti: che Lucca rimanesse libera alla signoria di Pisani, rimettendo in Lucca i loro usciti, chi vi volesse tornare, e i loro beni rendere alle loro famiglie, e di dare al Comune di Firenze di censo di Lucca, per lo debito, obrigati i Fiorentini per quella a meser Mastino, fiorini Cm d'oro in XIIII anni, ogn'anno la rata per la festa di san Giovanni; e rimanendo al Comune di Firenze tutte le castella e terre di Lucca che si tenieno, franchi i Fiorentini in Pisa di quello venisse per mare l'anno la valuta di CCm di fiorini d'oro allo stimo della legatia, che sono la valuta del quarto più, e da indi in su pagare danari II per libra; che sempre <I>ab anticho</I> erano i Fiorentini al tutto liberi e franchi, e' Pisani in Firenze. Ma per questi nuovi patti sono i Pisani franchi in Firenze l'anno la valuta di fiorini XXXm d'oro di loro mercatantia che venisse da Vinegia, e 'l soprapiù, pagare danari due per libra. Tale fu la 'nfinta pace co' Pisani rimagnendo la mala volontà; fu piuvicata e bandita a dì XVI di novembre MCCCXLIII. E con tutto che il duca la facesse co' Pisani al suo reggimento, come detto è adietro, fu in più casi più onorevole per lo nostro Comune che questa.
<B>XXVI</B>
<I>Come mesere Luchino Visconti di Milano si fece nimico di Pisani.</I>
Ma i Fiorentini, come toccammo adietro, lasciarono a' Pisani una mala azione, quando diedono Pietrasanta al vescovo di Luni di marchesi Malispini, il qual era cognato per la sirocchia moglie di meser Luchino Visconti signore di Milano, il quale indegnato contro a' Pisani, perché tenieno Serezzano, Lavenza, e Massa di marchesi, e altre loro castella in Lunigiana, né per suoi prieghi no·ll'avieno volute rendere, né a·llui data la 'mpromessa di molti danari gli restavano a date del gran servigio fatto della sua gente contro al nostro Comune, quando ci sconfissono a Lucca, e poi a sostenere l'assedio, ond'ebbono la città; per la quale ingratitudine di Pisani, e per la vergogna feciono a meser Giovanni Visconti stato loro capitano, quando uscì della nostra prigione, come toccammo adietro, e perché avieno cacciati di Lucca i figliuoli di Castruccio suoi amici e racomandati; e con coperto conforto de' Fiorentini col vescovo di Luni e colla serocchia, messere Luchino si fece nimico di Pisani, e mise in prigione XII stadichi ch'avea figliuoli di maggiori di Pisa, e mandò in aiuto al vescovo di Luni MCC di suoi cavalieri, capitano il detto meser Giovanni Visconti, i quali con altri che mandò apresso feciono molta guerra a' Pisani, faccendo capo in Pietrasanta, come tosto faremo menzione. Lasceremo alquanto di fatti di Firenze e de' Pisani, e diremo d'altre novità delli strani state in questi tempi per seguitare il nostro stile.
<B>XXVII</B>
<I>Di grandi tempeste che furono in mare.</I>
Nel detto anno e mese di novembre, il dì di santa Caterina, fu in mare una grandissima tempesta per lo vento a scilocco in ogni porto, ov'ebbe podere, e spezialmente in Napoli; che quante galee e legni avea in quel porto tutti gli ruppe e gittò a·tterra, e quasi tutte le case della marina ov'erano i magazzini del vino greco e delle nocciuole, per lo crescimento del mare tutte allagò, e molte ne rovinò e guastò, e menò via le botti del greco e nocelle, e ogni mercatantia e masserizie, onde si stimò il danno più di XLm once d'oro, di fiorini V d'oro l'oncia; e questa fu segno di grande novità e mutazione che dovea avenire e avennero assai tosto, in quello paese. E per simile modo avenne nel porto di Pera in Romania d'incontro a Gostantinopoli con grande danno di Genovesi, cui era la terra. E in questo tempo essendo cominciata una grande zuffa alla città della Tana nel mare Maggiore in Romania tra' Viniziani e Saracini della terra, avendo i Viniziani della detta zuffa soprastati i Turchi, e mortine alcuni, e fediti molti, onde tutti quelli della terra si commossono a furia, e rubarono e uccisono quanti Viniziani e Genovesi, e Fiorentini alquanti, e altri Cristiani che nella terra si trovarono alla zuffa, chi non poté fuggire alle loro galee; e presono poi da LX mercatanti latini, che a·romore non furono morti, e tennolli in prigione da II anni, e poi per danari e ingegno si fuggiro, e con grande pericolo scamparono. E stimossi il danno delle mercatantie e spezierie rubate per li Turchi da CCCm di fiorini d'oro a' Viniziani, e da CCCLm a' Genovesi. E tali sono li stimoli e pericoli di mercatanti per le loro peccata e follie; e per questa cagione rincarò in questo nostro paese ogni spezieria, seta, e avere di levante, cinquanta e più per centinaio subitamente, e tali il doppio.
<B>XXVIII</B>
<I>D'alcune novità fatte per li Fiorentini che reggeano la città.</I>
Del mese di dicembre del detto anno, per alcuna gelosia messa in Firenze di grandi non vera, furono fatti confinati V di casa i Bardi, e IIII di Frescobaldi, e II di Rossi, e III di Donati, e II di Pazzi, e uno di Cavicciuli, con tutto che·lla maggiore parte degli uomini de' detti casati, per levare sospetto al popolo e fuggire la furia, se n'andarono in contado a' loro poderi ad abitare, lasciando la città. A dì II di marzo del detto anno fu ferma e piuvicata la lega e compagnia tra 'l Comune di Firenze e quello di Perugia e di Siena e d'Arezzo per fortificare il loro stato, e per abattere i Tarlati d'Arezzo e ogni tirannello d'intorno. E in questi tempi i Fiorentini s'accordarono di nuovo, e feciono ragione con meser Mastino della Scala, che·lli restavano a dare per la matta compera di Lucca fiorini CVIIIm d'oro, e asegnarli sopra la gabella del macello e a quella di contratti, ogni mese IIm fiorini d'oro, e tornarono i nostri XXVII stadichi cari cittadini stati a Verona più di due anni: bontà del duca d'Atena, che non ne curava, ma li lasciava per abandonati, e per la sua avarizia non gli dava danaio, né·lle paghe promesse; che·ffu intra gli altri suoi difetti questo uno di quelli che molto gravò e dispiacque a' cittadini. Mandòvisi poi XII stadichi a vicenda di IIII mesi in IIII mesi a soldi XL il dì per uno per loro spese, e fiorino uno per cavaliere.
<B>XXIX</B>
<I>Ancora della guerra dalla gente di meser Luchino Visconti co' Pisani.</I>
Nell'anno MCCCXLIIII, a dì V d'aprile, avendo la gente di Pisani ch'erano in Versilia e in Lunigiana fatto uno grande fosso con isteccati e bertesche dalla marina al castello di Rotaia, e poi infino alla montagna al castello di Montegioli ch'ellino tenieno, acciò che·lla gente di meser Luchino ch'erano in Lunigiana no·lli potessono correre e guerreggiare sopra il contado di Pisa, e quelle fortezze si guardavano di dì e di notte co·lloro gente assai grossa a cavallo e a piè; e quella notte la gente di meser Luchino ruppono la fortezza tra Rotaia e Montegioli, e passaro, e vigorosamente assaliro la gente di Pisani; e dopo la grande battaglia la gente de' Pisani furono sconfitti, e molti presi e morti, onde i Pisani molto isbigottiro. E poi a dì II di maggio menando meser Benedetto Maccaioni di Gualandi, rubello di Pisa, CCC cavalieri di que' di meser Luchino, ch'erano vernati in Maremma, co·llui a guerreggiare i Pisani e·lloro terre per accozzarli colla gente grossa di meser Luchino che per la vittoria avuta a Rotaia volieno passare il Serchio, e venire di qua in su quello di Pisa, essendo albergati a Santa Gonda, provedutamente e posta fatta furono sopresi da D cavalieri di Pisani e molti balestrieri, ch'erano stati al Ponte ad Era per attenderli; e rimasene tra presi e morti più di C a cavallo, e tutti erano tra presi e morti, se non che si fuggiro sopra le spiagge di San Miniato, e quivi coll'aiuto di Saminiatesi quelli che iscampati erano si ridussono a salvamento. Sentendo questa novella meser Giovanni Visconti capitano della gente di meser Luchino si partì di Versilia con LXX bandiere, che furono da MD a cavallo, e passarono il Serchio al ponte a Moriano, e vennero per la Cerbaia e passato la Guisciana a Rosaiuolo, e poi guadarono l'Arno e ricolsono la loro gente da Santa Gonda, e acamparsi a Castello del Bosco, e in sulla Cecina guerreggiando il contado di Pisa per più tempo, e prendendo più loro terre e castella. La gente de' Pisani, ch'erano da M cavalieri, s'afforzaro al fosso Arnonico e al Ponte ad Era a guardare la frontiera, sanza avisarsi co' nimici. E partiti da Castello del Bosco, osteggiando per più campi la Valdera e·lla Maremma infino all'agosto, e più vi sarebbono dimorati, se non fosse che per lo soperchio caldo e disagi vi si cominciò una corruzione, onde assai ve ne malarono e morirono. E infra gli altri caporali ne morì meser Benedetto Maccaioni grande nimico di Pisani, e Arrigo di Castruccio che·ffu signore di Lucca. E per la mortalità e pestilenza si partì la detta oste, que' ch'erano scampati, e tornarsi in Versilia con grande loro dannaggio di gente. Lasceremo alquanto di questa guerra, e diremo d'altre novità occorse in questi tempi.
<B>XXX</B>
<I>Come quelli di Castello Franco presono Campogialli, e uccisono certi de' Pazzi di Valdarno.</I>
Nel detto anno, a dì XXVIIII d'aprile, quelli di Castello Franco di Valdarno di sopra con altri Valdarnesi e masnade d'Arezzo cavalcaro sopra' Pazzi di Valdarno, e per tradimento ebbono una porta del castello di Campogiallo, ch'era di Pazzi, e in quello entrati, corsono il castello uccidendo uomini e femmine sanza nulla misericordia, e uccisonvi X della casa di Pazzi di migliori di loro, e rubata la terra vi missono fuoco, onde caro costò a' Pazzi la guerra e oltraggi fatti a quelli di Castello Franco e agli altri Valdarnesi del contado di Firenze per lo tempo passato.
<B>XXXI</B>
<I>Come il re di Spagna ebbe per assedio la forte terra della Zizera in Granata.</I>
Nel cominciamento dell'anno MCCCXLIIII, a dì XXV di marzo, s'arrendé al re di Spagna la forte e grande città della Zizera in Granata, ch'era di Saracini, alla quale era stato ad assedio per più di IIII anni per mare e per terra con grande spesa e affanno e mortalità di Cristiani; però che sovente erano asaliti dal re di Granata e sua gente, e guerreggiati e per mare e per terra da' Saracini di Morocco e da quelli di Barberia, che ogni anno vi venieno al soccorso più volte con grande navilio e gente innumerabile di Saracini, ov'ebbe più battaglie, e per mare e per terra, quando a danno di Cristiani e quando di Saracini, che sarebbe lunga matera a racontare; però che' Saracini aveano porto in mare sotto il forte castello di Giubeltaro, il quale i Saracini aveano raquistato sopra i Cristiani per tradimento, come adietro facemmo in alcuna parte menzione. Ma tutto era in vano la 'mpresa e assedio del re di Spagna, però che·lla città era fortissima di mura e torri e fossi con buono porto e forte, e fornita di vittuaglia per buono tempo, e di molta gente d'arme e arcieri e balestrieri saracini, e·ll'aiuto di fuori, come detto avemo, e se non fosse l'aiuto del papa e della Chiesa, che con moneta di decima e d'altri susidi atava e fornia il re di Spagna, onde al soldo della Chiesa mantenea al continovo in mare XX galee armate di Genovesi, sanza quelle di Catalani e Spagnuoli, e diede indulgenzia e perdono di colpa e di pena a chi v'andasse o mandasse aiuto. Per la qual cosa molti conti e baroni e cavalieri di Francia, e d'Alamagna, e d'Inghilterra, e di Linguadoco v'andarono alle loro spese al servigio, istando all'oste chi IIII e chi VI mesi; e andòvi il conte d'Analdo con C cavalieri, e così più altri baroni, per la qual cosa si continuò l'assedio; e fu sì stretta la terra per mare e per terra, che nullo vi potea entrare o uscire; e dentro v'avea più di XXXm uomini d'arme saracini, sanza le femmine e fanciulli; sicché fallì loro la vettuaglia per lo lungo assedio, e per fame s'arrendero salve le persone, che se ne andaro tutti in Granata fra terra; onde fu uno nobile aquisto al re di Spagna e a tutta Cristianità. E trovòvisi dentro molto tesoro, cose e arnesi. Ed ha ora il re di Spagna e' Cristiani porto buono all'entrata del reame di Granata da potere guerreggiare e aquistare il paese. Lasceremo di fatti di Saracini, e torneremo alle novità di Firenze occorse in questi tempi.
<B>XXXII</B>
<I>Di certe novità state in Firenze in questi tempi.</I>
Nel detto anno del mese di giugno e di luglio, signoreggiandosi il reggimento di Firenze per lo popolo minuto, come più tempo dinanzi fu detto dovea avenire, cioè per le capitudini di tutte l'arti, come dicemmo adietro nella riformagione della terra, cacciato il duca d'Atene, sì·ssi ricercò per certi uficiali, e fecesi inquisizione di tutti i cittadini, rettori e castellani, stati per lo duca nella città d'Arezzo e nel castello fatto per i Fiorentini in quello, e di Castiglione Aretino, e della città di Pistoia e del castello che v'era dentro, e di Serravalle, e di più castella di Valdarno e di Valdinievole, e della città di Volterra, e di Colle di Valdelsa e di più altri, i quali alla rivoluzione del duca e di sua signoria, e certi de' detti, rettori e castellani, gli abandonaro, quali per paura e chi per la forza de' terrazzani, e tali per baratteria, avendone danari. Molti ne furono condannati per l'asegutore delli ordini della giustizia, commessogli per lo reggimento detto del Comune, e chi a diritto e chi a torto; onde assai danari tornaro di condannagioni in Comune; e molto ne furono condannati in persona, che non compatiro dinanzi, e più toccò a' grandi ch'a' popolani; però che 'l duca gli avea messi in quelle signorie.
Ancora nel detto tempo e mese furono per lo detto popolo fatti uficiali a rimettere tra ribelli certi Ghibellini caporali, e altri possenti stati rubelli prima; però che per la cacciata del duca tutti i libri di rubelli e sbanditi ch'erano in camera furono arsi, sì che di quelli si fece nuovo ligistro.
Ancora nel detto tempo fu condannato Corso di meser Amerigo di meser Corso Donati nell'avere e nella persona per contumace, per certe lettere che furono trovate, che mandava ed erano mandate a·llui da certi tiranni di Lombardia, con cui tenea alcuno trattato contro al popolo di Firenze, o vero o non vero che fosse, che no·llo aproviamo, però ch'a·llui era impossibile fornire sì grande impresa sanza maggiore séguito; ma non comparì dinanzi a scusarsene, o per tema del popolo o de' suoi nimici, o per non discoprire chi a·cciò tenea co·llui il trattato. Il quale Corso colla moglie, ch'erano in Forlì, moriro in pochi dì di maggio nel MCCCXLVII, di cui fu gran danno, però ch'era valente donzello, e per venire in grande affare se fosse vivuto.
E nel detto tempo, a dì III di luglio, fu in Firenze disordinata tempesta di venti, tuoni e baleni molto spaventevoli, e caddono dentro alla città VI folgori, ma poco feciono danno, ma maggiore paura alle genti.
E poi la notte di santo Iacopo s'aprese fuoco nel popolo di San Brocolo, e arse quasi una gran casa. E pochi dì apresso arse un'altra casa in Torcicoda a' confini del detto popolo. E poi pochi dì apresso arse un'altra gran casa nel detto popolo di San Brocolo, non però con troppo danno. E poi a dì VIII d'agosto la notte s'aprese il fuoco nel popolo di San Martino presso ad Orto Sa·Michele in botteghe di lanaiuoli, accendendosi in alcuno panno riscaldato per l'untume e soperchio caldo, onde arsono XVIII tra case e botteghe e fondachi di lanaiuoli con grandissimo danno d'arsione di panni e lane e altri arnesi e maserizie, sanza il danno delle case; e·cciò ne dimostrò la 'nfruenza del pianeto di Marti e del sole e di Mercurio stati nel segno del Leone, atribuiti significatori in parte alla nostra città di Firenze, o più tosto la mala guardia del fuoco per chi l'avea a guardare.
<B>XXXIII</B>
<I>Come il conte Simone da Battifolle raquistò il castello di Fronzole colla forza di Fiorentini.</I>
Nel detto anno, essendo il conte Simone da Battifolle con suo sforzo istato più mesi all'asedio del castello di Fronzole, ch'è sopra Poppi, il quale sentia che non era ben fornito di vittuaglia, il quale manteneano i Tarlati d'Arezzo e rubellato l'avieno al conte, e tenutolo più tempo contro a' detti conti, e aforzato di ricche e forti mura e tocca per lo vescovo stato d'Arezzo di Tarlati, sicché impossibile era da poterlo mai avere, se non per difalta di vettuaglia. Sentendo i detti Tarlati come mancava a quelli d'entro la vettuaglia, feciono e ragunarono loro sforzo a Bibbiena per soccorrello coll'aiuto di Pisani e di Ghibellini della Marca e del Ducato e di Romagna, e furono più di DC cavalieri e popolo grande a piè. Sentendolo i Fiorentini, mandarono al soccorso del conte di loro cavalieri e·lle vicherie di pedoni e masnadieri di Valdisieve e di Valdarno in grande numero, e' Sanesi gli mandarono in aiuto CC cavalieri, e' Perugini CL, onde i Tarlati e' loro amici non s'ardirono di venire al soccorso per la potenza maggiore di loro nimici, e per lo disavantaggio del poggio; e così s'arendé Fronzole al conte Simone, salve le persone, a dì XXIIII d'agosto del detto anno, che·ffu un bello aquisto al conte, però ch'è de' più forti castelli e rocca di Toscana, e cova e soprasta a Poppi, al di sopra poco più d'uno miglio. Il conte avutane la vettoria, ne fece grandi grazie al Comune di Firenze e Sanesi e Perugini per suoi ambasciadori; e poi elli in persona vegnendo in Firenze, riconoscendo d'averlo raquistato per lo aiuto e forza del nostro Comune, e mandocci la campana del detto castello per segno e ricordanza.
<B>XXXIV</B>
<I>Ancora di novità fatte in Firenze per rettori di quella.</I>
Nel detto anno, a dì XXXI d'ottobre, si fece per lo popolo minuto reggente il Comune una nuova riformagione e legge contro a' grandi, che·ssi guardò adietro, e misesi inn ordine di giustizia, cioè che fosse tenuto l'uno consorto per l'altro nonistante che tra·lloro avessono nimistà, o disimulassono d'averla, per levare ogni vizio a' grandi contro a' popolani. Ancora feciono che ogni grande che fosse di fuori in signoria o al soldo d'alcuno signore, dovesse ritornare infra certo tempo, o sarebbe messo per ribello. Questo feciono per sospetto e gelosia presa di loro, però che dopo la cacciata del duca d'Atene, e state le novità e asalti dal popolo a' grandi, come detto avemo adietro, molti grandi e gentili uomini per fuggire la furia del popolo e per prendere loro vantaggi, chi era ito al servigio di meser Mastino della Scala, e chi di meser Luchino Visconti, e chi del marchese da Ferrara e del signore di Bologna, e chi n'er'ito nel regno di Puglia; e tutti convennono che tornassono co·lloro sconcio e danno. E poi a dì XI di dicembre feciono i magistrati del popolo un'aspra riformagione e crudele contra il duca d'Atene, ciò·ffu che chiunque l'uccidesse avesse dal Comune Xm fiorini d'oro, cittadino o forestiere, e tratto d'ogni bando ch'avesse con asegnamento e ordine. E feciollo per suo dispetto e onta dipignere nella torre del palagio della podestà con messer Cerritieri de' Visdomini, e meser Meliadusso, e il suo conservadore, e meser Rinieri da San Gimignano stati suoi aguzzetti e consiglieri, a memoria e asempro perpetuo de' cittadini e forestieri che·lla dipintura vedesse. A cui piacque, ma i più di savi la biasimarono, però ch'è memoria del difetto e vergogna del nostro Comune, che 'l facemmo nostro signore. E·lla detta legge feciono perché il duca d'Atene adoperava in Francia col re e con altri baroni quanto potea di male contro a' Fiorentini, ed erano in grande dubbio d'esere sopresi di rapresaglia d'infinita moneta che domandava per amenda al Comune di Firenze, se non che·ssi riparò allora col re di Francia con lettere del papa e con solenni ambasciadori, ch'andarono in Francia, faccendo manifesto e chiaro il re di Francia de' suoi difetti e male reggimento. E oltre a·cciò non finava il duca di mettere sospetto e gelosia in Firenze, e mandando sovente sue lettere in Firenze a·ccerti suoi acconti, dando loro speranza di suo ritorno per male reggimento, dicea, di quelli reggeano la terra, onde poco dinanzi ne fue impiccati due legnaiuoli ch'erano molto suoi credenzieri quand'era signore in Firenze, e ricevieno e mandavano le dette lettere. Lasceremo alquanto de' fatti del duca e di Firenze, e diremo d'altre novità d'intorno che furono in que' tempi.
<B>XXXV</B>
<I>Come il marchese da Ferrara ebbe la città di Parma.</I>
Nel detto anno, all'uscita d'ottobre, mesere Azzo di quelli da Coreggia che tenea Parma, come l'avea rubellata a mesere Mastino suo nipote per tradimento, come contammo adietro, non potendola tenere, però che s'avea fatto nimico meser Mastino, e per la continua guerra ch'aveano dal signore di Milano e da' suoi seguaci, da·ccui anche s'era rubellato, ancora e traditolne, e da altri non potea avere aiuto né soccorso; per trattato di meser Mastino della Scala faccendolo fare a' marchesi, per danari in quantità di fiorini venti milia d'oro diedono la signoria della terra ad Obizo marchese da Ferrara, che tenea Modona: e andòvi a prendere la posessione meser Ghiberto da Fogliano uscito di Reggio con CCC cavalieri, intra' quali furono VI bandiere di cavalieri del Comune di Firenze, ch'erano al servigio del marchese. Per la qual cosa quelli da Gonzago, signori di Mantova, che tenieno Reggio, spiacendo loro la detta impresa, parendo loro rimanere assediati in Reggio, con tutta la loro forza e aiuto di meser Luchino si ragunarono a Reggio. E poi pochi dì apresso il marchese da Ferrara in persona, con sicurtà e licenza de' signori di Reggio, andò a Parma con M cavalieri tra di sua gente e di quella del signore di Bologna e di meser Mastino; e riformata la terra della sua signoria, e lasciatola fornita di sua gente, se ne partì a dì VII di dicembre seguente per tornare a Modona e a Ferrara; e mandò inanzi per isguarguato meser Ghiberto da Fogliano con CCC cavalieri armati, e 'l marchese venia da uno miglio apresso colla sua gente quasi disarmati, per la sicurtà avuta da quelli di Reggio. Quelli da Gonzago non tennor fede, ma fuori di Reggio missono due aguati di loro gente, e come meser Ghiberto da Fogliano co' detti CCC cavalieri fu nell'aguato, furono asaliti dinanzi e di dietro, e inchiusi e presi; e chi·ssi volle difendere fu morto, sicché tutti vi rimasono. E 'l detto meser Ghiberto con due suoi figliuoli e un suo nipote presi, e più altri caporali conestaboli e buona gente. E come questo tradimento sentì il marchese ch'era adietro, si tornò con sua gente in Parma molto crucciato: e ripresi que' signori da Gonzago del detto tradimento, avendo data la sicurtà e salvocondotto, e' si scusavano che·ll'aveano dato all'andare ma non al tornare; ma sempre, chi usa tradimento, il vizio dello 'nganno è aparecchiato e conseguente. I detti da Gonzago, coll'aiuto di meser Luchino da Milano, il febraio vegnente, sentendo il marchese da Ferrara in Parma, cavalcato in sul ferrarese insino presso a Ferrara a III miglia, levando grande preda, e faccendo gran dannaggio a' marchesi. Per le quali cagioni l'altra lega di Lombardi, meser Mastino della Scala, e il signore di Bologna, e quello di Padova, co' marchesi, alla primavera seguente feciono oste alla città di Reggio con più di IIIm cavalieri e popolo grandissimo, e chiusono sì i passi d'intorno a Reggio, che non vi potea entrare gente né vittuaglia; e per li più si credette non si potesse tenere. Né·ggià però meser Luchino e que' da Gonzago con tutta la loro potenza non si vollono afrontare a battaglia co' nimici, ma stavano alle frontiere al borgo a San Donnino e altre loro castella di reggiana a·ffare guerra guerriata in su quello di Parma e all'oste ch'era sopra Reggio. Ma per la state vegnente corruzione si cominciò nella detta oste da Reggio e infertà e mortalità, e intra gli altri di rinomo vi morì meser Francesco di marchesi da Esti, e meser Maffeo da Ponte Carradi capitano dell'oste e più altri; e simile dell'altra parte, onde per necessità si levaro e partiro le dette osti all'entrante d'ottobre MCCCXLV.
<B>XXXVI</B>
<I>Di certe novità state in Firenze in questi tempi.</I>
Nel mese di dicembre del detto anno MCCCXLIIII la campana del popolo, che suona per lo consiglio, la quale poi che·ffu fatta era stata sopra i merli del palagio di priori, si tirò e aconciò ad alti in sulla torre, acciò che s'udisse meglio Oltrarno, e per tutta la città, la qual era d'uno nobile suono della sua grandezza. E nel luogo ov'era quella fu posta la campana che venne dal castello di Vernia, e ordinata sonasse solamente quando s'aprendesse fuoco di notte nella città, acciò ch'al suono di quella traessono i maestri e quelli che sono ordinati a spegnere i fuochi.
E del mese di gennaio seguente si fece per lo Comune di Firenze accordo e lega e compagnia col vescovo d'Arezzo, ch'era delli Ubertini, e con suoi consorti, e trattoli d'ogni bando; ed elli diede in guardia le castella del vescovado e·lle loro al conte Simone da Battifolle e a' suoi fedeli per X anni per lo Comune di Firenze, e per fare guerra a' Tarlati e rubelli d'Arezzo, e avere gli amici per amici e' nimici per nimici. Le castella principali furono: Civitella, Cennina, e 'l palagio di Castiglione degli Ubertini e più altre fortezze.
E all'uscita del detto mese s'aprese fuoco al munistero delle donne del Prato, e fece loro danno assai. E apresso il primo dì di febraio s'aprese nella Città Rossa, e arse una casa e una femmina iv'entro. E a dì XV del mese di febraio furono condannati per processo ordinato tutti quelli della casa degli Ubaldini nell'avere e nelle persone siccome ribelli (salvo il lato di quelli da Senno, che non si trovaro colpevoli) per cagione della battaglia e aguato che feciono alla nostra gente a Rifredi, quando andavano al soccorso di Firenzuola, e per la presa della detta Firenzuola e del castello de' Tirli alla cacciata del duca d'Atene, come in alcuna parte adietro facemmo menzione; e tutti i loro beni ch'erano nel contado di Firenze messi in Comune.
E nel detto mese di febraio vennono in Firenze ambasciadori del re di Francia a petizione del duca d'Atene; ciò fu uno cavaliere e uno cherico, e in pieno consiglio domandaro l'ammenda del detto duca. E nel detto consiglio e i·lloro presenza furono publicati i suoi falli e difetti, e mostrate le sue quitanze; e ordinati e mandati al re di Francia ambasciadori colla risposta per lo nostro Comune, come dicemmo adietro; e a quelli ambasciadori del re presentati per lo Comune, e fatto loro le spese e compagnia e onore assai, mentre dimorarono in Firenze e per lo nostro contado; onde n'andarono molti contenti; ma però non lasciò il re di Francia di proccedere contro a' Fiorentini per lo duca d'Atene, come inanzi si farà menzione.
E nel detto mese di febraio per lo Comune si fece ordine che qualunque cittadino dovesse avere dal Comune per le prestanze fatte al tempo di XX, come adietro facemmo menzione, che·ssi trovaro più di DLXXm di fiorini d'oro, sanza il debito di meser Mastino della Scala, ch'erano presso di Cm fiorini d'oro, si mettessono in uno ligistro ordinatamente; e dare il Comune ogni anno per provisione e usufrutto a ragione di V per centinaio l'anno, dando ogni mese la paga per rata di mese; e diputossi a fornire il detto guiderdone parte della gabella delle porti e d'altre gabelle, la qual montava l'anno da fiorini XXVm d'oro, ov'erano asegnate le paghe a meser Mastino; e pagato lui, fossero diputate alla detta sodisfazione; il qual meser Mastino fu pagato del mese di dicembre per lo modo diremo inanzi. E cominciossi la paga della detta provisione del mese d'ottobre MCCCXLV. Nel detto anno, a dì XII di marzo, passò di questa vita e santificò uno Iacopo, figliuolo fu di meser Bono Giamboni giudice del popolo di San Brocolo, il qual era stato di santa vita, e vergine di suo corpo, si disse, e statosi in casa rinchiuso più di XXV anni, che non usciva se non alcuna volta anzi il giorno a confessione o prendere <I>Corpus Domini</I>; e avea dato per Dio a' poveri tutta sua sustanzia e patrimonio, e poveramente e in digiuni e orazioni vivea, scrivendo libri a prezzo, e dittando da·ssé di sante e buone cose; e chi·lli mandava limosina no·lla ricevea, se non da divoti suoi amici; e 'l soperchio di suo guadagno, finito poveramente suo mangiare a giornata, dava per Dio a' poveri. Fece Iddio visibili e aperti miracoli per lui alla sua morte, e poi e' soppellissi a Santa Croce a guisa di santo. E a sua vita predisse a' suoi amici più cose future, e ch'avvennero nella nostra città, e della signoria e cacciata del duca d'Atene per vertù dello Spirito Santo. Lasceremo alquanto de' fatti di Firenze, che assai n'avemo detto a questa volta, e diremo delli strani.
<B>XXXVII</B>
<I>Di novità state nella città di Genova.</I>
Nel detto anno, all'uscita di dicembre, il dogio del popolo di Genova, che avea nome Simone di quelli di Boccanegra, ch'avea regnato signore da anni, come adietro è fatta menzione, per sua motiva, e sentendo che gli Ori e·lli Spinoli, e Grimaldi e altri noboli co·lloro sforzo venivano alla terra, sì rinuziò la signoria dinanzi al parlamento del popolo, e andossene a Pisa con tutta sua famiglia e parenti, e dissesi con più di Cm fiorini d'oro contanti ch'egli avea guadagnati, overo tribaldati al suo uficio.
E il popolo di Genova, acciò che i grandi non prendessono la signoria, di presente elessono dogio del popolo e missono in signoria uno Giovanni da Monterena, il quale cominciò a reggere la signoria francamente per lo popolo, e contradiare i detti grandi e potenti, che venieno contro al popolo. E poi per ordine e trattato del detto dogio que' della città di Saona levato la terra a romore a dì VIII di gennaio seguente, e feciono popolo, e cacciarono della terra i loro grandi, e quanti grandi e nobili v'avea di Genova, e tolsono loro le castella e ogni fortezza ch'avieno in Saona.
E poi il dì seguente il popolo di Genova feciono il somigliante; e perché gli Squarciafichi e' Salvatichi, grandi di Genova, feciono alcuna risistenza, furono assaliti e combattuti dal popolo, e morti di loro, e cacciati della terra.
E vegnendo in que' dì Ottone Doria e suoi seguaci e amici con DCC cavalieri e popolo assai, e dentro de' borghi di Prea, il popolo di Genova uscì della terra, e con armata mano li assaliro e combattero e missono inn-isconfitta, e rimasene assai di morti e di presi. E il febraio seguente il dogio e popolo di Genova feciono lega e compagnia con meser Luchino Visconti signore di Milano, ed elli promisse a·lloro d'avere li amici per amici e nimici per nimici, e servigli al loro bisogno di D cavalieri. E poi del detto mese gente d'arme di Genova, ch'erano iti a cavallo e a piede a porto Morici, furono rotti e sconfitti da·lloro usciti. Ma poi l'aprile vegnente que' di Genova coll'aiuto di meser Luchino v'andarono a oste per mare e per terra, e presono il detto porto Morici e·lla terra. Ma poi all'entrante di luglio MCCCXLV messer Luchino Visconti fece fare pace dal popolo di Genova a' loro usciti.
<B>XXXVIII</B>
<I>Ancora della guerra della gente di mesere Luchino co' Pisani.</I>
Nel detto anno e mese di febraio i Pisani feciono lega e compagnia con certo ordine con meser Mastino della Scala, e col signore di Bologna, e co' marchesi da Ferrara, e Romagnuoli per dispetto e contrario di meser Luchino Visconti, e richiesonne i Fiorentini; ma non vi si vollono acordare. Per la qual cosa la gente di meser Luchino, ch'era in Versilia, passato il Serchio in quantità di D cavalieri e popolo assai, e corsono insino presso alla città di Pisa per la via di Valdiserchio faccendo gran danno d'arsioni, e levando gran prede d'uomini e di bestie e d'arnesi, e tornarsi in Versilia sani e salvi, che di Pisa non uscì uomo a contradiagli. E poi del mese di maggio MCCCXLV morto il marchese Malaspina cognato di meser Luchino, a cui petizione mantenea la detta guerra; e priego del dogio e popolo di Genova meser Luchino fece pace co' Pisani, ed ebbe d'amenda Cm fiorini d'oro, rimanendo a' Pisani le terre di Lucca, ch'allora si tenieno per meser Luchino, e rendé li stadichi a' Pisani. E questo è il fine de' tiranni di Lombardia, per trarre loro utole delle guerre e disensione di noi ciechi Toscani. Lasceremo alquanto di nostri fatti di Firenze e d'Italia, e diremo di certe novità d'oltremare.
<B>XXXIX</B>
<I>Come i Cristiani presono la città delle Smirre sopra i Turchi.</I>
Nel detto anno MCCCXLIIII, essendo per lo re di Cipri e per lo mastro dello Spedale e magione, che tenea l'isola di Rodi, e per lo patriarca di Gostantinopoli e cogli amiragli delle galee de' Genovesi e Viniziani, ch'erano al soldo della Chiesa sopra i Turchi, ordinarono una grande armata di navi, cocche e galee con molta buona gente d'arme per andare sopra i Turchi, e ragunarsi all'isola di Negroponte in Romania overo Grecia; e di là si partì la detta armata del mese di..... e puosonsi alla città delle Smirre nel paese che oggi si chiama Turchia, assai presso dove anticamente fu la grande città di Troia, e in quello golfo di mare. La qual città si tenea pe' Turchi, ed era molto forte fornita di molta gente d'arme Turchi e Saracini. E·lla detta armata di Cristiani entrarono nel porto della detta Smirra, e quello combattendo con aspre battaglie, e con difici e torri di legnami fatti in sulle cocche e navi, per forza presono le torri del porto, e tagliarono e gittarono in mare i Turchi che v'erano alla difesa. E vinto il porto, asalirono la terra da più parti, e combattendo per forza d'arme l'ebbono con gran tagliata e uccisione di Saracini e Turchi, che non vi lasciaro né uomini né femmina né fanciulli che non mettessono alle spade a morte, chi non si fuggì, i quali furono quasi innumerabile gente; e trovarolla fornita di molta ricchezza, cose, maserizie e vittuaglia. Sentendo ciò il soldano di Turchi ch'avea nome Marbasciano, ch'era fra terra a sue castella, di presente vi venne con XXXm Turchi a cavallo e con gente a piè innumerabile, e puose di fuori l'assedio alla detta terra delle Smirre con più campi. I Cristiani, ch'aveano presa la terra, la guernirono e aforzarono di loro gente, e·lla terra era fortissima di mura e torri, e sovente uscivano fuori alli scaramucci e badalucchi contro a' Turchi, quando a danno dell'una parte e quando dell'altra; e il detto assedio durò parecchi mesi, combattendosi al continovo di dì e di notte. In questa stanza Marbasciano soldano di Turchi, veggendo che seguendo l'assedio perdea al continuo di sua gente, e poco potea fare alla terra, sì era forte, sì si provide maestrevolmente per attrarre i Cristiani di fuori a·ccampo; sì si ritrasse colla maggiore parte di sua gente adietro alquante miglia alle montagne, e lasciò certa parte di sua oste a campo fuori della terra. I Cristiani ch'erano nelle Smirre veggendo asottigliato il campo di nimici di genti, stimando fossono per l'assedio straccati, il dì di santo Antonio, dì XVII di gennaio, popolo e cavalieri, uscirono della città, e asalirono il campo di Turchi vigorosamente, e quello con poco contasto di battaglia missono inn-isconfitta e fuga con grande mortalità di Turchi; e preso e rubato il campo, e intendendo certi alla caccia di Turchi che fuggieno, e certi alle spoglie del campo, e' capitani dell'oste con buona parte della migliore gente intendeno a·ffare gran festa, e celebrare messa e sagrificio nel campo, credendosi avere tutto vinto, e non prendendosi guardia dell'aguato, Marbasciano con suoi Turchi, com'avea ordinato per certi segni, discesono delle montagne, ch'erano assai presso, e assalì la gente de' Cristiani, ch'erano sparti, e male in ordine e peggio in guardia e·cchi armato e chi disarmato, e di presente con poco afanno gli ebbono rotti e sconfitti e messi in volta. E chi si fuggì nella terra; e di migliori rimasono nel campo alla battaglia, la quale durò poco, però che' Cristiani erano pochi alla comparazione di Turchi; e quelli che ressono al campo rimasono tutti morti. Intra gli altri vi morì il patriarca di Gostantinopoli, uomo di grande valore e autoritade, e meser Martino Zaccheria amiraglio di Genovesi, e meser Piero Zeno amiraglio di Viniziani, e 'l maliscalco de·rre di Cipri, e più frieri della magione dello Spedale, e più di D buoni uomini di Cristiani che ressono combattendo al campo, onde fu grande dannaggio; tutti gli altri Cristiani si fuggirono nella terra. E avenne loro bene, che per la detta rotta e sconfitta non isbigottirono, ma vigorosamente salvarono e difesono la terra da' Turchi, sicché per battaglie che vi dessero no·lla potero raquistare, ma ne moriro molta di loro gente per li molti balestrieri che dentro v'erano alla guardia. Venuta la detta novella in ponente e al papa, lieti ne furono per lo raquisto delle Smirre, e crucciosi della rotta e perdita di quella buona gente che vi rimasono morti. Per la qual cosa incontanente fece il papa indulgenza e perdono di colpa e di pena chi v'andasse o mandasse al soccorso, e andarvi di Firenze di loro volontà, e che furono mandati alle spese di chi volle il perdono, da CCCC di croce segnati, e con tutte armi e soprasberghe bianche con giglio e croce vermiglia, e per loro medesimi ordinati a conestaboli e bandiere. E di Siena ve n'andarono bene CCCL, e così di molte altre terre di Toscana e di Lombardia, chi pochi e·cchi assai, sanza ordini di Comuni, e feciono la via da Vinegia, però che·llà era ordinato il passo e navile alle spese della Chiesa. E 'l papa fece capitano di crociati il Dalfino di Vienna con sua compagna di gente d'arme al soldo della Chiesa; e passò per Firenze all'entrante del mese d'ottobre MCCCXLV, e andonne a Vinegia per seguire il detto viaggio e impresa, e più altri cavalieri oltramontani v'andaro per avere il perdono; e·cchi affiato della Chiesa. Lasceremo al presente della detta impresa, e diremo d'altre novità state ne' detti tempi.
