contatti : pierluigi18faber@libero.it
ing.Pierluigi Carnesecchi
indice generale : http://www.carnesecchi.eu/indice.htm
"Nel concetto dei Toscani, chi non è un uomo libero è un uomo grullo. (...) Maggior fortuna sarebbe, se in Italia ci fossero più Toscani e meno Italiani. (...) La Toscana era l'unico paese al mondo che fosse una «casa»: il resto d'Italia, e Francia, Inghilterra, Spagna, Germania, erano Repubbliche, Monarchie, Imperi, non «case». (...) I Toscani han l'abitudine di non salutare mai per primi nessuno, nemmeno in Paradiso. E questo, anche Dio lo sa. Vedrai che ti saluterà lui, per primo."
(da Maledetti toscani)
by Wikipedia
Malaparte ricostruisce quelle che ritiene le principali caratteristiche dei toscani e in particolare dei suoi concittadini, i Pratesi.
Unendo episodi della propria giovinezza a esempi del passato, soprattutto medievali, e alla descrizione dei più bei paesaggi della sua regione, Malaparte identifica il toscano come l'antitesi dell'Italiano definendolo in primo luogo "spregioso" (che prova cioè disprezzo nei confronti di tutti gli altri esseri umani, che vede come stupidi e servili), per poi identificarlo come sboccato, cinico, ironico, insofferente nei confronti di tutte le autorità costituite (anche e soprattutto la Chiesa cattolica), sanguigno, onesto, realista, pratico, pragmatico, lavoratore (traffichino) ma soprattutto intelligente e per questo libero, persino dalla paura della morte.
Identificando poi il popolo toscano come degno erede di quello greco, Malaparte indica come caratteristica fondamentale del toscano un senso della misura che si rispecchia anche nei più grandi nomi della cultura nati in Toscana (Dante, Brunelleschi, Botticelli, Boccaccio su tutti, mentre di Michelangelo critica il "passaggio" ai modi romani).
Tutte queste caratteristiche sono il motivo per cui, secondo l'autore, ogni altro italiano (ad eccezione degli umbri) si trova in difficoltà se non proprio in imbarazzo davanti a un toscano, che con il suo solo sguardo ironico è capace di dichiarare tutto il suo disprezzo; per tale ragione l'autore afferma che "maggior fortuna sarebbe se in Italia ci fossero più toscani e meno italiani".
by Wikipedia
Firenze e' una citta' straordinaria
Su Firenze e la sua storia sono stati scritti tanti e tanti libri molti di questi da buttare al macero prima di aprirli
Questo mondo e' colmo di scalzacani : gente che spaccia di sapere
Si presentano con titoli ridondanti e fama di esperto e presidenza di associazioni di nomi e acronimi fascinosi ma voi fidatevi solo della gente che insegna all'universita'
E scrivono cose inutili
Quando ho iniziato a leggere di storia fiorentina ho avuto la fortuna di conoscere tramite Internet due professori di medievistica fiorentina ( Enrico Faini e Vieri Mazzoni ) che mi hanno dato delle indicazioni utilissime di lettura
Sono queste indicazioni che cerchero' di trasmettere evitandovi letture inutili
Ovviamente voi dovrete star attenti anche a me
Alcune letture potrebbero non esser giuste per la vostra visione politica. La lettura della STORIA non e' mai imparziale, ma sempre riflette una propria visione socio-economica
Firenze dicevo e' una citta' straordinaria
La storia di Firenze e' ancora piu' straordinaria. Qui vissero uomini orgogliosi e quasi presuntuosi , uomini che amarono la liberta'e la loro citta' con struggimento e ferocia. Accaddero qui cose ancor oggi difficili da capire.
Cose che stimolano la nostra immaginazione ad estreme acrobazie
Cosi questo sito si prefigge di divenire un posto dove infilarsi e dove rimanere un poco per saperne un po di piu' di quelle vicende ormai passate ma su cui merita ancora di riflettere
Il mistero di un destino straordinario
Gen.Massimo Iacopi
(pubblicato sul Bollettino SUBASIO di Assisi, n. 4/12 del dicembre 2004)
Dal Boccaccio al Brunelleschi, da Giotto a Michelangelo, a Galileo …. Fra il 13° ed il 17° secolo ogni decennio ha visto sorgere una nuova generazione di artisti, pensatori, scienziati. Come spiegare una tale ricchezza ? Lo straordinario destino di Firenze resta per certi aspetti un enigma. Anche se la sua geografia, le sue istituzioni politiche, il suo dinamismo ci possono aiutare a renderlo più comprensibile.
Raramente nella storia dell’umanità una città ha contribuito, per oltre tre secoli, com’è successo a Firenze in particolare dalla fine del 13° secolo all’inizio del 17°, ad inventare o a reinventare quasi tutti gli orizzonti delle attività dell’uomo. In quel periodo Firenze ha infatti rinnovato le teorie e le tecniche della pittura, della scultura e dell’architettura, ha possentemente contribuito a disegnare un nuovo spazio economico in Europa e nel Mediterraneo ed ha concorso alla revisione dei concetti politici , teologici e culturali che sono oggi alla base della nostra civiltà.
I nomi legati a questa città, costituiscono una stupefacente legione di artisti, di innovatori, di pensatori e di scienziati: (per dire solo di alcuni nati o forgiatisi a Firenze o comunque di sangue fiorentino ) dal Boccaccio al Petrarca , da Donatello al Brunelleschi , da Giotto a Michelangelo , da Masaccio al Cellini , da Michelozzo al Ghiberti , dal Botticelli a Paolo Uccello , dal Ghirlandaio al Verrocchio , da Leon Battista Alberti a Paolo Dal Pozzo Toscanelli, dal Guicciardini al Machiavelli , da Guido Cavalcanti a Lorenzo il Magnifico , ….. Senza dimenticare altri personaggi di statura mondiale, quali, un Leonardo da Vinci , un Galileo Galilei un Dante Alighieri o un Amerigo Vespucci che appartengono ormai non solo a Firenze ma al bagaglio della tradizione culturale europea. Questi pochi nomi riassumono da soli la grande storia di una città che ha espresso nel tempo una energia vitale diretta ed incontenibile.
Come spiegare un destino così rilevante, una profusione artistica così prorompente, talmente evidente sia nella stessa città, sia nei musei e nelle collezioni private sparse per tutto il mondo ? Come si spiega che tanti aspetti della civiltà occidentale si siano potuti esprimere nell’angusto spazio di un quadrilatero dell’ampiezza massima di meno di un chilometro e mezzo, posto fra il Convento di S. Marco a Nord, S. Croce ad Est, l’Oltrarno fino a Porta Romana a Sud e S. Maria Novella ad Ovest ?
dalla presentazione della casa editrice Einaudi Storia
del libro "Storia di Firenze 1200-1575" di John M. Najemy
Firenze è universalmente nota come la culla del Rinascimento, centro della rifioritura negli studi, nella letteratura e nelle arti. Ma la patria di Machiavelli fu anche una repubblica autonoma, dove si sperimentarono forme di governo che a molti sono sembrate annunciare le moderne democrazie, come pure il teatro di conflitti sociali che sono apparsi anticipare le lotte di classe che l'Europa ha conosciuto su vasta scala molti secoli dopo. La straordinaria ricchezza dei suoi cittadini maggiori, la vitalità delle attività economiche e l'eccezionale tradizione culturale della città sull'Arno infatti hanno costituito una miscela unica nella storia dell'Occidente che ha lasciato splendide tracce in monumenti e opere d'arte che ancora oggi guardiamo come capolavori. In questa Storia di Firenze l'illustre storico John Najemy discute tutte le fasi principali della storia fiorentina tra il 1200 e il 1575. Il suo racconto intreccia gli sviluppi intellettuali, culturali, sociali, economici, religiosi e politici, seguendo la trasformazione di Firenze da comune medievale a repubblica aristocratica fino alla trasformazione in un principato territoriale che è durato fino all'Unità d'Italia.
Firenze potrebbe sembrare l'ultima città ad aver bisogno di una presentazione, data la sua fama leggendaria: patria natale del Rinascimento e culla della moderna civiltà occidentale. Questo libro offre tuttavia un'interpretazione di circa quattro secoli di storia fiorentina da una prospettiva diversa da quella della leggenda che presenta Firenze come un miracolo inspiegabile, sostanzialmente senza storia e contesto. Da tempo gli storici dell'arte e della letteratura hanno inquadrato le opere della Firenze rinascimentale nel loro contesto storico. Ma altrettanto va fatto per sradicare l'idealizzazione dei detentori della ricchezza e del potere nella Firenze di quei secoli. La sua storia fu piena di conflitti, sia all'interno dell'élite sia fra questa e le altre classi sociali. La sua storia e cultura si svilupparono attraverso controversie e antagonismi di classe. Durante il XIII secolo nelle città italiane il «popolo» organizzato nelle arti di mestiere e nelle compagnie militari di quartiere, imbevuto dei concetti di cittadinanza e di bene comune assorbiti dalla Roma antica, lanciò la prima sfida politicamente efficace e ideologicamente fondata a una élite di detentori del potere; una sfida, nel caso di Firenze, che riuscí, non a rimpiazzare l'élite, ma a trasformarla. Lo straordinario libro di Najemy unisce analisi tematiche della società, dell'economia, della cultura e delle strutture familiari, affrontate in precisi contesti storici, con il filo conduttore di una narrazione dell'evoluzione politica delle istituzioni e delle contese per il potere.
TRE SIMBOLI
Nella Repubblica fiorentina, il marzocco o marzucco era un leone simbolo del potere popolare
il Davide di Michelangelo e' la piu' nobile rappresentazione della piccola Repubblica fiorentina che lotta vittoriosamente contro i giganti che la circondano
Il PALAZZO DEI PRIORI O PALAZZO VECCHIO e' una delle costruzioni piu' significative e cariche di storia di Firenze
Bibliografia :
Illustrazione storico-artistica del Palazzo de' Priori, oggi Palazzo Vecchio ...
Di Filippo Moisè
" Storia del Palazzo vecchio in Firenze " di Aurelio Gotti, letterato, accademico della Crusca e compilatore del Vocabolario, (questo il link : https://archive.org/stream/storiadelpalazzo00gottuoft/storiadelpalazzo00gottuoft_djvu.txt )
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Alla ricerca della perduta BATTAGLIA D'ANGHIARI di LEONARDO DA VINCI
una tesi sostenuta da un amico Marco Mattia sulla frase CERCA TROVA del VASARI e che trovate esposta su questo sito che indirizza la ricerca della perduta BATTAGLIA D'ANGHIARI di LEONARDO sulla TORRE DELLA VACCA
"...a ripigliamo della torre. Nell'ottobre del 1308, a dì 26, si elessero ufficiali " prò murando e super murando turrim Palatii Populi in quo
" Priores Artium et Vexillifer Justitie prò Comuni morantur " ; e che la torre s' avesse a fare o su quella, o anzi di quella che già esisteva in una delle case o in uno dei palazzi de' Foraboschi, è detto e ripetuto da
tutti, e non ci si presenta ragione che ce ne faccia dubitare. Che i Foraboschi, gran famiglia, avessero la loro torre, chi vorrebbe non credere?