<B>XL</B>
<I>Come fu morto il re d'Erminia.</I>
Nel detto anno MCCCXLIIII il re d'Erminia, il quale avea per moglie la figliuola del prenze di Taranto e della Morea, e nipote del re Ruberto, e per amore della moglie si dilettava co' baroni e cavalieri latini, che più gli piacea i loro costumi che quelli delli Ermini, e quanta buona gente di ponente capitava in sua corte gli ritenea a suo soldo, chi a cavallo, e chi a piè; per la qual cosa i baroni ermini per invidia ordinarono tradimento, e uccisono il detto loro re. E ancora ci ebbe, e fu grande cagione della sua morte, che 'l papa per suoi legati gli avea promesso sussidio e aiuto alla difensione di Saracini, e·rre di Francia più tempo dinanzi presa la croce e promesso di passare oltremare al conquisto della Terrasanta; e ciascuno de' detti signori tenea al continuo in vana speranza il re d'Erminia, e·rre i suoi baroni; e ciascuno, cioè il papa e il re di Francia, gli fallirono, e' Saracini corsono più volte l'Erminia con gran danno del paese; e però i baroni s'indegnarono contro al detto re, e l'uccisono. Lasceremo de' fatti d'oltremare e d'altre novità d'intorno, faccendo digressione, raccontando d'una grande congiunzione di certi gravi pianeti, che fu in questi tempi, che sono di grande significazione al secolo.
<B>XLI</B>
<I>Della congiunzione di Saturno e di Giove e di Marti nel segno d'Aquario.</I>
Nell'anno MCCCXLV a dì XXVIII di marzo, poco dopo l'ora di nona, secondo l'adequazione di mastro Pagolo di ser Piero, gran maestro in questa iscienzia, fue la congiunzione di Saturno e di Giove a gradi XX del segno dello Aquario collo infrascritto aspetto degli altri pianeti. Ma secondo l'almanaco di Profazio Giudeo e delle tavole tolletane dovea esere la detta congiunzione a dì XX del detto mese di marzo; e 'l pianeto di Marti era co·lloro nel detto segno d'Aquario gradi XXVII, e·lla luna scurata tutta a dì XVIII del detto mese di marzo nel segno della Libra gradi VII. E all'entrare che fece il sole nell'Ariete, a dì XI di marzo, fu Saturno in sull'ascendente nel segno d'Aquario gradi XVIII e signore dell'anno, e Giove nel detto Aquario gradi XVI. E Mars nel detto Aquario gradi XXII; ma seguendo l'equazione del detto mastro Paolo, ch'è de' maestri moderni, e dissene che co' suoi stormenti visibilmente vide la congiunzione a dì XXVIII marzo, essendo la detta congiunzione nell'angolo di ponente, e 'l sole era quasi a mezzo il cielo un poco dichinante a l'angolo, a gradi XVI dell'Ariete, e in sua saltazione; e il Leone, sua casa, era in su l'ascendente gradi XIII e Mars era già nel Pesce gradi VI; Venus nel Tauro gradi XIIII, sua casa, e in mezzo il cielo; Mercurio in Tauro in primo grado, e·lla luna inn-Aquario gradi IIII. Questa congiunzione co' suoi aspetti delli altri pianeti e segni, secondo il detto e scritto de' libri degli antichi grandi maestri di strolomia, significa, Idio consentiente, grandi cose al mondo, e battaglie, e micidi, e grandi commutazioni di regni e di popoli, e morte di re, e tralazione di signorie e di sette, e aparimento d'alcuno profeta e di nuovi errori a fede, e nuova venuta di signori e di nuove genti, e carestia e mortalità apresso in quelli crimanti, regni, paesi e cittadi, la cui infruenza de' detti segni e pianeti è atribuita; e talora fa nascere inn-aria alcuna stella comata, o altri segni e diluvi e di soperchie piove, però ch'ella è grave congiunzione per la propinquità di Marte, e sì per l'ecrissi proccedente dalla luna, e sì per la figura anuale a·cciò concordevole, e sì ancora perché poco tempo apresso ritrogando Saturno e Giove si rapressaro a gradi uno, minuti XXXV, tanto che·ssi possono un'altra volta congiunti riputare; bene darà più tardezza alli effetti per la ritrogagione. Questo non diciamo fia di nicissità, ma fia il più e 'l meno al piacere di Dio, disponitore de' detti corpi celestiali, mediante la sua giustizia e misericordia, secondo i meriti e peccati delle genti e de' regni e de' popoli per pulire e rimunerare; ed ècci la libertà del libero arbitrio dell'uomo, quando il voglia operare, la qual cosa è in pochi per lo difetto del vizio lascibile e·lla poca costanza delle virtù, onde per li più si vive al corso di fortuna. E nota ancora e troverrai che 'l pianeto di Marti entrò nel segno del Cancro a dì XII del mese di settembre nel detto anno MCCCXLV, e stette nel detto segno tra diretto e ritrogrando infino a dì X di gennaio, che ritrogando tornò in Gemini, e stettevi insino a dì XVI di febraio, e ritornò poi in Cancro, e stette poi in quello infino a dì II di maggio MCCCXLVI, sicché mostra sia stato in Cancro da mesi VI e mezzo tra due volte, che secondo suo usato corso non sta nel segno che L dì. Onde per molti maestri si disse che 'l reame di Francia avrebbe molte aversità e mutazioni, perché il segno del Cancro è asaltazione del pianeto di Giove dolce e pacifico, e dà ricchezze e nobiltà. Il quale segno del Cancro è atribuito al reame di Francia. Ancora il pianeto di Giove fu soprastato da Saturno e da Mars, il quale pianeto di Giove s'atribuisce alla Chiesa e al re di Francia. Ancora nota che partito Giove dalla congiunzione di Saturno e di Marti, ed entrato nel segno del Pesce sua casa, al continuo fu congiunto in quello colla <I>cauda dragonis</I>, ch'ancora li fa ditreazione, e nel paese ov'è atribuito la sua infruenzia.
Ora potrà dire chi questo capitolo leggerà, che utole porta di sapere questa strolomia al presente trattato? Rispondiamo che a chi fia discreto e proveduto, e vorrà investigare delle mutazioni che sono state per li tempi adietro in questo nostro paese e altrove, leggendo questa cronica assai potrà comprendere per comparazione di quelle sono passate pronosticate delle future, aconsentiente Idio, che questa congiunzione in questa tripicità de' segni dell'aere fu e cominciò a questi nostri presenti tempi gli anni MCCCV nel segno della Libra; e poi gli anni MCCCXXV nel segno del Gemini. A ciascuno fu ed è assai manifesto le novità state nella nostra città e altrove, ch'assai sono fresche dall'una congiunzione e·ll'altra, che sono state quasi di XX anni in XX anni poco meno; ch'è·lla più leggera, e in LX anni tornò, ch'è più grave e muta tripicità. E anche si possono leggermente ritrovare le novità che furono, e·lla discordia e guerra dalla Chiesa e·llo 'mperio, e l'altre novitadi e dell'antico popolo di Firenze, e della tralazione della signoria del re Manfredi al re Carlo, e in CCXL overo in CCXXXVIII l'avrà fatta XII volte in XII segni, le novitadi che furono in que' tempi adietro, il passaggio d'oltremare e altre grandi cose, e·lla mutazione della signoria del regno di Cicilia a Ruberto Guiscardo. E in DCCCCLX overo DCCCCLIII anni fornite XLVIII congiunzioni, e tornando alla prima, ch'è la più ponderosa di tutte, se cerchi adietro troverrai il cominciamento del calo della potenza del romano imperio alla venuta de' Gotti e di Vandali inn-Italia, e molte turbazioni a santa Chiesa etc. E questo basti alla presente materia, e diremo d'altro.
<B>XLII</B>
<I>Quando morì mesere Albertino da Carrara signore di Padova, e quello ne seguì.</I>
Nel detto anno MCCCXLV, all'uscita del mese di marzo, morì meser Albertino da Carrara, il quale i Fiorentini e' Viniziani al conquisto della città di Padova da meser Mastino, come dicemmo adietro, ne feciono signore; e male ne fu conoscente, come fanno gli altri tiranni. E·llui morto, lasciò in suo luogo signore meser Marsilietto suo consorto ch'era assai valoroso e da bene; ma·lla invidia, che sempre ditrae ogni beneficio, commosse Iacopo da Carrara nipote carnale del sopradetto meser Albertino, e con suo séguito, poco tempo apresso, per tradimento di notte tempore uccise il detto meser Marsilietto suo consorto, e corse la terra, e come tiranno se ne fece signore.
<B>XLIII</B>
<I>D'una aspra legge che 'l popolo di Firenze fece contro a' cherici.</I>
Nel detto anno, a dì IIII d'aprile, i reggenti e maestri del popolo di Firenze, uomini e collegi della qualità che detto avemo adietro, feciono una aspra e crudele legge sopra i cherici contra ogni ordine e dicreti di santa Chiesa, con molti capitoli contro a libertà di santa Chiesa. Intra gli altri, che quale cherico offendesse ad alcuno laico d'alcuno malificio creminale, fosse fuori della guardia del Comune, e potesse esere punito personalmente dalla signoria secolare inn-avere e in persona, non riserbando degnità; e quello cherico o laico impetrasse in corte di papa, o appo altro legato, lettera o privilegio di giudice dilegato in sua causa e quistione, che da niuna signoria di Comune fosse udito né amesso; ma che i propinqui e parenti di quelli ch'avesse fatta la 'mpetragione fossero costretti inn-avere e in persona, tanto facessono rinuziare la sua impetragione. Di queste leggi, e altri membri che·ssi contengono nella detta riformagione, fu la motiva che certi cherici rei di grandi e di possenti popolari pur facieno sotto titolo della franchigia di loro chericato di sconce cose a' secolari impotenti. E per cessare l'opposizione di contratti usurari, e per cagione di molte compagnie, che 'n quelli tempi e dinanzi erano falliti, levarono che non si potessono impetrare privilegi di giudici dilegati. Tutte queste fossono le cagioni, e hanno alcuno colore di giustizia, da' savi uomini fu molto biasimata la detta legge e riformagione, che perché il Comune la si potesse fare, non era licito di farla contro alla libertà di santa Chiesa né mai più fu fatta in Firenze; e·cchi vi diè aiuto o consiglio o favore issofatto fu scomunicato. E·sse in Firenze fosse in quelli tempi stato un valentre vescovo non cittadino, pure come fu il vescovo Francesco da Cingole anticessoro del presente, non sarebbe stato soferto; ma il presente vescovo, nostro cittadino, della casa delli Acciaiuoli, invilito per lo fallimento e cessagione de' suoi consorti, non ebbe ardimento al riparo della inniqua e ingiusta legge. La quale saputa in corte, ne fu fatto grande clamore al papa e a' cardinali; e poi tra per ciò e per altri processi fatti per lo Comune di Firenze contra i cherici nacque scandalo dalla Chiesa a' Fiorentini, come inanzi faremo menzione. E nota che fa il reggimento delle cittadi, essendone signori artefici e manuali e idioti, però che i più delle XXI capitudini dell'arti, per li quali allora si reggea il Comune, erano artefici minuti veniticci di contado e forestieri, a·ccui poco dee calere della republica, e peggio saperla guidare; e però che avolontatamente fanno le leggi straboccate sanza fondamento di ragione, e male si ricordano chi dà le signorie delle cittadi a sì fatte genti quello che n'ammaestra Aristotile nella sua Politica, cioè che' rettori delle cittadi sieno i più savi e discreti che si possano trovare. E 'l savio Salamone disse: "Beato quello regno ch'è retto per savio signore". E questo basti aver detto sopra la presente materia, con tutto che per difetti di nostri cittadini e per li nostri peccati male fummo retti per li grassi popolani, come poco adietro avemo fatta menzione. E da dubitare è del reggimento di questi artefici minuti idioti e ignoranti e sanza discrezione e avolontati. Piaccia a Dio che sia con buona riuscita la loro signoria, che me ne fa dubitare.
<B>XLIV</B>
<I>Come il popolo di Firenze tolse a certi grandi e gentili uomini certe posessioni e beni donati loro per lo Comune.</I>
E poi del mese di maggio del detto anno per li detti reggenti e maestrati del popolo di Firenze fur tolti di fatto, e contra ogni debita ragione, a più nobili indotati dal Comune per antico o per loro meriti e di loro anticessori, o per ogni fare per lo Comune, come diremo apresso; intra gli altri a quelli della casa de' Pazzi le posessioni e beni che il popolo e Comune di Firenze avea donati e dotati a·lloro anticessori con ogni sollennità che fare si potesse infino gli anni MCCCXI, quando il popolo di Firenze fece cavalieri e difenditori del popolo quattro di loro, II figliuoli di messere Pazzino, e due suoi cugini, per la morte del detto meser Pazzino, stato morto in servigio del popolo, e·llui vivendo, capo e difenditore del popolo con suoi consorti contro ad ogni grande che contro al popolo erano o aoperassono, come adietro in quelli tempi facemmo menzione; e il suo padre mesere Iacopo del Nacca morto a Monte Aperti, caporale e gonfaloniere del popolo; e gli altri suoi consorti le grandi operazioni fatte per lo Comune e popolo di Firenze a·cColle, come adietro è fatta menzione; e per tanti benefici fatti per lo Comune e popolo di Firenze, antichi e moderni, non volere esere udite niuna loro ragione, né commetterla in quale giudice in Firenze o in Bologna, ch'al Comune piacesse. Ma meglio era non dare il dono che·lla cosa donata villanamente ritorre contra a ragione. E per simile modo tolsono i beni a' figliuoli di meser Pino e di meser Simone della Tosa, donati per lo Comune e popolo, quando gli feciono cavalieri del popolo, che tanto per lo popolo adoperarono, come in questa è fatta menzione. E per simile modo a' figliuoli di mesere Giovanni Pini de' Rossi, il quale morì apo Vignone in Proenza, essendo ambasciadore del Comune al papa Giovanni per gran cose. E montarono le dette posessioni più di fiorini XVm d'oro, e convertissi a rifacimento di ponti, ma non ne tornò in Comune la metà in danari che valeano. Di questo torto fatto pe' reggenti del popolo a' sopradetti gentili uomini, collo 'nzigamento degli altri grandi per invidia. avemo fatta menzione per dare asempro a quelli che verranno come riescono i servigi fatti allo 'ngrato popolo di Firenze; e nonn-è avenuto pure a' detti, ma se ricogliamo le ricordanze antiche pure di questa nostra cronica, intra gli altri notabili uomini che feciono per lo popolo, si fu mesere Farinata delli Uberti, che guarentì Firenze che non fosse disfatta; e mesere Gianni Soldanieri, che·ffu capo alla difensione del popolo contra al conte Guido Novello e gli altri Ghibellini; e di Giano della Bella, che·ffu cominciatore e facitore del secondo e presente popolo; e meser Vieri di Cerchi, e Dante Allighieri, e altri cari cittadini e guelfi, caporali e sostenitori di quello popolo. I meriti e guiderdoni ricevuti i detti e' loro discendenti dal popolo, assai sono manifesti, pieni di grandissimo vizio d'ingratitudine, e co grande offensione a·lloro e a' loro discendenti, sì d'esili e disfazione de' beni loro, e d'altri danni fatti per lo 'ngrato popolo e maligno, che discese di Romani e di Fiesolani <I>ab anticho</I>, ancora, se leggiamo l'antiche storie di nostri padri romani, non vogliamo tralignare. Intra·ll'altre notevoli ingratitudini fatte per lo detto popolo, assai sono manifeste: che merito ricevette il buono Camillo che difese Roma e diliberò da' Gallici? Certo fu sanza colpa cacciato inn-esilio e sbandito. Che diremo del buono Iscipio Africano che diliberò la città di Roma e 'l suo imperio d'Anibale, e vinse e sottomise Cartagine e tutta la provincia d'Africa al Comune di Roma, e per simile modo dallo 'ngrato popolo fu mandato inn-esilio per la invidia e a torto? Che diremo ancora del valente Giulio Cesare? Quanti notabili e grandi cose fece per lo Comune e popolo di Roma inn-Italia e poi in Francia, inn-Inghilterra, Alamagna, e sottomisele con tanto affanno al popolo di Roma, e per invidia de' rettori e senato del popolo fu rifusato a cittadino, e poi, lui imperadore, da' rettori del senato e suoi propinqui, e·lloro benefattore, fu morto? Certo questi antichi asempri e moderni danno matera che mai nullo virtuoso cittadino s'intrametta in benificio della republica e di popoli; ch'è grande male apo Dio e al mondo che' vizii della 'nvidia e della superbia ingratitudine abatta le nobili virtù della magnanimità e della grata liberalità, fontana di benifici. Ma non sanza giusto giudicio d'Iddio sono le pulizioni de' popoli e de' regni soventi per li detti falli e difetti: pognamo che Iddio non punisca di presente fatto il fallo, ma quando il dispone la sua potenzia. Se nella matera avessimo detto di soperchio, il soperchio del disordinato vizio della ingratitudine ce ne scusi, per l'opere delli straboccati nostri rettori.
<B>XLV</B>
<I>Come volle esere tolto il castello di Fucecchio al Comune di Firenze.</I>
Nel detto anno MCCCXLV, a dì XXVII d'aprile, quelli della Volta di Fucecchio nobili e di più possenti di quelli della terra, coll'aiuto di loro amici di Sa·Miniato e di gente del contado di Lucca, corsono la terra di Fucecchio per rubellalla e torla al Comune di Firenze sotto titolo di cacciarne que' di meser Simonetto, un'altra casa di maggiori di Fucecchio, loro nimici. E sarebbe loro venuto fatto, se non fosse il sùbito soccorso delle masnade di Fiorentini ch'erano nelle castella di Valdarno e di Valdinievole, che·vvi trassono di presente; e con forza d'arme combattendo, furono i detti della Volta e·lloro seguaci nella terra sconfitti e rotti e cacciati, ov'ebbe assai di morti e fediti, e presi, impiccati per la gola. E poi la state apresso da D fanti di Pisani ch'erano alla guardia del Cerruglio e di Vivinaia e Montechiaro di notte tempo iscesono in Cerbaia, e parte ne passarono la Guisciana con trattato d'aver Fucecchio; per buona guardia si guarentì; onde i Fiorentini si dolfono forte a' Pisani per loro ambasciadori, onde si scusarono molto che non era loro fattura; ma come sempre hanno usato, il vizio pisanoro d'inganni e tradimenti fu questo, però che non ne feciono né amendo né punizione; e se l'avessono preso, il s'avrebbono tenuto a onta e dispetto di Fiorentini. E per la detta novità di Fucecchio, onde i Malpigli e Mangiadori di Sa·Miniato furono operatori e cagione, il luglio apresso ebbe zuffa e battaglia in Sa·Miniato tra' Mangiadori e Malpigli e loro seguaci; ma per li Fiorentini vi si mise accordo, perché non si guastasse quella terra. Ancora poi all'entrante di marzo del detto anno volle essere tradito Fucecchio, e più terrazzani colpevoli di ciò ne furono morti e giustiziati. E nel detto anno, all'entrante di giugno, fu fatta pace e accordo dal Comune d'Arezzo a' Tarlati e·lli altri loro usciti ghibellini per mano di Perugini e Fiorentini.
<B>XLVI</B>
<I>Di certi lavorii di ponti e d'altri fatti per lo Comune in questi tempi.</I>
Nel detto anno, a dì XVIII di luglio, si compié di volgere e di serrare il nuovo ponte rifatto sopra l'Arno nel luogo ove anticamente era stato il ponte Vecchio, con due pile e tre archi, molto bello e ricco. Costò bene fiorini... d'oro; e·ffu bene fondato, e largo braccia XXXII, che·lla via rimase larga braccia XVI, che·ffu troppo grande al nostro parere, e basse l'arcora da braccia II; e·lle botteghe dall'uno lato e dall'altro larghe braccia..., e lunghe braccia VIII, e furono fatte in sul sodo dell'arcora fatte a volte di sopra e di sotto, e furono XLIIII, onde il Comune ebbe di rendita di pigione l'anno da DCCC fiorini d'oro o più, ch'anticamente erano di legname sportate sopra l'Arno, e 'l ponte stretto braccia XVI. E nel detto anno si cominciò a rifondare con nuove pile il ponte a Santa Trinita, e compiessi l'anno MCCCXLVI a dì IIII d'ottobre, e·ffu molto bello e forte, e costò da XXm fiorini d'oro. E merlossi con beccatelli isportati il palagio antico, dove abita la podestà dietro alla Badia e da San Pulinari, e missesi in volta il tetto di sopra perché non potesse ardere, come fece altra volta. E nel detto anno si cominciò a rivolgere e rinovare la coperta del marmo del Duomo di San Giovanni, e·lla cornice d'intorno troppo più bella che non era imprima, però che per lo lungo tempo la coperta prima di marmi in alcuna parte era rotta e guasta, e facea acqua e guastava le pinture dentro e storie del musaico. Lasceremo alquanto delle novità di Firenze e d'intorno, e diremo di novità fatte per lo re d'Inghilterra e sue genti in Fiandra e Brettagna e Guascogna, ch'assai furono maravigliose.
<B>XLVII</B>
<I>Come il re Adoardo d'Inghilterra venne in Fiandra, e mandò sue osti in Guascogna e 'n Brettagna contro al re di Francia.</I>
Nel detto anno MCCCXLV Aduardo il terzo re d'Inghilterra fece un grande aparecchiamento di navile e di gente d'arme, per passare di qua da mare nel reame di Francia, ch'erano fallite le triegue. E del mese di giugno mandò il conte d'Ervi suo zio, cugino della casa reale, in Guascogna con CC navi cariche di cavalieri e d'arcieri. E mandò il conte di Monforte in Brettagna, a·ccui la duchea di quella a ragione succedea, come dicemmo adietro, con altre CC navi con gente d'arme assai a·ccavallo e a piè; e quello che' detti due signori colle dette armate adoperarono in Brettagna e in Guascogna diremo ordinatamente nel presente capitolo.
Lo re Aduardo in persona col figliuolo con altre CC cocche, overo navi, con gente d'arme assai, arrivò alle Schiuse in Fiandra a dì VI di luglio, con intenzione e con ordine e trattato colle Comuni di Fiandra di fare conte di Fiandra il figliuolo; e il duca di Brabante d'altra parte avea trattato con Luisi conte di Fiandra lega e compagnia, e fatto matrimonio e parentado co·llui, e dava al suo figliuolo la figliuola del duca per moglie, e dovelo rimettere colle sue forze di Brabanzoni nella signoria della contea di Fiandra. E stando il re Aduardo alle Schiuse sopra i detti trattati, ed esendo andati al re d'Inghilterra Giacomo Artivello di Guanto, caporale e maestro di tutta la Comune di Fiandra, con altri ambasciadori di Guanto e dell'altre ville di Fiandra, e dopo molti parlamenti i detti ambasciadori si partiro inn-accordo col re; Giacomo d'Artivello vi rimase col re alquanti dì per trattare, secondo si disse, sue ispezialtadi, onde gran sospetto generò nelle Comuni di Fiandra; e·llui tornato poi a Guanto, facea come signore sgombrare certi palagi e case di borgesi di Guanto, e fare l'aparecchiamento per lo re d'Inghilterra, che·vvi dovea venire; o per lo sospetto preso, o per l'aroganza del detto Giacomo, o per operazione del duca di Brabante, certi della Comuna di Guanto levaro la terra a romore, e corsono, e combattero e assalirono alle case il detto Giacomo d'Artivello, apellandolo per traditore; ed elli con suo séguito si difendea, e uccise due della Comuna, e molti fediti. Alla fine non potendo durare all'esercito del popolo, fu morto elli e 'l fratello e 'l nipote con bene LXX suoi amici e famigliari, e disfatte le sue possessioni. E·cciò fu dì XVIIII di luglio. E fecesi capo della Comuna di Guanto uno...
E come adietro dicemmo in altro capitolo di fatti di Firenze, tali sono le fini degli uomini troppo prosuntuosi, e che·ssi fanno caporali de' loro Comuni; e questo basti a tanto. Lo re Aduardo sentendo le dette novità, e non vegnendogli fornito in Fiandra il suo trattato, si partì con suo navilio dalle Schiuse, e tornossi inn-Inghilterra; e fece divieto che lane, né vittuaglia, né suo navilio, né altro che partisse di suo paese, arrivasse in Fiandra o in Brabante, onde i Fiamminghi rimasono molto confusi. Bene si raconciarono poi co·llui, come si dirà in altro capitolo innanzi.
Il conte d'Ervi arrivato in Guascogna si puose ad asedio della città di Bergherago, che teneno i Franceschi, ch'era del siri delle Brette, del mese d'agosto del detto anno. Il siniscalco di Guascogna per lo re di Francia, e il conte di Peragorga con D cavalieri e Xm pedoni vennero di notte per soccorrere la detta terra, credendo improviso avere sopreso il conte d'Ervi e sua oste; il quale stando di dì e di notte in buona guardia, si difese francamente dal detto assalto, e misero inn-isconfitta la gente del re di Francia, ove ne rimasono molti morti e presi. E poi il conte d'Ervi con sua gente combattero la terra, e per forza l'ebbono, ove fu grande uccisione e ruberia.
E sogiornando il detto conte d'Ervi alla detta città di Bergherago con suoi Inghilesi e Guasconi di sua parte, l'oste del re di Francia, in quantità di IIIm cavalieri con gente a piè innumerabile, la maggiore parte Guasconi e di Linguadoco, essendo allo assedio dell'Albaroccia in Guascogna, che tenieno gl'Inghilesi, e meser Gianni figliuolo del re di Francia con più di Vm cavalieri, con gran baronia di Franceschi, era a... presso a X leghe dell'Albaroccia; e per isdegno dell'Inghilesi, avendoli per niente, non volea esere al detto assedio. Gli asediati sentendosi molto stretti, mandaro al conte d'Ervi per soccorso, o a·lloro convenia rendere la terra. Il quale conte d'Ervi, come valente signore, non temendo di tanta cavalleria e potenzia del re di Francia, ch'avea al detto assedio e nel paese con messer Gianni di Francia, si partì da Belgeraco con quanta gente potéo con seco menare. E quando s'apressaro a' nimici, quelli ch'erano a·ccavallo scesono tutti a piede, lasciando i cavalli adietro a' loro fanti, ch'erano da MCC cavalieri e arcieri e gente a piè innumerabile, e assalirono così a piede la detta oste una mattina al punto del giorno, dì XXI d'ottobre del detto anno, ove fu aspra e dura battaglia, e grande uccisione dell'una parte e dell'altra; e durò infino al mezzogiorno, che non si sapea chi avesse il migliore. Alla fine essendo malmenata la gente del re di Francia d'uccisione di gente e di loro cavalli, l'Inghilesi e Guasconi di loro parte i cavalieri rimontarono freschi in su i loro cavalli, e per forza d'arme missono in volta e inn-isconfitta la gente del re di Francia, ov'ebbe molti morti e presi. Intra gli altri signori presi furono messer Luigi di Pittieri, il conte di Valentinese, il conte della Illa, il visconte di Nerbona, il visconte di Vilatrico, il visconte di Caramagna, messer Rinaldo d'Uosi nipote fu di papa Clemento V messer Ugotto dal Balzo, il siniscalco di Tolosa, e più altri signori e baroni, quasi tutti di Linguadoco; i quali si ricomperarono per loro raenzione più di libre Lm di sterlini. Messer Giovanni di Francia, che v'era presso colla sua baronia di Francia, come detto avemo, non venne al soccorso, né·ttenne campo, ma·ssi tornò adietro; onde gli fu messo in gran viltade, e preso grande sospetto per quelli di Linguadoco che tenieno col re di Francia. E per le dette due vittorie al conte d'Ervi e sua gente s'arenderono tra in Guascogna e in tolosana più di C tra città, terre e castella murate. E in questi tempi i Normandi, ch'erano sotto al re di Francia, feciono tra·lloro Comuna al modo de' Fiamminghi, non ubidendo gli uficiali del re di Francia, e' loro caporali trattando col re d'Inghilterra cospirazione, la qual poco tempo apresso partorì gran cose. Sentendo le dette novelle il papa e' cardinali di tanta commovizione del reame di Francia per la detta guerra, vi mandò di presente due legati cardinali, messer per mettere pace o triegua tra' detti signori, ma niente ne poterono fare; però che 'l papa era troppo parte in sostenere le ragioni del re di Francia, più che quelle del re d'Inghilterra, onde poi acrebbe molto male, come inanzi faremo menzione. E volle il papa proccedere contro al re d'Inghilterra, ma di ciò non ebbe concordia con gran parte di suoi cardinali, e però rimase. Essendo state in Guascogna le soprascritte battaglie a danno de' Franceschi, messer Giovanni di Francia con tutta sua gente, ch'erano grandissima a·ccavallo e a·ppiè, puose assedio al forte castello d'Aguglione, e giurò di non partirsene mai che l'avrebbe; dentro v'avea buona gente d'arme Guasconi e Inghilesi; e spesso meser Giovanni facea combattere il castello, e que' dentro sovente uscivano fuori a scaramucci e assalire il campo. Avenne che a dì XVI di giugno venendo da Tolosa per lo fiume all'oste de' Franceschi due grosse navi cariche di vettuaglia e d'arnesi da oste, quelli d'Aguglione uscirono fuori per terra e per acqua, e per forza combattendo presono le dette navi e miserle nel castello con gran danno di nimici, andando con grand'audacia infra·ll'oste di Franceschi prendendo e uccidendo, onde tutto il campo de' Franceschi fu ad arme, ch'era innumerabile gente, e per la loro moltitudine sopresono loro nimici ch'erano usciti d'Aguglione all'asalto dell'oste. Inanzi che tutti si potessono ricogliere al castello, ve ne rimasono assai morti, e presi gl'infrascritti caporali; messer Allessandro di Camonte, Guiglielmo Pomieri, il siniscalco di Bordello, il signore di Landiros, il signore di Pomiere, Ugo fratello del signore di Signaco, il visconte di Tartas fratello del signore di Soveraco, Giovanni Colombo di Bordello, tutti Guasconi, i quali più si scambiaro con parte di presi detti di sopra. Il conte d'Ervi con sua oste venne verso Aguglione, e rifornì il castello di gente e di vittuaglia. Lasceremo alquanto di questa matera per dire d'altre novità, ma assai tosto ci torneremo; però che·lla detta guerra dal re di Francia a quello d'Inghilterra crebbe diversamente, come inanzi faremo menzione.
<B>XLVIII</B>
<I>Come il re d'Ungheria venne inn-Ischiavonia, e come fu morto il re di Pollana.</I>
Nel detto anno MCCCXLV, del mese di luglio, il re Lodovico d'Ungheria con grandi eserciti a·ccavallo e a piè venne inn Ischiavonia per raquistarla, ch'era di risorto del suo reame, onde si rubellò a' Viniziani la città di Giadra, ch'ellino aveano tenuta lungo tempo, e rendessi al detto re d'Ungheria, la quale i Viniziani tenieno, per forza e potenzia ch'avieno per mare, tirannescamente e con soperchie gravezze; onde a' Giadrini parea loro male stare, ch'era una grossa terra e buono Comune, usi di stare in loro libertà, salvo di piccolo risorto rispondieno per antico al re d'Ungheria; e questa fu la cagione della loro rubellazione. E per simile modo si rubellarono a' Viniziani più altre terre; e tutta la Schiavonia era per raquistare il re d'Ungheria, se non che per soperchio di sua gente gli fallia la vettuaglia, sicché di nicistà il convenne ritrarre adietro. Ancora in questa stanza ebbe novella che 'l re di Pollonia fratello della madre avea combattuto in campo con Carlo figliuolo del re Giovanni di Buem, ed era stato sconfitto e morto sanza lasciare alcuno figliuolo. Per la qual cosa si tornò in Ungheria, e poi andò in Pollonia, e coronò del detto reame Stefano suo secondo fratello, a·ccui succedea per retaggio della madre. Lasceremo di dire alquanto de' fatti degli strani, e diremo di nostri di Firenze.
<B>XLIX</B>
<I>Come i Fiorentini s'accordarono con meser Mastino della Scala di danari gli restavano a dare per la compera di Lucca.</I>
Nel detto anno e mese d'agosto, essendo meser Mastino della Scala in discordia co' Fiorentini per li danari restava ad avere dal Comune di Firenze per la matta e folle impresa di comperare da·llui la città di Lucca assediata, come adietro è fatta menzione, domandando meser Mastino tra di resto e d'amenda più di CXXXm di fiorini d'oro, i Fiorentini saviamente feciono ordine e dicreto che più stadichi non gli si mandassono, sì che allo scambiare, dove n'avea XII non avesse XXIIII, i vecchi e' nuovi, abandonando quelli che v'erano, e·cche nullo Fiorentino stesse in sue terre, se non a·lloro rischio; onde meser Mastino crucciato rinchiuse in cortese prigione li XII stadichi ch'avea, e fece prendere quanti Fiorentini avea in Verona e Vincenza. E nota, lettore, a·cche fine riescono le compagnie e imprese da' Comuni a' tiranni e se mesere Mastino si seppe vendicare con danno e vergogna del nostro Comune delle ingiurie e guerra fatta contra·llui co' Viniziani insieme, come lungamente adietro facemmo menzione. Avenne poi per bisogno che meser Mastino ebbe di moneta per la 'mpresa fatta fare al marchese da Ferrara dell'oste da Reggio contro quelli da Gonzago signori di Mantova, e per procaccio del marchese da Ferrara ch'era stato mediatore del sopradetto mercato di Lucca da' Fiorentini a meser Mastino, mandò al Comune di Firenze che volea aconciare la quistione, i quali vi mandarono discreti ambasciadori. E venne meser Mastino in persona a Ferrara, e·llà si diè fine al detto accordo per LXVm di fiorini d'oro, quitando tutto all'uscita del mese di settembre, promettendolo di pagare infra due mesi. La quale civanza del detto pagamento si trovò in Firenze di presente per uno ordine ch'allora si fece per lo Comune, che quale cittadino dovesse avere dal Comune danari per li presti vecchi, prestandone altrettanti contanti, fosse assegnato sopra le gabelle ordinate a meser Mastino infra due anni di riavere i vecchi e nuovi prestati; e trovossi la civanza di presente, che·ffu bella cosa; e meser Mastino fu pagato, e finì il Comune, e tornarono li stadichi.
<B>L</B>
<I>Di più novità fatte e occorse in Firenze in questo anno.</I>
Nel detto anno, a dì XXVI d'agosto, si diede al Comune di Firenze il castello delle Poci in su l'Ambra di là dal Bucino, ch'era delle terre del viscontado, e avienvi su ragione i conti da Porciano. Ma 'l Comune compensò per quello dovea dare al Comune di condannagioni Guido Alberti conte di quelli, e per offese fatte al Comune, che·ffu un bello aquisto coll'altre terre del viscontado detto ch'avea il Comune, tutto sieno di giuridizione d'imperio; ma dal fiume d'Ambra in qua tutto è oggi del distretto di Firenze.
In questi tempi certi da San Gimignano corsono la villa di Campo Urbiano con grande ruberia e arsioni e micidi, opponendo ritenieno loro sbanditi; per la qual cosa si turbò forte il Comune e popolo di Firenze, perch'altra volta, come adietro facemmo menzione, avieno fatto il simigliante; però fu condannato il Comune di San Gimignano in..., e' terrazzani nell'avere e nelle persone. Ma poi del mese di novembre per prieghi de' Sanesi e Volterrani e Colligiani, e per cessare scandalo, per grazia fu fatta compusizione co·lloro, e pagaro per amenda fiorini Vm d'oro, e rimasene in bando solamente IIII de' caporali della detta cavalcata.