Che tale torre, come quella che dovea essere di un palazzo signorile, dovesse essere ben fondata e forte, ancora questo è credibile: e se guardava anch' essa lungo la via Vacchereccia, ed era quindi buona vedetta,
si trovava appunto in buon luogo anche per il nuovo Palazzo de' Priori.
Ma non era nel bel mezzo, dicono alcuni, come si è sempre fatto dagli architetti antichi e moderni, quando non l' anno collocata sopra un angolo spigolo del Palazzo, come quella del Potestà, o quando non ne hanno alzate due sui due lati opposti. È verissimo; la torre di Palazzo Vecchio non è nel mezzo; ma sta tanto bene dov'è! E se ciò si fece per chiu- dervi dentro la torre de' Foraboschi, denominata della Vacca, o per servirei almeno de' fondamenti di questa, sia pure; lì poteva stare baluardo insieme e vedetta del Palagio, magnifico e forte, onorevole e sicura stanza de' signori Priori e Gonfalonieri. Ma si può anche dare che la torre de'Foraboschi, la quale, secondo ragione, doveva essere stata come tutte le altre scapezzata nel 1250, rimanesse sì chiusa nel nuovo Palazzo, ma non precisamente dove veniva a cadere la torre nuova, la quale potè prendere benissimo il nome di Torre della Vacca, che avea quella de' Foraboschi, per il solo fatto che essa avea preso in certa guisa il luogo dell'altra,
in faccia a Vacchereccia ; e il motto " la vacca mugghia > da' tempi de' Foraboschi e di Dino e di Dante arrivò, a quelli del senatore Filippo Nerli, quando sarebbe stato più ragionevole dire che " il leone ruggiva ".
È da notare ancora che il Vasari racconta come Arnolfo oltre di avere unita ed accomodata " nel palazzo la torre de' Foraboschi, chiamata la " torre della Vacca, alta cinquanta braccia per uso della campana grossa > aveva ripiena la detta torre di buona materia, perchè fu poi facile ad altri maestri farvi sopra il campanile altissimo che oggi vi si vede, non avendo egli, aggiunge, in termine di due anni finito se non il palazzo. Ed invece fu trovato nel 1814, per certi ristauri e riattamenti che nel palazzo ebbe a fare l'architetto Del Rosso, essere la torre del tutto vuota fino alla profondità di sei braccia al di sotto del pavimento del cortile, la qual cosa toglierebbe affatto fede al racconto del Vasari, o potrebbe far cre-
dere che la torre della Vacca, cioè la torre de' Foraboschi, fosse altrove nel palazzo, e Arnolfo tiratala giù fino dove bisognava, abbia riempito il resto che cadeva al di sotto, ne' fondamenti del Palazzo. A quegli anni tutte le case e i palazzi avevano le loro torri, ed era ragionevole che l'avesse, e ben più alta di tutte le altre e da servire principalmente se non unicamente per la campana, quello del Popolo, e che l'architetto si
studiasse di farla tale che anche da lontano a chi la guardasse desse il pensiero della magnificenza, della eleganza, della ricchezza di tutta la fabbrica e apparisse degna della città, dentro le cui mura, cioè il terzo cerchio medievale, si stava lavorando ad un tempo al palazzo di Giustizia e alla Prigione delle Stinche, ad Orsanmichele, al palazzo Spini, al Battistero, a quel miracolo di amore di Dio e della patria, che è la nostra
Santa Maria del Fiore, a Santa Croce, al Carmine, a Santa Maria Novella..."
Aurelio Gotti quindi racconta di alcuni lavori di restauro nel 1814 diretti dall'architetto Del Rosso e del fatto che la Torre della vacca fosse stata trovata vuota da quest'ultimo, tutt'altro che "piena di bona materia " come invece sosteneva Giorgio Vasari nella biografia di Arnolfo di Cambio e quindi ipotizza che la vera Torre della vacca sia altrove nel palazzo e che essa abbia davvero un forte valore simbolico in quanto il "Palazzo dei priori " è costruito tutto attorno ad essa.
…….PRIMA DI TUTTO ALCUNI SITI WEB CHE SARANNO UTILISSIMI UNA VOLTA IMPARATO AD USARLI
(Nell'ultima sezione puoi trovare una ulteriore ricca bibliografia per la storia di Firenze e della Toscana oltre quella commentata)
http://www.storiadifirenze.org/ Storia di Firenze
Storia di Firenze è un’iniziativa che nasce all’interno dell’Università di Firenze per opera di un gruppo di studiosi che afferiscono a più dipartimenti di area umanistica e delle scienze sociali in una prospettiva di ricerca multidisciplinare. SdF intende svolgere una funzione di servizio offrendosi come strumento di lavoro per chi studia professionalmente - a Firenze, in Italia e nel mondo - la storia fiorentina; come portale di riferimento per le istituzioni culturali per promuovere le proprie attività; come luogo di incontro con il mondo della ricerca e dell'università per i responsabili degli enti locali, politici e amministrativi.SdF costituisce un progetto di ricerca che mette a disposizione: una messe di materiali scientifici e una sede di pubblicazione per gli studiosi e i ricercatori; un punto di riferimento per chi opera nel settore culturale della memoria e dei beni culturali; uno strumento di approfondimento, di studio e di ricerca per i docenti e gli studenti universitari.SdF si propone come canale di divulgazione: una risorsa didattica per i docenti e gli studenti delle scuole; una fonte affidabile per l'editoria giornalistica e multimediale; una miniera di informazioni criticamente attendibili per il grande pubblico di appassionati di storia; uno strumento di cultura per il turismo consapevole; un sito di cultura per i cittadini di Firenze che amano il passato e non solo il presente della propria città. SdF coltiva l’ambizione di essere un ponte tra la ricerca accademica e la vita culturale e sociale della città, e al tempo stesso di divulgare a un pubblico più ampio i risultati e l’attività in fieri della ricerca storica. SdF è un progetto che non sostiene un paradigma interpretativo forte della storia della città ma si propone come un cantiere aperto alla riflessione multidisciplinare con altri specialisti della memoria e della divulgazione storica. Molte delle sezioni del portale sono dei luoghi aperti a un confronto critico sulla storia della città e sui modi di raccontarla. In un momento in cui il processo di costruzione dell’identità del cittadino utilizza spesso un rapporto acritico e senza mediazione con la storia della città, occuparsi della storia di Firenze obbliga a una riflessione sulla sua identità libera da chiusure e miti municipalistici e attenta a cogliere la molteplicità degli apporti e delle componenti che hanno svolto un ruolo di rilievo nella storia di questa città
BROWN UNIVERSITY http://www.stg.brown.edu/projects/florentine_gazetteer/full_map/
la mappa del Buonsignori
http://www.stg.brown.edu/projects/tratte FLORENTINE RENAISSANCE RESOURCES: Online Tratte of Office Holders 1282-1532 Edited by David Herlihy, R. Burr Litchfield, Anthony Molho
This site gives access to a database (c. 165,000 records) with information about office holders of the Florentine Republic during its 250-year history. The data base was developed initially by Professor David Herlihy at Harvard and Brown Universities, and then completed under the direction of Professors R. Burr Litchfield and Anthony Molho at Brown with support from the National Endowment for the Humanities, Division of Preservation and Access, and the Brown University Center for Computing and Information Services and Scholarly Technology Group. An edition of the Tre Maggiori, Guild elections and Birth registrations is now available.
http://www.stg.brown.edu/projects/catasto
FLORENTINE RENAISSANCE RESOURCES: Online Catasto of 1427 Edited by David Herlihy, Christiane Klapisch-Zuber, R. Burr Litchfield and Anthony Molho
UNIVERSITA DI SIENA
SERGIO RAVEGGI : PRIORI DI FIRENZE 1282--1343 http://www.storia.unisi.it/fileadmin/uploads/risorse/medievale/fonti_strumenti/raveggi_priori.doc Il presente elenco degli eletti nei governi fiorentini dall’istituzione del priorato all’agosto del 1343 è stato compilato sulla base del codice dell’ASFi denominato Priorista di Palazzo, confrontato e integrato con le altre fonti citate in nota. Sotto la data di inizio dell’attività di ciascun collegio governativo (che come è noto aveva di norma la durata di due mesi) sono riportati i nomi degli eletti, il sestiere di residenza e tra parentesi quadra (essendo frutto di un intervento in alquanti casi deduttivo operato da chi ha curato questa lista) la famiglia di appartenenza dell’eletto. I nomi sono proposti nella forma latina, così come era uso nei documenti coevi e nei più antichi prioristi, ma si è ritenuto opportuno procedere ad una loro normalizzazione grafica per renderne più agevole il riconoscimento e la fruizione a fini statistici.
http://www.operaduomo.firenze.it/battesimi
L'archivio contiene i registri dei battezzati, nei quali si conserva memoria di quanti ricevettero il primo sacramento nel Battistero fiorentino. Le informazioni contenute nei registri offrono una documentazione anagrafica di primaria importanza e di eccezionale continuità per la storia della città. La banca dati permette di effettuare ricerche on-line attraverso due moduli di ricerca:
Dal 1482 (stile comune) i registri sono divisi in 2 serie (maschi/femmine); a partire dal 1543 i registri (11-117, 230-339) sono organizzati in forma di rubricario per nome di battesimo, mentre dal 1790 al 1900 (reg. 118-223, 340-445) la lettera iniziale del rubricario è associata al cognome, invece che al nome. ATTENZIONE
La serie dei registri battesimali è parzialmente corredata da un indice per cognomi, che fu compilato in vari volumi alla fine dell'Ottocento.
http://www.operaduomo.firenze.it/archivio Oltre ai monumenti e ai tanti capolavori artistici, l'Opera di Santa Maria del Fiore custodisce un altro inestimabile tesoro della cultura: l'Archivio storico. La produzione e la raccolta di documenti hanno infatti accompagnato questa prestigiosa istituzione fiorentina fin dai primi tempi della sua storia plurisecolare, facendo del materiale archivistico, che oggi occupa buona parte degli uffici dell'Opera, il più autentico filo conduttore tra le diverse epoche storiche attraversate dal Duomo fiorentino. La consistenza dell'archivio è notevole: vi si conservano circa 7000 pezzi, tra codici in grande formato, registri, filze e carte sciolte. Il materiale si suddivide in tre grandi sezioni: l'archivio storico dell'Opera del Duomo, l'archivio delle fedi di battesimo di San Giovanni e l'archivio musicale. Di parti consistenti di queste tre sezioni sono disponibili i microfilm, alcuni dei quali, effettuati prima dell'alluvione del 1966, consentono di leggere scritture fortemente compromesse nell'originale. Dell'archivio fanno parte anche una collezione di disegni e stampe (XVIII-XX sec., con qualche esemplare di epoca anteriore) in attesa di riordino e una fototeca, in fase di inventariazione.La biblioteca, incentrata prevalentemente su pubblicazioni relative alla storia dell'Opera e dei suoi monumenti, dispone ora di un catalogo online.http://duomo.mpiwg-berlin.mpg.de
Gli anni della cupola 1417-1436 Rappresentazione Internet
http://documents.medici.org The Medici archive project Documentary Sources for the Arts & Humanities
Documentary Sources for the Arts and Humanities in the This evaluation version of MAP's Documentary Sources database currently describes 200 volumes of documents in the Medici Granducal Archive (Archivio Mediceo del Principato), with document records for approximately 10,000 letters and biographical records for approximately 11,000 people.