In questo anno, a dì XII di settembre, e poi a dì XXII di dicembre, di notte, furono grandi tremuoti, ma durarono poco.
In questo anno furono molte piogge in Firenze e in questo paese d'intorno, che dall'uscita del mese di luglio fino a dì VI di novembre non finò di piovere quasi del continuo; onde molto sconciò le ricolte, e guastò molto grano e biade ne' campi, e uve nelle vigne molte ne guastò, e non fu il detto anno il vino né digesto né naturale, e·lle terre si poterono male lavorare e seminare. Per le quali soperchie piogge crebbe l'Arno per due volte sformatamente d'ottobre e di novembre, e coperse tutta la piazza di Santa Croce, e allagò gran parte del detto quartiere, e venne l'acqua fino al palagio della podestà. E·lla Tersolla crebbe sì sformatamente, che valicò il ponte a Rifredi e quello Borghetto, rovinò case e muri con gran danno e perdimento di cose e guastamento di terre. E simile diluviò il Mugnone e 'l Rimaggio e tutti i fossati d'intorno con gran danno delle contrade, ed ebbesi gran paura in Firenze di generale diluvio. E·lla congiunzione passata ci cominciò a mostrare delle sue influenzie, e·ffu segno e cagione e avenne il seguente anno di male ricolte e carestia di vettuaglia, come inanzi faremo menzione. Lasceremo alquanto di nostri fatti di Firenze, e racconteremo d'uno screpio e scellerato peccato e tradimento commesso per le rede e congiunti del re Ruberto tra·lloro, come diremo nel seguente capitolo.
<B>LI</B>
<I>Come e per che modo fu morto Andreas, che dovea essere re di Cicilia e di Puglia.</I>
In questi tempi e anno, regnando nel regno di Puglia Andreas figliuolo di Carlo Umberto re d'Ungheria, il quale avea per moglie Giovanna figliuola prima reda di Carlo duca di Calavra e figliuolo del re Ruberto, a·ccui dovea succedere il reame per lo modo e ordine, come adietro in alcuno capitolo facemmo menzione; il re Ruberto con dispensagione del papa e della Chiesa avea diliberato che fosse re dopo la sua morte. E aspettavasi di presente d'esere coronato del reame di Cicilia e di Puglia, e ordinato era in corte per lo papa uno legato cardinale che 'l venisse a coronare. Invidia e avarizia di suoi cugini e consorti reali, i quali vizi guastano ogni bene, collo iscellerato vizio della disordinata lussuria della moglie, che palese si dicea che stava inn-avoltero con meser Luigi figliuolo del prenze di Taranto suo cugino, e col figliuolo di Carlo d'Artugio, e con meser Iacopo Capano, e collo assento e consiglio, si disse, della zia sirocchia della madre, e figliuola fu di meser Carlo di Valos di Francia, che·ssi facea chiamare imperadrice di Gostantinopoli, che anche di suo corpo non avea buona fama, e del suo figliuolo meser Luigi di Taranto, cugino carnale della reina per madre, di lui secondo cugino, il quale si dicie ch'avea affare di lei, ed era in trattato di torla per moglie con dispensagione della Chiesa per succedere d'esere re dopo Andreas; e dissesi ancora che 'l duca di Durazzo suo frate l'assentì, ch'avea per moglie la sirocchia della moglie, acciò che se·lla prima morisse sanza reda a·llui succedesse il reame. Per questi suoi consorti e cugini della casa reale, si disse che con ordine della moglie e séguito delli infrascritti traditori, se vero fu come corse la fama piuvicamente, ordinarono di fare morire il detto giovane innocente re Andreas. Ed essendo il detto re Andreas ad Aversa colla moglie al giardino di frati del Murrone a diletto, e nella camera colla moglie nel letto, di notte tempore, a dì XVIII di settembre, con ordine e tradimento de' suoi ciamberlani e alcuna cameriera della moglie, a petizione dell'infrascritti traditori, il feciono chiamare che·ssi levasse per grandi novelle venute da Napoli. Il quale con conforto della moglie si levò, e uscì fuori della camera; e di presente per la cameriera della reina sua moglie li fu riserrata la camera dietro; ed essendo nella sala Carlo d'Artugio e il figliuolo, e 'l conte di Tralizzo, e certi de' conti della Leonessa e di quelli di Stella, e mesere Iacopo Capano grande maliscalco il quale si dicea palese ch'avea affare colla reina, e due figliuoli di meser Pace da Turpia, e Niccola da Mirizzano suoi ciamberlani, fu preso il detto Andreas e messogli uno capresto in collo, e poi spenzolato dallo sporto della detta sala sopra il giardino, essendo per parte di detti traditori ch'erano in quello preso e tirato pe' piedi tanto che·llo strangolaro, credendo sotterrarlo nel detto giardino, ch'altri nol sapesse; se non ch'una sua cameriera ungara il sentì, e vidde, e cominciò a gridare, onde i traditori si fuggiro, e lasciaro il corpo morto nel giardino. Tale fu la repente morte del giovane e innocente re, che non avea se non XVIIII anni, per li falsi traditori. Fu recato il corpo a Napoli e sopellito co' reali, e·lla moglie ne fece piccolo lamento, a ciò ch'ella dovea fare; e quand'elli fu morto, non ne fece cramore né pianto come quella che·ssi disse palese e corse la fama ch'ella il fece fare. E uno meser Niccola ungaro balio del detto re Andreas, passando per Firenze, che n'andava in Ungheria, il disse a nostro fratello suo grande acconto a Napoli, per la forma per noi iscritta di sopra, il qual era uomo degno di fede e di grande autorità; onde seguì poi molto male come inanzi si farà menzione. Ma ella, cioè la reina, pure rimase grossa d'infante di VI mesi, o·llà intorno; di cui si fusse ingenerato, dicea ella del re Andreas.
<B>LII</B>
<I>Di quello che seguì della morte del re Andreas.</I>
Della detta scellerata e crudele morte del giovane re Andreas fu molto parlato e biasimato per tutti i Cristiani che·ll'udirono. E venuta la novella in corte, molto se ne turbò il papa e 'l collegio di cardinali, dogliendosi il papa in piuvico consistoro ch'ellino erano cagione della sua morte per avere tanto indugiato la sua coronazione; e scomunicò e privò d'ogni benificio ispirituale e temporale chiunque avesse operato, o dato consiglio o aiuto o favore alla morte del detto re. E commisse nel conte d'Andri, detto conte Novello di quelli del Balzo, ch'andasse nel Regno, e facesse giustizia e vendetta di chiunque di ciò fosse colpevole, in persona e in beni, così a' clesiastici come a secolari; non risparmiando per nulla dignità. E·llui andato a Napoli; ma prima per l'Università di Napoli a romore di popolo e a baratta la terra, fu preso meser Ramondo di Cattana, ch'andava per Napoli comandando per parte della reina e somovendo come traditore fu preso, e di presente anche fu preso il figliuolo detto meser Pace stato ciamberlano del re Andreas: e disaminato chi ebbe colpa del micidio, e confessatolo, messogli l'amo nella lingua, perché non potesse parlare, menato in carro, levandogli le vive carni da dosso fu impeso e fatto morire; e poi il conte Novello fece inquisizione, e più baroni, e altri fece mettere in prigione, e due femine, la maestressa della reina e dama Ciancia Capana, che sentiro il tradimento; i quali traditori e·lle dette donne la reina difendea a suo podere, di non lasciarne fare giustizia. Ma poi, a dì II d'agosto vegnente MCCCXLVI, il detto conte Novello fece morire il conte di Tralizzi, che·ffu di quelli del Bolardo francesco, e il conte d'Eboli grande siniscalco, quelli si dicea giacea colla reina; e mandandoli in su due carri, e dalle genti furono lapidati, e poi arsi. E poi, a dì VII d'agosto per simile modo fece giustiziare mesere Ramondo di Cattana e notaio Nicola di Mirazzano, riserbandone altri a giustiziare.
Per la morte del detto re Andreas si scompigliò tutto il regno di Puglia; chi tenea colla reina, ch'avea la signoria del castello di Napoli e 'l tesoro del re Ruberto, ciò era meser Luigi fratello del prenze di Taranto, soldando gente d'arme per la reina, e per forza volea entrare in Napoli con D; ma il fratello e 'l duca di Durazzo e gli altri baroni e il popolo di Napoli il contradiarono. E così chi tenea colla reina e con meser Luigi di Taranto, e chi col prenze di Taranto, e·cchi col duca di Durazzo; ciascuno soldò gente d'arme assai a cavallo per sua guardia, e per paura del re d'Ungheria fratello del re Andreas, ch'era venuto a Giadra inn-Ischiavonia, come inanzi faremo menzione, e minacciava colle sue forze di passare nel Regno per essere re, e fare vendetta di quelli reali e della reina, che·ssi dicea ch'avieno fatto morire il fratello. Per la qual cosa tutto il regno stava isciolto e scomunato e in tremore, rubandosi i cammini sanza niuno ordine di giustizia; e' detti reali male inn-accordo insieme, o da dovero, o per disimulazione insieme per coprire tra·lloro il peccato. E se il re d'Ungheria fosse passato, non avea ritegno, sì era scommosso il paese; ma·lla briga ch'avea co' Viniziani, ch'erano a oste a Giadra, e 'l caro della vittuaglia al grande esercito, ch'avea di sua gente, e ancora non aparecchiato navile, gli sturbò la venuta allora; e·lla reina in questo stante avea fatto un fanciullo maschio dì XXVI di dicembre MCCCXLVI, e puosegli nome a battesimo Carlo Martello per l'avolo; ma per li più si disse ch'era figliuolo d'Andreas, e di certi segni il simigliava; e·cchi dicea di no, per la mala fama della reina. Lasceremo alquanto di questa matera, ch'a tempo e·lluogo vi ci converrà tornare, e diremo di nostri fatti di Firenze e d'altre novitadi.
<B>LIII</B>
<I>Come in Firenze si fece nuova moneta d'argento.</I>
Nel detto anno MCCCXLV, avendo in Firenze grande difetto, e nulla moneta d'argento, se non la moneta da quattro, che tutte le monete d'argento si fondieno e portavansi oltremare; e valea la lega d'once XI e mezzo di fine più di libre XII a·ffiorini la libra, ond'era grande isconcio a' lanaiuoli e a più altri artefici, temendo non calasse troppo il fiorino a moneta; sì·ssi ordinò il divieto che niuno traesse della città e contado ariento sotto certa gran pena; e ordinossi e fecesi nuova moneta d'argento di soldi IIII di piccioli l'uno, o XII quattrini, di lega di buono argento d'once XI e mezzo di fine per libra; e i soldi XI e danari X de' detti grossi pesavano una libra, e soldi XI danari VIII ne rendea la zecca, e grossi due rimanea per l'overaggio al Comune. E trassesi di zecca di prima a dì XII d'ottobre del detto anno, e fu molto bella moneta colla 'mpronta del giglio e di santo Giovanni, e chiamavansi i nuovi guelfi; ed ebbe grande corso in Firenze e per tutta Toscana, e per lo caro dell'argento tornò il fiorino a valuta di libre III e soldi II di piccioli, e meno. Prima ci erano guelfi XV e mezzo per fiorino d'oro. Ma in quelli dì certi mali fattori cittadini, alquanti di casa i Bardi, e Rubecchio del Piovano, fatti venire da Siena certi maestri falsari di monete, e nell'alpe di Castro avieno ordinato di falsare la detta moneta nuova e quattrini. Furonne presi due e arsi, e confessaron per loro che, detti tre de' Bardi la facieno loro fare, citati e non compariti, furono condannati al fuoco come falsari. Lasceremo alquanto de' fatti di Firenze, ch'assai ne' detti tempi era in tranquillo e buono stato e sanza guerra, con tutto fosse inn-assai bollore e tribulazioni per le compagnie e singulari persone cittadini falliti, come inanzi faremo menzione, e torneremo a dire d'altre novità delli strani che furono in questi tempi.
<B>LIV</B>
<I>Come furono morti il conte d'Analdo e 'l marchese di Giullieri da' Fresoni.</I>
Nel detto anno, del mese di settembre all'uscita, avendo il conte d'Analdo fatto suo sforzo di gente d'arme col marchese di Giullieri, passato in Frigia di là da Olanda, onde il detto conte d'Analdo era signore per retaggio, per sottomettere a sua signoria i Fresoni, che no·llo ubidivano. Il quale della detta impresa ebbe lieta entrata, che quasi sanza contasto conquistato gran parte del paese, ma poi riuscì con dolorosa fine. Parendo loro essere più al sicuri, i Fresoni si ragunaro in boschi e in maresi, e misero aguato a' detti signori e loro genti, non prendendosi guardia, e in più parti i Fresoni ruppono i dicchi, ciò sono gli argini fatti e alzati per forza, a modo del Po, alla riva del mare per riparare il fiotto. Onde spandendosi l'acqua, la maggiore parte delle genti de' detti signori annegarono, e chi dell'acqua scampò furono morti da' Fresoni ch'erano inn aguato, che non ne campò uomo. E morìvi il detto conte d'Analdo e 'l marchese di Giullieri, onde fu gran dannaggio, ch'erano signori di gran potenza e valore; e rimase la contea d'Analdo sanza reda maschio, e succedette la detta contea a Lodovico di Baviera detto Bavero, ed Aduardo re d'Inghilterra, ch'avea ciascuno di loro per moglie una figliuola del detto conte d'Analdo, a'ccui succedea la contea.
<B>LV</B>
<I>Del fallimento della grande e possente compagnia de' Bardi.</I>
Nel detto anno, del mese di gennaio, fallirono quelli della compagnia de' Bardi, i quali erano stati i maggiori mercatanti d'Italia. E·lla cagione fu ch'ellino avieno messo, come feciono i Peruzzi, il loro e l'altrui nel re Aduardo d'Inghilterra e in quello di Cicilia; che·ssi trovarono i Bardi dal re d'Inghilterra dovere avere, tra di capitale e di riguardi e doni impromessi per lui, DCCCCm di fiorini d'oro, e per la sua guerra col re di Francia no·lli potea pagare; e da quello di Cicilia da Cm di fiorini d'oro. E' Peruzzi da quello d'Inghilterra da DCm di fiorini d'oro e da quello di Cicilia da Cm fiorini d'oro, e debito da CCCm di fiorini d'oro; onde convenne che fallissono a' cittadini e forestieri, a cui dovieno dare più di DLm di fiorini d'oro, solo i Bardi. Onde molte altre compagnie minori, e singulari, ch'avieno il loro ne' Bardi e·nne' Peruzzi e negli altri falliti, ne rimasono diserti, e tali per questa cagione ne fallirono. Per lo quale fallimento di Bardi, e Peruzzi, Acciaiuoli, Bonaccorsi, di Cocchi, d'Antellesi, Corsini, que' da Uzzano, Perondoli, e più altre piccole compagnie e singulari artefici che falliro in questi tempi e prima, per gl'incarichi del Comune e per le disordinate prestanze fatte a' signori, onde adietro è fatta menzione, ma però non di tutti, che troppo sono a contare, fu alla nostra città di Firenze maggiore rovina e sconfitta, che nulla che mai avesse il nostro Comune, se considerrai, lettore, il dannaggio di tanta perdita di tesoro e pecunia perduta per li nostri cittadini, e messa per avarizia ne' signori. O maladetta e bramosa lupa, piena del vizio dell'avarizia regnante ne' nostri ciechi e matti cittadini fiorentini, che per cuvidigia di guadagnare da' signori mettere il loro e·ll'altrui pecunia i·lloro potenza e signoria, a perdere, e disolare di potenza la nostra republica! che non rimase quasi sustanzia di pecunia ne' nostri cittadini, se non inn alquanti artefici o prestatori, i quali colla loro usura consumano e raunano a·lloro la sparta povertà di nostri cittadini e distrettuali. Ma non sanza cagioni vengono a' Comuni e a' cittadini gli occulti giudici di Dio per pulire i peccati commessi, siccome Cristo di sua bocca vangelizzando disse: "In peccata vestra moriemini etc.". I Bardi renderono per patto i·lloro possessioni a' loro creditori soldi VIIII danari III per libra, che non tornarono a giusto mercato soldi VI per libra. E' Peruzzi patteggiarono a soldi IIII per libra in posessioni, e soldi XVI per libra nelle dette di sopradetti signori; e se riavessono quello deono avere dal re d'Inghilterra e da quello di Cicilia, o parte, rimarrebbono signori di gran potenzia di ricchezza; e' miseri creditori diserti e poveri, perché fallì credenze e·lle malvagie aguaglianze delli ordini e riformagioni del nostro corrotto reggimento del Comune, che chi ha podere più ha a suo senno i dicreti del Comune. E questo basti, e forse ch'è troppo avere detto sopra questa vergognosa matera; ma non si dee tacere il vero per chi ha a·ffare memoria delle cose notabili ch'ocorrono, per dare asempro a quelli che sono a venire di migliore guardia. Con tutto noi ci scusiamo, che in parte per lo detto caso tocchi a·nnoi autore, onde ci grava e pesa; ma tutto aviene per la fallabile fortuna delle cose temporali di questo misero mondo.
<B>LVI</B>
<I>Ancora di novità state in questi tempi in Firenze.</I>
Nel detto anno, all'entrante di gennaio, di mezzodì uno lupo grande e salvatico entrò per la porta a San Giorgio, e scese giù, e corse, essendo isgridato, quasi gran parte d'Oltrarno; ma poi fu preso e morto alla porta a Verzaia. E in que' dì cadde uno scudo di gesso dipinto col giglio, ch'era commesso sopra la porta dove abita il podestà, onde molti aguriosi per li detti segni temettono di future novità alla nostra città. E in que' dì arse una casa di messer Simone giudice da Poggibonizzi nel popolo di San Brocolo. E nel detto anno passato III volte vi s'accese il fuoco, non trovandovi cagione chi 'l v'avesse acceso o messo; e molti amirandosi di ciò, dissono fu opera d'alcuno maligno spirito.
<B>LVII</B>
<I>Come il re di Francia diede rapresaglia sopra i Fiorentini per tutto il suo reame a petizione del duca d'Atene.</I>
Del mese di febraio del detto anno Filippo di Valos re di Francia, a petizione del duca d'Atene, gli diè rapresaglia sopra i Fiorentini inn-avere e in persona in tutto il suo reame se infino al calen di maggio prossimo non avessono contento il detto duca d'Atene di ciò che domandava di menda a' Fiorentini, ch'era infinita quantità. Poi del mese di luglio la confermò, e diede balìa al duca d'Atene ch'elli li potesse prendere e incarcerare e tormentare a sua volontà, non togliendo loro la vita o membro, siccome traditori del loro signore il duca d'Atene. Questo fu iscortese titolo dato per lo re per la rapresaglia contra il Comune e cittadini di Firenze, sanza volere udire o accettare le ragioni del Comune di Firenze, o·lle fini e quitanze fatte per lo detto duca al Comune, essendo di là al continovo il sindaco e ambasciadore del Comune con pieno mandato e ragioni del nostro Comune, richeggendo ragione al re e suo consiglio e di commetterla in giudice non sospetto, a·ccui al re piacesse fuori del reame; non ebbe luogo né intesa ragione per lo re, o suo consiglio, ch'avesse il Comune di Firenze, onde convenne che tutti i Fiorentini, che non fossono suoi istanti borgesi, da calen di maggio inanzi si partissono di tutto il reame, o stessono nascosi in franchigie o in chiese co·lloro grande sconcio, interessi e dannaggio e pericolo, onde il detto re fu molto biasimato da ogni savio e buono uomo di suo reame e di fuori ch'amassono giustizia e ragione, la quale elli fuggiva, come era usato di fare elli e meser Carlo di Valos suo padre; onde al tutto perdé l'amore e·lla fede di tutti i cittadini di Firenze, così di Guelfi come di Ghibellini, ch'amavano suo onore e stato e della casa di Francia. Ma per gli altri suoi più innormi peccati in spergiuri a santa Chiesa e dislealtadi per lui fatti Iddio ne mostrò e fece tosto vendetta, e·ggià cominciata, e come tosto apresso leggendo si potrà trovare.
<B>LVIII</B>
<I>D'una grande disensione che·ffu in Firenze dal Comune allo inquisitore de' paterini.</I>
Nel detto anno e del mese di marzo, essendo inquisitore in Firenze dell'aretica pravità uno frate Piero dall'Aquila de' frati minori, uomo superbo e pecunioso, essendo fatto per guadagneria proccuratore ed esecutore di meser Piero... cardinale di Spagna per XIIm fiorini d'oro che dovea avere dalla compagnia delli Acciaiuoli fallita, ed essendo per rettori del nostro Comune messo in tenuta e posessione di certi beni della detta compagnia, e alcuno sofficiente mallevadore di loro preso per sodisfazione, fece pigliare a tre messi del Comune cittadini e più famiglia del podestà messer Salvestro Baroncelli compagno della detta compagnia delli Acciaiuoli, uscendo del palagio de' priori, e co·lloro licenza acompagnato d'alquanti loro famigliari; onde si levò il romore in sulla piazza, e per gli altri famigliari di priori e per quelli del capitano del popolo, che v'abitava di costa, fu riscosso il detto meser Salvestro; e presi i detti messi e famigliari della podestà e a' messi per comandamento de' priori, e per l'ardire e prosunzione di fare contro la loro signorevile franchigia e licenzia, di fatto feciono tagliare loro le mani, e confinare fuori di Firenze e contado per X anni. Alla podestà e sua famiglia scusandosi per ignoranza, e vegnendo alla mercé de' priori, profferendo ogni amenda al loro piacere, dopo molti prieghi furono liberati i suoi famigliari. Per le detta novità lo 'nquisitore isdegnato, e ancora più per paura, se n'andò a Siena, e scomunicò i priori e il capitano, e lasciò interdetta la terra, se infra sei dì no·lli fosse renduto preso, meser Salvestro Baroncelli, alla quale scomunica e interdetto s'apellò al papa, e a corte sì mandaro grande ambasceria. I nomi de' detti ambasciadori sono questi: messer Francesco Brunelleschi, messere Antonio delli Adimari, messere Bonaccorso de' Frescobaldi cherico, messer Ugo della Stufa giudice, e Lippo Spini, e ser Baldo Fracassini con sindacato per lo Comune con pieno mandato, e portarvi le ragioni del Comune, e fiorini Vm d'oro contanti per dare di quelli delli Acciaiuoli al cardinale, e di VIIm fiorini d'oro obrigare il sindaco del Comune per li detti Acciaiuoli in pagare in certe paghe annualmente. Ancora portarono per carte tutte quelle baratterie e rivenderie fatte per lo detto inquisitore, che più di VIImD fiorini d'oro in due anni si disse si trovò fatto ricomperare più di nostri cittadini, gli più ingiustamente, sotto titolo di peccato di resia. E non sia intenzione di chi questo processo leggerà per lo tempo a venire, che a' nostri tempi avesse tanti eretici in Firenze per le tante condannagioni pecuniali ch'avea fatte lo 'nquisitore, che mai non ce n'ebbe meno, ma quasi niuno. Ma per atignere danari, d'ogni piccola parola oziosa ch'alcuno dicesse per niquità contro a·dDio, o dicesse ch'usura non fosse peccato mortale, o simili, condannava in grossa somma di danari, secondo ch'era ricco. Questo s'oppose per lo Comune, onde a corte dinanzi al papa e cardinali in piuvico concestoro il detto inquisitore fu riprovato per li ambasciadori per disleale e barattiere, e sospese alquanto tempo le sue scomuniche e processi d'interdetto. E dal papa e cardinali i detti ambasciadori furono bene ricevuti e onorati alla loro venuta dal papa, con tutto che tra·lloro male fossono d'accordo, e i più di loro intesono a·lloro singularità, che a bene di Comune, onde ne tornarono con poco onore e benificio fatto per lo Comune; e costarono più di IImCC fiorini d'oro.
E ancora per la detta cagione il Comune e popolo di Firenze, per levare le baratterie alli inquisitori, feciono dicreto e legge al modo de' Perugini e del re di Spagna e di più altri signori e Comuni, che niuno inquisitore si potesse intramettere in altro che nel suo uficio, e nullo cittadino o distrettuale condannare in pecunia, chi·ssi trovasse eretico mandarlo al fuoco. E fulli tolta e disfatta la carcere datali per lo Comune, ove tenea i suoi presi, e cui per lo 'nanzi facesse prendere, gli mettesse nelle carcere del Comune cogli altri. E fu fatto ordine, che podestà né capitano né secutore né altra signoria non dovesse dar loro famiglia, licenza o messo per fare pigliare nullo cittadino a petizione dello 'nquisitore o del vescovo di Firenze o di Fiesole, sanza licenza de' signori priori, per cessare cagioni di scandali e di riotta, e per cessare le baratterie e rivenderie di dare la licenza di portare l'arme da offendere a più cittadini per lo inquisitore e per li Vescovi, onde la città parea iscomunata, tanti erano quelli che·lla portavano. E ordinaro che·llo 'nquisitore non potesse tenere più di VI famigliari con arme da offendere, né dare a più licenza di portarla; e al vescovo di Firenze a XII famigliari; e a quello di Fiesole VI; che·ssi trovò, secondo si disse, che 'l detto frate Piero inquisitore avea data la licenza di portalla a più di CCL cittadini, onde guadagnava l'anno presso, o forse più, di mille fiorini d'oro; e me' i vescovi non ne perdieno, e aquistavano amici al loro vantaggio e sconcio della republica. Partiti i detti ambasciadori da corte, il cardinale di Spagna sopradetto, come fellone, non istando contento all'accordo fatto con infestamento del sopradetto inquisitore, ch'era fuggito in corte, coll'aiuto d'alcun altro cardinale, da capo feciono citare al papa, che venissono in corte il vescovo di Firenze e tutti i prelati che non aveano oservato lo 'nterdetto, e' priori e signorie e collegi ch'erano allora; onde in Firenze n'ebbe grande turbazione contra la Chiesa, e da capo rifeciono sindacato, e mandarono in corte a riparare. Ma·lla maggiore cagione fu perché il papa volea che per lo nostro Comune si levassono certi inniqui capitoli fatti per lo Comune contra i cherici, i quali pur erano sconci e contra ragione, come dicemmo adietro. E volea il papa trattare co' nostri ambasciadori concordia coll'eletto suo imperadore, la qual cosa non piacque al nostro Comune.
<B>LIX</B>
<I>Come il re d'Ungheria seppe la morte del re Andreas, e venne in Ischiavonia con grande esercito per soccorrere Giadra e passare in Puglia.</I>
Come il re d'Ungheria e quello di Pollana seppono la vergognosa morte del re Andreas loro fratello, come adietro facemmo menzione, furono molto tristi e adontati contro la reina sua moglie e contro a' reali di Puglia loro consorti, parendo loro che fosse stata loro opera e tradigione, e vestirsi tutti a nero con molti di loro baroni, e giurato di fare vendetta. E per più innanimare li Ungari a·cciò fare, feciono fare una bandiera, la qual sempre si mandavano inanzi: il campo nero, e·llo re Andreas impiccato, ch'era una orribile cosa a vedere.
Per fare la detta vendetta si proferse a·lloro il Bavero re d'Alamagna, e il figliuolo marchese di Brandiborgo, e 'l dogio d'Osteric, e più altri signori della Magna con tutto loro podere per lo innormo oltraggio a·lloro fatto, i quali per loro s'accettarono, e giurarono a·cciò fare lega e compagnia. E·llo re d'Ungheria mandò a corte al papa grande ambasciaria del mese di marzo richeggendo di volere esere coronato del reame di Cicilia e di Puglia, ch'a·llui succedea; e che vendetta fosse della morte del re Andreas così in cherici come in laici, dandone colpa al cardinale di Peragorga cognato del duca di Durazzo, che·ll'avea sentito e ordinato. A' quali ambasciadori non fu dato concestoro piuvico per la detta cagione, e aponendosi per lo papa che 'l re d'Ungheria avea fatta lega e compagnia col dannato Bavero. Onde il re d'Ungheria e tutti gli Alamanni si tennono mal contenti del papa e della Chiesa; ma però non lasciarono di fare sua impresa per passare in Puglia e per soccorrere la sua città di Giadra, come diremo apresso.
Essendo la città di Giadra inn-Ischiavonia ribellata a' Viniziani, come adietro facemmo menzione, e partito di Schiavonia il re d'Ungheria con suo esercito l'anno passato MCCCXLV, i Viniziani v'andarono incontanente a oste con gran potenza, e asediarla per terra e per mare, menandovi soldati a cavallo e a piede di Lombardia e di Romagna e di Toscana con gran soldo; onde di Firenze v'andarono per ingordigia del detto soldo tre di casa i Bondelmonti con CCC masnadieri, i quali Fiorentini al continovo dalle mura erano rimprocciati da' Giaratini, che·ssi partissono dal loro asedio, ch'erano amici, e andassono a farsi sconfiggere a Lucca, e servissono i Viniziani che gli avieno traditi alla guerra di meser Mastino. E così vi continovò l'oste dall'agosto MCCCXLV al maggio MCCCXLVI, dando alla terra continue battaglie e asalti, e que' d'entro al continuo uscendo fuori a badalucchi e scaramucci, e francamente asalendo il campo. Ma que' di Giadra dubitando che per lungo assedio non mancasse loro la vettuaglia, rimandaro per lo re d'Ungheria; il quale sentendo ciò per messaggi di quelli di Giadra, e per seguire la sua impresa di venire in Puglia, ritornò inn-Ischiavonia con più di XXXm tra Ungheri e Tedeschi, a cavallo la maggiore parte, che bene i XXm erano arcieri, e gli altri buoni cavalieri. Sentendo i Viniziani la sua venuta ringrossaro il loro oste di gente e di navile, e per non aspettare in campo la sua venuta, vollono provare inanzi d'avere la città per forza. A dì XVI di maggio MCCCXLVI ordinaro di dare alla terra una grande battaglia per mare con IIII navi grosse incastellate, e con ponti da gittare in sulle mura, e con XX piatte imborbottate, e con difici, e XL ghianzeruole e XXXII galee armate con molti balestrieri; e per terra con tutto l'esercito dell'oste, i quali furono tra per mare e per terra più di XVIIm d'uomini in arme, tra' quali avea più di IIIIm balestrieri. La battaglia fu aspra e dura, e continovò dalla mattina alla sera, sanza potere aquistare niente; però che·lla città era forte di torri e di mura e fossi, dall'altra parte il porto forte e·lla marina; e perché quelli di Giadra erano buona gente d'arme si difesono valentemente, e verso la sera, quando i Viniziani si ricoglieno, apersono una porta della terra seguendogli vigorosamente combattendo, e morivvi della gente di Viniziani più di D, e fediti gran quantità. Veggendo i Viniziani che non poteano avere la città per battaglia, e sentendo che 'l re d'Ungheria con suo esercito era presso a Giadra a XXX miglia, e ogni dì s'apressava, i Viniziani si levarono del campo dov'erano di costa, e quasi intorno intorno alla città, e ritrassonsi in su un forte colletto di lunge da Giadra da uno mezzo miglio sopra la marina, e quello come bastita aforzaro con fossi e steccati e torri di legname. Come il re d'Ungheria s'apressò alla terra con suo oste, mandò parte di sua gente d'arme a richiedere i Viniziani di battaglia; non ebbe luogo che la volessono, ma si stavano rinchiusi nella loro bastita con grande paura e sofratta di vittuaglia più dì. Il re d'Ungheria fece fornire Giadra di vettuaglia e di ciò ch'avea mestiero, e alcuno disse v'entrò in persona isconosciuto, per dare a' Giaratini vigore. I Viniziani co·lloro ambasciadori stavano in continui trattati col detto re, promettendogli di dare loro navile e aiuto a passare in Puglia, ma voleano Giadra a·lloro signoria con uno piccolo censo di dare a·llui di risorto; il quale trattato non piacendo al re, non ebbe luogo. E però che' Viniziani co·lloro danari corruppono certi di suoi baroni ungari, e consigliaro dislealmente il loro signore che·ssi tornasse in Ungheria, perch'era caro il paese d'Italia quell'anno di vittuaglia a tanto esercito; e in parte era il vero, e non avea ordinato il navilio da potere passare in Puglia, e però si tornò in Ungheria, lasciando fornita Giadra. La bastita di Viniziani si rimase la detta state con grande spendio di Viniziani, rinovandovi spesso gente; e bisognava bene, però ch'erano assaliti sovente da quelli della terra. E per disagi vi si cominciò grande infermeria e mortalità, e morìvi molta gente, intra gli altri i sopradetti nostri tre cittadini de' Bondelmonti con i più di loro masnade, che non ne tornaro il quarto. Lasceremo di questa matera, e torneremo a dire della lezione del nuovo imperio Carlo figliuolo del re Giovanni di Buem.
<B>LX</B>
<I>Come Carlo figliuolo del re di Buem fu eletto re de' Romani.</I>
L'anno MCCCXLVI, del mese d'aprile, venuto in corte di papa Carlo figliuolo del re di Buem, a sommossa del papa e per suducimento del re di Francia, per procacciare d'essere eletto imperadore per contastare al Bavero, e per avere di lui il re di Francia più stato e favore, però ch'era suo parente, e venneli al re di Francia bene a bisogno, come si troverrà; e avrebbono bene proccurata la detta lezione per lo re Giovanni di Buem suo padre, se non che per sua malattia era quasi perduto della vista degli occhi. Ma il detto Carlo era pro e savio signore, e d'età di... anni. Per cagione della detta lezione grande disensione n'ebbe tra 'l collegio de' cardinali tra e per la morte del re Andreas e perché gli ambasciadori del re d'Ungheria non erano esauditi dal papa. Ed erano in due sette partiti i cardinali, che dell'una era capo il cardinale fratello del conte di Peragorgo, e questi volea la lezione del detto messer Carlo, e contradiavano il re d'Ungheria, e tenea co' cardinali franceschi, ed erane capo il favore del re di Francia; dell'altra setta era capo il cardinale fratello del conte di Cominge co' cardinali guasconi e loro seguaci, che volieno il contrario; e ciascuna era di gran potenza e séguito; e furono a tanto, che in piuvico consistoro dinanzi al papa si dissono onta e villania insieme, rimprocciando quello di Cominge a quello di Peragorga ch'egli era stato quelli ch'avea ordinato e fatto morire il re Andreas chiamando l'uno l'altro traditore di santa Chiesa, levandosi ciascuno da sedere per offendersi insieme; e fatto l'avrebbono, che ciascuno era guernito d'arme da offendere privatamente, se non fossono quelli ch'entrarono in mezzo, onde tutta la corte ne fu scompigliata e in arme, e cortigiani e·lle famiglie de' cardinali. E ciascuno di detti due cardinali abarraro le loro case e livree, e stettono armati e in guardia buona pezza, se non che 'l papa e gli altri cardinali gli riconciliarono insieme, rimanendo ciascuno con mala voglia. A tale stato venne il collegio dell'apostolica nostra santa Eclesia per le disensioni di suoi cardinali. Di ciò è gran cagione e colpa di papi ch'hanno eletti a cardinali i detti due grandi e possenti Galli e simiglianti, e questo è l'esempro ci danno a·nnoi laici, e seguono bene a contrario l'umiltà di santi apostoli di Cristo, il cui ordine rapresentano. Iddio gli adirizzi nella sua santa via d'umilità, a riposo e stato di santa Chiesa. Per le dette disensioni non lasciò il papa di procedere in prima di fare nuovi processi contro al Bavero e il figliuolo, e chi loro desse aiuto o favore, e privandoli d'ogni titolo d'imperio, con molti altri articoli; e·lla detta sentenzia fece piuvicare in corte, e poi mandare per tutto il Cristianesimo, per potere meglio fornire la sua intenzione. E questo fu ben fatto, ché 'l Bavero era persegutore di santa Chiesa, come adietro ne' suoi processi facemmo menzione: e poi di far fare col suo favore la lezione dello 'mperio nella persona del detto meser Carlo. E perché l'arcivescovo di Maganza, ch'era l'uno de' lettori, nogli volea dare la sua boce, sì 'l dispuose il papa, ed elessene un altro a sua petizione, e questo fu della rinforzata. E partito il detto meser Carlo di corte colla benedizione del papa e con sua dispensagione, che nonistante che·lla lezione si dovesse per consueto fare a Midelborgo in Alamagna, e·lla prima corona prendere ad Asia la Cappella colle solennità usate, ch'elli le potesse fare ove a·llui piacesse, perché il Bavero né 'l suo figliuolo colla potenza delli Alamani, che i più o quasi tutti tenieno co·lloro, nol potesse contastare. E giunto lui in suo paese, a dì XI di luglio MCCCXLVI apo... fu eletto il detto Carlo a re de' Romani per l'arcivescovo di Cologna e per quello di Trievi suoi congiunti per parentado, e per lo nuovo eletto per lo papa arcivescovo di Maganza, e per lo duca di Sansogna, e confermato per lo re di Buem suo padre, e figliuolo che·ffu dello 'mperadore Arrigo di Luzimborgo: falligli la boce del duca di Baviera e quella del figliuolo marchese di Brandiborgo; ma per dispetto della detta elezione, per li più si chiamava lo 'mperadore de' preti. Lasceremo di questa lezione e di quello ne seguì, e torneremo a dire della guerra di Guascogna e della venuta del re d'Inghilterra in Normandia, ch'assai ne cresce grande e maravigliosa matera.
<B>LXI</B>
<I>Di certa rotta che·lla gente del re di Francia ricevettono dalla gente del re d'Inghilterra in Guascogna.</I>
Tornando a raccontare della guerra di Guascogna, essendo messere Gianni figliuolo del re di Francia intorno al castello d'Aguglione, e per lo paese, per contastare il conte d'Ervi e' suoi Inghilesi, che non scendessono verso Tolosa (il detto meser Gianni era in Guascogna con VIm cavalieri e bene Lm pedoni tra' Franceschi e di Linguadoco, Genovesi e Lombardi), del detto campo si partì il siniscalco di Giene con DCCC cavalieri e IIIIm pedoni, per prendere uno castello del nipote del cardinale della Motta presso ad Aguglione a XII leghe. Sentendo ciò l'arcidiacono d'Unforte, cui era il detto castello, andò alla Roela, dov'era il conte d'Ervi colla sua oste per gente, per soccorrere il detto castello; onde il conte li diè gente assai a cavallo e arcieri inghilesi a piè, e cavalcaro tutta la notte, e giunsono al detto castello la mattina per tempo, dì XXXI di luglio MCCCXLVI; e trovarono che·lla gente del re di Francia v'era giunta il dì dinanzi, e forte combatteano il castello, la gente del re d'Inghilterra sanza più attendere, subitamente asalirono i Franceschi, dov'ebbe aspra e dura battaglia. Alla fine furono sconfitti i Franceschi, e rimasevi preso il detto siniscalco di Gienne con molti altri gentili uomini; e molti v'ebbe di morti e presi di cavalieri da CCCC, e pedoni IIm tra morti e presi. Tornati al campo quelli di meser Gianni, quelli che scamparo della detta battaglia, messer Gianni ebbe suo consiglio, e diliberaro di combattere il castello d'Aguglione, tra per queste novelle della detta sconfitta e perch'avea novelle che 'l re d'Inghilterra era arrivato in Normandia con gran navilio e esercito di gente d'arme a cavallo e a piè. E il primo dì d'agosto con tutta sua gente fece dare battaglia intorno intorno al castello d'Aguglione dalla mattina alla sera; quelli del castello, che v'avea dentro assai buon gente d'arme gentili uomini da CCCC, e sergenti guasconi e inghilesi da VIIIc, si difesono francamente. E alla ritratta la sera di Franceschi, quelli del castello uscirono fuori vigorosamente faccendo danno assai a' loro nimici, e uccisonne da DCC, ma più ne fedirono della gente di meser Gianni ch'erano al di fuori, e rimase la terra fornita per VI mesi. Sentendo ciò meser Gianni, e veggendo che per battaglia nol potea prendere, fece ritrarre sua oste adietro; e mandò al papa pregandolo l'asolvesse del saramento ch'avea fatto del non partirsi se non avesse il castello, ed ebbe l'asoluzione dal papa. E diliberò d'andare colla maggiore parte di sua gente in Francia a soccorrere il re suo padre, che·nn'avea grande bisogno, come diremo apresso nel seguente a questo altro capitolo, e fece mettere fuoco nel suo campo, con gran danno di sua gente inferma e di loro arnesi; e lasciate fornite le frontiere, con sua gente ne venne verso Parigi. Partito meser Gianni di Guascogna, il conte d'Ervi prese molte ville e castella. Lasceremo alquanto de' suoi andamenti, e diremo d'una battaglia che·ffu in que' dì dal vescovo di Legge a' suoi cittadini, ritornando poi a racontare la guerra e battaglie dal re di Francia a quello d'Inghilterra e di loro gente, che furono grandi cose e maravigliose, onde assai ne cresce matera.
<B>LXII</B>
<I>Come il vescovo di Legge con sua gente furono sconfitti da quelli della città di Legge.</I>
Nel detto anno MCCCXLVI, a dì XXV di luglio, il giorno di santo Iacopo, avendo grande discordia dal vescovo di Legge ch'era... al suo capitolo di calonaci e borgesi di Legge, ciascuna parte fece sua ragunata di gente d'arme. E col vescovo fu della gente di meser Carlo eletto re de' Romani, e chi disse vi fu in persona, ch'andava con sua gente a Parigi in servigio del re di Francia, che n'avea gran bisogno; e fuvi il sire di Falcamonte e più altri baroni di Valdireno. E con quelli di Legge simigliantemente avea di baroni del paese, e fuvi inn-arme co·lloro la moglie del Bavero e il figliuolo ch'andavano inn-Analdo, che·lle succedea per la morte del conte suo padre. E fuori della città di Legge fu tra·lloro gran battaglia, tutta non fosse campale né ordinata; e·ffu in quella sconfitto il vescovo e sua gente, e morìvi il sire di Falcamonte, e più altri gentili uomini e de' calonaci, e dell'una parte e dell'altra. Il Vescovo si fuggì con sua gente a Dinante. Lasceremo a dire più di questa guerra, e torneremo a dire come il re d'Inghilterra passò in Normandia sopra il re di Francia, ch'assai ne cresce matera di scrivere.
<B>LXIII</B>
<I>Come il re d'Inghilterra passò con sua oste in Normandia, e quello vi fece.</I>
Nel detto anno MCCCXLVI, avendo il re Aduardo ragunato suo navilio di DC navi a l'isoletta d'Uiche inn-Inghilterra, colla sua gente in quantità di IImD cavalieri e da XXXm sergenti e arcieri a piè per passare nel reame di Francia, udita la messa solennemente, e comunicatosi co' suoi baroni, e a·lloro fatta una bella diceria, com'elli con giusta causa andava sopra il re di Francia che·lli ocupava la Guascogna a torto, e·lla contea di Ponti per la dote della madre, e per frode gli tenea Normandia, come lungamente adietro facemmo menzione al tempo del bisavolo del padre re Ricciardo d'Inghilterra, e del re Filippo il Bornio re di Francia, quando tornaro d'oltremare gli anni Domini intorno MCC; e ancora proponendo a sua gente com'avea nel reame di Francia più ragione per la successione della reina Isabella sua madre figliuola del re Filippo il Bello, che non avea il re Filippo di Valos figliuolo di meser Carlo fratello secondo che·ffu del re Filippo il Bello che·lla possedea, che non era della diritta linea, ma per collaterale; pregando sua gente che fossono franchi uomini, però ch'elli avea intenzione di rimandare adietro il navile, come fosse arrivato nel reame di Francia, sicch'a·lloro bisognava d'esere valorosi e d'aquistare terra colla spada in mano o d'essere tutti morti, che 'l fuggire non avrebbe luogo; pregando chi dubitasse o temesse di passare rimanesse inn Inghilterra colla sua buona grazia; tutti rispuosono a grido a una boce che 'l seguirebbono come loro caro signore di buona voglia fino alla morte. E·llo re veggendo sua gente ben disposti alla guerra, dando sue lettere chiuse alli amiragli delle navi, se caso avenisse che per forza di vento si partissono dallo stuolo, per le qua' lettere contava dove volea arrivare, e comandò non l'aprissono, se non quando s'apressassono a terra. E così si partì a dì X di luglio; e navicando più giorni, quando adietro e quando inanzi, come gli portava la marea del fiotto, arrivò sano e salvo con tutto suo navile e genti a Biafiore in Normandia a dì XX di luglio. E come la sua gente fu smontata co·lloro armi e cavalli e arnesi e vettuaglia recata co·lloro, rimandò la maggiore parte del navile adietro inn-Inghilterra; ed elli con sua oste cominciò a correre la Normandia, rubando e ardendo e dibruciando chi nol volea ubidire e darli mercato di vittuaglia; e in pochi dì gli s'arendéo la città di Sallu e Gostanza e Gostantino e Balliuolo terre di Normandia, e ricomperarsi da·llui, perché no·lli guastasse. La terra di Camo gli fece risistenza per lo castello che v'era forte del re di Francia, ed eravi venuto il conte di Du, cioè il conestabole di Francia, con gran gente d'arme a cavallo e a piè; la quale terra di Camo combatté più dì; alla fine per forza combattendo, sconfisse il detto conistabile e sua gente alquanto fuori della terra. Avuta la vittoria del detto conestabile e di sua gente, incontanente ebbe e prese la terra di Camo, che non era guari forte salvo il castello. E prese alla battaglia il detto conestabole, e·ll'arcivescovo di Tervana, e 'l camarlingo di Mollu, e più altri cavalieri e baroni in quantità di LXXXVI, e morìvi assai gente in quantità di Vm; e rubata la terra, che bene XLm panni ebbe tra di Camo e dell'altre ville dette, e' fece mettere fuoco in Camo, perch'avea fatta risistenza, e arsene assai; e' prigioni ne mandò presi inn-Inghilterra colla preda presa. E così cominciò la fortuna del franco Aduardo d'Inghilterra, e adirizzò sua oste verso Rueme, crescendoli ogni dì gente d'Inghilterra, che tutto dì vi passavano di volontà per guadagnare, e seguendolo molti Normandi, gentili uomini e altri, che non amavano la signoria di Francia, sicché si trovò con IIIIm cavalieri buona gente, e più di Lm sergenti a piè co' Normandi, che i XXXm erano arcieri inghilesi.
<B>LXIV</B>
<I>Come 'l re d'Inghilterra si partì di Normandia e venne presso di Parigi ardendo, e guastando il paese.</I>
Sentendo il re di Francia come il re d'Inghilterra era arrivato in Normandia, e prese le sopradette terre e 'l suo conestabole e di sua gente, incontanente si partì di Parigi con quanta gente potéo raunare a·ccavallo e a piè, per andare a soccorrere Ruem in Normandia che non si rubellasse, sentendo che certi di baroni del paese ribelli del re di Francia ne tenieno trattato col re d'Inghilterra e con quelli della città di Ruem; e posesi a campo il re di Francia al ponte ad Arce sopra il fiume della Senna, e quello fece tagliare, e tutti gli altri ponti ch'erano sopra Senna, acciò che 'l re d'Inghilterra e sua gente non potesse di qua passare; e fornì Ruem di sua gente a·ccavallo e a piede; e lasciò, quando si partì di Parigi, al suo proposto di Parigi che facesse disfare le case ch'erano di fuori e dentro di costa le mura di Parigi, per afforzare la città. Per la qual cosa i cittadini di cui erano le case cominciarono a·llevare romore, onde la terra fu tutta scompigliata e sotto l'arme, e in pericolo di rubellarsi al re, se non fosse che in quelli giorni giunsono in Parigi il re Giovanni di Buem e Carlo suo figliuolo eletto re de' Romani con D cavalieri rimasi loro della rotta del vescovo di Legge, come dicemmo adietro. Costoro rifrancarono Parigi, e feciono aquetare il romore, e rimanere la detta disfazione delle case per contentare i borgesi di Parigi. Lo re d'Inghilterra ch'era acampato con sua oste di là da Ruem tre leghe; e·llà venuti due cardinali legati del papa, messer Anibaldo da Ceccano e messer Piero di Chiermonte, i quali cardinali mandava il papa per fare accordo tra·llui e·rre di Francia, volendo che·ssi rimettesse nel papa ogni quistione; il re Aduardo d'Inghilterra non fidandosi del papa, no·lli volle udire dell'accordo, e per più riprese si ruppe da' trattati de' detti legati, perch'a·llui parea che 'l papa favoreggiasse troppo la parte del re di Francia; anzi furono d'alquante loro cose rubati dall'Inghilesi; ma il re Aduardo gli fece ristituire, e donò loro del suo assai per amenda, e così si tornaro verso Parigi. Lo re Aduardo perduta la speranza d'avere la città di Ruem, ond'era in alcuno trattato, però che v'era giunto al soccorso il re di Francia con grande oste di cavalieri e popolo, si misse a venire verso Parigi di là dal fiume di Senna, ardendo e guastando il paese con molte prede e prigioni, però che 'l paese era molto popolato e ricco. E·lla vilia di nostra Donna d'agosto s'acampò a Pusci e San Germano dell'Aia e·lla sua gente scorse fino presso a Parigi a due leghe, e arsono la villa di Sancro e quella di Luvieri, e più altre ville grandi e piccole, prima rubate, e poi arse, ch'era il più bello paese e il più caro del mondo del tanto, stato più di cinque centinaia d'anni in riposo e tranquillo sanza guerra, onde fu gran dannaggio. O maladetta guerra, quanti malifici fai a disertamento de' reami e de' popoli, per punizione de' peccati delle genti!Lo re di Francia sentendo come lo re d'Inghilterra con sua oste era venuto verso Parigi, si partì dal ponte ad Arce, e vennene costeggiando la riviera di Senna, in mezzo dall'una oste all'altra verso Parigi; e giunto a Parigi, mandò a meser Carlo Grimaldi e Antone Doria di Genova, amiragli delle sue XXXIII galee, ch'erano a Rifrore in Normandia, che disarmassono, e con tutte le ciurme con balestrieri venissono a Parigi, e così feciono; e·llo re di Francia s'acampò fuori di Parigi mezza lega a San Germano di Prati, e·llà fece sua mostra, e trovossi con VIIIm buoni cavalieri e più di LXm di sergenti a piè, che più di VIm v'avea di Genovesi a balestra, tra delle galee e venuti da Genova per terra al soldo del re; intra 'l quale esercito avea, sanza il re di Francia, V re di corona; ciò era il re di Navarra suo cugino, il re di Maiolica, e il re di Buem, e 'l suo figliuolo eletto re de' Romani, e il re di Scozia; ciò fu Davit figliuolo di Ruberto di Brus rubello del re d'Inghilterra.
<B>LXV</B>
<I>Come il re d'Inghilterra si partì di Pusci per andare in Piccardia per accozzarsi co' Fiaminghi.</I>
Come il re d'Inghilterra seppe la venuta del re di Francia a Parigi, e avendo guaste le ville fra 'l fiume dell'Era e quello di Senna, e fallendo la vivanda all'oste, per non essere sopreso, com'ordinava il re di Francia, sì ordinò e fece fare uno ponte di legname e barche a Pusci in sulla Senna; e bene che fosse contastato dalla gente del re di Francia, ch'erano dall'altra riva, per forza d'arme e di suoi arcieri li sconfisse, e fece il ponte compiere; e levato il campo da Pusci e da San Germano dell'Aia, in quelli fece mettere fuoco, e con sua oste passò il fiume di Senna a dì XVI d'agosto, e venne a Pontosa, e·llà trovò risistenza di gente che v'avea mandata il re di Francia a·ccavallo e a piè, e fornito il castello; onde combatté la terra per due dì; alla fine la vinse per forza, salvo il castello; e quanta gente vi trovò mise a morte, salvo le femmine e' fanciulli, a' quali diè licenzia si partissono con ciò che·nne potessono portare, e guastò la terra, salvo i monisteri e·lle chiese. E poi seguì suo cammino per andare ad Albavilla in Ponti per ritrovarsi co' Fiammighi ch'erano usciti fuori con più di XXXm in arme, ed erano stati a Bettona, e poi presso ad Arazo a IIII leghe guastando il paese, e poi s'erano ridotti a Scrusieri inn-Artese per accozzarsi col re d'Inghilterra, com'era dato l'ordine tra·lloro, che meser Ugo d'Astighe, parente e barone del re d'Inghilterra, venne a dì XVI di luglio in Fiandra con XX navi e DC arcieri, per sollicitare i Fiamminghi a·cciò fare, i quali erano ritornati all'asedio di Bettona, e a quella diedono più battaglie e co·lloro danno di morti e di fediti. Lasciamo a dire alquanto di Fiaminghi, e torneremo a dire degli andamenti del re di Francia, che seguì il re d'Inghilterra.
<B>LXVI</B>
<I>Come il re di Francia con sua oste seguì il re d'Inghilterra.</I>
Come il re di Francia seppe la partita del re d'Inghilterra da Pontosa, si partì con sua gente da San Germano di Prati, e andonne a San Donigi per seguire il re d'Inghilterra, per combattere co·llui in campo, acciò che non distruggesse il paese, e inanzi che s'acostasse co' Fiaminghi suoi ribelli; e lasciò in Parigi alla guardia della terra, e della reina sua moglie e di più figliuoli, i borgesi possenti di Parigi, che con alcuna altra gente d'arme di suo ostiere e famiglia furono MCC uomini a cavallo. E mandò di sua gente inanzi in Piccardia, che togliessono i passi e gli andamenti al re d'Inghilterra e·lla vittuaglia, e tagliassono i ponti alle riviere, e stare sue genti d'arme a guardare i detti passi e riviere; e il re di Francia con suo esercito n'andò ad Albavilla in Ponti, e così fu fatto. Per la qual cosa il re d'Inghilterra fu a gran pericolo con sua oste, e a gran soffratta di vittuaglia, che VIII dì stettono, che non ebbono se non poco pane né punto di vino, e vivettono di carne di loro bestiame, che·nn'avieno assai, e mangiando alcuno frutto e bevendo acqua, ed ebbono grande difetto di calzamento; e non potendo andare ad Albavilla pe' passi che gli erano tolti, e fatte le tagliate inanzi. Il re d'Inghilterra prese partito d'andare verso Fiandra, ma i Franceschi e' Piccardi gli furono apetto alla riviera di Somma, ch'elli avea a passare. Ma per sollicitudine cercò un altro passo in un altro luogo, dove la riviera facea un gran marese che fiottava, ma avea sodo fondo, che·lli fu insegnato, dove mai non era veduto passare cavallo; e·llà, ritratto il fiotto, passò in una notte con tutta sua gente salvamente, lasciando parte delle sue tende e fuochi accesi ov'era stato acampato, per mostrare la notte a' nimici ch'ancora vi fosse a campo. E come fu passato, la mattina per tempo andò asalire parte di suoi nimici che·ll'avieno contastato il passo, che v'erano assai presso accampati, e non si prendeano guardia, credendo non avessono potuto passare la riviera di Somma, e missegli inn-isconfitta, onde furono tutti morti e presi; che furono tra a·ccavallo e a piè parecchi migliaia. Apresso seguiro loro cammino affamati con grandi disagi, e andarono il venerdì XXV d'agosto tra 'l dì e·lla notte bene XII leghe piccarde, sanza riposare, con grande affanno e fame, e arrivarono presso Amiensa a VI leghe a uno luogo e borgo di costa a uno bosco che·ssi chiama Crescì. E avendo a passare una piccola riviera, ma era profonda, convenne passassono uno o a due insieme, tanto ch'uscissono del passo, che non aveano contasto: e sentendo che 'l re di Francia gli seguitava, sì s'acamparono in quello luogo fuori della villa di Crescì in su uno colletto tra Crescì e Albavilla in Ponti; e per afforzarsi, sentendosi troppo men gente che' Franceschi, e per loro sicurtà, chiusono l'oste di carri, che·nn'aveano assai di loro e del paese, e·llasciarvi una entrata, con intenzione, e non potendo schifare la battaglia, disposti di combattere e di volere anzi morire in battaglia che morire di fame, che·lla fuga non avea luogo. E ordinò il re d'Inghilterra i suoi arcieri, che·nn'avea gran quantità su per le carra, e tali di sotto e con bombarde che saettavano pallottole di ferro con fuoco, per impaurire e disertare i cavalli di Franceschi. E della sua cavalleria il dì apresso fece dentro al carrino III schiere; della prima fu capitano il figliuolo del re della seconda il conte di Rondello, della terza il re d'Inghilterra; e chi era a·ccavallo isciese a piè co' cavalli a destro per prendere lena e confortarsi di mangiare e di bere.
<B>LXVII</B>
<I>D'una grande e sventurata sconfitta ch'ebbe il re Filippo di Francia con sua gente dal re Adoardo il terzo re d'Inghilterra a Crescì in Piccardia.</I>
Lo re Filippo di Valos re di Francia, il quale con suo esercito seguia il re Aduardo d'Inghilterra e sua gente, sentendo come s'era acampato presso di Crescì e aspettava la battaglia, si andò in verso lui francamente credendolo avere sopreso, come straccato e vinto per lo disagio e fame soferta in cammino. E sentendosi di tre tanti di buona gente d'arme a cavallo, però che 'l re di Francia avea bene da XIIm cavalieri, e sergenti a piè quasi innumerabili, ove il re d'Inghilterra non avea IIIIm cavalieri, e da XXXm arcieri inghilesi e gualesi, e alquanti con acce gualesi e lance corte; e venuto presso al campo dell'Inghilesi quanto un corso di cavallo potesse trarre, uno sabato dopo nona, a dì XXVI d'agosto, anni MCCCXLVI, il re di Francia fece fare alla sua gente III schiere a·lloro guisa, dette battaglie; nella prima avea bene VIm balestrieri genovesi e altri italiani, la quale guidava meser Carlo Grimaldi e Anton Doria, e co' detti balestrieri era il re Giovanni di Buem, e meser Carlo suo figliuolo eletto re de' Romani, con più altri baroni e cavalieri in quantità di IIIm a·ccavallo. L'altra battaglia guidava Carlo conte di Lanzone fratello del re di Francia con più conti e baroni in quantità di IIIIm cavalieri e sergenti a piè assai. La terza battaglia guidava il re di Francia, in sua compagnia gli altri re nomati e conti e baroni, con tutto il rimanente del suo esercito, ch'erano innumerabile gente a·ccavallo e a piè. Inanzi che·lla battaglia si cominciasse, aparvono sopra le dette osti due grandi corbi gridando e gracchiando; e poi piovve una piccola acqua; e ristata, si cominciò la battaglia. La prima schiera co' balestrieri genovesi si strinsono al carrino del re d'Inghilterra e cominciaro a saettare co·lloro verrettoni; ma furono ben tosto rimbeccati, che 'n su carri e sotto i carri alla coverta di sargane e di drappi che·lli guarentieno da' quadrelli, e nelle battaglie del re d'Inghilterra, ch'erano dentro al carrino nelle battaglie ordinate e schiere di cavalieri, avea XXXm arcieri, come detto è, tra Inghilesi e Gualesi, che quando i Genovesi saettavano uno quadrello di balestro, quelli saettavano III saette co·lloro archi, che parea inn aria uno nuvolo, e non cadieno invano sanza fedire genti e cavalli, sanza i colpi delle bombarde, che facieno sì grande timolto e romore, che parea che Iddio tonasse, con grande uccisione di gente e sfondamento di cavalli. Ma quello che peggio fece all'oste de' Franceschi sì fu, che essendo il luogo stretto da combattere quant'era l'aperta del carrino del re d'Inghilterra, e percotendo e pignendo la seconda battaglia del conte di Lanzone, strinsono sì i balestrieri genovesi a' carri, che non si potieno reggere né saettare co' loro balestri, essendo al continuo al di sopra da quelli ch'erano in sulle carrette fediti di saette degli arcieri e dalle bombarde, onde molti ne furono fediti e morti. Per la qual cagione i detti balestrieri non potendo sostenere, essendo affoltati e ristretti al carrino da' loro cavalieri medesimi per modo che si misono in volta, i cavalieri franceschi e·lloro sergenti veggendoli fuggire, credettono gli avessono traditi; ellino medesimi gli uccidieno, che pochi ne scamparo. Veggendo Aduardo quarto figliuolo del re d'Inghilterra prenze di Gales che guidava la prima battaglia de' suoi cavalieri, ch'erano da M, e da VIm arcieri gualesi, mettere in volta la prima schiera di balestrieri del re di Francia, montarono a·ccavallo e uscirono del carrino, e assalirono la cavalleria del re di Francia, ov'era il re di Buem e 'l figliuolo colla prima schiera, e il conte di Lanzone fratello del re di Francia, il conte di Fiandra, il conte di Brois, il conte d'Iricorte, messer Gianni d'Analdo e più altri conti e gran signori. Quivi fu la battaglia aspra e dura, però che apresso lui il seguì la seconda battaglia del re d'Inghilterra, la quale guidava il conte di Rondello, e al tutto misono in volta la prima e seconda battaglia di Franceschi, e massimamente per la fuggita de' Genovesi. E in quello stormo rimasero morti il re di Buem e 'l conte di Lanzone, con più conti e baroni e cavalieri e sergenti molti. E·llo re di Francia veggendo volgere la sua gente, colla sua terza battaglia e con tutto il rimanente di sua gente percosse alle schiere dell'Inghilesi, e di sua persona fece maraviglie in arme, tanto fece ritrarre gl'Inghilesi al carrino; e sarebbono stati rotti, se non fosse il ritegno del re Aduardo colla sua terza battaglia, ch'uscì fuori del carrino per un'altra aperta che fece fare al suo carreggio per uscire adosso a' nimici al di dietro, e per essere al socorso di suoi, francamente asalendo i nimici, feggendo per costa, e co' suoi Gualesi e Inghilesi a piè coll'arcora e lance gualesi, e solo intendeano a sventrare i cavalli. Ma quello che più confuse i Franceschi fu che per la moltitudine della loro gente, ch'era tanta a·ccavallo e a piè, e non intendieno se non a pignere e a urtare co·lloro cavalli, credendo rompere gl'Inghilesi, ch'ellino medesimi s'afollarono l'uno sopra l'altro al modo che divenne loro a Coltrai co' Fiaminghi, e spezialmente gl'impediro i Genovesi morti, che·nn'era coperta la terra della prima rotta battaglia, e' cavalli afollati morti e caduti, che tutto il campo n'era coperto, e fediti delle bombarde e saette, che non v'ebbe cavallo di Franceschi, che non fosse fedito, e innumerabili morti. La dolorosa battaglia durò da anzi vespro a due ore infra·lla notte. Alla fine non potendo più durare i Franceschi si misero in fugga, e il re di Francia si fuggì la notte ad Amiensa fedito, coll'arcivescovo di Rens, e col vescovo d'Amiensa, e col conte d'Alzurro, e col figliuolo del cancelliere di Francia con da LX a cavallo sotto il pennone del Dalfino di Vienna; però che tutte le sue bandiere e insegne reali erano rimase al campo abattute. E fuggendo le brigate la notte a·ccavallo e a piè, da' paesani di loro parte medesima erano rubati e morti; e per questo modo ne perirono assai sanz'altra caccia. La domenica mattina seguente, essendo della gente del re di Francia fuggiti la notte, e ridottisi ivi presso ov'era stata la battaglia in su uno poggetto presso al bosco in quantità di VIIIm a cavallo e a piè, intra gli altri v'era meser Carlo eletto imperadore scampato della prima rotta, e ivi afrontatisi, non sapiendo ove fuggire, il re d'Inghilterra vi mandò il conte di Vervich e quello di Norentona con gente a cavallo e a piè assai, e assalendo quelli, come gente sconfitta, poco ressono, e fuggendo, molti ne furono presi e morti, e 'l detto meser Carlo con tre fedite si fuggì alla badia da Riscampo, ov'erano i cardinali. E·lla domenica mattina medesima giunse il duca dello Renno nipote del re di Francia in sul campo, che venia suo aiuto con IIIm cavalieri e IIIIm pedoni di suo paese, essendo ignorante della battaglia e sconfitta della notte, chi·ss'avesse vinto; veggendo quella gente de·rre di Francia che detto avemo, che per paura tenieno schierati al poggetto, si diè e percosse tra l'Inghilesi; ma tosto fu rotto, e rimasevi morto con da C de' suoi cavalieri, ma·lla maggiore parte di quelli da piè rimasero morti, e·lli altri si fuggirono. Nella detta dolorosa e sventurata battaglia per lo re di Francia si disse per li più che scrissono che vi furono presenti, quasi inn-accordo, che bene XXm uomini tra piè e a·ccavallo vi rimasono morti, e cavalli innumerabile quantità, e più di MDC tra conti e baroni e banderesi e cavalieri di paraggio, sanza gli scudieri a·ccavallo, che furono più di IIIIm, e presi altrettanti, e tutti i fuggiti fediti quasi di saette. Intra gli altri notabili signori vi rimasero morti il re Giovanni di Buem con V conti d'Alamagna ch'erano in sua compagnia, e quello di Maiolica, il conte di Lanzone fratello del re di Francia, il conte di Fiandra, il conte di Brois, il duca dello Renno, il conte di Sansurro, il conte d'Allicorte, il conte d'Albamala e 'l figliuolo, il conte di Salemmi d'Alamagna ch'era col re di Buem, messer Carlo Grimaldi e Anton Doria di Genova, e molti altri signori, che non si sa per noi i nomi di tutti. Il re Aduardo rimase in sul campo due dì, e fecevi cantare solennemente la messa del santo Spirito, ringraziando Iddio della sua vittoria, e quella di morti, e consagrare il luogo, e dare sepoltura a' morti, così a' nimici come agli amici, e' fediti trarre tra' morti e farli medicare, la minuta gente e fece dar loro danari, e mandolli via. I signori morti ritrovati fece più nobilmente sopellire ivi presso a una badia, e tra gli altri molto grande onore ed esequio fece al re di Buem, siccome a corpo di re, e per suo amore piagnendosi di sua morte elli con più suoi baroni si vestì a·nnero, e rimandò il suo corpo molto onorevolmente a mesere Carlo suo figliuolo ch'era alla badia da Riscampo, e di là lo ne portò il figliuolo a Luzimborgo. E·cciò fatto, il detto re Aduardo colla sua bene aventurosa vittoria, che poca di sua gente vi morì a comparazione di Franceschi, si partì da Crescì il terzo dì, e andonne a Mosteruolo. <I>O santus santus santus dominus deus Sabaot</I>, cioè i·llatino, santo di santi, nostro signore, Iddio dell'oste; quant'è la potenza tua in cielo e in terra, e spezialmente nelle battaglie! Che talora e bene sovente fa che·lle meno genti e potenza vincono gli grandi eserciti, per mostrare la sua potenzia, e abattere le superbie e orgogli, e pulire le peccata de' re e de' signori e de' popoli. E in questa sconfitta bene si mostrò la sua potenzia, che' Franceschi erano tre cotanti che·ll'Inghilesi. Ma non fu sanza giusta cagione, e non avenne questo pericolo al re di Francia, che intra gli altri peccati, lasciamo stare il torto fatto al re d'Inghilterra e altri suoi baroni d'occupare il loro retaggio e signorie, ma più di X anni dinanzi a papa Giovanni giurato e presa la croce, promettendo infra due anni andare oltremare a raquistare la Terrasanta, e prese le decime e susidii di tutto suo reame, faccendone guerra contro i signori cristiani ingiustamente; per la cui cagione moriro e furono schiavi di Saracini d'oltramare Ermini e altri Cm Cristiani, che per la sua speranza avieno cominciata guerra a' Saracini di Soria: e questo basti a tanto.
<B>LXVIII</B>
<I>Quello che 'l re d'Inghilterra con sua oste fece dopo la detta vittoria.</I>
Partito il re Aduardo del campo da Crescì, ove avea avuta la detta vittoria, se n'andò con sua oste a Mosteruolo, credendolsi avere, ch'era della contea e dota della madre. La terra era ben guernita per lo re di Francia e di molti Franceschi rifuggiti dalla sconfitta; sì·ssi difese, e no·lla poté avere: guastolla intorno, e poi n'andò a Bologna sor la mere, e fece il somigliante. Poi ne venne a Guizzante, e perché nonn-era murato, il rubò tutto, e poi vi missero fuoco, e tutta la villa guastaro. E poi ne vennero a Calese, e quello era murato e aforzato, e diedonvi più battaglie. E non potendolo avere, vi si puose ad assedio per terra e per mare, e fecevi una bastita di fuori com'una buona terra aforzata e aconcia da vernarvi, e ivi con sua oste istette all'assedio lungamente, come inanzi faremo menzione; e in ciò misse ogni suo podere per aquistarlo, per avere porto forte e ridotto di qua da mare in su·rreame di Francia. E in questa stanza venne al re d'Inghilterra la madre e·lla moglie con due sue sirocchie e·lla figliuola, e poi il conte d'Ervi con molto navilio e gente d'arme e rinfrescamento di vittuaglia ed ogni guernimento da oste. In questa stanza i due legati cardinali con altri baroni di Francia e d'Inghilterra furo più volte presso di Calese a parlamentare di pace; non vi poté avere accordo. Ancora stando il re d'Inghilterra al detto assedio di Calese, avendo d'accordo promessa la figliuola per moglie al giovane conte di Fiandra, e doveasi allegare co·llui; ma per sodducimento e trattato del re di Francia e per onta rimprocciatali, che 'l padre era stato morto essendo col re di Francia alla battaglia di Crescì, come adietro facemmo menzione, sì·ssi partì dal re d'Inghilterra di nascoso, e vennesene al re di Francia, e tolse per moglie la figliuola del duca di Brabante; e 'l detto duca si partì dalla lega del re d'Inghilterra e allegossi col re di Francia e imparentossi co·llui: e diede il duca al suo maggiore figliuolo la figliuola di meser Gianni figliuolo del re di Francia, e all'altro figliuolo la figliuola del duca di Borbona della casa di Francia; e 'l detto duca di Brabante data per moglie la seconda figliuola al duca di Ghelleri nipote del re d'Inghilterra figliuolo della sirocchia, avendo prima tolta e sposata la figliuola del marchese di Giullieri. Tutte queste rivolture e leghe fece fare il re di Francia contro al re d'Inghilterra per danari, onde il duca di Brabante fu molto ripreso; ma però il re d'Inghilterra non lasciò sua impresa e asedio di Calese. E meser Gianni figliuolo del re di Francia, col duca d'Atene e con altri baroni e grande cavalleria e sergenti a piè in grande quantità, stavano in Bologna sor la mere e d'intorno a fare al continuo guerra guerriata al re d'Inghilterra e a·ssua oste, e per mare con galee e altro navile, per fornire Calese; ove ebbe più assalti e badalucchi e scontrazzi, quando a danno dell'una parte e quando dell'altra, che lungamente sarebbe a racontare. E dall'altra parte il re di Francia fece un'altra oste; e fece porre l'assedio a Casella in Fiandra, acciò che' Fiamminghi non potessono venire in aiuto e accozzarsi a Calese col re d'Inghilterra, onde i Fiaminghi per comune, fatto con ordine del re d'Inghilterra loro capitano e guidatore il marchese di Giulieri, vennero verso Casella per combattersi co' Franceschi, i quali rifusaro la battaglia, e partirsi dall'asedio di Casella, e andarsene a Santo Mieri. Lasceremo alquanto de' processi della detta guerra de' due re insino ch'arà altra riuscita, e diremo di nostri fatti di Firenze e d'altre novità che furono ne' detti tempi.
<B>LXIX</B>
<I>Come Luigi il giovane, che tiene la Cicilia, riebbe Melazzo, e trattò di fare parentado e lega col re d'Ungheria.</I>
A dì V d'agosto, l'anno MCCCXLVI, Luigi il giovane, figliuolo che fu di don Piero figliuolo di don Federigo, che possiede l'isola di Cicilia, sentendosi per lo suo balio e zio don Guiglielmo, valente uomo d'arme, e per li Ciciliani, la discordia ch'era nel regno di Puglia rede del re Carlo e Ruberto, per la morte del giovane re Andreas, onde adietro è fatta menzione, si puosono assedio alla terra di Melazzo in Cicilia, che·ssi tenea per li detti reali, per mare e per terra, e stettonvi più tempo all'assedio, però che·ll'era molto forte e bene guernita di gente e di vittuaglia. Ma i capitani che v'erano alla guardia, per le dette discordie de' reali del Regno non poteno avere le loro paghe per loro e per la gente v'avieno alla guardia, e veggendo non poteno avere né soccorso né rinfrescamento del Regno, cercaro loro concordia co' Ciciliani, e per danari che n'ebbono rendero la terra detto dì. E nel detto mese essendo venuti in Cicilia ambasciadori del re d'Ungheria per contrario de' detti reali del Regno per trattare lega e compagnia col detto Luigi il giovane che tenea la Cicilia, e adomandaro XXX galee al soldo del detto re d'Ungheria al suo passaggio nel Regno. Guiglielmo zio del detto giovane Luigi, che·ssi facea chiamare duca d'Atene, ed era balìo del detto Luigi, e governatore dell'isola di Cicilia, si trattarono e ragionarono di fare parentado che il detto Luigi, torrebbe per moglie la sirocchia del detto re d'Ungheria, e promise di darli aiuto, quando volesse passare nel Regno, di XL galee armate al soldo del detto Luigi; e mandò in Ungheria suoi ambasciadori in su una galea armata per confermare la detta lega e matrimonio. Ma venuti in Ungheria gli ambasciadori di quello di Cicilia, dimandavano di rimanere libero re di Cicilia, e dimandavano Reggio in Calavra e altre terre che vi tenea l'avolo suo don Federigo; la qual domanda il re d'Ungheria non accettò, ma sarebbe condisceso a lasciarli l'isola, rispondendogli certo censo, e rimanendo a quello d'Ungheria il risorto e·ll'apello come sovrano, e il titolo del reame. A·cciò non s'accordarono quelli di Cicilia, e rimase il trattato, e poi il tennero co' reali di Puglia. Il fine a·cche ne vennero si dirà inanzi a tempo e luogo, quando saremo sopra la detta matera.
<B>LXX</B>
<I>Come certe galee di Genova passaro nel mare Maggiore, e presono Sinopia e·ll'isola del Silo.</I>
Nel detto anno e tempo si partirono di Genova XL galee armate e andarono in Romania per fare vendetta del cerabi signore di Turchi del mare Maggiore, per lo tradimento e danno ch'elli avea fatto a' Genovesi, come in alcuna parte adietro facemmo menzione; e presono la terra di Sinopia, e quella rubaro e guastaro, e corsono il paese, e recarne molta roba e mercatantia di Turchi; e 'l simile feciono all'isola del Silo in Arcipelago di Romania, e quella presono e sonne signori, e tolsolla a' Greci, ove nasce la mastica, la quale è di grande frutto e rendita. Lasceremo a dire delle novità delli strani, e torneremo a dire di nostri fatti di Firenze e d'altre parti d'Italia.