Mediateca di palazzo Medici Riccardi
http://www.palazzo-medici.it/mediateca/it/index.php www.palazzo-medici.it,
La Mediateca Medicea è un archivio digitale su Palazzo Medici Riccardi, uno degli edifici più importanti e significativi di Firenze, oggi proprietà e sede dell'Amministrazione Provinciale.La banca dati è costituita da materiali multiformi che si integrano vicendevolmente: testi, immagini, ricostruzioni grafiche, e quant'altro possa offrire strumenti necessari alla conoscenza dell'edificio dal punto di vista storico, architettonico, artistico e culturale. La Mediateca amplia e approfondisce i temi del sito web www.palazzo-medici.it, con cui è connessa.Il progetto, realizzato dalla Provincia di Firenze in collaborazione con il Centro per la Comunicazione e l'Integrazione dei Media dell'Università degli Studi di Firenze , nasce dalla cooperazione di figure professionali assai diversificate (storici dell'arte, esperti informatici, fotografi...), che hanno trovato uno stimolante punto di incontro in uno strumento di documentazione innovativo e flessibile, esaustivo e di facile lettura.La Mediateca Medicea così concepita è indirizzata in particolare a studiosi e 'addetti ai lavori' nel campo dell'arte, della storia, delle materie umanistiche, della fotografia, della conservazione dei beni culturali, ma anche a studenti o a cultori con obiettivi di ricerca specifici. Il sito si presenta come una banca dati in progress e risulterà implementata, modificata e aggiornata in tempo reale.
http://www.e-theca.net/emiliopanella/index.html
http://www.e-theca.net/emiliopanella/sommario.htm
VICENDE DI SANTA MARIA NOVELLA
http://ast.signum.sns.it/index.php?id=2&L=0 REGIONE TOSCANA
Dove si effettua la ricerca http://ast.filosofia.sns.it/index.php?id=4&L=0
AST Recupero e diffusione degli archivi storici comunali toscani
Origine e finalità Negli ultimi decenni è stata condotta un’ampia campagna di riordinamento e inventariazione degli archivi storici comunali toscani, realizzata con il supporto della Regione Toscana e delle Amministrazioni locali, d’intesa con la Soprintendenza Archivistica per la Toscana. La maggior parte degli inventari prodotti in questo ambito è stata edita in varie collane sostenute anch’esse dalle Amministrazioni provinciali e comunali interessate, che hanno manifestato, così facendo, la volontà di diffondere anche al di fuori della realtà locale gli strumenti di ricerca prodotti e di rendere largamente conosciuto e accessibile il patrimonio archivistico in essi descritto. Il progetto Archivi Storici Toscani (AST) si propone il recupero in formato digitale e la diffusione sul web della cospicua produzione di inventari a stampa degli archivi storici comunali toscani, per garantirne una divulgazione più ampia di quella avuta finora.Oltre a recuperare i contenuti e gran parte dell’assetto editoriale dei volumi editi, AST permette di consultare in un unico ambiente le descrizioni di complessi archivistici, soggetti produttori (enti, persone, famiglie) e istituti di conservazione: ciò consente una ricerca e un recupero comuni, indipendentemente dagli inventari in cui le descrizioni sono state pubblicate, e offre in consultazione un vero e proprio sistema integrato di fonti per lo studio della storia toscana, costituito nel suo insieme dai patrimoni conservati negli archivi comunali. Il progetto è stato tecnicamente realizzato impiegando i metalinguaggi di marcatura e XML in particolare, producendo tracciati di descrizione largamente compatibili sia con gli standard archivistici internazionali sia con le norme descrittive adottate in altri progetti afferenti al Sistema Archivistico Nazionale. Attualmente sono stati recuperati trentuno inventari di archivi storici comunali situati nelle province di Arezzo, Firenze, Livorno, Lucca, Massa e Carrara, Pisa, Pistoia e Siena. Altri inventari sono in corso di recupero e saranno progressivamente inseriti nel sistema.
Dal sito : http://ast.filosofia.sns.it/index.php?id=1&L=0
Promotori Il progetto AST è stato promosso dalla Regione Toscana e realizzato da Signum – Centro di ricerche informatiche per le discipline umanistiche della Scuola Normale Superiore di Pisa, con la collaborazione, per la parte archivistica, di Stefano Vitali; nella sua più completa fase di attuazione ha visto anche la partecipazione della Soprintendenza Archivistica per la Toscana e dell’Università degli Studi di Siena (cattedra di Archivistica generale, sede di Arezzo).
Comitato tecnico-scientifico Elisa Brunoni, Linda Giuva, Ilaria Pescini, Sandra Pieri, Paola Ricciardi, Lorenzo Valgimogli (coordinamento tecnico e archivistico), Stefano Vitali (direzione scientifica). Scuola Normale Superiore Paolo Santoboni (coordinamento scientifico), Marco De Vita (codificazione XML), Matteo Gallo (progetto e sviluppo informatico), Mirko Delcaldo (grafica). Hanno collaborato alla fase prototipale del progetto Maddalena Taglioli, Anna Paola Pala e Cristina Gramuglia. Contatti Regione Toscana Paola Ricciardi: tel. 055-4384113, e-mail: paola.ricciardi@regione.toscana.itScuola Normale Superiore Dianella Lombardini: tel. 050-509406, e-mail: dianella.lombardini@sns.it
Dove si effettua la ricerca http://ast.filosofia.sns.it/index.php?id=4&L=0
Annali di Storia di FirenzeGli Annali di Storia di Firenze sono la prima rivista dedicata interamente alla storia della città in una prospettiva multidisciplinare. Del portale Storia di Firenze costituiscono il luogo dedicato alla ricerca avanzata e all’approfondimento storiografico. A cadenza annuale pubblicano saggi, discussioni, documenti e repertori bibliografici, e intendono contribuire a ripensare la storia di Firenze e i modi di raccontarla, cercando di offrire una rinnovata rappresentazione della storia della città e puntando a coglierne la più complessa trama delle sue vicende bimillenarie.Le prime annate (2006-2010) sono state pubblicate sia a stampa sia in formato digitale presso Firenze University Press. Dall’annata VI (2011) la pubblicazione è in formato digitale e a stampa su richiesta. I contenuti della rivista sono disponibili in accesso aperto. Direttori Marcello Verga (Università di Firenze), Andrea Zorzi (Università di Firenze), direttore responsabile Coordinamento Aurora Savelli (Università di Firenze) Comitato di redazione Anna Benvenuti (Università di Firenze), Bruna Bocchini Camaiani (Università di Firenze), Maurizio Bossi (Fondazione Romualdo Del Bianco), Jean Boutier (École des hautes études en sciences sociales), William J. Connell (Seton Hall University), Gábor Klaniczay (Central European University), Stephen J. Milner (University of Manchester), Simone Neri Serneri (Università di Siena), Sergio Raveggi (Università di Siena), Michael Rocke (Harvard Center for Renaissance Studies at Villa I Tatti), Luigi Tomassini (Università di Bologna – Sede di Ravenna), Paola Ventrone (Università Cattolica del "Sacro Cuore" – Milano) http://www.fupress.net/index.php/asf/index http://www.storiadifirenze.org/?cat=91
Archivio storico del Capitolo della Cattedrale di Firenze http://www.archivi.beniculturali.it/SAFI/inventari/CapitoloCattedraleFirenze.pdf
http://www.wikimapia.org/country/Italy/Toscana/Florence/
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UNA LUNGA PREMESSA CHE PUO' ANCHE APPARIRE INUTILE , MA CHE VI PREGO DI LEGGERE :
"A ME PAREVA STRANO"........ CHE NESSUNO DEGLI STORICI NOTI UNA COSA CHE E' SOTTO L'OCCHIO DI TUTTI
Infatti ognuno che si accosti a guardare nella storia non puo' che rimanere allibito , stravolto, stranito , sconcertato , aver l'impressione di non sapersi spiegare a se stesso quanto vede
Oggi, grazie allo sviluppo tecnologico, si è calcolato che la Terra abbia all'incirca 4,54 miliardi di anni (4,54 × 109 anni) con un'incertezza di più o meno 50 milioni di anni.
Sebbene le forme mioceniche ancestrali siano poco note rispetto agli australopitecini, è stata attualmente documentata la comparsa dei primi ominidi, risalente ad almeno 4,5 milioni di anni fa, con i fossili di Ardipithecus ramidus
L'età della pietra, che va dalla comparsa dei primi ominidi all'8.000-5.000 a.C. (epoca in cui si iniziarono a forgiare i primi metalli), viene a sua volta tradizionalmente suddivisa nei tre periodi: Paleolitico, Mesolitico e Neolitico
200.000 anni fa - La nostra specie Homo sapiens appare sulla scena - e poco dopo inizia a espandersi in Africa. Un ritrovamento in Marocco farebbe risalire le prime forme umane a 300.000 anni fa.
Come e' possibile si venga da 200.000 anni di niente o quasi niente
Che spiegazione dare a cio ?
Sembra che per la scimmia nuda tutto cominci intorno al 4.000 avanti Cristo e prima ?
296.000 anni di quasi vuoto culturale. Sembra tutto immensamente sproporzionato
Nella preistoria, al periodo del Paleolitico, del Mesolitico e del Neolitico seguì un terzo periodo detto età dei metalli. Con questo periodo iniziò il passaggio dalla Preistoria alla Storia.
Nel VI millennio a. C. in Medio Oriente nacque la metallurgia, ovvero la lavorazione dei metalli, che si diffuse maggiormente a partire dal 3000 a.C. e che permise all'uomo di fabbricare oggetti resistenti dalle forme più svariate.