<B>LXXI</B>
<I>Di certe novità che furono in questi tempi nel Regno.</I>
Nel detto anno, a dì VIII d'ottobre, passò per Firenze il cardinale d'Onbruno legato del papa, ch'andava nel Regno per recarsi in sua guardia per la Chiesa il detto Regno, per le discordie de' reali per la morte del re Andreas; da' Fiorentini gli fu fatto grande onore. Andato lui nel Regno, male vi fu veduto da quelli reali e per la reina, e peggio vi fu ubidito, e 'l paese tutto scommosso quasi in rubellione; e rubellossi l'Aquila per uno ser Ralli cittadino di quella col suo séguito, e coll'aiuto e favore di meser Ugolino de' Trinci signore di Fuligno, e più altre terre d'Abruzzi a petizione del re d'Ungheria, e 'l paese tutto corrotto a rubare i Comuni, e chi più potea. Il legato colla reina feciono più signori per giustizieri, ma poco furono ubiditi e temuti. Il legato veggendo così corrotto il paese, se n'andò a dimorare a Benevento, e poco era tenuto a capitale.
<B>LXXII</B>
<I>Di certi ordini si feciono in Firenze, che niuno forestiere non potesse avere ufici di Comune, e come si compié il ponte a Santa Trinita.</I>
Nel detto anno, a dì XVIIII d'ottobre, si fece ordine e dicreto in Firenze che nullo forestiere fatto cittadino, il quale il padre e·ll'avolo ed elli non fossono nati in Firenze o nel contado, non potesse essere uficiale o avere alcuno uficio, nonistante che fosse eletto o insaccato, sotto certa grande pena. E questo si fece per molti artefici minuti veniticci delle terre d'intorno, sotto titolo di reggenti delle XXI capitudini dell'arti; erano insaccati priori e altri assai ufici. Ed era il loro un gran fastidio, che con maggiore audacia e prosunzione usavano il loro maestrato e signoria, che non facieno gli antichi originali cittadini. Ben fu questa motiva opera di capitani di parte guelfa e di loro consiglio, che parea loro vi si mischiassono di Ghibellini, e per afiebolire il reggimento delle XXI capitudini dell'arti che reggevano la città; e fu quasi uno cominciamento di rivolgimento di stato per le sequele che ne seguirono apresso, come inanzi ne faremo menzione. Nel detto anno, a dì IIII d'ottobre, si serrò l'arco di mezzo del ponte da Santa Trinita con III pile e archi; molto bene fondato e ricco lavorio, e costò da XXm fiorini d'oro, e fecevisi in su una pila una bella cappella di San Michele Agnolo.
<B>LXXIII</B>
<I>D'uno grande caro che fu in Firenze e d'intorno e in più parti.</I>
Nel detto anno MCCCXLVI, cominciandosi la cagione d'ottobre e di novembre MCCCXLV, al tempo della sementa furono soperchie piove, sicché corruppono la sementa, e poi l'aprile e 'l maggio e giugno vegnente MCCCXLVI non finò di piovere, e talora tempeste, onde per simile modo si perdé la sementa delle biade, e·lle seminate si guastarono; e·cciò avenne quasi in più parti di Toscana e d'Italia, e in Proenza, e Borgogna, e Francia (onde nacque grande fame e caro ne' detti paesi), ed a Genova, e a Vignone in Proenza, ov'era il papa colla corte di Roma. E·cciò avenne, secondo dissono gli astrolagi e maestri in natura, per la congiunzione passata di Saturno e di Giove e di Marti nel segno dell'Aquario, come adietro è per noi fatta menzione. Onde avenne che già sono più di cento anni passati non fu sì pessima ricolta in questo paese di grano e biada, di vino e d'olio e di tutte cose, come fu in questo anno. E 'l vino valse di vendemmia il comunale da fiorini VI in VIII il cogno, e quasi non rimasono colombi e polli per difetto d'esca, e valea il paio di capponi fiorini uno d'oro e libre IIII, e non se ne trovavano; e' pollastri per Pasqua soldi XII il paio, e' pippioni soldi X, e·ll'uovo danari IIII o V danari, e non se ne trovavano; e·ll'olio montò in libre VIII l'orcio. Per difetto di ciò la carne di castrone e di bue grosso e di porco montò in danari XX in soldi II la libra, e quella della vitella in soldi II e mezzo in soldi III la libra, e fu gran caro di frutte e di camangiare; e tutto ciò fu per la cagione sopradetta. Per la qual cosa, avegna che per li tempi passati alcuni anni fosse caro, pure si trovava della vittuaglia in alcuna contrada; ma questo anno quasi non se ne trovava, imperciò che·lle terre non rispuosono al quarto, né tali al sesto del dovuto e usato tempo. E valse di ricolta lo staio del grano presso a soldi XXX, montando ogni dì; e inanzi che fosse l'altra ricolta, o calen di maggio MCCCXLVII, montò a fiorino uno d'oro lo staio; e·llo staio dell'orzo e delle fave in soldi L lo staio, e·ll'altre biade all'avenante; ella crusca in soldi XI lo staio e più, che non se ne trovava per danaio; e sarebbe il popolo morto di fame, se non fosse la larga e buona provedenza fatta per lo Comune, come diremo apresso. E·ffu sì grande la nicissità, che·lle più delle famiglie di contadini abandonarono i poderi, e rubavano per la fame l'uno all'altro ciò che trovavano, e molti ne vennero mendicando in Firenze, e così di forestieri d'intorno, ch'era una piatà a vedere e udire, e non si poteno lavorare le terre né seminare; se non che coloro cui erano, se n'avieno il podere, convenia che pascesse quelli che·lle lavoravano, e fornire di seme, e quello con grande necessità e costo. E con tutto che·ll'anno MCCCXXVIIII e del MCCCXL fosse gran caro, come adietro in que' tempi facemmo menzione, ma pure del grano e della biada si trovava in città e in contado; ma in questo anno non si trovava né grano né biada, ispezialmente in contado a più di lavoratori e contadini. Il Comune si provide e comperòne e fece mercati, con caparra di moneta con certi mercatanti genovesi e fiorentini e altri, di XLm moggia di grano di Pelago, di Cicilia, di Sardigna, e da Tunisi, e di Barberia, e di Calavra, e di IIIIm moggia d'orzo, ma non ci se ne potéo conducere per la via di Pisa in tutto che moggia XXIIm di grano, e moggia MDCC d'orzo, il quale venne costato, posto in Firenze, fiorini XI d'oro il moggio del grano, e fiorini VII il moggio dell'orzo. Ma perché non avemmo tutto quello che per lo nostro Comune fu comperato, sì fu la cagione però che i Pisani n'avieno bisogno grande di grano, e simile i Genovesi, che per forza si prendeno il grano della nostra compera giunto in Porto Pisano, tanto che si fornivano inanzi a·nnoi; e questo ci diede grande difetto, e più volte grande stretta e paura, e non ce ne potavamo atare. Di Romagna e di Maremma ne fece venire il Comune quello si potéo avere di grazia da quelli signori e Comuni, al di dietro intorno di moggia IImCC, e costò caro, da fiorini XX d'oro il moggio, ond'ebbe tra d'interesso colla spesa il Comune più di XXXm fiorini d'oro. Bene si trovò che certi ch'erano camarlinghi de' detti uficiali aveano frodato il Comune falsare per la misura e 'l peso del pane, e mischiare il grano col loglio e altre biade, onde trassono di guadagno grossa quantità, i quali furono presi e condannati in fiorini Xm d'oro a ristituzione del Comune. E nota che tutto questo è infama grande di mali cittadini e di coloro che·lli chiamano agli ufici, se colpa v'ebbono, come si disse, e confessaro per tormento. Ed era rimaso al Comune della provisione dell'anno passato da moggia MDCC di grano; sicché in tutto fu il soccorso e fornimento del Comune da XXVImD di moggia di grano e da MDCC moggia d'orzo. Al cominciamento gli uficiali del Comune faceano mettere per dì in piazza moggia LX in LXXX di grano a soldi XL lo staio; e poi montando il grano a soldi L e·ll'orzo a soldi XL lo staio; ma tutto questo non fornia per li molti contadini ch'erano ritratti nella città sanza gli altri cittadini bisognosi. Feciono gli uficiali del Comune fare in su i casolari de' Tedaldini di porta San Piero, ch'è uno grande compreso, X forni con palchi e chiuso a porte per lo Comune, ove per uomini e femmine di dì e di notte si facea pane della farina del grano del Comune sanza aburattare o trarne crusca, ch'era molto grosso e crudele a vedere e a mangiare, di peso d'once VI l'uno, che se ne facea per istaio da VIIII serque, e cocevasene il dì da LXXXV in C moggia; e poi si stribuiva la mattina a cenno della campana grossa de' priori a più chiese e canove per tutta la città, e di fuori dalle mastre porte per li contadini d'intorno presso alla città del piviere San Giovanni, e d'altri pivieri che venieno alle porti per esso, e davanne per bocca II pani per danari IIII l'uno. E soprabondò tanta gente, e che·nne volieno più che due pani per bocca, che per la calca gli uficiali non potieno cospicere; sì ordinaro di dare il pane alle famiglie per iscritte e polizze, II pani per bocca. E trovossi in mezzo aprile nel MCCCXLVII che da LXXXXIIIIm bocche erano, che n'avieno a dispensare per dì; e di questo sapemmo il vero dal mastro uficiale della piazza, che ricevea le scritte e polizze. Omai potete avisare, chi·ssa albitrare come innumerabile popolo era ritratto per la carestia in Firenze a pascersi; e nel detto numero non erano i cittadini e loro famiglie ch'erano forniti per loro vivere, e non volieno pane di Comune, o comperavano del migliore pane alle piazze o a' fornai danari VIII il pane, e tale X in XII il meglio, ché ciascuno potea fare e vendere pane sanza ordine o di peso o di pregio, e non contando i religiosi mendicanti né i poveri che viveano di limosine, ch'erano sanza numero, che di tutte le terre circustanti erano per lo caro ch'aveno acommiatati e ridotti in Firenze, ond'era una continua battaglia quella di poveri e di dì e di notte a' cittadini. E con tutto il bisogno e·lla grande nicissità del Comune e di cittadini, non si acommiatò povero niuno, né forestiere o contadino che fossero, ma al continuo pasciuti di limosine al convenevole, considerando il disordinato caro e fame; e per più ricchi e buoni e piatosi cittadini si feciono di belle e di larghe limosine, onde dovemo sperare in Dio, che non guarderà alli soperchi peccati de' cittadini, ché, come avemo detto adietro, la città nostra n'è bene fornita; ma per le limosine e pe' buoni e cari cittadini Iddio compenserà, se fia suo piacere la misericordia, come fece a quelli di Ninive, "però che·lla limosina spegne il peccato"; <I>dixit Domino</I>. Avenne come piacque a·dDio, per la festa di san Giovanni Battista MCCCXLVII, sforzandosi delle primaticce ricolte, subitamente calò il grano novello di soldi XL in XXII, e 'l vecchio del Comune in soldi XX lo staio; e·ll'orzo in soldi XI in X. Per questo sùbito calare del grano i fornai e chi facea pane a vendere innarravano il grano a gara, e subitamente il feciono rimontare in presso a soldi XXX lo staio, e feciono postura di non far pane a vendere se non con certo loro ordine, per sostenere il caro. Per la qual cosa il popolo si commosse contro a·lloro, e fu quasi la città per correre a romore e ad arme, se non che per li savi rettori s'aquetò il romore, e uno, che·nne fu cominciatore, ne fu impiccato; e 'l grano tornò al suo stato di soldi XXII lo staio. E poi in piena ricolta del mese d'agosto e di settembre si riposò da soldi XVII in XX, bene che poi rimontò per lo caro stato; che·ffu una grande consolazione al popolo per la fame passata. Ma bene lasciò, com'è usato, ancora alquanta carestia e per conseguente infermità e mortalità, come per lo 'nanzi si troverrà leggendo. Lasceremo di questa passione della carestia e fame, e diremo d'altre cose che furono in questi tempi.
<B>LXXIV</B>
<I>Come messer Luchino Visconti signore di Melano ebbe la città di Parma.</I>
Tegnendo la città di Parma i marchesi da Esti da Ferrara, che·ll'avieno comperata da meser Ghiberto da Coreggia, come in alcuno capitolo adietro facemmo menzione, messer Luchino signore di Melano al continovo la guerreggiava colle sue forze e coll'aiuto di quelli da Gonzago signori di Mantova e di Reggio, e per dispetto e contradio di meser Mastino ch'era i·llega co' detti marchesi, e quasi per lui la tenieno; essendo circundata di qua della città di Reggio, e di là da Mantova e da Piagenza e dalle terre di meser Luchino, e male poteno avere aiuto né soccorso da meser Mastino e da altri loro amici e da Ferrara sanza grande pericolo; si cercaro loro accordo con meser Luchino, al quale si diede compimento all'uscita del mese di settembre MCCCXLVI, che·ssi feciono compari di meser Luchino d'un suo figliuolo, e renderli Parma, ed ebbono da·llui LXm fiorini d'oro; e riebbono per patti il loro castello di San Filice e' loro prigioni che tenieno quelli da Gonzago, e con grande festa n'andarono con meser Luchino a Milano affare il suo figliuolo cristiano, e fermarono lega e compagnia insieme. E nota s'elli ha tra' Cristiani al suo tempo nullo re, se non se quello di Francia e quello d'Inghilterra e d'Ungheria, di tanto podere quanto mesere Luchino, che tenea del continuo più di IIIm cavalieri al soldo, e talora IIIIm e Vm e più, che non ha re tra' Cristiani che·lli tenga. E signoreggiava le 'nfrascritte XVII città colle loro castella e contadi Milano, Commo, Bergamo, Brescia, Lodi, Moncia, Piagenza, Pavia, Cremona, Cremma, Asti, Tortona, Allessandra, Noara, Vercelli, Torino, e ora Parma. Ma guardisi del proverbio che disse Marco Lombardo al conte Ugolino di Pisa, quand'era nella sua maggiore felicità e stato; come dicemmo nel suo capitolo, ch'egli era meglio disposto a ricevere la mala miccianza, e così gli avenne. E a meser Mastino signore di XI cittadi le perdé tutte, se non se Verona e Vincenza, e in quelle fu osteggiato. E però non si dee niuno groriare troppo delle filicità mondane, e spezialmente i tiranni; che la fallace fortuna come dà a·lloro co·llarga mano, così ritoglie; e questo basti a tanto, e tosto si vedrà il fine.
<B>LXXV</B>
<I>Come il conte di Fondi sconfisse la gente della reina moglie che fu del re Andreas.</I>
In questi tempi il conte di Fondi, nipote che·ffu di papa Bonifazio, a petizione del re d'Ungheria prese Terracina e il castello d'Itri presso di Gaeta per cominciare la guerra da quella parte alla reina e a' reali di Napoli, i quali vi mandarono DC cavalieri e pedoni assai del Regno, per assediare il detto castello d'Itri. Il conte fece suo sforzo di gente di Campagna, e con CC cavalieri tedeschi ch'avea furono CCCC a cavallo e gente a piè assai, e assalì la detta oste e miseli inn-isconfitta; ov'ebbe assai di presi e di morti; e·lla città di Gaeta quasi si rubellò, tegnendosi per loro medesimi, sanza rispondere a' reali o alla reina di Napoli. In questi tempi, all'entrante d'ottobre, morì a Napoli quella si facea chiamare imperadrice di Gostantipoli, figliuola che fu di meser Carlo di Valos di Francia, e moglie che·ffu del prenze di Taranto. Di questa si disse ch'ordinò colla moglie del re Andreas sua nipote la morte del detto re, e con più altri signori e baroni, come racontammo nel capitolo adietro della morte del re Andreas, per darla per moglie a meser Luigi di Taranto suo figliuolo, come fece poi, come diremo alquanto inanzi. Ed ella dopo la morte del prenze suo marito portò mal nome di sua persona, se vero fu, che palese si dicea, che infra gli altri suoi amadori tenea meser Niccola Acciaiuoli nostro cittadino per suo amico, ed ella il fece cavaliere e fecelo molto ricco e grande. Lasceremo alquanto di fatti del Regno, e torneremo a' fatti e guerra del re d'Inghilterra.
<B>LXXVI</B>
<I>Come fu sconfitto il re Davit di Scozia dagl'Inghilesi a Durem.</I>
Essendo il re Aduardo d'Inghilterra rimaso di qua da mare all'asedio di Calese, come lasciammo adietro, il re di Francia dopo la sua sconfitta tornò a Parigi, e sommosse tutto il suo reame ed i suoi amici per ragunare gente maggiore che di prima, per vendicarsi del re d'Inghilterra, e levarlo dall'asedio di Calese. E oltre a·cciò rimandò inn Iscozia Davit di Brustro re di Scozia, che·ffu co·llui alla battaglia, e diègli molti danari e gente d'arme, acciò che di Scozia venisse con sua oste inn-Inghilterra. Il quale giunto inn-Iscozia, e sapiendo che 'l re d'Inghilterra era colla sua oste dell'Inghilesi a Calese, ragunò sua oste di bene Lm uomini tra piè e a cavallo di suoi Scotti, e·lla gente gli avea data il re di Francia, e passò inn Inghilterra insino alla città di Durem, faccendo gran danno al paese di ruberia e d'arsione. Certi baroni ch'erano rimasi inn-Inghilterra alla guardia del reame, onde fu capo... e none isbigottiti perché non vi fosse il loro re, ragunarono bene XVIm uomini buona gente d'arme tra a cavallo e a piè, la più gran parte Inghilesi e Gualesi, e francamente vennero contro al re di Scozia e sua oste, ch'erano tre tanti di loro, e al valico della riviera dell'Ombro gli asaliro vigorosamente. Gli Scotti del sùbito assalto e dubitandosi che gl'Inghilesi non fossono in maggior quantità, si misero in volta e furono sconfitti, e molti Scotti vi rimasero presi e morti, e fuvi preso il loro re Davit e 'l figliuolo, e menati presi a Londra; e·cciò fu a dì XVI d'ottobre MCCCXLVI. E nota ch'ancora è, e fia sempre, che 'l nostro Idio Sabaot fa vincere e perdere le battaglie a cui gli piace, non guardando a numero e forza di gente, secondo i suoi giudici per punizione di peccati di re e de' popoli.
<B>LXXVII</B>
<I>Ancora della guerra di Guascogna.</I>
Dopo la sconfitta ch'ebbe il re di Francia dal re d'Inghilterra a Crescì, come adietro facemmo menzione, il conte d'Ervi, ch'era per lo re d'Inghilterra in Guascogna, non istette ozioso, ma più vigorosamente e con più audacia e baldanza con sua oste proccedette contro alla gente del re di Francia, cavalcando il paese; e·lla gente del re di Francia impaurita e sbigottita molto, però che se n'era partito meser Giovanni figliuolo del re di Francia con sua oste, e venuto verso Parigi per la vittoria ch'ebbe il re d'Inghilterra sopra il re di Francia a Crescì; sì·lli si arrendéo la terra di San Giovanni Angiulini, e·lla città di Pittieri, e·lLisignano, e Minorto, e Santi in Santogia, con più altre castella e ville, sanza alcuna risistenza; e quelle rubò d'ogni sustanzia, e ritennesi San Giovanni e·lLisignano e Minorto, e quelle fornì di sua gente per guerreggiare il paese; onde il paese era in gran tremore, e tutta tolosana infino a Tolosa. Fatto il conte d'Ervi il detto conquisto, fornì le terre e frontiere di gente d'arme, e tornossi inn-Inghilterra. Partito il conte d'Ervi del paese, que' di Pittieri colle loro vicinanze, sanz'altro capitano del re di Francia, feciono una cavalcata, credendosi riprendere Lisignano che facea loro una grande guerra, e furonvi isventuratamente sconfitti dal conte di Monforte, ed erano tre cotanti che·lla gente del re d'Inghilterra; e così aviene chi è in volta di fortuna. Lasceremo alquanto della guerra del re di Francia a quello d'Inghilterra, e diremo del nuovo eletto imperadore.
<B>LXXVIII</B>
<I>Come Carlo re di Buem fu confermato per lo papa e per la Chiesa a esere imperadore, e come prese la prima corona.</I>
Nel detto anno MCCCXLVI a Vignone, ov'era il papa colla corte, essendovi venuti ambasciadori di Carlo re di Buem colla sua confermagione della lezione dello 'mperio fatta di lui, come adietro facemmo menzione, il papa a priego e stanza del re di Francia, e per abattere il titolo dello 'mperio del Bavero, sì confermò a essere degno imperadore il detto Carlo con autorità di santa Chiesa, commendandolo il papa di molte virtudi in suo sermone in piuvico consistoro, ove furono tutti i cardinali vescovi e prelati ch'erano in corte, e tutti i cortigiani che vi vollono essere, promettendogli ogni aiuto e favore alla sua dignità che·ssi potesse per santa Chiesa, e dandoli licenza che·ssi potesse coronare della prima corona inn-Alamagna, ov'elli volesse, e per quale vescovo o arcivescovo ch'a·llui piacesse, nonistante il luogo consueto d'Asia la Cappella, o coronare per l'arcivescovo di Cologna; e ciò fu a dì VI di novembre gli anni MCCCXLVI. Il detto Carlo avuta dal papa la sua confermagione, sanza indugio, non potendosi coronare ad Asia la Cappella per la forza del Bavero e de' suoi amici ch'era in quello paese ragunato con forza d'arme per contastarlo, sì·ssi fece coronare a una terra che·ssi chiama Bona presso di Cologna, in forza di lui e di suoi amici, non tenendo tre dì campo in arme, come dice ed è consueto per dicreto; e·cciò fu il dì di santa Caterina, dì XXV di novembre MCCCXLVI. E pochi signori e baroni d'Alamagna furono alla sua coronazione, però che·lla maggiore parte tenieno con Lodovico di Baviera chiamato Bavero. Lasceremo alquanto delle novità di là da' monti e del nuovo imperio, infino che luogo e tempo sarà, e torneremo a dire di fatti di Firenze e di nostro paese che furono in que' tempi.
<B>LXXIX</B>
<I>Di novità fatte in Firenze per cagione degli ufici del Comune.</I>
Nel detto anno, avendosi in Firenze novelle della confermazione e prima coronazione del nuovo imperadore Carlo di Buem, come detto avemo, considerando ch'egli era nipote dello 'mperadore Arrigo di Luzimborgo, il quale fu all'asedio di Firenze, e trattocci come suoi nimici e ribelli, come ne' suoi processi al suo tempo facemmo menzione; e con tutto che 'l papa e·lla Chiesa mostri di favorallo, per quelli della parte guelfa in Firenze se n'ebbe gran sospetto. E sentendo e sapiendo che ne' bossoli, overo borse della lezione de' priori avea mischiati più Ghibellini sotto nome d'artefici delle XXI capitudini dell'arti, e d'esere buoni uomini e popolari, più consigli se ne tennero per correggere la detta lezione de' priori. Ma era tanto il podere delle capitudini dell'arti e delli artefici, e per tema di non comuovere la terra a romore e ad arme, che si rimase di non fare cerna, o toccare la lezione di priori; ma per contentare in parte i Guelfi si fece a dì XX di gennaio, dicreto e riformagione che d'allora inanzi nullo Ghibellino, il quale, elli o suo padre, suo congiunto, dal MCCCI in qua fosse stato ribello, o in terra ribella stato, o venuto contro al nostro Comune, potesse avere niuno uficio; e se fosse eletto, pena a' lettori o·llui che ricevesse fiorini M d'oro o·lla testa; e che niuno altro, il quale non fosse vero Guelfo e amatore di parte di santa Chiesa, bene ch'elli né suoi non fossono stati ribelli, non possa avere alcuno uficio, a pena di libre D e alle signorie, ove ne fosse acusato, pena libre M se nol condannasse; e·lla pruova di ciò si dovesse fare per VI testimoni di piuvica fama, aprovati i detti testimoni fossero idoni, se·ll'accusato fosse artefice, per li consoli di sua arte, e se fosse l'accusato iscioperato, i detti VI testimoni aprovati per li priori, e XII loro consiglieri; e funne condannato Ubaldino Infangati, perché accettò l'uficio di XVI sopra i sindacati de' falliti in libre D; e alcuni altri per quello uficio e altri ufici, per non esere condannati né isvergognati, non accettaro né vollono giurare i detti ufici, e altri Guelfi furono messi in quello scambio.
<B>LXXX</B>
<I>Di novità ch'ebbe in Arezzo simile per cagione degli ufici.</I>
All'entrante del mese di novembre del detto anno nella città d'Arezzo si levò romore, e furono sotto l'arme per cagione che a' Guelfi d'Arezzo, ond'erano capo i Bostoli, per potere meglio tiranneggiare i loro cittadini, dicendo che parea loro che troppi Ghibellini fossono mischiati co·lloro agli ufici e reggimento della città; e convenne si facesse la cerna, e che i Ghibellini ch'erano ne' sacchetti, overo bossoli, per essere rettori e uficiali, ne fossono tratti. E tutto questo avenne per gelosia del nuovo imperadore, onde seguì poi assai sconcio alla città d'Arezzo e a' detti della casa de' Bostoli, come si troverrà per inanzi leggendo.
<B>LXXXI</B>
<I>Come la città di Giadra inn-Ischiavonia s'arrendé a' Viniziani.</I>
Nel detto anno, il dì di santo Tommaso di dicembre, la città di Giadra inn-Ischiavonia, ove i Viniziani erano stati sì lungamente ad asedio, per difalta di vittuaglia s'arenderono al Comune di Vinegia, salve le persone e l'avere, rimanendosi sotto la signoria di Vinegia per lo modo s'erano inanzi si rubellassono. Il re d'Ungheria, a·ccui petizione e baldanza Giadra s'era rubellata, e di ragione n'era signore e sovrano, come adietro facemmo menzione, no·lli poté soccorrere per difalta e fame ch'era inn-Ischiavonia; non vi poté venire né mandare suo oste né poterla far fornire. Néd eziandio il detto re d'Ungheria non potéo seguire la sua impresa di passare in Puglia, per la carestia e fame che·ffu quasi in tutta Italia e in più parti, e maggiormente inn-Ischiavonia.
<B>LXXXII</B>
<I>Di certe novità che furono nel castello di Sa·Miniato e come si diedono alla signoria e guardia del Comune di Firenze per V anni.</I>
Nel detto anno, del mese di febraio, essendo podestà di Sa·Miniato mesere Guiglielmo delli Oricellai popolano di Firenze, volendo fare giustizia di certi malfattori i quali erano masnadieri di Malpigli e Mangiadori, le dette case co·lloro sforzo d'amici con armata mano levaro la terra a romore, e per forza tolsono i malfattori alla detta podestà, e voleno disfare gli ordini del popolo. Se non che' popolani di Sa·Miniato furono ad arme, e col sùbito soccorso delle masnade di Fiorentini ch'erano nel Valdarno di sotto, a·ccavallo e a piè vi trassono, onde il popolo si difese e guarentì, e 'l Comune di Firenze vi mandò loro ambasciadori per riformare la terra, e così feciono; per la qual cosa il popolo e Comune di Sa·Miniato, di loro buona volontà e per vivere in pace, dierono la signoria e guardia della loro terra al Comune di Firenze per V anni. E poi per fortificare il popolo di Sa·Miniato si fece, dì XIII d'ottobre MCCCXLVII, riformagione in Firenze, che' grandi di Firenze s'intendessono e fossono grandi e trattati per grandi in Sa·Miniato, acciò che non potessono fare forza e violenze a' popolani, e che i grandi di Sa·Miniato s'intendessono per grandi in Firenze. E ordinossi di raforzare la rocca e fare via chiusa di mura larga braccia XVI dalla rocca alle mura di fuori, con una porta, alle spese comuni del Comune di Firenze e di Sa·Miniato, acciò che 'l Comune di Firenze avesse spedita l'entrata ella guardia della detta rocca. E ordinossi di fare un ponte sopra il fiume de l'Elsa alle spese de' detti due Comuni, acciò che quando bisognasse, ad ogni tempo, la forza di Fiorentini potesse essere in Sa·Miniato alla loro difesa.
<B>LXXXIII</B>
<I>Di certe novità e ordini che·ssi feciono in Firenze per lo caro ch'era, e mortalità.</I>
Essendo in Firenze e d'intorno il caro grande di grano e d'ogni vittuaglia, come poco adietro avemo fatta menzione, essendone afritti i cittadini e contadini, spezialmente i poveri e impotenti, e ogni dì venia montando il caro ella difalta; e oltre a·cciò conseguente cominciata grande infermità e mortalità, il Comune provide e fece dicreto a dì XIII di marzo che niuno potesse esere preso per niuno debito di fiorini C d'oro, o da indi in giù, infino a calen di agosto vegnente, salvo all'uficiale della mercatantia da libre XXV in su, acciò che·ll'impotenti non fossono tribolati di loro debiti, avendo la passione della fame e mortalità. E oltre a·cciò feciono ordine che nessuno potesse vendere lo staio del grano più di soldi XL; e chi·nne recasse di fuori del contado di Firenze per vendere, avesse dal Comune fiorino uno d'oro del moggio; ma non si potéo osservare, che tanto montò la carestia e difalta, che·ssi vendea fiorino uno d'oro lo staio, e talora libre IIII; e se non fosse la provisione del Comune, come dicemmo adietro, il popolo moria di fame. E per la pasqua di Risoresso seguente, che·ffu in calen di aprile MCCCXLVII, il Comune fece offerta di tutti i prigioni ch'erano nelle carcere che riavessero pace da' loro nimici, e stati in prigione da calen di febraio adietro; e chiunque v'era per debito da libre C in giù, rimanendo obrigato al suo creditore; e·ffu gran bene e limosina, che per la 'nopia è·ggià cominciata la mortalità, ogni dì morivano nelle carcere due o tre prigioni; furono gli oferti in quello dì CLXXIII, che ve ne avea più di D in più in grande inopia e povertà. E poi a l'uscita di maggio per le sudette cagioni si fece riformagione per lo Comune di Firenze, che chiunque fosse nelle carcere o fosse in bando di pecunia da fiorini C d'oro in su, ne potesse uscire pagando al Comune in danari contanti soldi III per libra di quello fosse condannato o sbandito, e scontando ancora i soldi XVII per libra del debito del Comune che s'avea chi·llo volea comperare per XXVIII o XXX per C da coloro che doveano avere dal Comune, che venia la detta gabella di pagare da soldi VII e mezzo per libra. Certi gli pagaro e uscirono di bando e di prigione, ma non furo guari; tanto era povero il comune popolo di cittadini per lo caro e·ll'altre aversità occorse.
<B>LXXXIV</B>
<I>Di grande mortalità che·ffu in Firenze, ma più grande altrove, come diremo apresso.</I>
Nel detto anno e tempo, come sempre pare che segua dopo la carestia e fame, si cominciò in Firenze e nel contado infermeria, e apresso mortalità di genti, e spezialmente in femine e fanciulli, il più in poveri genti, e durò fino al novembre vegnente MCCCXLVII ma però non fu così grande, come fu la mortalità dell'anno MCCCXL come adietro facemmo menzione; ma albitrando al grosso, ch'altrimenti non si può sapere a punto in tanta città come Firenze, ma in di grosso si stimò che morissono in questo tempo più di IIIIm persone, tra uomini e più femmine e fanciulli; morirono bene de' XX l'uno; e fecesi comandamento per lo Comune che niuno morto si dovesse bandire, né sonare campane alle chiese, ove i morti si sotterravano, perché·lla gente non isbigottisse d'udire di tanti morti. E·lla detta mortalità fu predetta dinanzi per maestri di strologia, dicendo che quando fu il sostizio vernale, cioè quando il sole entrò nel principio dell'Ariete del mese di marzo passato, l'ascendente che·ffu nel detto sostizio fu il segno della Vergine, e 'l suo signore, cioè il pianeto di Mercurio, si trovò nel segno dell'Ariete nella ottava casa, ch'è casa che significa morte; e se non che il pianeto di Giove, ch'è fortunato e di vita, si ritrovò col detto Mercurio nella detta casa e segno, la mortalità sarebbe stata infinita, se fosse piaciuto a·dDio. Ma·nnoi dovemo credere e avere per certo che Idio promette le dette pestilenze e·ll'altre a' popoli, cittadi e paesi per pulizione de' peccati, e non solamente per corsi di stelle, ma talora, siccome signore dell'universo e del corso del celesto, come gli piace; e quando vuole, fa accordare il corso delle stelle al suo giudicio; e questo basti in questa parte e d'intorno a Firenze del detto delli astrolagi. La detta mortalità fu maggiore in Pistoia e Prato e nelle nostre circustanze all'avenante della gente di Firenze, e maggiore in Bologna e in Romagna, e maggiore a Vignone e in Proenza ov'era la corte del papa, e per tutto il reame di Francia. Ma infinita mortalità, e che più durò, fu in Turchia, e in quelli paesi d'oltremare, e tra' Tarteri. E avenne tra' detti Tarteri grande giudicio di Dio e maraviglia quasi incredibile, e·ffu pure vera e chiara e certa, che tra 'l Turigi e 'l Cattai nel paese di Parca, e oggi di Casano signore di Tartari in India, si cominciò uno fuoco uscito di sotterra, overo che scendesse da cielo, che consumò uomini, e bestie, case, alberi, e·lle pietre e·lla terra, e vennesi stendendo più di XV giornate atorno con tanto molesto, che chi non si fuggì fu consumato, ogni criatura e abituro, istendendosi al continuo. E gli uomini e femine che scamparono del fuoco, di pistolenza morivano. E alla Tana, e Tribisonda, e per tutti que' paesi non rimase per la detta pestilenza de' cinque l'uno, e molte terre vi s'abandonaro tra per pestilenzia, e tremuoti grandissimi, e folgori. E per lettere di nostri cittadini degni di fede ch'erano in que' paesi, ci ebbe come a Sibastia piovvono grandissima quantità di vermini grandi uno sommesso con VIII gambe, tutti neri e coduti, e vivi e morti, che apuzzarono tutta la contrada, e spaventevoli a vedere, e cui pugnevano, atosicavano come veleno. E in Soldania, in una terra chiamata Alidia, non rimasono se non femmine, e quelle per rabbia manicaro l'una l'altra. E più maravigliosa cosa e quasi incredibile contaro avenne in Arcaccia uomini e femine e ogni animale vivo diventarono a modo di statue morte a modo di marmorito, e i signori d'intorno al paese pe' detti segni si propuosono di convertire alla fede cristiana; ma sentendo il ponente e paesi di Cristiani tribolati simile di pistolenze, si rimasono nella loro perfidia. E a porto Talucco, inn-una terra ch'ha nome Lucco inverminò il mare bene X miglia fra mare, uscendone e andando fra terra fino alla detta terra, per la quale amirazione assai se ne convertirono alla fede di Cristo. E stesesi la detta pistolenza infino in Turchia e Grecia, avendo prima ricerco tutto Levante i·Misopotania, Siria, Caldea, Suria, Cipro, il Creti, i·Rodi, e tutte l'isole dell'Arcipelago di Grecia, e poi si stese in Cicilia, e Sardigna, Corsica, ed Elba, e per simile modo tutte le marine e riviere di nostri mari; ed otto galee di Genovesi ch'erano ite nel mare Maggiore, morendo la maggiore parte, non ne tornarono che quattro galee piene d'infermi, morendo al continuo; e quelli che giunsono a Genova, tutti quasi morirono, e corruppono sì l'aria dove arivavano, che chiunque si riparava co·lloro poco apresso morivano. Ed era una maniera d'infermità, che non giacia l'uomo III dì, aparendo nell'anguinaia o sotto le ditella certi enfiati chiamati gavoccioli, e tali ghianducce, e tali gli chiamavano bozze, e sputando sangue. E al prete che confessava lo 'nfermo, o guardava, spesso s'apiccava la detta pistilenza per modo ch'ogni infermo era abandonato di confessione, sagramento, medicine e guardie. Per la quale sconsolazione il papa fece dicreto, perdonando colpa e pena a' preti che confessassono o dessono sagramento alli infermi, e·lli vicitasse e guardasse. E durò questa pestilenzia fino a... e rimasono disolate di genti molte province e cittadini. E per questa pistilenza, acciò che Iddio la cessasse e guardassene la nostra città di Firenze e d'intorno, si fece solenne processione in mezzo marzo MCCCXLVII per tre dì. E tali son fatti i giudici di Dio per pulire i peccati de' viventi. Lasceremo della matera, e diremo alquanto de' processi di Carlo di Buem nuovo eletto imperadore.
<B>LXXXV</B>
<I>Come Carlo di Buem eletto imperadore venne in Chiarentana.</I>
Nel detto anno, all'uscita del mese d'aprile e all'entrante di maggio MCCCXLVII, Carlo re di Bueme nuovamente eletto a esere imperadore e già confermato per la Chiesa, come adietro facemmo menzione, con aiuto di cavalieri di messer Luchino Visconti signore di Milano, e di meser Mastino della Scala signore di Verona, venne in Chiarentana per raquistare il paese, che in parte gli succedea per retaggio della madre, e per avere spedita l'entrata d'Italia; e rendéllisi la città di Trento e quella di Feltro e Civita Bellona colla forza del patriarca d'Aquilea per comandamento del papa, e arse il borgo e terra di Buzzano, e puosesi allo assedio a Tiralli. Sentendo ciò il marchese di Brandiborgo figliuolo del Bavero, ch'ancora cusava ragione in parte della detta contea per la madre, e ancora per la nimistà impresa contra il suo padre Bavero, avendosi fatto eleggere imperadore lui vivendo, si venne della Magna con grande cavalleria per soccorrere Tiralli e raquistare il paese. Sentendo la sua venuta il detto Carlo eletto imperadore, e ch'egli era con maggiore potenza di gente di lui, si partì con sua oste d'asedio dal detto Tiralli con alcuno danno di sua gente e con vergogna, perdendo parte del paese aquistato. Lasceremo alquanto di suoi fatti, e diremo ancora del processo della guerra del re di Francia e di quello d'Inghilterra, ch'ancora ne cresce matera.