Circa nel 6000 a.C. l'uomo imparò a fondere il rame e iniziò l'età dei metalli. Gli uomini forgiavano i loro strumenti metallici servendosi dei forni;
L'età del bronzo ( La lega per cui si ottiene il bronzo è una semplice miscela dei due metalli fondamentali, rame e stagno ) indica, rispetto a una data società preistorica o protostorica, il periodo caratterizzato dall'utilizzo sistematico ed esteso della metallurgia del bronzo che, per quanto riguarda l'Europa, si estende dal 3400 a.C. al 1100 a.C. circa.
by wikipedia
I Sumeri sono considerati la prima civiltà urbana assieme a quella dell'antico Egitto e della valle dell'Indo. Si trattava di un'etnia della Mesopotamia meridionale (l'odierno Iraq sud-orientale), che visse in quella regione tra il IV e il III millennio a.C. Preceduta da una scrittura fondamentalmente figurativa, una successiva stilizzazione condusse alla scrittura cuneiforme - che sembra aver preceduto ogni altra forma di scrittura codificata e che comparve attorno alla fine del IV millennio a.C.
La civiltà egizia ebbe una storia lunghissima, iniziò nel 3100 a.C. e terminò con la morte di Cleopatra nel I secolo a.C. La storia egizia si divide in tre fasi: durante l'Antico Regno (2600-2150 a.C.) si consolidarono le basi sociali, istituzionali e culturali dell'Egitto.
UNA PARENTESI BUIA LUNGA 4,5 MILIONI DI ANNI ALMENO
PER SVILUPPARE IN SEIMILA ANNI LE NOSTRE IMPERFETTE CONOSCENZE ATTUALI E LA NOSTRA MORALE NEI RAPPORTI CON GLI ALTRI ESSERI
GLI STORICI DOVREBBERO RIFLETTERE
IN PARTICOLARE SULLA MANCANZA DI LOGICA DELL'ORGANIZZAZIONE SOCIALE IN MANCANZA DI CONOSCENZA DEGLI OBIETTIVI DA RAGGIUNGERE
Infatti tardissimamente cominciamo a parlare della cultura greca un lampo di luce e di intelligenza per poi riprecipitare nel buio
Poi dal buio nuovamente luce con l'Impero romano erede di quell'unico bagliore di intelligenza
Dal punto di vista sociale l'etica cristiana mette per la prima volta in discussione la logica del piu' forte
Siamo per la prima volta di fronte ad una organizzazione complessa e ad un diritto individuale
Civilta' comunale
Umanesimo
Rinascimento
La riforma
La scienza e la comprensione dell'universo
GUAI AI VINTI
IL BISOGNO DI UNA SPIEGAZIONE MIRACOLISTICA : DIO
IL TORNACONTO INDIVIDUALE
QUANTO IL CONFLITTO E LA SUPERSTIZIONE PERMEINO TUTTORA LE NOSTRE SOCIETA'
CONFLITTO ALL'INTERNO ( LA LOTTA DI CLASSE ) E VERSO L' ESTERNO ( IL NEMICO vero o creato )
cominciamo col dire che la varieta' di cose che stanno dentro alla parte emotiva del cervello e' molto limitata :amore, odio, invidia, avidita' , il desiderio , la paura , la delusione , la frustrazione , il desiderio d'incolpare gli altri, l'aggressivita', la pieta' , l'altruismo , l'abnegazione, l'inganno , la falsita' , la dissimulazione, .........
che poi generano una quantita' vastissima di situazioni emotive
Questo e' pero' ambito di filosofia , di psicologia individuale e di psicologia delle masse ,
L'utilizzo della STORIA e' creare la premessa per perseguire degli obiettivi dopo averli identificati
CULTURA, INFORMAZIONE, ANALISI CRITICA, LOGICA, BUON SENSO
L'evoluzione del pensiero umano ha avuto ( salvo rigurgiti di vomito come il nazismo ) un'accelerazione quasi inspiegabile dopo la rivoluzione francese
Ricordiamo malapena i fatti del 4000 avanti Cristo
Solo agli inizi del 1800 dopo Cristo hanno iniziato ad affermarsi principi come liberta' , uguaglianza , fraternita' , solidarieta' , ...............
Per milioni di anni ci siamo straziati a vicenda oggi comincia a diffondersi l'idea dell'autodeterminazione dei popoli
L'era della comunicazione e dell'informazione di massa. La diffusione della scolarizzazione di massa , della capacita' di leggere , riflettere e capire , a capire a proprio modo ma ha capire cioe' sviluppare una propria idea , spinge l'individuo verso quella ricerca della felicita' di cui parla la costituzione americana , anche se non sempre attraverso i mezzi piu' efficaci
Frutto della mancanza della visione del profondo cambiamento e' che si tramanda ancora un errore molto molto antico sul concetto di Storia
la musa Clio scolpita da Hugo Kaufmann
Clio era la Musa della storia, e custodiva il passato di stirpi, uomini e città, ispirando poeti e aedi che ne diffondevano e glorificavano caratteri ed imprese.
Il nome Clio proviene dalla medesima radice del verbo ??e?? klèio che in greco significa "rendere famoso" o "celebrare". Il suo nome sottolinea quindi come coloro che sono oggetto di encomio nelle opere dei poeti e dei cantori ne ottengano rinomanza e gloria duratura (wikipedia)
Lo storico e' lo scienziato che investiga e cerca di ricostruire i fatti , e le ragioni dei fatti
Nel passato non sono esistiti gli storici
solo oggi stanno nascendo gli storici
Mistificazioni profondissime hanno alterato gli studi sul passato piegando i fatti a sopportare convinzioni teorie .................
La storia ricorda grandi battaglie e ricorda come grandi gli uomini che le hanno volute e vinte per la propria gloria e per quella della propria Nazione
La storia esalta la guerra
Esalta il coraggio , inquadra il senso dell'onore nel comportamento in battaglia
Se poi ti avvicini ai grandi della storia , molto spesso ti accorgi che in definitiva erano piccoli uomini e schiavi delle circostanze e delle emozioni
Ti accorgi come immensi imperi che regolavano la vita di masse immense di uomini e donne erano talvolta governati da gente mediocre che non aveva ben chiaro cosa fare e procedeva a tentoni
La storia glorifica la forza e la prepotenza e la violenza e comunque la giustifica
esalta la conquista la rapina lo stupro
glorifica il coraggio stolido
esalta il senso dell'onore , si appella al proprio Dio ,
incredibilmente pur occupandosi di civilta' glorifica la barbarie
Dimentica completamente i molti che hanno pagato la gloria di pochi con la propria morte
Dimentica gli umili che hanno pagate con grandissime sofferenze
Dimentica quei furbi che si sono arricchiti coi profitti di guerra , col mercato nero , con l'usura, sfruttando le difficolta' degli altri ............................................
La Storia e' materia che soffre d'indeterminatezza
Se io so che voglio andare a Milano , mi e' facile a posteriori vedere gli errori di percorso , ma se vago senza meta ......................
Se si potesse teorizzare il mondo perfetto: dove non esistono guerre e violenza , dove ognuno ha i mezzi per vivere, dove ha strada aperta per la costruzione della sua felicita' probabilmente si potrebbe teorizzare un giudizio sugli avvenimenti e comunque raccontarli in questa visione
Lo storico si trova invece a gestire conflitti non sempre facili da giudicare , ognuno con pro e contro da esaminare , ognuno con la ragione distribuita qui e la
E poi quale ragione
La giustizia e' un concetto astratto facile da concepire in termini generali ma praticamente impossibile da costruire nella realta'
Eppure e' necessario che lo storico non si perda
E' necessario che lo storico ricordi le deviazioni di rotta
E' necessario che lo storico costruisca l'esperienza collettiva , che non dimentichi almeno quelle esperienze di perdite di liberta' , o di sofferenze di grandi masse
Che ricordi come e perche' vi si giunse
Professor Le Goff, perché ha scelto la storia?
«Mi ha sedotto da sempre. Però l’importante è capire quale storia. A me piace la storia che ti vedi passare davanti agli occhi. Negli Anni Trenta vivevo a Tolone con i miei genitori. Mi accorsi che per le strade si vedevano sempre più automobili e nelle case sempre più telefoni e frigoriferi. Noi eravamo una famiglia della piccola borghesia, mio padre era professore d’inglese, e non avevamo né automobile né telefono né frigorifero. C’era la ghiacciaia, e sento ancora il venditore ambulante di ghiaccio urlare per strada: "La glace! La glace!". E allora mi facevano scendere per comprarlo. Ma questo non è importante. L’importante, per me, è stato capire molto presto che l’avvento del frigorifero e la scomparsa della ghiacciaia era un avvenimento storico, perché cambiava la vita quotidiana, la vita delle persone, molto più delle guerre e dei Re. Per me, la storia è sempre stata storia sociale».
intervista di Alberto Mattioli a Jacques Le Goff e pubblicata su "La Stampa" il 28 Gennaio 2012
Le Goff ha riscritto temi e metodi della ricerca storiografica, innovandoli, ampliandoli, fondendo la storia con l’antropologia, non smettendo mai di chiedersi il perché delle cose e mantenendo sempre viva la curiosità, la voglia di andare a vedere, e conoscere, l’uomo, nascosto dietro il personaggio storico. Svelare il corpo, il quotidiano, dietro la patina del tempo e del mito.
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COME DESIDERA VIVERE L'UOMO SOCIALE ?
Ai gridi ed ai lamenti Di noi plebe tradita La lega dei potenti Si scosse impaurita E prenci e magistrati Gridaron coi signori Che siam degli arrabbiati Dei rudi malfattori. Folli non siam ne' tristi Ne' bruti ne' birbanti Ma siam degli anarchisti Pel bene militanti Al giusto al ver mirando Strugger cerchiam gli errori Percio' ci han messo al bando Col dirci malfattori. Deh t'affretta a sorgere O sol dell'avvenir Vivere vogliam liberi Non vogliam piu' servir. Noi del lavor siam figli E col lavor concordi Sfuggir vogliam gli artigli Dei vil padroni ingordi Che il pane han trafugato A noi lavoratori E poscia han proclamato Che siam dei malfattori. |
Natura comun madre A niun nega I suoi frutti E caste ingorde e ladre Ruban quel ch'e' di tutti Che in comun si viva Si goda e si lavori Tal e' l'aspettativa Che abbiam noi malfattori. Deh t'affretta a sorgere O sol dell'avvenir Vivere vogliam liberi Non vogliam piu' servir. Chi sparge l'impostura Avvolto in nera veste Chi nega la natura Sfuggiam come la peste Sprezziam gli dei del cielo E I falsi loro cultori Del ver squarciamo il velo Percio' siam malfattori. Amor ritiene uniti Gli affetti naturali E non domanda riti Ne' lacci coniugali Noi dai profan mercati Distor vogliam gli amori E sindaci e curati Ci chiaman malfattori . |
Deh t'affretta a sorgere O sol dell'avvenir Vivere vogliam liberi Non vogliam piu' servir. Divise hanno con frodi Citta' popoli e terre Da cio'gli ingiusti odi Che generan le guerre Noi che seguendo il vero Gridiamo a tutti i cori Che patria e'il mondo intero Ci chiaman malfattori. La chiesa e lo stato L'ingorda borghesia Contendono al creato Di liberta'la via Ma presto i di verranno Che papa re e signori Coi birri loro cadranno Per man dei malfattori. Allor vedremo sorgere Il sol dell'avvenir In pace potrem vivere In liberta' gioir .
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Il futuro si costruisce accettando dei valori positivi
Considerando come tali valori sianoi stati oppressi nel passato
Come la liberta' sia stata limitata , quella personale e quella del pensiero, come l'uguaglianza sia stata messa da parte
Comprendendo i vincoli e condannandoli sempre ed ovunque
Alleandosi all'affermazione dei valori positivi
Manca completamente un genere di indagine che metta al centro "il benessere dell'uomo"
L'indagine che veda nel malessere un danno e nel benessere un fine
che esamini le radici e le cause di una storia che provoca malessere
FRANCIA O SPAGNA PURCHE' SE MAGNA
simbolo di vigliaccheria ?
simbolo di indifferenza verso chi comanda ? rassegnazione verso la sofferenza indipendentemente da chi viene
Ninetta mia , crepare di maggio ci vuole tanto ma tanto coraggio
A volte e' necessario morire per coerenza con le proprie idee
ma non e' mai una cosa bella morire, specie quando si hanno ventanni
Il futurismo è il rifiuto del presente e della società borghese, si esalta la macchina, la tecnica, la grande industria, la velocità e l’aggressività. I futuristi vogliono abolire la poesia nostalgica, il sentimento romantico e l’ossessione per il passato; inneggiano alle innovazioni, sono prepotenti, dinamici, chiassosi, esaltano il caos e le grandi città, sono sempre protesi verso un domani esaltante. I futuristi vogliono distruggere musei, biblioteche, accademie. Essi non risolvono il rapporto dell’artista con il mondo attraverso la fuga dal reale ma incentrandola sull’aggressività e sull’industrializzazione. Il manifesto principale che pose le basi per lo sviluppo del futurismo fu quello pubblicato su “Le Figaro” nel 1909 da Filippo Tommaso Marinetti (Manifesto del Futurismo), in cui si celebra il movimento, l’azione, il gusto violento, la guerra e la virilità, disprezzando la donna e il femminismo.
https://www.studenti.it/il-futurismo-caratteristiche-e-riassunto.html
A ben vedere solo un gioco intellettuale che fa piacere giocare presupponendo una personale invincibilita' e invulnerabilita' . Ridicolo nel suo ribaltamento quando la vittima diventa carnefice .Un tragico gioco , una tragica fantasia eroica,
Il futurismo rappresenta quella gioventu' energica e piena di umori che non sa come sfogare un surplus energetico che funge da droga
Bene fanno gli storici a parlare delle guerre . Le guerre irrompono negli schemi sociali spostando i confini . E con lo spostamento dei confini cambiano le lingue , gli usi e i costumi , la cultura
Con la guerra poi spesso muoiono i giovani , i piu' generosi , i piu' idealisti
I CONFINI i rapporti tra le Nazioni le tassazioni , le ricchezze del sottosuolo , i contatti i dissidi
IL SISTEMA ECONOMICO i rapporti tra le classi la coesistenza sociale all'interno di una nazione il lavoro le tassazioni
C'e' sicuramente una visione alterata nell' interpretazione della storia ed e' dovuta a questioni ideologiche antiche
La storia italiana dei secoli VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI ha subito il peso della cultura nobiliare dei secoli XVII XVIII XIX
L'Europa che in questi secoli e' stata il centro del mondo ha subito feudalesimo e neo feudalesimo , e solo dai secoli della Riforma ha iniziato a sviluppare una mentalita' mercantile e industriale culminata con la Rivoluzione inglese e con quella francese e col regicidio
L'Italia dei Comuni : quella ristretta area che comprende l'italia del Nord e parte dell'Italia centrale sviluppa gia' nei secoli VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI un mondo diverso che verra' soffocato da particolari circostanze che meritano approfondimenti che ancora non sono stati fatti
La funzione della Chiesa cattolica e i suoi impulsi positivi ed i suoi impulsi negativi non sono stati studiati con l'attenzione che merita quella parte cosi importante nella vita degli uomini che e' la religione . Non e' stata studiata semplicemente per una sorta di tabu' che coglie lo storico anche agguerrito
Quei residui di memoria feudale portano ancora a scrivere di guerra , di eroi , di favole
A glorificare la morte in battaglia , a glorificare la violenza, la strage , la sofferenza.......................................................................
A scuola la storia per alcuni e' una cosa affascinante per altri una scocciatura
( A dire il vero la maggior parte di coloro che scrivono di storia per le scuole e per gli studenti sono la parte piu' mediocre degli storici , scrivono in modo standardizzato )
La storia e' per la societa' quello che e' l'esperienza per un uomo . Ecco perche' bisognerebbe analizzare la storia con molta attenzione
E puoi fare un parallelo tra la psicologia del singolo e la psicologia della massa. Che per cento motivi l'uomo nella massa ha comportamenti che mai avrebbe da solo
Questa e' la premessa di Alfeo Giacomelli alla ricerca genealogica sulla famiglia Lenzi
Esprime tutta l'importanza che una ricerca genealogica puo' avere nella ricostruzione della macrostoria
Quando cominciai a lavorare alla ricostruzione genealogica e patrimoniale dei Lenzi lo feci non certo nell'intento di "nobilitarli", ma in un progetto di ricostruzione – tendenzialmente per totalità - delle famiglie dell'area porrettana, nel contesto di una ricerca mirante a ricostruire i caratteri originari dell'area, l'evoluzione del paesaggio e dell'agricoltura, degli insediamenti e delle famiglie appunto, il lavoro agricolo ed artigianale, i commerci, le mutazioni nel tempo della pietà religiosa, della mentalità e del costume, la cultura materiale, ecc. Insomma una ricerca storica e antropologica localmente ristretta quanto, nelle ambizioni, estesa nel tempo e totalizzante. Mi incoraggiavano e mi furono di notevole esempio ed aiuto le ricerche degli indimenticabili amici Leonello Bertacci e Paolo Guidotti e, per la storia delle istituzioni religiose, di Mario Fanti. Di Leonello voglio ricordare soprattutto la grande capacità di lettura dei documenti medievali, l'amore per la storia e i beni culturali dell'Appennino, la grande conoscenza di estimi e rogiti che gli permisero di redigere brevi ma precisissime schede su case e famiglie di una vastissima area della montagna nostra. Ma anche per la sua morte precoce Leonello lasciava, oltre le rapide schede pubblicate, solo appunti frammentari che nessuno ha cercato di vedere se fossero utilizzabili. Forse no perché li ricordo dispersi nei suoi quadernetti, confusamente (siamo in un periodo antecedennte ai computer) che probabilmente solo lui poteva rintracciare. Ma fu soprattutto da lui che appresi l'importanza degli estimi, ovviamente insieme ai rogiti notarili, sia per la ricostruzione del paesaggio e degli insediamenti sia al fine della ricostruzione delle famiglie, anche se l'uso che io ne feci divenne quasi subito più sistematico e totalizzante. Lo stesso si può dire di Paolo Guidotti, che aveva sui documenti della montagna la stessa erudizione ma che concentrò la sua attenzione su un'area più limitata, il Castiglionese dei Pepoli, riuscendo a darne un quadro per molti versi esemplare. Della competenza e dell'erudizione di Mario Fanti non è neppure il caso di parlare anche se, per la vastità delle sue conoscenze archivistiche e delle sue ricerche, ci ha dato solo alcuni esempi, comunque fondamentali, di storia ecclesiastica della montagna. Rispetto a Bertacci e Guidotti io portavo forse problematiche più affinate sulla moderna storiografia, specie francese, ma a frenare anche le mie ricerche specifiche vennero la molteplicità delle ricerche e degli interessi avviati e, dall'altro, il notevole ampliamento, tendenzialmente totalizzante, dell'area, anche solo appenninica, coperta. Anche i miei studi specifici sono rimasti perciò frammentari e largamente inediti (forse proprio per le parti più sintetiche) ma credo a mia volta di aver lasciato una non piccola traccia di metodo e di essermi talora imbattuto in documenti insperati, di grande valore e capaci di modificare in profondità la tradizionale e stereotipata visione della montagna. Penso in particolare alla Cronaca "contadina" del capugnanese Desiderio Zanini e penso alla leggenda di S. Acazio di Montovolo, segnalatami da Mario Fanti, ma da me interpretata e collocata in un contesto totalmente innovativo e rilevante, e potrei continuare con altri esempi ancora.
La cronaca Zanini fu particolarmente importante perché dimostrava che un intellettuale e una comunità "contadini" della fine del '500 potevano essere perfettamente aggiornati sulle problematiche politiche, giuridiche e religiose del loro tempo, potevano abbozzare una storiografia – per quanto frammentaria – persino d'avanguardia nelle metologie, anticipando le più avanzate metodologie attuali, e, tra l'altro avviando con estrema precisione la ricostruzione del paesaggio, degli insediamenti e la genealogie di tutte le famiglie, in parte per orgoglio di nobiltà contadina e comunista, in parte anche per esigenze pratiche (ad esempio quella di conoscere i gradi di parentela ed affinità ostacolanti i matrimoni secondo le nuove disposizioni tridentine). Lo studio delle fonti criminali, che dopo Ottavio Mazzoni Toselli sembrava essere stato dimenticato, alla luce di queste problematiche, si rivelò altrettanto importante e innovativo anche perché permetteva di entrare direttamente nel vivo della vita quotidiana, della mentalità e dei valori, della vita materiale, ecc. come nessun'altra fonte, ben più dei pur importantissimi rogiti notarili e ben più di molte fonti un po' burocratiche e standardizzate, come ad esempio le pur importanti visite pastorali.