<B>LXXXVI</B>
<I>Di certo parlamento che fece il re di Francia per andare contro al re d'Inghilterra.</I>
Nel detto anno, il dì di domenica d'ulivo, il re di Francia fece grande ragunata di suoi baroni a Parigi, e fece suo parlamento richieggendo tutti i suoi baroni e prelati e Comuni di suo reame d'aiuto per fare suo oste contra al re d'Inghilterra, ch'era con suo oste all'asedio di Calese, come lasciammo adietro. E giurò di non fare mai co·llui pace o triegua infino a tanto che non avesse fatto vendetta della sconfitta ricevuta a Crescì, e dell'onta che 'l re d'Inghilterra avea fatta alla corona di Francia, d'essere venuto con oste in suo reame e d'essere ancora all'asedio di Calese. Il quale saramento non poté oservare, ma procacciò di farne suo podere in ragunando tutti i suoi baroni prelati e caporali di grandi Comuni e cittadi al suo parlamento. Nel quale parlamento tutti quelli del reame gli promissono aiuto di gente d'arme, i gentili uomini e gli altri di sussidio di moneta. E fece trarre di San Donigi la 'nsegna d'oro e fiamma, la quale per usanza non si trae mai, se non a grandi bisogni e necessitadi del re e del reame, la quale è adogata d'oro e di vermiglio; e quella diede al siri di... di Borgogna, nobile e gentile uomo e prode in arme; e comandato a tutti che s'aparecchiassono di seguirlo alla sua richesta; e poi si partì il parlamento.
<B>LXXXVII</B>
<I>Del parlamento che fece il re d'Inghilterra co' Fiaminghi e col duca di Brabante.</I>
In questo medesimo tempo lo re d'Inghilterra, lasciata sua oste ordinata e fornita all'assedio di Calese, venne in Fiandra, e·llà fece suo parlamento co' rettori delle buone ville, e fuvi il duca di Brabante e 'l giovane conte di Fiandra, rimaso del conte suo padre, che morì alla battaglia di Crescì in servigio del re di Francia. E in quello parlamento ordinaro insieme lega e compagnia contro al re di Francia; e promissono parentado, il duca di Brabante di dare al figliuolo una sirocchia del re d'Inghilterra, e al giovane conte di Fiandra la figliuola; e ordinarono guidatore di Fiandra e del giovane conte il marchese di Giulieri. E·cciò fatto, il re d'Inghilterra si tornò alla sua oste allo assedio di Calese. Ma partito di Fiandra il detto parlamento, i detti parentadi e·llega non si oservarono per lo duca di Brabante, né per lo giovane conte di Fiandra, come assai tosto per lo innanzi faremo menzione, per procaccio e spendio del re di Francia. Lasceremo alquanto dire della detta guerra, e diremo d'altre novità d'Italia e della nostra città di Firenze.
<B>LXXXVIII</B>
<I>Di novità e discordia che fu nella città di Genova.</I>
Nel detto anno, del mese d'aprile, essendo i Genovesi tra·lloro in discordia da' noboli al popolo, trattaro di dare il reggimento della terra, quasi come mediatore tra·lloro, a meser Luchino Visconti signore di Milano, e mandarli ambasciadori il popolo per sé, di darli la signoria limitata e a certo termine; e' noboli e' grandi aveano mandato per li loro ambasciadori ch'elli gliele voleano dare libera, tegnendosi mal contenti del reggimento del dugi e del popolo; onde messere Luchino sdegnato contro al popolo, non volendoli dare libera la signoria. Per la qual cosa tornati a Genova i detti ambasciadori, si levò il popolo a romore e ad arme, e corsono sopra i grandi, e presonne da L pure de' migliori, e impuosono loro di pena libre Cm di genovini, e convenne che li pagassono al Comune; e racchetossi il romore nella città, rimanendo il dogi e 'l popolo signori; e di caporali delle case di grandi il dogio mandò a' confini in diverse parti; ma i più ruppono i confini e fecionsi rubelli, e poi, come diremo inanzi, vennero sopra Genova. E di questo mese d'aprile essendo arrivate in Porto Pisano II cocche cariche di grano, che venia di Cicilia comperato per gli uficiali del Comune di Firenze, essendo in Genova gran caro di grano, mandaro loro galee in Porto Pisano, e combattero le dette cocche, e per forza le menarono a Genova, pagandone poi con male pagamento i mercatanti di cui era il carico, quello ch'a·lloro piacque. Per la quale ingiuria e tirannia fatta pe' Genovesi al Comune di Firenze subitamente montò il grano in Firenze a soldi XLV lo staio, poi salì tosto a fiorini uno d'oro e più. E per questa cagione e oltraggio di Genovesi ebbe in Firenze grande gelosia e paura che non mancasse la vittuaglia, e mandarono in Romagna a farne venire con gran costo e interesso del nostro Comune, come adietro facemmo menzione nel capitolo della carestia.
<B>LXXXIX</B>
<I>Come l'Aquila e altre terre d'Abruzzi si rubellarono a' reali di Puglia a petizione del re d'Ungheria.</I>
Nel detto anno, essendo quasi rubellata l'Aquila alla reina di Puglia e agli altri reali rede del re Ruberto per uno ser Ralli dell'Aquila, che se n'era fatto signore, a pitizione del re d'Ungheria, giunsono nella città dell'Aquila del mese di maggio l'arcivescovo d'Ungheria e meser Niccola ungaro, il quale meser Niccola era stato nel Regno balio del re Andreas, ed eravi, quando fu morto, ambasciadore del re d'Ungheria, con grande quantità di moneta per mantenere que' dell'Aquila, e per soldare gente d'arme e cavallo e a piè, sì che tosto ebbono più di M cavalieri. Del mese di giugno e' corsono il paese; e più terre d'Abruzzi si rubellaro alla detta reina e reali, e·ssi tennero per lo re d'Ungheria. Ciò fu Civita di Tieti, e Civita di..., e Popoli, e Lanciano, e·lla Guardia, e altre terre e castella; e puosono oste alla città di Sermona. Sentendosi ciò a Napoli, i detti reali, tra di baroni del Regno e soldati, assai tosto feciono più di IImD cavalieri e gente d'arme a piè assai, e feciono capitano dell'oste il duca di Durazzo, figliuolo che fu di meser Gianni e nipote del re Ruberto, e vennero al soccorso di Sermona. Sentendo ciò quelli dell'Aquila, che v'erano a oste, se ne partirono con alcuno danno, e ridussonsi nell'Aquila a guardia della terra, e quella aforzaro e guerniro di vittuaglia. Il duca di Durazzo colla sua oste, ch'ogni dì gli crescea gente, si puose all'asedio della città dell'Aquila, e quivi stettono fino all'uscita d'agosto guastando intorno; ed ebbevi più scontrazzi e badalucchi, quando a danno dell'una parte, e quando dell'altra. In questa stanza arrivò in Italia il vescovo di Cinque Chiese, overo di V Vescovadi, fratello bastardo del re d'Ungheria (si dicea savio signore e valentre in arme) con da CC gentili uomini d'Ungheria e d'Alamagna a cavallo e in arme, e con danari assai, e sogiornò alquanto a Forlì e in Romagna, prima ricevuti graziosamente da meser Mastino al suo valicare, e poi da tutti i signori di Romagna, e ivi soldò quanta gente poté avere a cavallo, e arrivò a Fuligno; sicché con gente ch'era soldata a Fuligno, ch'al tutto si tenieno dalla parte del re d'Ungheria, ond'era capo mesere Ugolino de' Trinci, vi si trovò più di M cavalieri, e nell'Aquila e d'intorno al paese n'avea bene altri mille al soldo del re d'Ungheria. Sentendo ciò quelli ch'erano all'asedio dell'Aquila, ed essendo già fornito il servigio di tre mesi che' baroni deono servire la corona, e non avendo soldo dalla corte, si cominciarono a partire; e 'l primo si partisse fu il conte di Sanseverino, che per li più si disse ch'amava più la signoria del re d'Ungheria che degli altri reali; e partito lui, tutti gli altri si partirono sconciamente e sciarrati, ricevendo alcuno danno dalla gente ch'erano nell'Aquila. E giunti all'Aquila, la gente ch'era a Filigno de·rre d'Ungheria corsono il paese, e presono il castello della Leonessa, e quello arsono. Lasceremo alquanto di questa impresa del re d'Ungaria, ch'assai tosto di ciò ci crescerà matera, e diremo d'una grande novità che·ffu nella città di Roma di mutazione di popolo e di nuova signoria.
<B>XC</B>
<I>Di grandi novitadi che furono in Roma, e come i Romani feciono tribuno del popolo.</I>
Nel detto anno, a dì XX di maggio, il dì di Pentecosta, essendo tornato a Roma uno Niccolò di... ch'era andato a corte del papa per lo popolo di Roma a richiederlo che venisse a dimorare alla sedia di san Piero, come dovea, colla sua corte; e avendoli il papa di ciò data buona ma vana speranza, si ragunò parlamento in Roma, ove si congregò molto popolo, e in quello isposta sua ambasciata con savie e ornate parole, come quelli che di rettorica era maestro, com'elli avea ordinato con certi caporali del popolo minuto, a grido fu fatto tribuno del popolo e messo in Campidoglio in signoria. E di presente che fu fatto signore tolse ogni signoria e stato a' noboli di Roma e d'intorno, e fecene prendere de' caporali, che mantenieno le ruberie in Roma e d'intorno, e fecene fare aspre giustizie, e mandò a' confini certi degli Orsini e Colonnesi e altri noboli di Roma, e tutti gli altri se n'andarono quasi fuori di Roma a·lloro terre e castella per fuggire la furia del detto tribuno e del popolo, e tolse loro il tribuno ogni fortezza della terra. E ordinò oste contra il prefetto e alla città di Viterbo, che no·llo ubbidiva; e in brieve per sua rigida giustizia Roma e intorno fu in tanta sicurtà, che di dì e di notte vi si potea andare salvamente. E mandò lettere a tutte le caporali città d'Italia, e una ne mandò al nostro Comune, con molto eccellente dittato; e poi ci mandò V solenni ambasciadori, gloriando sé, e poi il nostro Comune, e come la nostra città era figliuola di Roma e fondata e dificata dal popolo di Roma, e richiesene d'aiuto alla sua oste. A' quali ambasciadori fu fatto grande onore, e mandati a Roma al tribuno cento cavalieri, e proferto maggiore aiuto, quando bisognasse; e' Perugini gline mandaro CL. E poi il dì di san Piero in Vincola, dì primo d'agosto, come avea significato inanzi per sue lettere e ambasciadori, fecesi il detto tribuno fare cavaliere al sindaco del popolo di Roma all'altare di Santo Pietro; e prima per grandezza si bagnò a·lLaterano nella conca del paragone, che v'è, ove si bagnò Gostantino imperadore, quando santo Salvestro papa il guarì della lebbra. E fatta la grande corte e festa di sua cavalleria, ragunato il popolo, fece uno gran sermone, dicendo come volea riformare tutta Italia all'ubidienzia di Roma al modo antico, mantegnendo le città i·lloro libertà e giustizia, e fece trarre fuori certe nuove insegne ch'avea fatte fare, e una ne diè al sindaco del Comune di Perugia coll'arme di Giulio Cesare, il campo vermiglio e·ll'aguglia d'oro; un'altra ne trasse di nuova fazione, dov'era una donna vecchia a sedere in figura di Roma, e dinanzi le stava ritta una donna giovane colla figura del mappamondo in mano, rapresentando alla figura della città di Firenze, che 'l porgesse a Roma, e fece chiamare se v'avesse sindaco del Comune di Firenze; e non essendovi, la fece porre ad alti in su una stacca, e disse: "E' verrà bene chi·lla prenderà a tempo e luogo". E più altre insegne diede a' sindachi d'altre città vicine e circustanze di Roma; e quello dì fece impiccare il signore di Corneto, che facea rubare il paese d'intorno a Roma. E·cciò fatto, fece a grido nel detto parlamento invocare, e poi per sue lettere citare i lettori dello 'mperio della Magna, e Lodovico di Baviera detto Bavero, che·ss'era fatto imperadore, e Carlo di Buem, che novellamente s'era fatto imperadore, che d'allora alla Pentecosta a venire fossono a Roma a mostrare la loro lezione, e con che titolo si facieno chiamare imperadori, e' lettori dovessono mostrare autoritade li avessono eletti; e fece trarre fuori e piuvicare certi privilegi del papa, come avea commessione di ciò fare. Lasceremo alquanto della nuova e grande impresa del nuovo tribuno di Roma, che tutto a tempo vi potremo ritornare, se·lla sua signoria e stato arà podere con efetto, con tutto che per li savi e discreti si disse infino allora che·lla detta impresa del tribuno era un'opera fantastica e da poco durare; e diremo alquanto di certe novità occorse in que' tempi alla città di Firenze.
<B>XCI</B>
<I>Di certe tempeste e fuochi che furono in Firenze.</I>
Nel detto anno, a dì XX e dì XXII del mese d'aprile, furono in Firenze e d'intorno grandi turbichi di piove e tuoni e baleni oltre all'usato modo. E caddono nella città e di fuori più folgori, e alcuna n'abatté certi merli delle mura. Poi a dì XVIII e dì XX di giugno furono per simile modo gran piogge, gragnuole, tuoni e folgori, guastando frutti e biade in più parti del contado. Per la qual cosa il vescovo di Firenze col chericato e grande popolo andarono per la terra a processione per III dì, pregando Iddio la cessasse; e come gli piacque, così fece. E·lla notte vegnente, il dì di san Giovanni, a dì XXIIII di giugno, s'aprese fuoco in Porta Rossa contra alla via traversa che va a casa gli Strozzi, ove arsono più di XX case, sanza quelle si disfeciono d'intorno per ispegnerlo, con grande danno e disuluzione della contrada, e morìvi più maestri di rovina di case, che caddono loro adosso. E ne' detti dì s'aprese in più parti di Firenze con danno di più case e forni. E nota, lettore, quante tempeste occorse in questo anno alla nostra città, di fame, mortalità, rovina, tempeste, e fuochi, e discordie tra' cittadini, per li soperchi di nostri peccati. Piaccia a·dDio che questi segni ci correggano de' nostri difetti, acciò che Iddio non ci condanni a maggiori giudici, che paura ne fanno, sì è fallita la fede e caritade tra' cittadini.
<B>XCII</B>
<I>Ancora di novità che furono in Firenze, e di certi ordini confermati contro a' Ghibellini.</I>
Nel detto anno, a dì VI di luglio, avendo il popolo di Firenze inn-odio la memoria del duca d'Atene per la sua malvagia signoria, come adietro facemmo menzione, si fece dicreto che niuno priore che fosse stato fatto per lo detto duca non avesse privilegio né potere portare arme come gli altri priori fatti per lo popolo; e chiunque avesse dipinta l'arme sua in casa o di fuori, la dovesse ispignere e acecare; e a·ccui fosse trovata, pena fiorini mille d'oro. E·llevaro che non potesse portare arme da offendere niuno gabelliere e niuno soprastante e·lloro guardie, se non nelle carcere o d'intorno, che in prima n'era piena tutta la città di privilegi, per più casi, ch'era sconcia cosa. E in questo tempo, ciò furono VI di nove priori, vollono correggere il dicreto ch'era fatto dì XX di gennaio passato, che parlava che niuno Ghibellino potesse avere ufici sotto certe pene, essendo accusato per lo modo che dicemmo adietro, volendo riducere che' testimoni non fossono accettati, se non fossono prima aprovati pe' priori e loro collegi; e per cotale modo si credettono anullare il detto dicreto. Ma sentendosi per li capitani di parte guelfa, e quasi commossa la terra, per modo che·lla prima detta legge fatta dì XX di gennaio si confermò, e fortificossi più ferma e con maggiori pene contro al volere della maggiore parte del detto uficio de' priori ch'allora era. E bene disse il propio il maestro Michele Scotto de' fatti di Firenze, che "disimulando vive etc.". Lasceremo alquanto delle novità di Firenze, tanto che surgano delle più fresche; e torneremo a dire de' fatti d'oltremonti, e della guerra dal re di Francia al re d'Inghilterra, ch'al continovo ne cresce materia.
<B>XCIII</B>
<I>Come meser Carlo di Brois fu sconfitto in Brettagna.</I>
Nel detto anno, a dì XXII del mese di giugno, meser Carlo di Brois, che·ssi facea chiamare duca di Brettagna per retaggio della moglie figliuola della figliuola del duca di Brettagna, come contammo adietro al capitolo della morte del duca, essendo in Brettagna con grande oste al castello e rocca d'Ariaro, che·lli s'era ribellato, il conte di Monforte figliuolo del fratello carnale che·ffu del duca di Brettagna, a cui di ragione succedea il detto ducato per linea mascolina, se non che·rre di Francia gliele contradiava, e tolse, e avielo dato al detto meser Carlo di Brois suo nipote, come dicemmo in alcuna parte adietro, sentendo la detta oste male ordinata, sì ragunò suo sforzo di quelli Brettoni ch'erano di sua parte coll'aiuto ch'avea dell'Inghilesi e Gualesi da·rre d'Inghilterra. E bene aventurosamente asalirono la detta oste, e missongli inn isconfitta, ove rimasono morti e presi molta buona gente del reame di Francia, tra' quali vi rimasono morti e presi de' caporali di rinomea, il siri della Valle, e meser Rosede e meser Giovanni suoi fratelli, il visconte di Durem, e 'l fratello, e 'l figliuolo, e 'l signore de Rualla, e 'l figliuolo, e 'l signore di Roggeo, il signore di Malostretto, il signore di Ciastelbrialto, il signore di Rasa di Rasi, e più altri cavalieri e scudieri, che non sapemmo il nome. E il detto meser Carlo di Brois con molti altri baroni e gentili uomini fu preso, e mandati pregioni a Londra inn-Inghilterra.
<B>XCIV</B>
<I>Come quelli della città di Legge furono sconfitti dal loro vescovo e dal duca di Brabante.</I>
Nel detto anno, a l'uscita di luglio, il vescovo di Legge, coll'aiuto del duca di Brabante e di sua gente, fece oste sopra la città di Legge, che·lli s'era rubellata l'anno passato, come adietro facemmo menzione, della quale oste fu capitano e conducitore il detto duca. Que' di Legge uscirono fuori a battaglia, popolo e cavalieri, col loro aiuto e sforzo d'amici e loro allegati; nella qual battaglia quelli di Legge furono isconfitti, e in grande quantità morti e presi. E il detto duca e vescovo, avuta la detta vettoria, ebbono la città di Legge sanza contasto niuno, e·lla terra Dui e quella di Dinante, che sono della partinenza di Legge, grosse terre e ricche e bene popolate, e prese le dette terre e paese, con volontà del vescovo ne feciono signore il duca di Brabante, con tutto che fossono terre ch'apartenieno alla Chiesa di Roma. E nota che Legge è una città nobile e di ricchi borgesi, e anticamente fu edificata per li Romani, però che in quello luogo, ch'è tra Francia e Alamagna, tenieno le loro legioni, quando dominavano quelle province, e da quello ebbe dirivo Legge il propio nome, da <I>legio legionis</I>.
<B>XCV</B>
<I>Come il navilio che·llo re di Francia mandava per fornire Calese fu sconfitto dagl'Inghilesi.</I>
Nel detto anno, all'uscita di giugno, avendo il re di Francia fatte aparecchiare al porto di Riflore in Normandia LXX navi, overo cocche, armate e fornite e cariche di molta vittuaglia, e altri arnesi e d'arme da guerra, per fornire la terra di Calese, ch'avea asediata il re d'Inghilterra, e in compagnia del detto navile XII galee armate di Genovesi; e passando il detto navile contro a Dovero inn-Inghilterra, ove avea da CC cocche armate del re d'Inghilterra, le quali vi stavano aparecchiate per fornire l'oste di Calese del re d'Inghilterra, con piene vele, fiotto e marea vennono adosso al detto navile del re di Francia; e·cciò veggendo l'amiraglio delle galee di Genovesi, il soperchio navilio de' nimici non ressono, ma per forza di remi si ritrassono adietro, e abandonaro le dette navi, le quali furono tutte prese, e morti la maggiore parte degli uomini del navilio del re di Inghilterra, e con tutta la roba e vittuaglia che v'era suso, che valea danari assai, che·ffu gran conforto al re d'Inghilterra e alla sua oste, e grande speranza d'avere tosto la terra di Calese; e gli assediati di Calese furono in grande dolore e affanno e disperazione di loro salute.
<B>XCVI</B>
<I>Come il re di Francia s'affrontò con sua oste per combattere col re d'Inghilterra, e come s'arrendé Calese all'Inghilesi.</I>
Sentendo il re di Francia com'era preso il suo navilio col fornimento che mandava a Calese, e sapiendo che in Calese venia meno la vittuaglia, e perdea la terra se no·lla soccorresse, fece richiedere i suoi baroni che s'aparecchiassono in arme per seguirlo, come avea ordinato nel suo parlamento, come dicemmo adietro, e così fu fatto. E partissi da Parigi del mese di luglio con sua oste, la qual era di più di Xm uomini a cavallo, gentili uomini e buona gente d'arme, con XXXm pedoni, ove avea buona parte Genovesi a balestra, e altri Lombardi e Toscani al soldo. E venuto lui in Artese, s'acampò presso all'oste del re d'Inghilterra a mezza lega, a dì XXVII di luglio. Lo re d'Inghilterra era con sua oste e campo intorno a Calese con più di IIIIm gentili uomini a cavallo, e con XXXm arcieri, e gualesi e inghilesi, ed erano co·llui il marchese di Giulieri capitano di Fiaminghi, con più di XXm Fiaminghi armati a piede. E 'l re d'Inghilterra avea affossato e steccato Calese tutto intorno dal lato di terra, e simile abarrato per mare e di fuori con pali e traverse di legname, il suo navilio alla guardia, sicché per mare né per terra non vi potea entrare né uscire persona. E di fuori avea tre campi, quello del re, quello de' Fiaminghi, e quello del conte d'Ervi con parte della cavalleria e con Gualesi a piè: e tutti i detti III campi affossati e steccati intorno; e dentro alle licce si potea andare dall'uno campo all'altro, ed erano signori di prendere e di schifare la battaglia a·lloro posta.
In questa stanza vennero nell'oste messere Anibaldo cardinale e 'l cardinale di Chiermonte legati mandati per lo papa, andando dall'una oste all'altra per ragionare e trattare accordo di pace dall'uno re all'altro, e co·lloro s'accozzaro, con ordine di due re, in mezzo di due campi V baroni da ciascuna parte. E dopo tre dì stati ne' detti trattati non vi poté avere concordia, da·ccui che si rimanesse. Dissesi dal re d'Inghilterra, perché il re di Francia nogli accettava le sue adimande, e non voleva recare il giuoco vinto a partito, aspettandosi d'ora inn-ora d'avere Calese, che più non si potea tenere. Veggendo il re di Francia che non potea avere né pace né triegua, fece spianare tra due campi e richiedere il re d'Inghilterra di battaglia; e a dì II d'agosto uscì fuori del suo campo così ordinato e schierato, faccendo della sua gente VI battaglie a·lloro guisa, ciò sono schiere. La prima era da mille o più cavalieri, i più Alamanni al soldo e Anoieri, la quale conducea meser Gianni d'Analdo e 'l conte di Namurro suo genero. La seconda fu di più altri mille cavalieri, il fiore di Francia, la qual guidava il maliscalco di Francia. La terza era di presso a IIIIm cavalieri con tutti i pedoni del paese e bidali di Navarra e Linguadoco e di nostro paese, e quest'era la schiera grossa, la qual guidava mesere Gianni duca di Normandia, figliuolo del re di Francia. La quarta era di M o più cavalieri di Linguadoco e Savoini; la quale conducieno il conte d'Armignacca, e 'l figliuolo del conte della Illa. [...] La sesta era di più di IIm cavalieri, ov'era il re di Francia con suoi ciamberlani, ed era schierato alla rietroguardia. Lo re d'Inghilterra fece armare e schierare sua gente dentro alle licce, ma non volle uscire fuori alla battaglia; e mandò a dire al re di Francia che volea prima Calese, e poi, se volesse combattere, passasse in Fiandra, ed elli con sua oste vi sarebbe aparecchiato di combattere. Lo re di Francia non volle accettare il partito d'andare a combattere in Fiandra fra·lla moltitudine de' Fiaminghi suoi ribelli e nemici. E veggendo che quivi non potea avere battaglia, né soccorrere Calese sanza suo gran pericolo, si partì con sua oste, e si ritrasse adietro VI leghe quello primo dì, e poi seguendo sue giornate verso Parigi, lasciando di sue gente d'arme alla guardia delle terre delle frontiere, e con poco suo onore, ma 'l contrario, e con grande spendio si tornò a Parigi. Que' di Calese veggendo partito il re di Francia e sua oste, patteggiaro col re d'Inghilterra co·rrenderli la terra, salve le persone a' forestieri, uscendone in camicia iscalzi col capresto in collo, e' terrazzani alla sua misericordia; e·cciò fu a dì IIII d'agosto del detto anno. Ed entrò nella terra a dì V d'agosto il re e sua gente, e trovarono che non v'era rimaso di che vivere e che ogni vile animale aveano mangiato per fame, e trovò nella terra molto tesoro, sì delle ruberie di quelli di Calese che tutti erano ricchi di danari guadagnati in corso sopra Inghilesi e Fiaminghi e altri navicanti per quello mare; però che Calese era uno ricetto di corsali, e spilonca di ladroni e piratti di mare; ancora v'erano dentro tutti i danari delle paghe mandati per lo re di Francia in più tempo ch'era durata la guerra, ch'erano buona quantità, che tutto vi lasciaro, e uscirne ignudi, come detto avemo; e tormentarolli per farsi insegnare la pecunia nascosa e sotterrata. E volendo il re d'Inghilterra far fare giustizia di terrazzani, siccome di piratti di mare, e tutti impenderli alle forche, i detti due cardinali furono con molti prieghi al re e alla reina, che perdonasse loro la vita per l'amore di Dio, e per la grazia e vittorie che Iddio gli avea fatte; e dopo molte pregherie di cardinali e della madre e della moglie perdonò loro la vita, e tutti gliene mandò col capresto in collo. E questa vittoria di Calese fu grande onore e aquisto al re d'Inghilterra. I Fiaminghi, ch'erano co·llui nell'oste, richiesono il re che 'l disfacesse, che non potesse far loro più guerra e ruberia, e' loro porti ne fossono migliori. Lo re nol volle disfare, anzi fece crescere la terra verso la marina, e aforzare di mura e torri e fossi e steccati, e popololla di suoi Inghilesi, e fornilla di vittuaglia e d'arme. E bene che Calese fosse al re d'Inghilterra piccola terra, gli fu grande aquisto, perch'è terra di porto, e per vincere sì grande punga contro al re di Francia e suo gran podere nel suo paese medesimo. Ma·lle sopradette vittorie avute, il re d'Inghilterra sopra il re di Francia sì in Guascogna e in Brettagna e in Francia, e poi nella battaglia e vittoria avuta a Crescì, come adietro ordinatamente è fatta menzione, non ebbe in dono; che tornato il detto re Aduardo con sua oste in Inghilterra, tra' morti in battaglie, e poi al suo ritorno morti d'infermitadi e malattie, si trovaro meno da Lm Inghilesi; e però non si dee nullo groriare delle pompe e vittorie mondane, che·lle più sono con male uscita. Lasceremo alquanto a dire della presente guerra de' due re, ch'ha avuto alcuno fine di triegua; e torneremo a dire di Firenze e del nostro paese d'Italia. Ma inanzi che·llo re Adoardo si partisse da Calese e del paese, assai guerra e correrie fece la sua gente a Santo Mieri e all'altre terre d'Artese, con gran prede e dannaggio del paese. In questa stanza i legati cardinali trattarono accordo e triegua dal re di Francia a quello d'Inghilterra infino alla san Giovanni a venire, mandando ciascuno di detti re suoi ambasciadori a corte di papa a dare compimento d'acordo. Il re d'Inghilterra vi s'acordò volentieri, perch'avea il migliore della guerra, ed era per la detta guerra molto afannato e stracco elli e sua gente, e con grande dispensa. E·cciò ordinato, si partì il detto re Aduardo del reame di Francia con sua oste lasciando fornito Calese: passò il mare, e tornò in Inghilterra con grande festa e allegrezza, faccendo giostre e torniamenti.
<B>XCVII</B>
<I>Come in Firenze si fece nuova moneta, piggiorando la prima.</I>
Del mese d'agosto del detto anno, essendo in Firenze montato l'ariento della lega d'once XI e mezzo di fine per libra in libre XII e soldi XV a·ffiorino, però che' mercatanti per guadagnare il ricoglieno e portavallo oltremare, ov'era molto richiesto; per la qual cosa la moneta da soldi IIII di Firenze fatta l'anno MCCCXLV dinanzi, e·lla moneta di quattrini, si sbolzonavano e portavano via, onde il fiorino d'oro ogni dì calava, ed era per calare da libre III in giù; onde i lanaiuoli, a cui tornava a interesso, perché pagavano i loro ovraggi a piccioli, e vendeano i loro panni a·ffiorini, essendo possenti in Comune, feciono ordinare al detto Comune nuova moneta d'argento e nuovi quattrini, piggiorando l'una e·ll'altra moneta per lo modo diremo apresso, acciò che 'l fiorino d'oro montasse, e non abassasse. Ordinossi e fecesi una moneta grossa, alla quale diedono corso per soldi V l'uno, chiamandoli guelfi, di lega d'once XI e mezzo per libra, come la lega di grossi di soldi IIII l'uno, faccendone soldi VIIII e danari VIIII per libra, e rendene la moneta del Comune soldi VIIII, danari III, tre quinti; e costava ogni overaggio e calo soldi VI la libra di piccioli, sicché il Comune ne guadagnava soldi XXII piccioli d'ogni libra, ch'era oltraggio a mantenere buona moneta, peggiorando a quella di soldi IIII il grosso più di XI per centinaio. E·lla moneta di quattrini si piggiorò non di lega, ma di peso, che dove di prima se ne faceva soldi XXIII per libra, e 'l Comune ne rendea soldi... per libra, si feciono di nuovi soldi XXVI e danari VI per libra, e rendene la moneta soldi XXIIII e danari VIIII di quattrini per libra, e costava d'ovraggio e calo soldi VI di piccioli per libra; sicché il Comune n'avanzava danari XII piccioli per libra; sicché, chi·ssa di ragione, la moneta grossa peggiorò XI per C, e quella di quattrini da XV per C a quello ch'era la moneta fatta mesi... dinanzi. E nota che bene disse il nostro poeta Dante il propio nella sua Commedia, ove scramando contro a' Fiorentini disse cominciando: "Godi Firenze etc."; conseguente ancora:
del tempo che rimmembra,
Legge, moneta, e usanze e costume
Ha' tu mutate e rinovate membra etc.
<B>XCVIII</B>
<I>Come in cielo aparve una commeta.</I>
Nel detto anno, del mese d'agosto, aparve in cielo la stella commeta, che·ssi chiama Nigra, nel segno del Tauro, a gradi XVI nel capo della figura e segno del Gorgone, e durò XV dì. Questa Nigra è della natura di Saturno, e per sua infruenzia si cria, secondo che dice Zael filosofo e strolago, e più altri maestri della detta scienzia, la quale significa pure male e morte di re e di potenti; e questo dimostrò assai tosto in più re e reali, come inanzi leggendo si troverrà; e ingenerò grande mortalità ne' paesi ove il detto pianeto e segno signoreggiano; e bene il dimostrò inn Oriente e nelle marine d'intorno, come dicemmo adietro.
<B>XCIX</B>
<I>Come messere Luigi figliuolo del prenze di Taranto prese per moglie la reina di Puglia sua cugina.</I>
Nel detto anno, a dì XX d'agosto, meser Luigi, figliuolo che·ffu del prenze di Taranto secondogenito, sposò la reina, figliuola che·ffu del duca di Calavra sua cugina carnale, e ch'era stata moglie d'Andreas re figliuolo del re d'Ungheria, ed erano da parte di madre nati di due sirocchie carnali. E fu dispensato il detto iscellerato matrimonio per Clemento VI papa, e fatto duca di Calavra e balio del Regno. E ciò fu per procaccio e opera del cardinale di Peragorga suo zio, onde fu ripreso da tutti i Cristiani che 'l sentiro, e ciascuno che 'l seppe ne scificò e disse che sarebbe con mala uscita sì abominevole peccato, con tutto che palese si dicea che 'l detto meser Luigi avea affare di lei vivendo il re Andreas suo marito, ed egli ed ella furono trattatori della villana e abominevole morte del detto re Andreas, come contammo adietro, con più altri che 'l misono ad esecuzione; onde seguì molto male, come inanzi si farà per noi menzione.
<B>C</B>
<I>Di certe battaglie che feciono i Genovesi co' Catalani in Sardigna e in Corsica.</I>
Del mese d'agosto del detto anno il vicaro del re di Raona, ch'era in Sardigna, si puose con sua oste alla terra detta Alleghiera, la qual terra per lungo tempo aveano tenuta quelli della casa Doria di Genova, volendola recare a signoria del re. I quali di casa Doria v'andarono co·lloro sforzo, e missono inn-isconfitta la detta oste di Catalani, e morivenne più di DC. E poi coll'aiuto del Comune di Genova, che male erano contenti della vicinanza de' Catalani, si puosono a oste a Sasseri, e a quello vennero al soccorso i Catalani con CCC cavalieri e popolo assai, e levarne i Genovesi inn-isconfitta: e così va di guerra. E del detto mese e anno i Genovesi ebbono la signoria di tutta l'isola di Corsica con volontà di quasi di tutti i baroni e signori di Corsica; e·ffu loro un bello aquisto colla terra di Bonifazio, ch'ellino teneno; se non che·ffu con mala uscita, che per la mortalità venuta di levante nell'isole e marine furono sì maculati d'infermità e di morte le dette isole di Sardigna e di Corsica, che non vi rimasono il terzo vivi degli abitanti del paese e Genovesi.
<B>CI</B>
<I>Come volle essere tradito e tolto il castello di Laterino a' Fiorentini.</I>
Nel detto anno, in calen di ottobre, per trattato di Tarlati usciti d'Arezzo volle essere tradito e tolto a' Fiorentini il castello di Laterino per danari ne doveano avere certi terrazzani ghibellini e delle guardie che v'erano per lo Comune di Firenze. Il quale trattato si disse menava uno frate minore guardiano dei frati di Montevarchi; il quale tradimento fu scoperto, e presi i traditori, e parte di loro impiccati ad Arezzo, e parte a Firenze. E 'l detto frate fu preso e menato a Firenze, e inn-istretta carcere sotto la scala del capitano istette più mesi con grande inopia. Alla fine non trovandolo in colpa, e a priego de' frati, fu dilibero. Lasceremo alquanto a dire delle novità da Firenze, tornando alquanto adietro a dire d'una grande e scellerata opera ch'avenne a' reali di Tunisi in poco di tempo, dicendolo il più brieve che·ssi potrà, come avemmo da uno nostro amico fiorentino e mercatante e uomo degno di fede, che a tutto fu a Tunisi presente.
<B>CII</B>
<I>Come i reali del reame di Tunisi per loro discordie s'uccisono insieme.</I>
Regnando in Tunisi e nel suo reame Mule Buchieri, che tanto è a dire Mule in saracinesco come Re in nostro latino; questi fu quello re di cui facemmo menzione adietro nel capitolo delle trallazioni del detto reame di Tunisi; questi era gran signore e sotto lui più reami, e avea più figliuoli di più mogli e amiche, ch'avea al modo saracinesco; venne a morte del mese d'ottobre MCCCXLVI. E a·lloro modo fece suo testamento, e lasciò che fosse re apresso lui un suo figliuolo chiamato Calido, il quale, quando morì il padre, nonn-era in Tunisi. Un altro suo figliuolo giovane di XXVI anni, pro' e ardito, ch'avea nome Amare, ch'alla morte del padre si trovò in Tunisi, e acordandosi col siniscalco del regno, il quale avea nome Con Betteframo, ed era apresso il re il maggiore signore del reame, col suo aiuto si fece coronare re allora sanza alcuno contasto. Sentendo ciò Calido l'altro fratello, cui il padre avea lasciato che fosse re, s'acostò co' signori delli Arabi, i quali signoreggiavano le terre campestre e·lle montagne (e sempre stanno a campo co·lloro tende, e non hanno città né castella né ville né case murate), e con grande sforzo d'Arabi venne a Buggea con sua oste. Amare, che s'era fatto re, col suo siniscalco e con sua oste uscirono di Tunisi, e di lungi X miglia verso Buggea s'acamparono. Ma il vizio della ingratitudine che regnava nel re Amare, non trattava bene il suo siniscalco, che gli avea data la signoria, ma tutto dì il minacciava di farlo morire. Il quale per tema della fellonia del re Amare si partì dell'oste da·llui, e tornossi a Tunisi; e di là con sua gente n'andò nel Garbo, e Amare re con tutta sua oste n'andò a Buggea. Calido cogli Arabi venne a Tunisi, e sanza contasto entrò nella terra, e di presente si diede a' diletti carnali, standosi a' giardini reali, che sono molto dilettevoli, e soggiornando in bagni con sue femmine stando in vita disoluta. E avendo con non buona providenza dato congio alli Arabi, che·ll'avieno rimesso in signoria, e non provedendosi della guerra del fratello, Amare venne a Tunisi con IIm cavalieri; e giunto di fuori di Tunisi fece asapere a' soldati cristiani ch'erano nella terra di sua venuta, i quali gli promisono, per danari fece loro profferere, di seguirlo, ed elli con CCC uomini a cavallo scalò in più parti le mura della città, ed entrò dentro sanza contasto. Lo re Calido sentendo ciò, salì a·ccavallo disarmato con due suoi fratelli, l'uno re di Susa e l'altro di Sachisi, i quali elli avea tratti di prigione, ove gli avea messi il re Amare loro fratello, quando prese la signoria. E andando i detti per la città di Tunisi gridando a borgesi che 'l dovessono atare, rispuosono che di ciò non si travaglierebbono, che così avieno per loro signore l'uno fratello come l'altro. Andando per lo detto modo lo re Calido per la terra, certi Cristiani rinegati l'assalirono, e uno gli lanciò una lancia, e fedillo, onde cadde a terra del cavallo, e incontanente gli fu tagliata la testa, e presentata a·re Amare; la qual fece mettere in su una lancia, e mandarla per tutta la terra; e gli altri due fratelli presi, fece loro tagliare le mani, e poi infra tre dì gli fece morire, e più altri caporali delli Arabi ch'avieno seguito il re Calido fece il somigliante. E·cciò fatto, il re Amare sedette nella sedia reale come re, faccendosi fare l'omaggio e reverenza a tutte maniere di genti, e regnò apresso X mesi in pace, faccendo grandi feste con disoluta vita e mali reggimenti.