E intanto, dalla correlazione di tante fonti, era presto saltata la visione tradizionale della montagna e della società montanara. Dallo studio diretto e sistematico delle fonti la montagna non appariva più un luogo periferico di emarginazione e di povertà, ma, al contrario, e non solo per il medioevo ma per tutta l'età moderna, un luogo di intenso popolamento, di grande rilevanza strategica, di notevole rilevanza economica e commerciale (talora anche di produzioni protoindustriali), costantemente correlata con la città ed anzi, anche per le diverse migrazioni, correlata a più stati, inserita in giochi politico – militari e diplomatici di vasto raggio, strettamente correlata alla città e capace di apportare ad essa un costante e notevole ricambio demografico e produttivo. Anche sotto l'aspetto intellettuale il quadro appariva estremamente variegato e complesso. Insomma si era presto sfaldata l'immagine di una montagna e di un mondo popolare totalmente marginali e subordinati e per contro era emersa potentemente la compenetrazione delle due società urbana e rurale, delle due culture, alta e accademica e popolare, delle economie, ecc. In questo contesto anche la storia delle famiglie era divenuta molto più complessa e problematica, ciò che era già stato perfettamente intravisto da alcuni più puntuali storici del passato, ma che, dallo studio sistematico, appariva in tutta la sua ampiezza.
la drssa Klapisch Zuber scrive :
Al limite del nostro periodo verso il secolo XI , lo schema triparrtito che domina le concezioni della societa' cristiana non accorda nessun posto specifico alle donne. Gerarchizza "ordini" o "condizioni" ---cavalieri,chierici,contadini---- ma questa piramide , in cui coloro che pregano e quelli che combattono o amministrano la giustizia gareggiano per la conquista del primo posto, non prevede una "condizione femminile"
Tuttavia gli uomini del Medioevo lungamante hanno concepito" la donna" come una categoria; ma solo tardi hanno fatto intervenire distinzioni sociali e attivita' professionali per conferire delle sfumature ai modelli di comportamento che le proponevano.Prima di esserecontadina, castellana o santa "la donna" e' stata caratterizzata in base al suo corpo , al suo sesso ,alle sue relazioni coi gruppi familiari .Che si tratti di spose , di vedove o di vergini la personalita' giuridica e l'etica quotidiana e' stata tratteggiata nelrapporto con un uomo o con un gruppo di uomini
Gli avvenimenti quando non digeriti , quando non sottoposti alla elaborazione di un divieto, di un tabu' sociale , tendono a ripetersi quando vengono riproposte le condizioni in cui nacquero
Come leggere la Storia .
l'homo sapiens accumula esperienze
alcune dirette
molte di queste esperienze sono preferibilmente indirette
( i genitori insegnano al bambino a non giocare con i fiammiferi e che il fuoco scotta e consuma le cose ) poi crescendo incontra "i saggi" , i maestri , i filosofi . i mistici cosi in questo rapporto di apprendimento che genera un rapporto alunno-insegnante s'inseriscono molte istituzioni sociali
la societa' che tende a regolare i rapporti gerarchici con l'interno e con l'esterno
la storia che cerca di dare una spiegazione agli avvenimenti
la Scienza
la Religione che cerca di dare una spiegazione alla vita e alla morte ............
poiche' in nessuna di queste cose vi sono sicurezze, ciascuno di noi assume delle convinzioni
Sono i punti fermi le convinzioni
Una casa solida non puo' essere costruita senza fondamenta
I punti fermi sono necessari alla nostra vita non e' necessario siano veri basta siano coerenti nel piano generale del nostro pensiero
Ma occorre sempre che dichiariamo a noi stessi quelli che sono i nostri punti fermi
“In un mondo tecnologico e in un’era scientifica, in cui una comunità transnazionale di ricercatori seri e colti si danna l’anima per cercare risposte concrete e precise a domande sensate e profonde sull’universo, sulla vita e sull’uomo, la Chiesa non trova infatti di meglio che riproporre in maniera immutata immutabile le sue favole mediorientali e le sue formule scolastiche, ottusamente chiusa a tutto ciò che il pensiero ha prodotto di buono tra i giubilei del 1600 e del 2000: cioè tra il rogo di Giordano Bruno e la sequenziazione del Genoma Umano”.
L'orologiaio cieco (titolo originale The Blind Watchmaker: Why the Evidence of Evolution Reveals a Universe Without Design) è un libro di Richard Dawkins,
L'evoluzione - sostiene Dawkins in questo saggio - è cieca: non vede dinanzi a sé, non pianifica nulla, non si pone alcun fine. Eppure, come un maestro orologiaio, ha prodotto risultati di straordinaria efficacia e precisione, organi perfetti e funzioni raffinate in un crescendo di complessità che distingue nettamente gli esseri viventi dagli oggetti della fisica, affascinanti proprio nella loro semplicità. Ricco di sense of humour nella miglior tradizione britannica, L'orologiaio cieco è un libro originale, pieno di informazioni, paradossi, osservazioni inaspettate; un classico della divulgazione scientifica contemporanea che costituisce la più completa e chiara spiegazione, rivolta al grande pubblico, della teoria dell'evoluzione e della selezione naturale, oltre che una circostanziata difesa del darwinismo dai numerosi attacchi di cui oggi è fatto segno.
L'orologiaio cieco (titolo originale The Blind Watchmaker: Why the Evidence of Evolution Reveals a Universe Without Design) è un libro di Richard Dawkins,
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
In questo libro l'autore affronta il tema della complessità del mondo biologico dal punto di vista della moderna biologia evolutiva, spiegando come l'estrema improbabilità legata alle sofisticate configurazioni degli esseri viventi possa trovare una risposta soddisfacente nella corretta conoscenza del funzionamento dei sistemi selettivi secondo logiche darwiniane. Rifacendosi alla celebre analogia dell'orologiaio del filosofo e teologo William Paley, Dawkins la modifica in quella dell'orologiaio cieco, dove l'affascinante varietà e complessità degli organismi diventano una conseguenza inevitabile di processi di selezione naturale che rendono superflua la necessità dell'esistenza di un disegno intenzionale ad opera di un'entità sovrannaturale.
Per spiegare il modo in cui si sono sviluppati organi estremamente sofisticati come l'occhio o l'ancor più singolare sistema di ecolocazione ultrasonica del pipistrello, non bastano però meccanismi legati a semplici variazioni casuali, che anche nel caso di tempi lunghissimi, come quelli della vita sulla terra, non risulterebbero minimamente sufficienti al raggiungimento di un tale grado di complessità. Ma un sistema di selezione cumulativa, in cui ad ogni passo i miglioramenti vengono messi alla prova, scartando le soluzioni meno efficienti, è la soluzione che avviene in natura per arrivare a creare ordine dal caos, ottenendo risultati strabilianti, in grado di sfidare le leggi di probabilità.
Per simulare questi meccanismi e renderli più semplici da comprendere e visualizzare, l'autore ha quindi sviluppato un semplice programma per computer in grado di creare e modificare strutture bidimensionali ramificate secondo schemi che simulano i meccanismi biologici, compresa la derivazione genetica, in questo caso rappresentata attraverso parametri numerici operanti sulle forme stesse. Questi semplici "biomorfi", selezionati nella loro evoluzione secondo logiche arbitrarie operate dall'autore, sostituitosi in questo all'opera della selezione naturale, hanno mostrato una notevole capacità di ricreare forme di estrema complessità in un numero limitato di passaggi. L'autore prende spunto da questo esperimento per sostenere come l'opera di passaggi piccoli e graduali risulti l'unica via percorribile dal punto di vista evoluzionistico, poiché salti più significativi non potrebbero sfruttare il meccanismo di selezione cumulativa, affidando il successo della mutazione unicamente al caso, rendendo perciò altamente improbabile qualsiasi cambiamento efficiente.
Per sostenere questa visione, e per sfatare una delle obiezioni più comuni al meccanismo evolutivo secondo logiche darwiniane, Dawkins mostra come si ritrovino nelle tracce fossili ed in natura innumerevoli esempi di come queste variazioni continue di efficienza si siano prodotte e sviluppate in organi ed esseri viventi. Fatto ulteriormente dimostrato dai numerosi casi di convergenza evolutiva, in cui problemi simili hanno portato specie diverse a sviluppare indipendentemente soluzioni sovrapponibili, come l'ecolocazione di pipistrelli e cetacei, o le molte strategie sociali comuni a formiche e termiti. Il tutto sotto il controllo di una molecola dotata della fondamentale capacità dell'autoreplicazione, il DNA, che tramite la ripetizione di semplici sequenze riesce ad immagazzinare una sbalorditiva quantità di informazioni, le quali a loro volta possono dare vita a strategie per la sopravvivenza di grande raffinatezza e complessità, tra cui gli organismi viventi. Questo grazie a meccanismi di interazione tra geni di tipo collaborativo che nel tempo hanno portato alla creazione di sistemi biologici sempre più complessi, ed alla parallela competizione tra gli organismi biologici stessi, impegnati in una rincorsa senza fine per la sopravvivenza.
Nell'ultima parte l'autore si occupa delle teorie che si sono poste come alternative al darwinismo classico, come quella degli equilibri punteggiati, mostrando come in questo caso le supposte differenze siano il frutto di alcuni fraintendimenti e manipolazioni mediatiche, piuttosto che reali differenze nei meccanismi proposti. Riguardo a teorie decisamente in opposizione a quella proposta dal neodarwinismo, come quella di Lamarck, o quella mutazionista, l'autore ne illustra i punti deboli, e come il neo-darwinismo risulti molto più efficace nello spiegare le sorprendenti capacità di adattamento degli organismi all'ambiente.
LA STORIA VA VISTA IN QUESTO QUADRO EVOLUZIONISTICO CHE APRE A VISIONI FANTASCIENTIFICHE DEL FUTURO DELL'UOMO, MA CHE PRIMA DEVE FARE I CONTI CON FORZE CHE HANNO RALLENTATO LO SVILUPPO SOCIALE DELL'UMANITA' PERCHE' NON POSSANO PIU' FARLO IN FUTURO
La concezione religiosa intima di chi si e' dedicato all'analisi storica ne ha disturbato la percezione
Da sempre la religione ed i religiosi . Capireligiosi e subalterni costituiscono una classe sociale fortemente consapevole di se
Con luoghi estremamente agguerriti deputati all'indottrinamento
Classe subdola che e' stata capace la dove non riusciva a prendere il potere ,di sostenere chi rappresentava il potere e di farsene un alleato
Classe subdola che ha sfruttato squallidamente la bassa intelligenza e la creduloneria dui una gran parte della razza umana
E' stato l'utilizzo sistematico della superstizione come mezzo di coercizione delle masse
Non solo la religione è sbagliata, ma anche presentata dalle religioni monoteiste come cosa ridicola.
Credere in Dio è come credere nelle fate e sostanzialmente è tutto un gioco per bambini.
Eppure con l'uso di queste idee e' stato possibile assoggettare masse immani per lunghissimo tempo a regimi liberticidi
Eppure con l'uso di queste idee sostenute da prove infantili si e' riusciti ad ostacolare il progresso e la conoscenza umana
Lo storico quindi deve prima di tutto comprendere come sia possibile che sia cosi esteso lo spazio temporale che separa la filosofia e lo studio della geometria greca , la capacita' architetonica romana dai primi vagiti dell' eta' dei lumi
Solo discutere sulla dichiarazione dei diritti dell'uomo
Solo discutere sull'uso della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti
Solo discutere sullo schiavismo
sulla parita' uomo donna
sulle razze
sui sistemi economici e sulle forme di compromesso piu' utili alla societa'
..................................................
definendo per quanto possibile una morale che non comporti sofferenza e comporti vantaggi collettivi
La STORIA e' sicuramente un resoconto veritiero dei fatti ma poi lo storico non puo' esimersi dal fare un esame se quei fatti hanno o meno causato dei ritardi verso forme di convivenza
Lo storico deve scrivere come un bambino e dichiarare in quali valori crede
Esaminando perche' l'affermazioni di valori/concetti da lui ritenuti importanti ha trovato ostacoli
Solo capendo l'origine di questi ostacoli si puo' dare sapore alla STORIA
Fortunatamente invecchiando sono diventato ateo e spero di morire cosi avendo acquistato una sorta di razionalita' , un pregiudizio di meno
E cio' mi ha liberato da un condizionamento pesante , potendo perseguire la giustizia sociale solo credendo nella giustizia sociale come un valore, senza aspettarmi premi o punizioni da degli dei che non esistono
La storia l'ho sempre vista come qualcosa che non si doveva comprendere in un modo solo , che non si doveva giudicare se non in casi estremi , ma si doveva solo raccontare il piu' fedelmente possibile esprimendola secondo i vari punti di vista ma liberandola dalle passioni e dai vantaggi di parte
Raccontandola nelle sue conseguenze come esperienza
La storia in definitiva e' quello che e' l'esperienza per un uomo : l'esperienza dell'umanita'
Quello che mi ha sempre colpito della "storia" e il suo ripetersi magari in forme diverse ma in sostanza uguali. Il suo ripetersi negli errori
Come se non fosse servito a niente aver sbagliato
Dell'essere la barbarie dietro l'angolo anche nel momento del massimo trionfo della civilta'
Il prevalere continuo della forza e della prepotenza
La santificazione religiosa della forza e della prepotenza in modo contrario ai principi che esalta
la santificazione sociale della forza e della prepotenza
Il silenzio a cui sono condannati gli innocenti e i deboli
Forse, mi dico , bisogna iniziare a leggere la storia in maniera diversa
non fornendo alibi alle ingiustizie
Mettendo in discussione quelli che sono stati e sono ancora alcuni principi della nostra educazione
Il massacro degli ebrei nei campi di concentramento in esaltazione della razza ariana e' avvenuto ieri dopo secoli di cristianesimo e quindi mi sembra ancora possibile domani
Anche chi ama la storia spesso percepisce gli uomini del passato come entita' completamente diverse con poco di comune con noi "moderni"
In realta' anche considerando l'evoluzione della specie il tempo che ci separa da quando abitavamo nelle caverne e' talmente breve che possiamo dire che molto poco si e' modificato nel cervello umano
Credo che se noi prendessimo un ragazzino delle caverne e magicamente lo trasportassimo ai nostri tempi , dopo un primo momento di sbigottimento si adatterebbe benissimo alla nostra tecnologia ed ai nostri standard di vita finendo per adottare i nostri pregiudizi . le nostre convinzioni politiche e sociali e imparando ad usare la tecnologia con la nostra stessa tecnica di schiacciabottoni
Nella visione di un uomo ben poco modificato nel tempo
moderato nei suoi eccessi caratteriali dalla religione dalla filosofia e dal patto sociale
civilizzato ma sempre in pericolo di ritornare alle barbarie
Il cammino dalle caverne al razzo lunare e' costellato di esperienze religiose filosofiche sociali
esperienze che fluttuano tra il regresso e il progresso
Il Comune e la Repubblica fiorentina espressione di uomini orgogliosi della Patria rappresenta una tra le piu' significative di queste esperienze umane
Il tentativo di uomini eccezionali di mantenere la propria liberta' in situazioni in cui era piu' facile perderla che mantenerla
Il tentativo di adottare sistemi politici innovativi come le estrazioni a sorte ( eredita' dei Greci di Plistene ) dei governanti , la breve durata delle cariche , o la dedizione a tempo e spontanea ad un Signore straniero
Anche oggi possiamo trarne motivo di riflessione
Cosi chi racconta la storia di Firenze la racconta ancora nel modo antico
Solo si fa delle domande
E pian piano prende corpo la struttura della convivenza cittadina
Ma lo storico non dovrebbe mai prescindere dalla violenza morale e materiale esercitata dalla chiesa cattolica su Firenze , sulla Toscana e sull'Italia
La chiesa cattolica ( che pure ha avuto uomini di grande levatura morale sul piano della pieta' individuale ) ha sempre esercitato come apparato un'azione oscurantista facendosi forza di un dio inesistente e desiderato dagli uomini che non comprendono che al momento non e' ancora possibile non morire
DOBBIAMO PENSARE CHE IL DUECENTO AVREBBE POTUTO ESSERE UNA GRANDE EPOCA DI RINNOVAMENTO SOCIALE SE SOLO LA SCIENZA E LA DIFFUSIONE DELLA SCIENZA AVESSERO POTUTO SCROLLARSI DI DOSSO SUPERSTIZIONE E RELIGIONE
Il saggio del dr Gasparri che ci introduce ad una visione di classi sociali profondamente diversa tra Oltralpe e Quidallalpe
«Nobiles et credentes omines liberi arimanni».
STORIA DI FIRENZE RACCONTATA CON I LIBRI
Probabilmente se Firenze fu quella che fu , ed e' definita un mistero , si deve all'accettazione profonda da parte dei fiorentini di quella filosofia che poneva al centro la COSA COMUNE
Nella prima meta' del duecento viveva a Firenze Brunetto Latini ("Burnecto notario filio Bonaccorsi Latini") (Firenze 1220/1230 circa - ivi 1293/1294 circa). Notaio e Cancelliere del Comune......................
come dice G. Villani, "cominciatore e maestro in digrossare i Fiorentini e fargli scorti in bene parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra Repubblica secondo la Politica".
.............La statura del personaggio ci è restituita dal necrologio iscritto da Giovanni Villani nella sua cronaca del 1294: "Nel detto anno […] morì in Firenze uno valente cittadino il quale ebbe nome ser Brunetto Latini, il quale fu gran filosafo, e fue sommo maestro in rettorica […] e fu dittatore del nostro Comune. Fu mondano uomo, ma di lui avemo fatta menzione però ch'egli fue cominciatore e maestro in digrossare i Fiorentini, e farli scorti in bene parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la Politica" (Nuova cronica, IX, 10). L'appellativo di mondano, "dissoluto", echeggia la confessione in Tesoretto, 2561 ("sai che sèn tenuti / un poco mondanetti") e più sostanzialmente la condanna dantesca per sodomia; il che non ha impedito di attribuire al L. un ruolo decisivo nella storia di Firenze: le parole del cronista - modellate sull'idealizzazione ciceroniana e brunettiana dell'uomo "grande e savio" che, con i suoi "gravi ammonimenti", ritrae gli uomini primitivi dalla loro crudeltà ferina (Rettorica § 5) - non si spiegherebbero, infatti, se non come riconoscimento che il L. fu una delle menti direttive, certo la più attrezzata ideologicamente, del Comune fiorentino nella seconda metà del Duecento. In questa prospettiva la sua biografia s'intreccia con la storia della città più di quanto non appaia dalle stesse tracce documentarie - relativamente modeste.
by Giorgio Inglese - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 64 (2005)
il L. fu priore, per il bimestre 15 agosto - 15 ottobre.
Nel 1200 la popolazione fiorentina viene stimata in circa 10.000 -- 15.000 persone ( fa eccezione il Fiumi che stima la citta' gia composta di 50.000 persone ) nel 1300 e' stima quasi unanime una citta' tra i 90.000 e i 100.000 abitanti E' evidente come questo incremento demografico non debbe essere imputato ad una differenza tra le morti e le nascite ma ad un impetuoso fenomeno d'immigrazione. Quella gente nuova che cosi turba il divino poeta, quella gente che sconvolge il governo della citta', che ne muta gli equilibri , che impone continuamente equilibri nuovi aumentando di numero e di forza. Quella gente che abbandonava la campagna e la coltivazione della terra per correre in citta' dove c'era lavoro. Possiamo immaginare che i primi mercanti fiorentini lucrando sull'usura e sulla compravendita delle merci e accumulando un capitale sufficiente siano giunti presto alla conclusione che avrebbero avuto ancora maggiori guadagni producendo e vendendo quelle merci che fino ad allora si erano limitati a comperare e a rivendere. Era la Firenze del 1200 una citta medioevale che governata da un ceto dirigente feudale fatto di signorotti il cui potere derivava dal possesso quasi signorile di terre nel contado.Ceto dirigente che si divideva nelle dispute a favore del Papa o dell'Imperatore quasi per il piacere della rissa e per sete di potere . Ceto dirigente destinato ad entrare in crisi di fronte all'entrata in scena di questa massa improvvisa di nuovi ricchi che avevano bisogni ,sentimenti , convinzioni completamente diverse. Il signorotto aveva bisogno di guerra il mercante di pace , il signorotto tendeva trappole sulle strade quasi fosse un brigante il mercante aveva bisogno di strade sgombre e sicure . Fino a che le logiche medioevali prevalgono questo ceto dirigente tiene botta rappresentando il nerbo dell'esercito. Ma sono intravedibili gia' da subito le crepe che si aprono tra due concezioni estremamente diverse del mondo. Le famiglie fiorentine che si possono definire di primo cerchio si cognominano gia dagli anni intorno al 1150 cosi Uberti, Caponsachi , Giandonati , Adimari , Buondelmonti…… Nei consigli delle prime decadi del 1200 e' molto facile distinguere i rappresentanti di queste famiglie perche' nominati col loro cognome , poi diventa sempre piu' difficile Nei consigli del primo popolo essi compaiono non col cognome ma col semplice patronimico. La lotta alle consorterie e al potere dei Grandi e' gia ampiamente iniziata. Essi sono tollerati perche' su di essi poggia l'organizzazione militare in quanto professionisti delle armi . Sono tollerati perche' la citta' non si e' ancora completamente affrancata dai poteri feudali a cui si appoggiano i signorotti. Papa e Imperatore rappresentano sempre una minaccia Gia ai tempi del Primo Popolo i signorotti ( mi piace di chiamarli cosi ) sarebbero stati spazzati via se non fosse stato per gli appoggi esterni su cui potevano contare. Quando nel 1266 i Guelfi vincitori rientrano in Firenze difficilmente avrebbero potuto immaginare che il loro mondo stava per finire per sempre Un ceto dirigente nuovo stava prendendo il potere L'episodio rivoluzionario di Giano Della Bella apriva ad una stagione nuova : UNA DELLE PIU' GRANDI ESPERIENZE CAPITALISTICHE DELLA STORIA
Perche' la storia di Firenze e' una storia affascinante di un popolo di mercanti ed imprenditori
Perche' la storia di Firenze non e' storia di guerre ma e' storia di denaro
Perche' la storia di Firenze e' un antica storia di modernissimi contrasti sociali
Perche' in questo popolo fiorentino germinano si agitano muoiono grandi ideali repubblicani
Perche' questo popolo di mercanti avido ,traditore ,laido, litigioso , pragmatico sa nei momenti estremi assurgere a livelli impensabili di idealismo ed allora il mercante senza scrupoli e senza morale sacrifica la vita senza batter ciglio per la sua Patria per la sua gente , e muore con la spada in pugno Davide contro Golia spavaldamente sprezzante
E i monumenti e le opere degli artisti stanno a mostrare al mondo quest'incredibibile amore e questo genio
ed el s'ergea col petto e con la fronte com' avesse l'inferno a gran dispitto.