Benteframo e Betara siniscalchi che s'erano ribellati da·llui, e iti al re del Garbo, detto Bulafere, come adietro facemmo menzione, commossono il detto re del Garbo contra i·re Amare per le sue scellerate opere, e mossesi con grande oste di XXXm a cavallo, tra' quali avea IIm Cristiani, e venne verso Tunisi, e per mare mandò un suo amiraglio con VIIII galee e altri legni; e giunto il detto Bulafar re del Garbo con sua oste a Buggea, l'ebbe sanza contasto niuno, e simile la terra di Gostantina, e trasse delle dette terre i reali e possenti, e quelli mandò nel Garbo con buona guardia, e fornì le dette terre di sue genti.
Lo re Amare di Tunisi sentendo la venuta del re del Garbo, s'aparecchiò di ragunare sua oste per venirli incontro infino a Buggea, e uscì di Tunisi a dì XI d'agosto MCCCXLVII con IImD cavalieri, aspettando a campo il suo soccorso, che tuttora gli venia. E in quella istanza ebbe novelle come il navile del re del Garbo era arrivato nel porto di Tunisi, onde tornò a Tunisi per difendere la terra, e al continovo facea badaluccare con balestra e archi, acciò che quelli del navile non prendessono terra. In questa stanza il re del Garbo con sua oste a piccole giornate ne venne verso Tunisi. Lo re Amare di Tunisi veggendosi così assalire per terra e per mare, e che·lla sua forza e 'l séguito non era forte alla forza de' suoi nimici, si partì di Tunisi con M Barberi, né' soldati cristiani nol vollono seguire per la sua avarizia, e andonne verso il Caroano per andarsene alla città di Susa. Allora l'amiraglio ch'era nel porto iscese alla terra con D balestrieri, e furono riceuti in Tunisi come signori. E poi apresso vi venne entrando della gente del re del Garbo; e 'l re del Garbo sentendo che 'l re Amar s'era partito di Tunisi per la via del Caroano, il fece seguire a un suo amiraglio con IIIIm uomini a cavallo, comandandogli gli apresentasse il re Amar o morto o vivo; il quale seguendolo, il trovaro di lungi a Tunisi C miglia con poca compagnia a una fontana, ove abeveravano loro e loro cavalli; il quale asalito dal detto amiraglio, fu fedito e morto, e tagliatoli il capo; e' compagni che furono presi menati prigioni al re del Garbo, e presentatali la testa del re Amar; e certificatosi il re del Garbo ch'ell'era di vero la sua testa, la mandò a Tunisi, e fecela sopellire tra' reali. E·llo re Bufar con sua oste s'apressò alla città di Tunisi, e·lla città e 'l regno ebbe al suo comandamento sanza contasto niuno, che·ggià v'era dentro la sua gente e per mare e per terra, come avemo detto dinanzi; e solo uno dì stette in Tunisi, e ciò fu del mese di gennaio MCCCXLVII. E rifermata la città e 'l reame d'uficiali di sua gente, fece prendere tutti i regoli, overo i reali, discendenti del re Bucchieri detto dinanzi, ove che fossono nel reame, che da LX erano, o più, e con buona guardia gli mandò nel Garbo; e dov'egli era stato a campo da IIII miglia di fuori di Tunisi, fece ordinare si dificasse una terra a modo di bastita, e quivi sogiornò con sue femine a gran festa.
Or nota, lettore, e ricogli quello ch'avemo detto nel presente capitolo, e troverrai che per li peccati della superbia e avarizia e lussuria principalmente venuta tra fratelli e congiunti, volendo l'uno all'altro torre lo stato e signoria, quanti micidi e altra distruzione avenne in poco di tempo a' figliuoli e discendenti reali del re Bucchieri di Tunisi, onde il loro lignaggio fu distrutto. E per simile modo in questi tempi avennero tra·nnoi Cristiani tra' reali del regno di Puglia, com'era già cominciato per la morte del re Andreas, e seguinne apresso, come assai tosto ne faremo menzione. Lasceremo de' fatti de' Barberi del regno d'Africa, ch'assai n'avemo detto, e torneremo a dire de' fatti di questo nostro paese d'Italia, ch'assai ci cresce materia.
<B>CIII</B>
<I>Come la città di Sermona e altre terre s'arrendero alla gente del re d'Ungheria.</I>
Nel detto anno, del mese d'ottobre, essendo la gente del re d'Ungheria all'assedio di Sermona, né per la reina né per li altri reali nonn-erano soccorsi, sì patteggiarono di rendere la terra a comandamenti del re d'Ungheria con questi patti, se da' reali non fossero soccorsi infra XV dì: e rimanendo nelle loro franchigie e costume ch'erano col re Ruberto, e che dentro della terra non dovessono entrare soldati né gente d'arme più di X per volta, se·ggià non fosse colla persona del re d'Ungheria, o suo fratello; e di ciò diedono XX stadichi de' migliori della terra. E avuta Sermona, non rimase persona in Abruzzi che non fosse all'ubidienza del re d'Ungheria. E del mese di novembre apresso, della detta gente d'arme del re d'Ungheria che facieno loro capo all'Aquila, in quantità di MD cavalieri e pedoni assai, avuta Sermona, passaro la montagna di Cinque Miglia, e scesono in Terra di Lavoro, e presono Sarn, e·ll'antica città di Venastri, e Ciano, che tenea il figliuolo del conte Novello; diede alla detta gente il mercato e·lla reddita, però che, come il padre, amava più la signoria del re d'Ungheria che degli altri reali. E il conte di Fondi, nipote che·ffu di papa Bonifazio VIII, entrò in San Germano colle 'nsegne del re d'Ungheria e con gente d'arme per lui.
<B>CIV</B>
<I>Come i reali col loro sforzo inn-arme si ragunarono alla città di Capova.</I>
Sappiendo la reina e gli altri reali, onde si facea capo meser Luigi, ch'avea sposata la detta reina, come Sermona e·ll'altre dette terre s'erano rendute all'ubidienza del re d'Ungheria, incontanente feciono capo grosso alla città di Capova, acciò che·lla forza del re d'Ungheria non potessono passare il fiume del Voltorno per andare verso Napoli. Il prenze di Taranto e il duca di Burazzo vennero a Capova con più altri baroni, e co·lloro sforzo di gente d'arme, e ritrovarsi con meser Luigi con più di IImD cavalieri, bene e riccamente montati e bene in arme, e con popolo grandissimo, e quivi s'accamparono a modo d'oste nella terra e di fuori, e ogni dì crescea loro sforzo e podere per modo che·sse i detti reali fossono stati costanti e uniti insieme, per forza di gente che 'l re d'Ungheria avesse, néd eziandio venendo in persona, non avea podere di passare. Ma a·ccui Idio vuole per le peccata giudicare, toglie a' signori e a' popoli la forza e·lla concordia. E così avenne fra' detti reali; che tuttora con poca fermezza ciancellavano insieme e tali di loro e degli altri gran baroni del Regno s'intendeano con lettere al segreto col re d'Ungheria. In questa stanza ebbe più scontrazzi dalla gente de' reali a quella del re d'Ungheria, quando a danno dell'una parte, e quando dell'altra. Lasceremo alquanto di questa matera infino alla venuta del re d'Ungheria, e diremo d'altre novità che ne' detti tempi furono in Roma. La reina e gli altri reali mandarono lettere e ambasciadori in mezzo novembre al Comune di Firenze per soccorso di Dc cavalieri: fu loro risposto saviamente come il nostro Comune nonn-era aconcio di travagliarsi tra·lloro reali inn-opera di guerra, ma tramettersi di pace tra·lloro, come cari amici.
<B>CV</B>
<I>Di novità e battaglie che·ffu in Roma, ove i Colonnesi furono sconfitti e poi come il tribuno fu cacciato della signoria.</I>
Nel detto anno, all'entrante d'ottobre, ambasciadori del re d'Ungheria vennero a Roma profferendosi al tribuno e popolo di Roma, il quale a grido di popolo il detto re d'Ungheria fu ricevuto a·llega e compagnia del popolo di Roma.
E a dì XX di novembre del detto anno, essendo fatta una congiura e cospirazione per li signori Colonnesi e parte degli Orsini dal Monte loro parenti, per abattere la signoria del tribuno, per cagione che il tribuno con tradimento, essendo venuti a' suoi comandamenti il prefetto e 'l conte Guido, e 'l fratello, e II figliuoli di Currado, e altri baroni venuti i·lloro compagnia, e data loro desinare, gli fece pigliare e incarcerare con onta e·lloro vergogna. E per avere i detti presi, que' di Viterbo corsono la terra, e furono tagliate a XII le teste, ch'erano pure de' maggiori, che a quello tradimento diedono opera col tribuno. Gli amici loro di Roma, Colonnesi e altri, ragunarono molto di segreto, coll'aiuto del legato del papa ch'era a Montefiascone, da DL cavalieri e pedoni assai, ond'erano caporali meser Stefano e Stefanuccio e Gianni Colonna e Giordano di Marino; e di notte giunsono a Roma, e ruppono la porta che va a Santo Lorenzo fuori le mura, per entrare dentro. Sentendosi in Roma la detta venuta, sonando la campana di Campidoglio, il tribuno col popolo furono in arme, chi a cavallo e chi a piè, coll'aiuto di certi degli Orsini di Campo di Fiore e da Ponte, e Giordano da Monte, asalirono vigorosamente i feditori di quelli della Colonna, che·ggià per forza d'arme e con danno d'alquanti del popolo di Roma s'erano pinti dentro alla porta, i quali erano CL a cavallo; ma per lo soperchio de' Romani d'entro furono ripinti di fuori della porta in isconfitta; e uscendo fuori della terra la gente del tribuno e del popolo, ond'era capitano Cola Orsini e Giordano dal Monte, e per nimistà di suoi consorti e di Colonnesi, cacciandogli, sconfitti quellino ch'erano rimasi di fuori, non ressono, ma si missono in fuga; ove rimasono morti e presi assai. Intra gli altri caporali furono morti VI di casa Colonnesi, ciò furono Stefanuccio e Gianni Colonna suo figliuolo, e il proposto di Marsilia, e Gianni figliuolo d'Agabito, e due altri loro bastardi valentri in arme; onde i Colonnesi ricevettono gran danno e abassamento, e 'l tribuno ne montò in gran pompa e superbia; e mandonne lettera co' messi e con ulivi significando la sua grande vittoria al nostro Comune, e quello di Perugia e di Siena, e degli altri suoi vicini confidenti. Il quale messo, che venne in Firenze, fu riccamente vestito. E avuta il tribuno la detta vittoria, l'altro dì fece grande processione di tutto il chericato di Roma a Santa Maria Maggiore. E poi a dì XXIIII di novembre, fatta la mostra di sua cavalleria, fece cavaliere il suo figliuolo andando a Sa·Lorenzo, e meser Lorenzo della Vittoria il nominò. In quelli dì, poco apresso, venne in Roma uno vicario del papa. Il tribuno il ricevette per compagno, faccendo un grande parlamento in Campidoglio, e ivi aringando propuose l'autorità: "Legem pone michi, Domine in via giustificazione tuais"; mostrando al popolo di volere ubidire al papa, istando in grande festa e pomposa. Ma poco durò al tribuno la sua vana gloria e felicità, come diremo; che per la sua audace e aspra giustizia avea fatto citare, e poi non vegnendo a' suoi comandamenti, il conte Paladino d'Altemura di Puglia, il fece sbandire, perché nelle parti di Terracina in Campagna usava, secondo si dicea, ruberie e forze; venne a Roma con CL cavalieri coll'aiuto del capitano del Patrimonio, per opera del legato. E nota che·lla Chiesa al cominciamento al tribuno diè favore, e poi, cui fosse la colpa, fé il contradio. Il detto Paladino si ridusse nella contrada di Colonnesi da Santo Apostolo, e con certi de' Colonnesi rimasi e co·lloro vicini e amici fece sonare a martello le campane della detta chiesa e dell'altre della forza de' Colonnesi, e in quelle contrade levò la terra a romore, e ragunò gente assai a'ccavallo e a piè e amici di Colonnesi, e·cciò fu a dì XV di dicembre del detto anno, gridando: "Viva la Colonna, e muoia il tribuno e' suoi seguaci!". A questo romore le contrade di Roma s'abarraro, ciascuno colle sue forze e fortezze, guardando loro contrade. Il detto Paladino e popolo di Colonnesi vennero a Campidoglio. Il tribuno non fu seguito, come dovea, né dagli Orsini né dal popolo. Il tribuno veggendosi così abandonato, sconosciuto uscì di Campidoglio, e vennesene in Castello Sant'Agnolo, e là nascosamente si dimorò fino alla venuta del re d'Ungheria a Napoli, a·ccui si dice andò per mare sconosciuto in su uno legno. Tale fu la fine della signoria del tribuno di Roma. E nota, lettore, che·lle più volte, quasi sempre, aviene a chi si fa signore o caporale di popoli d'avere sì fatta uscita, però che di veri segni della fortuna è che' sùbiti avenimenti di felicità e di vettoria e signoria mondana tosto vegnono meno. E bene acade al tribuno il motto che disse in sua rima un savio:
Nessuna signoria mondana dura,
E·lla vana speranza t'ha scoperto
Il fine della fallace ventura.
Lasceremo de' fatti di Roma alquanto, la quale rimase in più pessimo stato in tutti i casi, che no·lla trovò il tribuno quando prese di quella la signoria, credendola per sua audacia correggerla, essendo in rovina; e diremo come morì il Bavero che·ssi chiamava imperadore.
<B>CVI</B>
<I>Come morì Lodovico di Baviera chiamato Bavero, che·ssi tenea d'essere imperadore, e fu eletto a nuovo imperadore Adoardo re d'Inghilterra.</I>
Nel detto anno MCCCXLVII, all'entrante d'ottobre, Lodovico di Baviera, che·ssi chiamava imperadore, essendo alla sua città... e cavalcando... il cavallo gli cadde sotto, e della detta caduta subitamente morìo sanza penitenza, scomunicato e dannato da santa Chiesa; però che·nn'era perseguitore e nimico, come adietro in più parti avemo fatta menzione. Fu sopellito dal figliuolo e da' suoi baroni a grande onore a guisa d'imperadore nella sua terra di... Il figliuolo, ch'avea nome... ed era marchese di Brandiborgo, uomo prode e valoroso, rimase in Alamagna in grande stato e signoria e ricco. E nota che chi muore in contumacia di santa Chiesa e scomunicato sempre pare che faccia mala fine; e questo si vede palese per antico e per novello. Morto il Bavero, parte delli elettori dello 'mperio, ciò furono per contradio del papa e della Chiesa, perch'avieno fatto eleggere e poi confermato Carlo re di Buem quasi per contrario di più signori e popoli d'Alamagna, vivendo Lodovico detto Bavero, e per dispetto e dilegione della Chiesa, gli Alamanni il chiamavano lo 'mperadore di preti, e piccolo séguito avea in Alamagna, elessono a nuovo imperadore Aduardo terzo re d'Inghilterra, al quale fu mandata la lezione con grandi impromesse di baroni e signori della Magna, per agrandillo, e per dispetto del re di Francia, però ch'avea procacciato col papa la lezione e confermagione di Carlo di Buem. Il quale re Aduardo e 'l suo figliuolo aveano diliberato d'accettare la detta lezione; ma·lla maggior parte de' baroni d'Inghilterra e' capi delle Comuni nol consigliavano, e rimase a tanto sospesa la detta elezione etc. Lasceremo alquanto della elezione de' detti II imperadori, ch'a tempo, quando seguissono i loro processi, torneremo a·cciò; e diremo dell'avenimento inn-Italia del re d'Ungheria, che·nne segue grandi cose e novitadi.
<B>CVII</B>
<I>Come 'l re d'Ungheria passò inn-Italia per andare in Puglia.</I>
Lodovico re d'Ungheria non avendo dimenticato la crudele e vituperevole morte fatta in Aversa del suo fratello Andreas, al quale succedea d'essere re di Cicilia e di Puglia, come stesamente raccontammo in uno capitolo adietro, e avendo da' suoi capitani e genti, i quali avieno per lui rubellata la città dell'Aquila, e al continovo prosperavano felicemente, come in quelli processi adietro è fatta menzione, non si volle più indugiare di venire a fare vendetta, parendogli tempo acettevole a raquistare il regno di Puglia, che di ragione per retaggio del re Carlo Martello suo avolo gli succedea. Bene aventurosamente si partìo di sua terra d'Ungheria a dì III di novembre MCCCXLVII, sabato mattina un'ora o più anzi il sole levante, con da cavalieri o più eletti Ungari, con molti suoi baroni, e con molto tesoro e fiorini contanti da spendere, i quali per abondanza d'oro facea battere in Ungheria contrafatti a' nostri fiorini d'oro, salvo del nome, che dicieno: "Lodovico re". E lasciò in Ungheria... suo fratello re di Pollonia colla madre e colla moglie, e ordinò ch'al continovo il seguissono gente d'arme, come sofferisse il camino per lo caro ch'era stato l'anno passato, ed era ancora e di là da' monti e inn Italia. E a dì XXVI di novembre giunse inn-Udine; il quale dal patriarca d'Aquilea fu ricevuto graziosamente. E·llà giugnendo gli ambasciadori del Comune di Vinegia per proffereglisi, i quali isdegnò, e apena gli volle udire tenendosi gravato dal Comune di Vinegia della presa di Giadra fatta per loro contro a suo onore, come contammo adietro. E entrando inn-Italia il detto re d'Ungheria, arrivò a Cittadella, e il signore di Padova gli andò incontro a farli onore, e profferendoglisi con D cavalieri, ma però non volle entrare in Padova, ma entrò in Verona a dì II di dicembre; e da meser Mastino della Scala fu riceuto graziosamente faccendogli grande onore; vi soggiornò alcuno dì. E alla sua partita gli diè CCC de' suoi cavalieri della migliore gente ch'egli avesse che gli feciono compagnia fino a Napoli. Partito il re di Verona, non volle entrare in Ferrara, ma fece la via da Modona, e·llà giunse dì X di dicembre; e da' marchesi gli fu in Modona fatto grande onore; e vennevi meser Filippino da Gonzago di signori di Mantova e di Reggio con CL cavalieri, e seguillo infino a Napoli. E partito da Modona, giunse in Bologna a dì XI di dicembre, e dal signore di Bologna fu ricevuto a grande onore, non lasciando spendere né a·llui né a sua gente niuno danaio in Bologna né in suo distretto. Partendosi di Bologna il conte di Romagna che v'era per la Chiesa, no-llo lasciò entrare né inn-Imola né in Faenza, ma ne' borghi di fuori albergò. E il signore di Forlì gli andò incontro fino in sul contado di Bologna con CC cavalieri e mille fanti a piè in arme, e con grande onore il ricevette in Forlì a dì XIII di dicembre, fornendogli la spesa a·llui e a sua gente, e in Forlì sogiornò III dì con grande festa e carole d'uomini e di donne e di donzelle; e fece cavalieri il signore di Forlì e li suoi figliuoli e poi altri Romagnuoli, e meser Pazzino di Donati nostro cittadino. E partito di Forlì, giunse a Rimino a dì XVI di dicembre, e da meser Malatesta fu ricevuto a grande onore al modo degli altri signori, e più magnamente, e là sogiornò alcuno dì, e di là il seguì il signore di Forlì con CCC cavalieri di sua migliore gente fino a Napoli onoratamente. Partito il detto re da Rimino, faccendo il cammino da Orbino giunse in Fuligno a dì XX di dicembre, il quale da meser Ugolino de' Trinci che·nn'era signore, fu ricevuto a grande onore, e soggiornòvi da III dì. E·llà venne a·llui il legato del papa cardinale, e ragionò co·llui di più cose delle bisogne del Regno, amunendo il re non facesse crudele vendetta né contra a' reali divoti di santa Chiesa e innocenti, e che furono solamente due quelli che furono colpevoli, e que' furono giustiziati. Apresso l'amonìo che contra la signoria di santa Chiesa, di cui era il Regno, non dovesse usare signoria né dominazione sanza l'asento del papa e de' suoi cardinali sorto pena di scomunicazione; bene che di ciò dicesse che dal papa non avea speziale mandato, ma di questo il consigliava ed amoniva. Al quale i·re rispuose saviamente e con alte parole e franche, dicendo che di sua vendetta non s'avea a tramettere né elli né·lla Chiesa, e dove dicea che furono due, sapea di CC; e che il Regno era suo per giusta successione dell'avolo, e che riavendo la signoria, come intendea d'avere coll'aiuto di Dio, alla Chiesa risponderebbe di quello che dovesse ragionevolemente. La scomunica a torto, se·lli fosse fatta, poco curava, però che Iddio maggiore che 'l papa sapea la sua giusta impresa; questo sapemmo da alcuno di nostri ambasciadori, con cui il legato ne parlò, uomo degno di fede. Lasceremo alquanto della matera degli andamenti del detto re, quando e come entrò nel Regno, e di suoi processi, che·nne faremo assai tosto nuovo capitolo, e diremo inanzi d'una ricca ambasceria che 'l Comune di Firenze mandò al detto re e 'l Comune di Perugia.
<B>CVIII</B>
<I>Come il Comune di Firenze mandò una grande ambasceria a·rre d'Ungheria.</I>
Sentendo i Fiorentini la venuta del re d'Ungheria, e come già era a Verona, ordinarono di mandarli una solenne ambasceria; ciò furono gl'infrascritti X grandi popolani, e niuno di grandi, cioè di noboli, per gelosia che' grandi no·llo 'nformassono in nullo caso contra lo stato del popolo. E in questa parte i rettori, e quelli del loro consiglio che·ll'ebbono a provedere, da' savi ne furono ripresi, imperò che diedono matera a' grandi e noboli di sdegno essendo ischiusi degli onori del Comune in sì fatto caso, e da dovere più tosto criare discordia cittadina, e al signore fare amirare. E più chiaro consiglio e migliore per lo Comune era ad avervi mandati tra' detti ambasciadori almeno tre di noboli buoni uomini e confidenti al popolo; ma quello che pare all'empito del popolo non si può riparare, con tutto che·lle più delle volte sia con mala uscita. I detti ambasciadori furono questi: messer Antonio di Baldinaccio degli Adimari, tutto fosse di più grandi e noboli, per grazia era messo tra 'l popolo, messer Oddo Altoviti giudice, messer Tommaso de' Corsini giudice, messer Francesco degli Strozzi, messer Simone de' Peruzzi, messer Andrea delli Oricellai, cavalieri popolani; Antonio degli Albizi, Vanni di Manno di Medici, Gherardo di Chele Bordoni, Pagolo di Boccuccio de' Capponi; questi III ultimi si feciono fare cavalieri al detto re. Ciascuno di detti ambasciadori per ordine del Comune si vestiro di roba di scarlatto a tre guernimenti federate di vaio. E ciascuno con due o tre compagni vestiti tutti insieme d'un panno divisato molto apparente. E oltre a·cciò ciascuno almeno due donzelli, e·cchi tre, vestiti d'una assisa d'una partita, e co·lloro II cavalieri di corte; onde furono con da C cavalli e bestie, colle some, che non si ricorda a' nostri dì sì ricca e onorevole ambasciata ch'uscisse di Firenze. E partirsi di Firenze a dì XI di dicembre, e giunsono il re d'Ungheria in Forlì, e·llà gli feciono la riverenza; e da·llui furono ricevuti graziosamente, e simile molto onorati da quelli signori di Romagna. E·re volle a cautela e magnificenza di sé il seguissono infino a Filigno; ma a Rimino gli sponessono loro ambasciata, la quale ambasciata e risposta fu nella forma ch'è ritratta qui apresso per meser Tommaso Corsini, che·nne fu dicitore. E poi giunti a Filigno, pregato il re da' nostri ambasciadori, di buona voglia fece i sopradetti III delli ambasciadori cavalieri di sua mano con gran festa; e poi il dì apresso si partì di Filigno, e andonne verso l'Aquila, e·lli ambasciadori nostri tornarono in Firenze a dì XI di gennaio.
<B>CIX</B>
<I>Ambasciata sposta a Rimino per gli ambasciadori di Firenze al re d'Ungheria mandati, recitata nel cospetto del re e del suo consiglio per meser Tommaso Corsini in gramatica con molti alti latini; fatta volgarizzare per seguire lo stile.</I>
Priegoti che gli occhi tuoi stieno aperti alla mia orazione, la quale oggi dinanzi a·tte farò per tuoi figliuoli e devoti. Le parole predette sono parole di Geremia profeta, le quali si discrivono nel proemio del libro suo.
Serenissimo principe, il quale a tutti l'Italiani siccome splendida e chiara stella gitti razzi, e 'l quale per la chiarezza di te ogni altro lume di splendore diminuisci, siccome aviene alla luna e alle stelle in comperazione a·dDio, nel cospetto del quale la luna non risprende, le stelle non tralucono e immonde sono. La presente orazione, la quale con istupore e paura parlerò per tanta presenzia di così grande re, futura è di grande e alta materia, la quale infino a' cieli passerà l'onore e·llo stato reale da ogni parte riguardando, per la quale ancora dipenderà lo stato de' devoti della casa reale, la quale se sarà con soavità d'amore compresa, dolcissimi frutti partorirà e graziosi avenimenti aparecchierà. Questa è orazione, per la quale i Fiorentini veghievoli con animata devozione a' pregenitori tuoi igualmente e a·tte la tua celsitudine amantissimamente destano, acciò che quella desta, tutte le nebbie passino via, e al tutto venghino meno. Sieno adunque intorno alle parole promesse gli occhi della tua maestà aperti alla mia orazione, acciò che per quello, sì allo stato reale, come allo stato de' suoi divoti si possa salutevolmente provedere. La presente orazione, acciò che quelle cose che·ssi debbono dire chiaramente si possano vedere, si divide in tre parti: la prima è raccomandatoria e offeritoria, la seconda narratoria e supplicatoria, la terza confutatoria.
Al primo: i priori dell'arti, e gonfaloniere di giustizia, il popolo e 'l Comune della città di Firenze imposono a·nnoi che a' piè della tua maestà loro e·lla loro città e tutti gli altri divoti d'Italia raccomandare con riverenza dovessimo, e que' Fiorentini siccome devotissimi, e·lla loro fiorentissima città siccome muro e steccato reale, con quella devozione, con che a' tuoi pregenitori, siccome a' padri e benefattori suoi, essere suti fatti la publica fama il manifesta, a·tte come degnissimo capo della tua schiatta pe' nostri raportamenti ti dobbiamo offerere quelle cose, che con allegro animo raportiamo e narriamo, suplicandoti che·lla reale ecelsitudine la racomandagione e·ll'oferta di tanti tuoi devoti con graziosi effetti degni d'accettare.
Al secondo: quale Fiorentino, se uomo si può dire, per virtude puote esere dimentico della divozione e della benevolenzia tra·lla casa reale e' tuoi pregenitori e 'l Comune di Firenze da lunghi tempi congiunta, e con graziosi effetti e diversi avenimenti per successione di tempo aprovata? A·tte ancora, amantissimo principe, si conviene di questa benivolenza de' tuoi pregenitori, e della nostra devozione, almeno per udita e per notoria fama, la quale questo nell'universo mondo grida esere manifesta. Noi ancora della circuspezione reale, e ancora del circulato de' cavalieri di quella, è convenevole de' lor fatti rinovare memoria, acciò che non periscano per lo passamento del passato tempo quelle cose che hanno meritato in perpetuo avere vigore. Se adunque con attento animo rivolgerai le cose fatte magnifiche e benifici della prechiara memoria del cristianissimo principe re Carlo trisavolo tuo, or none i Fiorentini guelfi, della città di Firenze cacciati, colla sua potenzia e con armata mano in quella città groriosamente rimise? Se del secondo re Carlo bisavolo tuo le cose fatte rivolgerai, partissi elli dall'opere del padre suo? Certo no. Ma con quello proveduto e favorevole seguire lui seguitando, molti beni a' Fiorentini fece. Se del sapientissimo de' savi re Ruberto tuo zio, il quale fu specchio non corrotto di tutti i re (avegna che per generazione Ruberto, e per unzione re Ruberto fosse nomato, per la smisurata e non udita sapienza, per una regenerazione dovrebbe esere apellato novello Salamone), i suoi fatti rivolgerai, partissi elli dalle vie de' suoi pregenitori? Or none. Quando della degnità ducale usava ad istanza di Fiorentini a strignere e vincere la città di Pistoia, con risprendevole compagnia di cavalieri personalmente venne. E poi venuto a dignità reale partissi elli dalle cose incominciate? O innumerevoli benifici a quelli Fiorentini fece, in tanto che in caso del bisogno al suo unigenito figliuolo non perdonasse? Che se rivolgerai le cose fatte da meser Filippo prencipe di Taranto, che se di meser Piero suo fratello grandi tuoi zii, che se di meser Carlo figliuolo del detto meser lo prencipe di Taranto consubrino tuo le cose fatte ripensi, none i due ultimi moriro nel piano da Montecatini vincendo i nimici, e il loro sangue battaglievolmente fu sparto, il quale sangue ancora della terra crudelmente grida? Qua' lingua, quantunque eloquente, tante cose potrà narrare? Certo, meglio sotto silenzio è passare che più parlarne, con ciò sia cosa che per silenzio a dirittamente raguardanti più e maggiori cose si deano a 'ntendere. Adunque, acciò che' detti benifici non paiano dimenticati, la nostra intenzione è questa eziandio, se de' fanciulli infanti domandi, i figliuoli, le ricchezze, la vita e·ll'essere ricognosciamo essere proceduta de' detti tuoi pregenitori. Ma·sse adomandi quello che abbiamo fatto a questi tuoi pregenitori, se·llicito è de' fatti benifici racordare, che feciono i Fiorentini contra lo scomunicato re Manfredi? Che contro a Curradino? Che contro allo 'mperadore Arrigo? Che contro al Bavero dannato? A' quali i detti Fiorentini contastanti, per conservare la casa reale, con gran potenza si fecero. L'altre cose sotto silenzio passiamo, sotto il quale silenzio la reale circuspezione eziandio più e maggiori cose comprenderà. Le quali sono ancora più vere che·lle suddette, in tanto che·nnoi non siamo solamente de' tuoi pregenitori e di te figliuoli d'adozzione, ma più tosto congiunti di vera natura. Re adunque gloriosissimo, chi potrà sì fatta congiunzione e devozione individua spartire? Chi·lla potrà divellere o maculare o turbare? Certo, niuno. Per le dette adunque cose la preghiera nostra è questa, reverendissima corona, che·tti preghiamo che gli occhi della tua celsitudine a·nnoi e agli altri devoti d'Italia benignamente converti, acciò che sempre nel cuore reale sia legame indissolubile di benivoglienza e d'amore, e quello non abandoni, ma in te per uno ordine di successione si palesi quella divozione ed amore indissolubole radicata ne' cuori de' Fiorentini a·tte siccome a padre e benifattore nostro pe' nostri e delle dette comunità preghieri ci offeriamo, com'è detto.
A l'ultimo: avegna Idio, amantissimo prencipe, che·lla maestà reale la circunvenzione degli emuli e·lle sforzate macchinazioni a suo podere con somma provedenza scacci, neentemeno la faccia di detti invidiatori, che con tante arti con tanti colori adornati con somma ragione noi proveduti e cauti ci rende, e ancora ci strigne la maestà reale di queste cose informare, e ancora più attentamente pregare, acciò che nelle vie de' suoi pregenitori fermamente perseveranti li sforzamenti di quelli emuli, siccome contagioso morbo, con sottile ingegno di lungi da·ssé cacci e distrugga. Per la qual cosa l'astuzia de' detti emuli diverrà vana e non potrà prevalere, ma come il fieno subitamente si secchi, e·ll'amore nostro e degli altri della casa reale devoti crescerà e sarà immutabile. Dio altissimo benedicenti e lodanti, e sanza fine dicenti: "Benedetto che venne nel nome del Signore".
<B>CX</B>
<I>Risposta fatta in presenzia della maiestà reale ivi per lo venerabile uomo messer Giovanni, cherico di Visprimiense, a·ccui il re la risposta commisse.</I>
"L'ambasciata del Comune di Firenze così solennemente e ordinatamente esposta messere lo re volentieri ha udita, e·lle cose fatte de' suoi pregenitori, ella benivolenza, la quale al Comune di Firenze, a' Fiorentini e a quella città, i pregenitori suoi sempre hanno avuto, e·lla congiunzione che sempre fu intra·lloro e col Comune predetto, con grazioso animo ha acettato, offerendosi ancora quella sempre servare, e·lle vie de' suoi pregenitori sempre sequitare".
E mentre che 'l detto eletto questa risposta facea, il re gli s'acostò all'orecchio manco, e in silenzio a·llui parlò, il quale eletto incontanente disse: "Il nostro signore dice ch'elli intende i Guelfi d'Italia sempre avere raccomandati".
Poscia che giunti fummo a Filigno, e quivi furono gli onorevoli ambasciadori del Comune di Perugia, e avuta tra·nnoi e·lloro collazione e diliberagione, in prima co·lloro ci rapresentammo dinanzi al cospetto reale, e quelle cose in diversi sermoni spartitamente e per loro e per noi alla maestà reale furono recitate, le quali erano inn-effetto una medesima cosa, in comune sermone recate per lo detto meser Tommaso di comune concordia dell'uno e dell'altro Comune furono sposte. Il quale, oltre alle predette, lo stato e·lla libertà de' detti Comuni e degli altri di Toscana e di tutta Italia, divoti della casa reale e de' suoi pregenitori, alla escelsitudine reale raccomandò. Il re udite le predette cose, tutte graziosamente accettò, e offersesi di fare tutte quelle cose che nella detta pitizione erano pienamente narrate e che il Comune di Firenze, e quello di Perugia, e di Siena, gli rimandassono per comune due o tre di loro ambasciadori savi e discreti, i quali voleva nel Regno intorno a·llui per suo consiglio; e a' detti ambasciadori diede graziosamente congio di tornare a Firenze. I nostri ambasciadori partiti di Filigno, vennero a Perugia, e quivi sogiornarono alquanti dì a parlamentare col legato cardinale, e co' rettori di Perugia e cogli altri ambasciadori de' Comuni ch'erano stati a·rre d'Ungheria, dello stato di Toscana e del paese intorno in benificio di parte guelfa e della Chiesa, per la venuta del detto re d'Ungheria e dello imperadore Carlo suo suocero, che parea loro che 'l detto re avesse presa troppa famigliarità co' tiranni e signori di Lombardia e di Romagna e della Marca di parte ghibellina. Il quale legato consigliò i detti Comuni che mandassono loro ambasciadori al papa a pregarlo s'intraponesse, che·llo imperadore Carlo non passasse, acciò che·lla parte imperiale non crescesse collo apoggio e favore della potenza de·rre d'Ungheria suo genero, e che·cciò piacerebbe al papa e a' cardinali, e ch'elli ne sapea bene l'oppinione suo segreto, e s'elli l'avea creato e fatto, era per contrario del dannato Bavero, vivendo; ma dapoi ch'era morto, non facea per la Chiesa che·lla signoria del detto Carlo, colla potenza del re d'Ungheria signoreggiando il Regno, crescesse in Italia: questo segreto sapemmo da alcuno di nostri ambasciadori. E nota, lettore, l'essempri de' rettori di santa Chiesa, di fare e di volere disfare la signoria dello 'mperio a·ssuo utile e beneplacito; e questo basti.
<B>CXI</B>
<I>Come il re d'Ungheria entrò nel Regno, ed ebbe la signoria a queto e sanza contasto.</I>
Sogiornando in Filigno il re d'Ungheria II dì con grande festa, e fatti cavalieri i detti di nostri ambasciadori, come detto avemo, e fatti cavalieri più altri e di Perugia e di Filigno e della Marca e del Ducato, e poi si partì di Filigno a dì XXII di dicembre, e giunse all'Aquila la vilia di Natale, e là fece la festa, e vennevi all'Aquila a·rre il conte di Celano, e 'l conte di Loreto, e 'l conte di San Valentino, e Nepoleone d'Orso, e più altri conti e baroni d'Abruzzi, e feciono l'omaggio e fedaltà al detto re; poi si partì dall'Aquila, fatta la festa di Natale, e andonne col conte di Celano a Castello Vecchio sua terra. E a dì XXVII di dicembre entrò il re in Sermona, e da' Sermontini fu ricevuto onoratamente come loro signore; e partito di Sermona n'andò a Castello di Sanguine e poi a Sarno, e di là n'andò a Bruzzano; e ivi presso a tre miglia avea due castelletta, dov'erano meser Niccola Caraccioli e meser Agnolo di Napoli, i quali feciono alcuna risistenza, onde furono combattuti dalla gente del re, e per forza vinti e tutti rubati, e poi arsi; e' detti II cavalieri napoletani presi con più altri.
E sappiendo il re che a Capova era messer Luigi e gli altri reali co·lloro sforzo di gente d'arme, non si volle mettere al contasto di quella gente né del passo del fiume del Voltorno, che·llà è molto grosso e profondo, e però fece la via che fece anticamente il re Carlo vecchio per la contea d'Alifi da Marcone, e poi arrivò a Benevento a dì XI di gennaio; e giugnendovi la sua gente, que' di Benevento per tema d'esere rubati, ch'assai danno avea sua gente di ratto fatto per cammino, e però serrarono le porte. Ma quando vidono la persona del re, s'asicurarono, e·ll'apersono. E venuto il re in Benevento, vi sogiornò da VI dì, e·llà venne tutta la sua gente dall'Aquila e ch'erano stati a Tiano; e in quello paese, e con suoi Ungari e con Lombardi e Romagnuoli, ch'erano venuti al suo servigio, si trovò in Benevento con più di VIm cavalieri e popolo infinito; e·llà vennero tutti i baroni del paese a farli reverenza e omaggio. E vennevi una grande ambasceria da Napoli, a profferelli la terra, come a·lloro signore. Sentendo i reali e gli altri baroni ch'erano a Capova con meser Luigi che il re era a Benevento, e prosperava felicemente e sanza contasto, si partirono co·lloro gente, e andarono a Napoli, abandonando meser Luigi, e lasciandolo con poca compagnia, e ordinaro di venire al re a farli reverenza, come s'apressasse a Napoli. Lo re si partì di Benevento a dì XVI di gennaio, e venne a Mattalona, e nella sua partita que' da Benevento s'armaro, e azzuffarsi co' malandrini che seguivano l'oste del re e rubavano dove poteano, ed ebbevi de' morti assai d'una parte e d'altra, e fu arso parte d'un borgo di Benevento.
La reina Giovanna, che·ss'era ridotta e aforzata nel castello di Napoli, sentendo che 'l re venia con tanta forza verso Napoli, nascostamente e di notte, a dì XV di gennaio, si partì del castello con sua privata famiglia e con quello tesoro che potéo trarre del castello, che poco ve n'era rimaso, si·nn'era fatta mala guardia dopo la morte del re Ruberto, e per la via di Piedigrotta si ricolse la reina in su tre galee armate di Provenzali, ch'ella avea fatte stare in concio, e fecesi porre a Nizza in Proenza a dì XX di gennaio; come fece in Proenza diremo poi assai tosto in altro capitolo. Messer Luigi sentendo come la reina s'era partita di Napoli, e 'l re d'Ungheria prosperava felicemente, di notte con meser Niccola Acciaiuoli suo fidato compagno e consigliere, parendo loro male stare, e veggendosi abandonato dagli altri reali e baroni, si partirono di Capova, e vennero a Napoli. E non trovandovi galea armata, con grande fretta e paura si ricolsono co·lloro privata famiglia su un panfilo, non potendo avere galea di cui si fidassono; e con quello, con grande pena e misagio, arrivarono a Porto Ercole in Maremma, e·llà scesono a dì XX di gennaio, e vennero a Siena a dì XXIIII di gennaio privatamente; e poi nel contado di Firenze vennero, e·llà sogiornarono alquanto, come in altro capitolo diremo più steso, tornando a dire de' processi del re d'Ungheria, e della morte del duca di Durazzo e della presa degli altri reali.
<B>CXII</B>
<I>Come il re d'Ungheria fece morire il duca di Durazzo, e fece pigliare gli altri reali, e come entrò in Napoli.</I>
Partito il re d'Ungheria di Benevento, fece la via da Matalona, e giunse in Aversa a dì XVII di gennaio. Que' d'Aversa ebbono gran paura, perché si dicea che 'l re la farebbe distruggere, perché v'era morto il re Andreas suo fratello, e nascosono e sotterrarono tutto loro tesoro e cose care; ma il re ordinò un suo vicaro chiamato fra Moriale con suoi Ungari in arme alla guardia della terra, e fare giustizia di rubatori e malandrini, ch'assai ne seguivano suo oste. E inn-Aversa soggiornò il re da VI dì, dimorando nel castello reale d'Aversa. E·llà vi vennero più di mille gentili uomini di Napoli a vedere il re, e vennevi il conte di Fondi, nipote che·ffu di papa Bonifazio, di Campagna, con D cavalieri al suo servigio; e più altri baroni del paese vi vennero a farli omaggio. Vennervi i reali, ciò furono il prenze di Taranto, nominato Ruberto, con Filippo suo minore fratello; che meser Luigi, come avemo detto, s'era fuggito da Napoli. E vennevi Carlo duca di Durazzo, e meser Luigi e Ruberto suoi fratelli, e figliuoli che furono di meser Gianni prenza della Morea. E venne co·lloro Giovannone di Cantelmo, e Giufredi conte di Squillaci amiraglio del Regno con molti altri baroni e cavalieri (avendo il re data loro fidanza, con patto che non fossono stati colpevoli della morte del fratello), e giunti al re al castello d'Aversa, gli feciono omaggio; e tutti gli baciò in bocca e diè loro desinare; e·cciò fu dì XXIII di gennaio. E dopo mangiare il re fece armare tutta sua gente, ed elli medesimo s'armò, e mossesi per venire a Napoli, e' reali disarmati cogli altri baroni intorno di lui faccendogli compagnia. E come furono a cavallo, il re disse al duca di Durazzo: "Menatemi ove fu morto Andreas mio fratello". Il duca disse: "Non ve ne travagliate, ch'io non vi fu' mai", credendolo levare dall'oppenione, e già temendo per li crudi sembianti de·rre. Il re disse vi pure voleva andare a vedere; e giunti al monistero di frati di Maiella, smontò da cavallo, e saliro in sulla sala e al gueffo, cioè sporto sopra il giardino, ove il re Andreas fu gittato strangolato e morto. Allora il re si volse al duca di Durazzo, e dissegli: "Tu fosti traditore e adoperatore della morte del tuo signore e mio fratello e adoperasti in corte col tuo zio cardinale di Peragorga, che a tua pitizione s'indugiò e non si fece, come dovea, per lo papa la sua coronazione. Lo quale indugio fu cagione della sua morte, e con frode e inganno ti facesti dispensare al papa di torre per moglie la tua cugina sua cognata, acciò che·llui morto e·lla reina Giovanna sua moglie, tu succedessi ad esere re; e·sse' stato in arme contro alla nostra potenza col traditore meser Luigi di Taranto tuo cugino, e nostro ribello e nimico, il quale ha fatto come tu, con frode e sagrilegio sposata quella rea femmina e adultera e traditrice del suo signore e marito, Giovanna moglie che·ffu d'Andreas nostro fratello. E però e' conviene che·ttu muoia ove facesti morire lui". Il duca di Durazzo si volea scusare non colpevole, e domandò al re misericordia. Lo re gli disse: "Come ti puo' tu scusare?", mostrandogli lettere con suo suggello ch'elli avea mandate a Carlo d'Artugio del trattato della morte d'Andreas. E incontanente, come avea ordinato, il fedì nel petto, che non avea arme, uno meser Filippo ungaro, e poi lo prese uno per li capelli; e 'l detto meser Filippo gli tagliò la gola, non però afatto il collo, ma de' detti colpi morì di presente. E da certi Ungari che gli erano d'intorno fu preso e gittato da quello verone nel giardino ove fu gittato Andreas, e comandò nogli fosse data sepoltura sanza sua licenzia. E·cciò fatto, com'era ordinato, gli altri IIII nominati reali furono presi e messi in buona guardia di cavalieri ungari nel castello d'Aversa; e di certo si disse, e crede, che s'elli avesse preso co·lloro meser Luigi e·lla reina, tutti gli avrebbe fatti morire co·llui. E loro presi, tutti i loro cavalli e arnesi furono rubati, e simile i loro ostelli di Napoli, salvo quello del prenze di Taranto. E·lla moglie del duca di Durazzo, ch'era in Napoli, di notte, mal vestita e peggio in arnese, con due sue piccole fanciulle in braccio, si fuggì nel munistero di Santa Croce, e poi di là nascosamente vestita in abito di frate, e con poca compagnia, arrivò a Montefiascone al legato; e poi isconosciuta se n'andò verso Francia. Tale fu la fine del duca di Durazzo, e·lla presura degli altri reali, e scacciamento di loro donne e di loro famiglie. Per molti se ne fece quistione, opponendo al re tradimento del suo sangue, avendogli fidati e baciati in bocca, e caritevolemente mangiato co·lloro, e poi fatto morire il duca di Durazzo, e gli altri reali innocenti presi. Altri dissono che non era tradimento a tradire il traditore, se colpa v'ebbe, come gli oppose. Ma per li savi si giudicò che questa crudeltà e quello ne seguì di male fu dispensato e premesso da·dDio per li ladii peccati comessi nello re Andreas, ch'era giovane e innocente, che per lo peccato della invidia e covidigia della signoria sua con superbia fu commesso tradimento con iscellerato paricida di loro signore, e ancora ci fu il laido e abominevole peccato per cagione d'avolterio e sacrilegio tra congiunti, come avemo adietro fatta menzione, che·ffu cagione della morte di quello innocente. E già la vendetta d'Iddio non passa sanza penitenzia e meriti di sì innormi peccati. La presura degli altri reali fece più per sua sicurtà, che per colpa ch'avessono, se non d'essere in arme a Capova contra a·llui.
Lo re d'Ungheria quello medesimo dì, dì XXIIII di gennaio, con sua gente armati ed elli medesimo armato colla barbuta in testa, con una sopravesta indosso di sciamito porporino ivi su i gigli di perle seminati, entrò in Napoli, e non volle palio sopra capo né altra pompa, com'era aparecchiato per lui dalli Napoletani di fare. E smontò a Castello Nuovo, e intese a riformare la terra e il reame, faccendo nuovi dicreti e nuove inquisizioni della morte di suo fratello, e rinovando ufici e signoraggi, e togliendogli a·cchi trovò colpevoli, e dandoli a chi l'avea servito, che sarebbe lunga mena a dire. I Napoletani i più erano tristi e in paura, sì per le grascie degli ufici del Regno e vantaggi ch'avieno da' reali; e allora furono mutati e tolti essi per la morte del duca; che, come dice Seneca, chi a uno offende molti ne minaccia. Ivi a pochi dì mandò il re a Castello dell'Uovo per lo fanciullo si dicea rimaso dello re Andreas, nominato Carlo Martello, e videlo graziosamente, e fecelo duca di Calavra. E con buona compagnia di cameriere e di balie che 'l nodrivano e governavano, inn-una bara cavallereccia nobilemente a dì II di febraio il mandò ad Aversa, e di là, cogli altri reali che v'erano presi, con buona guardia d'Ungari il mandò ad Ortona, e di là per mare passarono inn Ischiavonia, e di là in Ungheria. Avendo assai larga prigione, con buona guardia si riposano co·lloro vergogna in Ungheria, e con poco onore, e meno da spendere. E così si muta la fortuna di questo secolo in poco tempo, altrui par essere in maggiore stato.
<B>CXIII</B>
<I>Come di soldati stati al servigio del re d'Ungheria e di quelli stati con messere Luigi di Taranto si fece una gran compagnia.</I>
Riformato il re d'Ungheria la sua signoria in Napoli, e mandati i reali suoi congiunti in Ungheria, trovò che uno duca Guernieri tedesco stato al suo soldo, e capitano di sua gente dall'Aquila, il dovea tradire per danari a petizione del re Luigi e della reina; della quale tradigione apellò, e vollesi combattere in campo contra uno signore tedesco che·ll'avea accusato; ma·llo re saviamente procedette di non volere loro quistioni. Ma 'l detto duca e gli altri soldati che·ll'aveano servito pagò cortesemente, e fece giurare loro di non prendere soldo dalla Chiesa di Roma né dalla reina, né da meser Luigi, né da nullo suo nimico né contrario, né da meser Luchino Visconti di Milano, né di non essere contra·llui né suoi amici, spezialmente contro a' Fiorentini, Perugini, e Sanesi; e diede loro congio, ch'uscissono del Regno cogli altri soldati ch'erano stati al soldo della reina e di meser Luigi. E feciono una compagna, onde fu capitano il detto duca Guernieri, e furono intorno di IIIm cavalieri, e vennersene in Campagna nelle contrade di Terracina vivendo di ratto. E partita del Regno la detta compagna, se n'andò il re in Puglia in pellegrinaggio al Monte Santo Agnolo e San Nicolò di Bari, e per sagire i baroni e paese di Puglia alla sua signoria, e per cessare la pistolenza della mortalità, che già era cominciata a Napoli grandissima; e 'nanzi si partisse di Napoli mandò al Comune di Firenze e a quello di Perugia e a quello di Siena per suo messo a·ccavallo la 'nfrascritta lettera, la quale facemmo volgarizzare a verbo, ch'era in latino; e il messo che mandò fu vestito nobilemente, e donatoli cavallo e danari dal nostro Comune, e dagli altri.
<B>CXIV</B>
<I>La lettera che mandò il re d'Ungheria al Comune di Firenze.</I>
"A' nobili e potenti signori priori, e consiglio e Comune della città di Firenze, amici nostri carissimi e diletti, Lodovico per la Dio grazia re d'Ungheria, di Ierusalemme, e di Cicilia. Imperò che, favorandoci la divina potenza e grazia, noi tegniamo libero e intero tutto il regno di Cicilia di qua dal Faro, a noi già lungo tempo per debito di ragione conceduta, siccome la evidenza del fatto a tutto il mondo fa manifesto e dichiara, noi ad alcuni soldati a cavallo, del servigio de' quali noi al presente non abisognamo, con sodisfazione piena e intera prima a·lloro fatta, facemmo dare licenza, intra' quali il duca Guernieri con certi suoi seguaci fu l'uno, dal quale corporal giuramento alle sante Idio Vangele ricevemmo con lettere della sua promessione fatte alla nostra eccellenza, che contra alla maestà nostra, o contra alcuni diletti nostri o fedeli, e spezialmente e nominatamente contra a voi, overo la vostra comunità o città o distretto vostro, niuna cospirazione farà lega, overo compagnia, pel protesto, da casione, della quale noi o voi, o qualunque altri nostri diletti o fedeli, potessimo essere dannificati, molestati o perturbati inn-alcuno modo. Ma imperò che niuna fede e niuna pietà è in coloro che seguitano le battaglie, e il detto duca Guernieri hae altre volte molte pericolose cose, sotto protesto di compagnia, ausate di fare, e però alla dilezione e carissima amistà vostra con chiara effezione vi rechiamo a memoria, acciò che con diligente cura e sollecitudine veghiate, acciò che alcuna malvagia concezione o rea effezione di quelli soldati non potesse a voi generare alcuno nocimento. E se avenisse che per l'aversità di detti soldati o d'altri nostri invidiatori contra voi o·lla vostra città in alcuna nocevole cosa volesse mandare fuori suo veleno, infino ad ora siamo pronti con tutto il nostro podere a voi dare il nostro aiuto e consiglio opportuno, acciò che·lla sincerità dell'amore, il quale tra' generitori nostri e voi già lungo tempo fu ed è indisolubile, insieme con noi perseveri e continuamente s'acresca e·lli rei de' suoi malivoli propositi e innique operazioni confusione patiscano, e pene sempiterne. Data in Napoli nel nostro castello, dì VIIII del mese di febraio, prima indizione".
E nota, lettore, come felicemente e prosperamente il re d'Ungheria passò inn-Italia sanza alcuno contasto, ma fattoli grande onore e reverenza, e datoli aiuto di cavalieri da tutti i signori e Comuni guelfi e ghibellini che trovò per camino; che·ffu tenuta gran cosa, e quasi maravigliosa, che in LXXX dì che si partì di suo paese, fece in gran parte la vendetta del suo fratello Andreas, ed ebbe a queto il regno di Puglia, per lo piacere di Dio, sanza contasto o battaglia; che per li più si stimò che se meser Luigi e gli altri baroni e reali del Regno ch'erano ragunati a Capova fossono stati d'accordo e messosi al contasto, mai non avea la signoria. Ma a·ccui Iddio vuole male per le peccata gli toglie il podere e·lla concordia. E 'l Cresiastico dice: "Il regno si trasporta di gente in gente per le ingiustizie e ingiurie e contumelie e diversi inganni etc."; e così pare manifestamente che per giudicio d'Iddio avenisse a' reali del regno di Puglia, e desse prosperità al re d'Ungheria. Ben si disse per alcuno astrolago che venne co·llui d'Ungheria ch'elli si partì di sua terra, come dicemmo adietro, a dì III di novembre la mattina, e prese l'ascendente di sua mossa onde fece la figura che disegneremo qui apresso e come si può vedere.
Il suo ascendente pare che fosse il segno dello Scorpione a gradi VIIII e·llo suo signore pianeta, cioè Marti, il qual era nella X casa, che·ssi dice casa reale, e nella faccia di Giovi e termine di Venus fortunati, e nel segno del Leone sua tripicità, e atribuito al paese d'Italia, e con <I>capud Dragonis</I> fortunato e forte, ch'assai chiaro mostrò in parte quello che·lli avenne in suo avenimento. L'altre significazioni e suo fine giudichi chi è dell'arte d'astrologia maestro. Ma noti che quando il re entrò nel Regno, ciò fu a dì XXIIII di dicembre, il suo pianeto Marti cominciò a retrogradare; e quando entrò in Napoli ed ebbe la dominazione, dì XXIII di gennaio, era retrogradato. Lasceremo di questa matera, che non era di necessità al nostro trattato; ma per dare alcuno diletto a'cchi della scienzia s'intende il ci misi. Ancora lasceremo di processi del re d'Ungaria, e diremo come la reina Giovanna e meser Luigi ella prenzessa di Taranto arivarono in Proenza.
<B>CXV</B>
<I>Come mesere Luigi di Taranto e·lla reina Giovanna arrivarono in Proenza.</I>
Come in breve dicemmo adietro, quella che·ssi facea chiamare la reina Giovanna, moglie che·ffu del re Andreas, arrivò a Nizza in Proenza a dì XX di gennaio con tre galee, e in sua compagnia meser Maruccio Caraccioli di Napoli, cui ella avea fatto conte camarlingo, e di sua compagnia colla reina si parlava infama di male e di sospetto. Come presono porto a Nizza, se n'andaro ad Acchisi; e·lloro giunti inn Acchisi, il conte d'Avellino de' signori del Balzo e il signore di Salto con altri maggiori baroni di Provenza furono alla detta reina, e di presente feciono pigliare il detto meser Maruccio con VI suoi compagni, e mettere nella pregione di Nuva. La reina con cortese guardia menaro a Castello Arnaldo, e nullo le potea parlare in segreto sanza la presenza de' detti baroni di Provenza; però ch'erano entrati in sospetto e gelosia, ch'ella non facesse scambio della contea di Provenza a un'altra contea di Francia con meser Gianni figliuolo del re di Francia e suo cugino, il quale in quelli giorni era venuto al papa a Vignone col conte d'Armignacca, e statone in trattato col papa, onde i Provenzali s'erano molto iscandalezzati, non volendo esere sottoposti al re di Francia, e quasi voluto fare rubellazione di Proenza col Dalfino di Vienna per la detta cagione, e a petizione del re d'Ungheria; per la qual cosa il papa temendone ne rimandò mesere Gianni in Francia, e contentollo di molti danari; dissesi di fiorini CCm contanti e·lle decime del reame di Francia per V anni a venire a pagare in due, che sono grandissimo tesoro. E così si dispensa il tesoro della Chiesa per lo conquisto della Terrasanta, overo etc.
Messer Luigi di Taranto co·mmeser Niccola Acciaiuoli di Firenze suo fidato compagno venuti a Siena, messer Niccola volendolo menare in Firenze (e già l'avea condotto nel nostro contado in Valdipesa), sentendosi ciò per li priori e gli altri rettori di Firenze, dubitando che·lla sua venuta non generasse scandalo tra' cittadini e indegnazione del re d'Ungheria, ritenendolo in Firenze, di presente mandarono loro incontro due grandi popolari per ambasciadori, difendendo loro non entrassono nella città, ma seguissono loro cammino; e stando co·lloro al continovo, acciò che nullo altro cittadino andasse loro a parlare; e così dimorarono in Valdipesa a' luoghi degli Acciaiuoli per X dì, che nullo cittadino v'andò, se non il vescovo di Firenze, ch'era degli Acciaiuoli, e volea, e andò co·lloro a corte di papa. Di questa venuta di meser Luigi ebbe grande mormorio tra' cittadini, che parte di Guelfi ch'amavano i reali, e ricordavansi de' servigi ricevuti dal prenze di Taranto suo padre, e come meser Carlo suo fratello rimase morto in servigio del nostro Comune con meser Piero suo zio insieme alla sconfitta di Montecatini, l'avessono volentieri ricevuto in Firenze e fattogli grandissimo onore. Ma i rettori, temendo di non dispiacere al re d'Ungheria, tennero il modo detto, e per li savi fu lodato per lo migliore del Comune.
I detti non potendo venire a Firenze, avendo mandato a Genova a·ffare conducere e armare a·lloro amici due galee, e per la Via da Volterra n'andarono, e 'l vescovo co·lloro a Porto Pisano; e·llà si ricolsono a dì XI di febraio; e giunti in Proenza, e sentendo lo stato della reina Giovanna, non s'ardiro di porre né a Nizza né a Marsilia, anzi arrivaro all'Agua Morta, e di là a Belcaro nelle terre del re di Francia, e poi contro a Vignone di là dal Rodano. E 'l vescovo e messer Niccola vennono in Vignone al papa e tanto adoperaro co·llui che la reina Giovanna fu dilibera di Castello Arnaldo, e entrò in Vignone con palio sopra capo, e tutti i cardinali le vennono incontro a cavallo, ricevendola a grande onore, a dì XV di marzo. E meser Luigi venne al papa, e in quello dì riconfermò il papa il disonesto matrimonio da meser Luigi alla detta reina Giovanna. E ancora di questo fu il papa molto caloniato da più Cristiani che 'l seppono. E poi a dì XXVII di marzo il papa diede la rosa dell'oro al detto meser Luigi, essendo in Vignone il re di Maiolica; e poi cavalcò per Vignone con pennone sopra capo a guisa di re, e·lla reina co·llui; si tornarono poi di là da·rRodano, e 'l papa diè loro III cardinali a udire la quistione da·lloro al re d'Ungheria, ch'erano in corte suoi ambasciadori. Lasceremo ora questa matera, e diremo d'altri signori e donne che in questi dì passarono per Firenze.
A dì XXVII di febraio meser Filippino da Gonzago di signori di Mantova, tornando con sua gente d'arme dal re d'Ungheria, che·ll'avea acompagnato fino a Napoli, passò per Firenze e·ffu ricevuto a grande onore, e acompagnato da' rettori e da più cittadini. E di ciò fu ancora grande mormorio per li Guelfi di Firenze, dicendo: "I nostri rettori ricevono in Firenze e fanno onore a' tiranni ghibellini che·cci sono stati incontro co' nostri nimici, e non voluto ricevere meser Luigi", come detto è di sopra: ma pur fu preso il migliore e lodato per li savi, e però n'avemo fatta memoria per asempro per l'avenire.
E a dì X di marzo passò per Firenze la moglie del prenze di Taranto, che·ssi facea sopranomare imperadrice di Gostantinopoli sanza lo 'mperio; era figliuola del duca di Bolbona, figliuolo che·ffu di Chiermonte della casa di Francia; la quale poi che 'l marito cogli altri reali era mandato preso inn-Ungheria, se n'andava in Francia. Fulle in Firenze fatto grande onore d'acompagnarla di cavalieri e di donne, e albergalla in casa Peruzzi, faccendole il Comune le spese riccamente; due dì ci dimorò, e per lo cammino andando e vegnendo, per lo contado e distretto di Firenze. E 'l Comune le fece lettere al papa, pregandolo, e racomandandogliele, s'adoperasse col re d'Ungheria della diliberazione del suo marito e degli altri innocenti reali. Lasceremo alquanto delle sequele occorse per l'avenimento del re d'Ungheria, ch'assai n'avemo detto, e torneremo a dire d'altre novità state in Firenze e altrove in questi tempi.
<B>CXVI</B>
<I>Quando si cominciò il muro da San Ghirigoro inn-Arno, che richiude le due pile del ponte Rubaconte.</I>
In questo anno MCCCXLVII si cominciò a fondare inn-Arno di costa a San Ghirigoro un grosso muro con pali a castello, e presono due pile e due arcora del ponte Rubaconte di là da l'Arno andando diritto verso levante infino alla coscia del ponte Reale, che·ss'ordinò di fare. E di qua dal ponte più tempo dinanzi s'era cominciato similemente uno muro, prendendo una pila e arco del detto ponte, andando fino al castello Altrafonte. Questi muri s'ordinaro per conducere l'Arno dentro alla città per diritto canale e acrescerne terreno alla città, spezialmente verso San Niccolò, ed era la città più forte, più bella avendo il riguardo e parapetto del muro a modo di pila, sicché l'ordine e 'l lavorio de' detti muri fu bene proveduto, faccendosi una agiunta, ch'è di nicistà, cioè di fare un muro cominciandolo di qua dal fiume d'Arno alla coscia del ponte Reale, e continuandolo verso levante infino alle mulina di San Salvi; allargando la bocca ed entrata del fiume d'Arno, acciò che crescendo l'Arno, non venisse di sopra a' fossi e mura di qua alla porta della Croce o più oltre, come avenne l'anno MCCCXXXIII al tempo del diluvio: e sarebbene la terra più forte e più bella, e raquisterebbesi terreno, che varrebbe più non costerebbe il muro, il quale si farà, quando a quelli reggono la città piacerà loro.
<B>CXVII</B>
<I>Come i Bostoli furo cacciati d'Arezzo.</I>
Nel detto anno, all'uscita d'ottobre, quelli della casa de' Bostoli a romore di popolo furono cacciati d'Arezzo per forze e tirannie che facieno a' cittadini popolari di quella; e bene che inn-Arezzo fossono capo di parte guelfa, egli erano isconoscenti e ingrati, spezialmente contro al nostro Comune di Firenze; che quando erano fuori d'Arezzo cogli altri Guelfi, erano sostenuti al soldo del nostro Comune, e fatta per loro la guerra contro a' Tarlati; e poi per lo nostro Comune rimessi in Arezzo in grande stato e signoria. Ed ellino per loro superbia peggio trattavano i nostri rettori e cittadini che v'erano per lo Comune di Firenze, e del continovo puttaneggiavano col Comune di Perugia, per diminuire la signoria del Comune di Firenze, per meglio potere tiranneggiare. Ma a·cciò non guardò il nostro Comune, perch'erano Guelfi, di fare loro rendere i beni loro, e ordinalli a' confini a·lloro castella e possesioni fuori d'Arezzo; ma male stettono contenti ne' termini e confini loro dati, ch'al continuo stavano in trattati co·lloro amici dentro. E a dì XI d'aprile seguente, la notte, co·lloro amici a cavallo e a piè vennero alla terra con iscale scalandola per entrare dentro; furono sentiti e ripinti per forza fuori, e di presi di quelli d'entro, che rispondieno loro; di certi fu fatta giustizia, ed ellino e·lloro seguaci condannati per traditori e ribelli.
<B>CXVIII</B>
<I>Di certe novità che in questi tempi furono in Firenze.</I>
All'uscita di novembre e·ll'entrata di dicembre del detto anno subitamente montò il grano in Firenze, di soldi XXII che valea lo staio, in uno mezzo fiorino d'oro, e infino soldi XXXV lo staio, onde il popolo si maravigliò, e temette forte, dubitando non tornasse la carestia passata. E·cciò avenne perché la Romagna, d'onde ci solea venire il grano delle circustanze del Mugello, n'andava in Romagna, però che in Vinegia avea gran caro di grano; e per la generale mortalità e infermità delle terre marine, come detto avemo adietro, e per la venuta del re d'Ungheria in Puglia, i Viniziani non potieno avere tratta di grano né di Cicilia né di Puglia; e' Viniziani male potieno navicare. Provvidesi sopra·cciò per gli uficiali della vittuaglia di fare guardare i confini del nostro contado verso Romagna, e di fare venire grano da Pisa e di Maremma e di Siena e d'Arezzo, onde per la providenza buona tosto tornò in soldi XXII e soldi XX lo staio.
E a dì XI di gennaio si fece riformagione per lo Comune, e ordinossi che·lle signorie, come la podestà, entrasse al suo uficio a calen di gennaio e in calen di luglio, e 'l capitano del popolo in calen di maggio e in calen di novembre, e·ll'esecutore degli ordini della giustizia in calen di aprile e in calen di ottobre, com'era usato per li tempi passati; i quali tempi s'erano rimossi per la tirannia del duca d'Atene, che·lli facea a suo beneplacito quando signoreggiò Firenze. E ordinossi che come fossero entrate le dette signorie, incontanente infra XV dì apresso i priori e gli altri collegi ch'hanno ad eleggere le dette signorie li dovessono eleggere sotto certa pena, per cessare le pregherie di rettori, e non avere cagione di raffermarli; che·ffu buono e ottimo dicreto, quando s'osservasse. Ma il nostro difetto di mutare spesso leggi e ordini e costumi col <I>non istante</I> che·ssi mette nelle riformagioni del Comune guasta ogni buono ordine e legge, ma è·ssi nostro difetto quasi naturato,
[...] che in mezzo novembre
Non giugne quel che·ttu d'ottobre fili,
come disse il nostro poeta.
<B>CXIX</B>
<I>Come la città di Pisa mutò stato e reggimento.</I>
Nel detto anno, reggendosi la città di Pisa sotto il governo di messer Dino e di Tinuccio della Rocca di Maremma loro distrettuale sotto titolo di loro conti, i quali conti erano giovani di tempo, e morti i loro maggiori, e' detti della Rocca con altri loro seguaci popolani l'avieno retta buono tempo a·lloro senno, e chiamavasi la setta de' Raspanti; ma assai bene reggeano la terra, se non che se n'erano signori liberi; l'altra setta, che non reggeano né avieno ufici in Comune, e per dispetto gli chiamavano i Bergoli, i quali erano Gambacorti e Agliati e altri ricchi mercatanti e popolani, e' nobili e' grandi v'erano poco richesti e peggio trattati; e parendo a' detti noboli e popolari esere mal trattati e schiusi degli ufici, segretamente s'acordarono insieme, e poi co' conestaboli delle masnade con grandi impromesse, e·lla vilia di Natale, dì XXIIII di dicembre, levaro la città a romore gridando: "Viva il popolo e libertà!", e corsono la terra, e cacciarne i conti e' detti della Rocca e' loro seguaci, sanza altro mal fare in persone, se non di rubare e mettere fuoco nelle case di quelli della Rocca. E mandarli a' confini i conti e·lloro in diversi luoghi e paesi. E Andrea Gambacorti con suoi seguaci se ne feciono signori.
<B>CXX</B>
<I>D'uno grande segno e miracolo ch'aparve in Vignone.</I>
Nel detto anno, a dì XX di dicembre, la mattina levato il sole, aparve in Vignone in Proenza, ov'era la corte del papa, sopra i palazzi e abituri del detto papa, quasi com'una colonna di fuoco, e dimoròvi per ispazio d'una ora; la quale da tutti i cortigiani fu veduta, e faciensene grande maraviglia; e con tutto che·cciò potesse essere naturalmente per li raggi del sole al modo dell'arco, tuttora fu segno di future e grandi novitadi che avennero apresso, come leggendo si potrà trovare.
<B>CXXI</B>
<I>Come i Guelfi furono cacciati di Spuleto.</I>
Nel detto anno, a dì X di gennaio, mesere Piero di meser Cello di Spuleto, il quale n'era fuori a' confini, a pitizione degli altri grandi Guelfi di Spuleto, perché usava contro a·lloro e gli altri soperchia maggioranza cittadina, il detto meser Piero con suoi seguaci e amici e aiuto del capitano del Patrimonio e del duca di Spuleto venne alla terra con suo sforzo di genti a cavallo e a piè, e datagli l'entrata d'una porta, entrò combattendo nella terra. I cittadini ciò sentito, levaronsi a romore, e presono l'armi, onde si feciono caporali i Guelfi della terra medesimi, e per forza combattendo ruppono mesere Piero e' suoi con danno di loro, e cacciarli della terra. E pochi dì apresso i Ghibellini della terra avendo sospetto de' Guelfi che v'erano, con tutto che fossono stati co·lloro a cacciarne meser Piero e' suoi seguaci, come ingrati e sconoscenti gli cacciarono di Spuleto; onde, tutto fosse loro fatta sconcia cosa, fu giusta vendetta e presta, perché n'avieno cacciati i loro Guelfi medesimi. E avenne loro la parola del Vangelo: "Regno in se medesimo diviso <I>disolabitur</I>". Lasceremo di queste matere per raccontare un grande giudicio e quasi incredibile che a questi tempi avenne per tremuoti nella città di Pisa, di Vinegia e di Padova, ma più in Frioli e in Baviera.
<B>CXXII</B>
<I>Di grandi tremuoti che furono in Vinegia, Padova, e Bologna, e Pisa.</I>
Nel detto anno, venerdì notte dì XXV di gennaio, furono diversi e grandissimi tremuoti in Italia nella città di Pisa, e di Bologna, e di Padova, maggiori nella città di Vinegia, nella quale ruvinarono infiniti fummaiuoli, che ve ne avea assai e belli; e più campanili di chiese e altre case nelle dette città s'apersono, e tali rovinarono. E significarono alle dette terre danni e pistolenze, come leggendo inanzi si potrà trovare. Ma i pericolosi furono la detta notte in Frioli, e inn Aquilea, e in parte dalla Magna, sì fatti e per tale modo e con tanto danno, che dicendolo o scrivendolo parranno incredibili; ma per dirne il vero e non errare nel nostro trattato, sì·cci metteremo la copia della lettera che di là ne mandaro certi nostri Fiorentini mercatanti e degni di fede, il tinore delle quali diremo qui apresso, scritte e date inn-Udine del mese di febraio MCCCXLVII.
<B>CXXIII</B>
<I>Di grandi tremuoti che furono in Frioli e in Baviera.</I>
Avrete udito di diversi e pericolosi tremuoti che sono stati in questi paesi, i quali hanno fatto grandissimo danno. Correndo gli anni del nostro Signore, secondo il corso della chiesa MCCCXLVIII, indizione prima, ma secondo il nostro corso della Anuziazione, ancora nel MCCCXLVII, a dì XXV di gennaio, il dì di venerdì, il dì della conversazione di san Paolo, ad ore VIII e quarta appresso vespro, che viene ore V infra la notte, fu grandissimo tremuoto, e durò per più ore, il quale non si ricorda per niuno vivente il simile.
In prima in Sancille la porta di verso Friole tutta cadde. Inn-Udine cadde parte del palazzo di meser lo patriarca, e più altre case; cadde il castello di Santo Daniello in Frioli, e morìvi più uomini e femmine; caddono due torri del castello di Ragogna, ed iscorsono infino al Tagliamento, cioè uno fiume così nomato, e morìvi più genti.
In Gelmona la metà e più delle case sono rovinate e cadute, e 'l campanile della maggiore chiesa è tutto fesso e aperto, e·lla figura di san Cristofano intagliato in pietra viva si fesse tutta per lungo. Per li quali miracoli e paura i prestatori a usura della detta terra, convertiti a penitenzia, feciono bandire che ogni persona ch'avessono loro dato merito e usura andasse a·lloro per essa; e più d'otto dì continuarono di renderla.
A Vencione il campanile della terra si fesse per mezzo, e più case rovinarono. Il castello di Tornezzo e quello di Dorestagno e quello di Destrafitto caddono e rovinarono quasi tutti, ove morirono molte genti.
Il castello di Lemborgo, ch'era in montagna, si scommosse; rovinando fu trasportato per lo tremuoto da X miglia del luogo dov'era in prima, tutto disfatto. Uno monte grandissimo, ov'era la via ch'andava al lago Dorestagno, si fesse e partissi per mezzo con grande rovina, rompendo il detto cammino.
E Ragni e Vedrone, due castella, con più di L ville, che sono sotto il contado da Gurizia, intorno al fiume di Gieglia, sono rovinate e coperte da due monti, e quasi tutte le genti di quelle perite.
La città di Villaco in Frioli vi rovinarono tutte le case, se non fu una d'un buono uomo, e giusto, e caritevole per Dio. E poi del suo contado più di LX sue tra castella e ville sopra il fiume d'Atri per simile modo detto di sopra sono tutte rovinate e somerse da due montagne, e ripiena la valle onde correa il detto fiume per più di X miglia; e 'l monistero d'Orestano rovinato e somerso, e mortavi molta gente. E 'l detto fiume non avendo sua uscita e corso usato, al di sopra ha fatto uno nuovo e grande lago. Nella detta città di Villaco molte maraviglie v'apariro, che·lla grande piazza di quella si fesse a modo di croce, della quale fessura prima uscì sangue e poi acqua in grande quantità. E nella chiesa di Santo Iacopo di quella città vi si trovarono morti uomini che v'erano fuggiti, sanza gli altri morti per la terra, più delle tre parti degli abitanti; iscamparono per divino miracolo i Latini e' forestieri e' poveri. Per Carnia più di XVm uomini sono trovati morti per lo tremuoto; e tutte le chiese di Carnia sono cadute, e·lle case e 'l monistero d'Osgalche e quello di Verchir tutti sobbissati.
In Baviera la città di Trasborgo, e Paluzia, e·lla Muda, e·lla Croce oltramonti, la maggiore parte delle case cadute, e morta molta gente.
E nota, lettore, che·lle sopradette rovine e pericoli di tremuoti sono grandi segni e giudici di Dio, e non sanza gran cagione e premessione divina, e di quelli miracoli e segni che Gesù Cristo vangelizzando predisse a' suoi discepoli che dovieno apparire alla fine del secolo.
FINE
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