Una serie infinita di gente di sangue fiorentino che stanno nella storia a sfidare l'immortalita' : Dante Alighieri, Francesco Petrarca , Boccaccio , Guido Cavalcanti , Giovanni Villani ,Dino Compagni , Burchiello , Giotto di Bondone , Nanni di Banco , Ghiberti , Filippo Brunelleschi , Donatello , Leon Battista Alberti , Sandro Botticelli ,Domenico Ghirlandaio ,Andrea del Verrocchio , Beato Angelico ,Paolo Uccello , Luigi Pulci , Leonardo da Vinci , Masaccio , Arnolfo di Cambio , Luca della Robbia , Giuliano da Sangallo , Paolo Dal Pozzo Toscanelli , Amerigo Vespucci , Michelangiolo Buonarroti , Benvenuto Cellini , Nicolo Macchiavelli, Andrea Del Sarto , Francesco Guicciardini ,.................
--------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Le 28 statue nelle nicchie dei pilastri del loggiato degli uffizi rappresentanti i toscani illustri Cosimo il vecchio ,Lorenzo il magnifico, Andrea Orcagna, Nicola Pisano, Giotto , Donatello , Leon Battista Alberti, Leonardo da Vinci, Michelangelo Buonarroti, Dante Alighieri , Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio , Niccolo Machiavelli, Francesco Guicciardini ,Amerigo Vespucci , Farinata degli Uberti , Piero Capponi , Giovanni delle bande nere , Francesco Ferrucci , Galileo Galilei , Pier Antonio Micheli , Francesco Redi , Paolo Mascagni , Andrea Cesalpino , S. Antonino Arcivescovo, Accorso, Guido Aretino , Benvenuto Cellini E tra il genio toscano sembra primeggiare il genio fiorentino http://brunelleschi.imss.fi.it/itinerari/galleria/LoggiatoUffizi_5168.html ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Non sono uno storico e non conosco la storia delle altre Repubbliche italiane La storia di Firenze pero' mi affascina e mi pare fresca e molto piu' vicina a noi di quel che possa sembrare ; probabilmente avrebbe bisogno di essere meglio divulgata e liberata dai troppi stereotipi con cui viene troppo spesso raccontata
vai a premessa2 Demografia fiorentina nel corso dei secoli e evoluzione della cinta muraria
IMPORTANTI MANOSCRITTI ……………………………….. Importanti manoscritti ed importanti elenchi , taluni quasi dimenticati ( Dr Paolo Piccardi )
vai a premessa3 Genesi dei cognomi fiorentini
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PARTIAMO DA QUELLO CHE DOVREBBE ESSERE L'INIZIO: L'IMPERO ROMANO CHE HA RACCOLTO L'EREDITA' CULTURALE GRECA
L'IMPERO ROMANO TOLLERANTE DI TUTTE LE RELIGIONI
L'IMPERO ROMANO CHE HA IL CONTROLLO DELL'IMMENSO TERRITORIO E CHE PURE IMPERFETTAMENTE AMMINISTRA LA STESSA GIUSTIZIA
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Poi dal buio nuovamente luce con l'Impero romano erede di quell'unico bagliore di intelligenza
Dal punto di vista sociale l'etica cristiana mette per la prima volta in discussione la logica del piu' forte
Siamo per la prima volta di fronte ad una organizzazione complessa e ad un diritto individuale
INVASIONI BARBARICHE O MIGRAZIONI BARBARICHE
Partiamo dal fatto che attualmente le opinioni degli storici sono in continua evoluzione e che gli storici dovranno cercare l'aiuto di altri rami scientifici per avvicinarsi alla realta' Lo studio della storia non puo' essere disgiunto dalle risultanza di altre scienze
Autori come Peter Heather e Bryan Ward-Perkins hanno ribadito che le invasioni barbariche e la caduta dell'Impero romano d'Occidente provocarono comunque un regresso della civiltà nell'Europa Occidentale, portando a sostegno di ciò dati archeologici, che sembrerebbero indicare che in numerose regioni dell'ex Impero la caduta di Roma provocò un regresso rispetto all'epoca precedente. Non va tuttavia trascurato che, una volta completato l'insediamento e terminati i saccheggi, la popolazione provinciale sottoposta ai barbari finì per preferire la dominazione dei nuovi padroni barbari all'oppressivo fiscalismo degli esattori delle tasse romani; Salviano di Marsiglia parla addirittura di masse intere di popolazione che cercarono riparo tra i barbari alla ricerca di condizioni di vita migliori; anche i proprietari terrieri romano-gallici, come Paolino di Pella, espressero la propria approvazione del governo goto nei territori da essi controllati. La presenza dei Barbari nelle provincie non fu quindi unicamente distruttiva ma in diversi casi finirono per essere addirittura preferiti al precedente governo romano. In diversi casi, i barbari mantennero molte delle strutture del precedente governo romano; il caso più eclatante è quello degli Ostrogoti, che addirittura mantennero la suddivisione del loro regno in prefetture del pretorio, diocesi e province, nonché cariche romane come quella di console, prefetto del pretorio, vicario, prefetto urbano e governatore provinciale. In pratica, gli studiosi della tarda antichità e delle invasioni barbariche sono divisi in due gruppi: i movers e gli shakers. I movers ritengono che il crollo dell'Impero fu provocato principalmente dalle invasioni barbariche; gli shakers invece ritengono che l'Impero era già in profonda disgregazione e che le invasioni barbariche furono la conseguenza della crisi dell'Impero, e non la causa. Un'ala estremista degli shakers nega addirittura la caduta dell'Impero, e sostiene semplicemente che l'Impero romano si trasformò suddividendosi nei regni romano-barbarici: essi sostengono che i barbari non invasero l'Impero, ma si insediarono nelle province dell'Impero con il consenso dei Romani, che avevano bisogno del loro sostegno militare per difendere le frontiere. Probabilmente una corretta valutazione storiografica sta nel mezzo tra queste due opinioni opposte: i barbari non intendevano distruggere l'Impero ma semplicemente insediarsi al loro interno; ma, costringendo l'Impero a concedere loro di insediarsi in territori intra limes (entro i confini), finirono per indebolirlo in misura sempre maggiore, provocando una drastica diminuzione del gettito fiscale, con conseguenti minori risorse a disposizione per mantenere a livelli adeguati l'esercito romano. Nel giro di un secolo, l'Impero finì per indebolirsi al punto da non riuscire più a tenere sotto controllo le spinte centrifughe dei federati germanici finendo quindi per collassare. Alcuni limiti interni dell'Impero, come le guerre civili e gli intrighi di corte, gli impedirono di reagire in modo efficace alla crisi particolare che si era venuta a creare a causa della migrazione degli Unni e ne accelerarono il crollo. Wikipedia
LO SPOPOLAMENTO E LE INVASIONI BARBARICHE
La piccola era glaciale tardoantica (nella letteratura anglosassone anche LALIA, Late Antique Little Ice Age ): L'esistenza di un periodo di raffreddamento nella tarda antichità è stata teorizzata per la prima volta nel 2015 e successivamente confermata per l'intervallo compreso tra il 536 e il 660 circa. Questo periodo coincide con due o tre eruzioni vulcaniche di grande portata, avvenute nel 525-536, nel 539-540 e nel 547. Si presume che l'eruzione del 536 provenisse da un vulcano ad alta latitudine, probabilmente in Alaska o in Islanda, mentre il vulcano 539/540 potrebbe essere stato l'Ilopango nell'attuale El Salvador. Tuttavia, anche l'eruzione 535 del Krakatoa è una valida candidata. Un altro sito vulcanico sospettato di esser coinvolto nel fenomeno è la caldera di Rabaul nel Pacifico occidentale, esplosa intorno al 540. Nella letteratura anglosassone anche LALIA, Late Antique Little Ice Age ( Ulf Büntgen, Vladimir S. Myglan e Fredrik Charpentier Ljungqvist, Cooling and societal change during the Late Antique Little Ice Age from 536 to around 660 AD, in Nature Geoscience, Nature Geoscience 9., n. 3, 2016, pp. 231–236, Bibcode:2016NatGe...9..231B, DOI:10.1038/ngeo2652.) Michael Greshko, nationalgeographic.com, https://www.nationalgeographic.com/science/2019/08/colossal-volcano-behind-mystery-global-cooling-found/. L'evidenza proviene da una ricostruzione della temperatura del gruppo di lavoro Euro-Med2k del progetto internazionale PAGES (Past Global Changes), utilizzando nuove misurazioni degli anelli degli alberi dei monti Altaj, che corrispondono strettamente alle temperature misurate sulle Alpi negli ultimi due secoli. Ulteriori carote di ghiaccio provenienti dalla Groenlandia e dall'Antartide mostrano aumenti di solfati, prodotti delle eruzioni vulcaniche, per gli strati formatisi nel 536 e nel 539/540. Wikipedia
IN DEFINITIVA QUALCOSA DI TERRIBILE AVVENNE ( COME CONFERMATO DAGLI STUDI SCIENTIFICI MODERNI )
Tra la fine del 535 e l'inizio del 536 e successivamente intorno al 540 si verificarono piu' gigantesche eruzioni le cui ceneri ed i cui gas oscurarono il sole per oltre un anno (apparendo il sole privo di raggi a simiglianza della luna --- Il sole prima delle stelle , sembra avere perso la sua luce abituale , e appare di un colore bluastro. Ci meravigliamo di non vedere l'ombra del nostro corpo a mezzogiorno, e di sentire il possente vigore del calore solare sprecato in debolezza , e di cogliere fenomeni che accompagnano un eclissi transitoria prolungarsi per un anno intero) Causando un raffreddamento del clima durato oltre un secolo e ribattezzato "Piccola era glaciale della tarda antichità". In quegli anni il sole offuscato dalle polveri causò la perdita dei raccolti mentre le piante non riuscivano a portare a compimento i loro frutti. Questa condizione di temperature ridotte e di mutazione del corso delle stagioni causo' ovunque carenza di cibo, con conseguente fame e malnutrizione La situazione italiana fu quasi contemporaneamente aggravata da una nuova calamita' Nel 535 intanto era sbarcato in Italia l'esercito Bizantino, dando inizio alle guerre Greco Gotiche ( 535--553 : 18 anni ) Molte parti d'Italia divennero scenari di guerra con razzie ,saccheggi ,devastazioni da parte degli eserciti , violenze e morti a causa della guerra , eccidi di decine di migliaia di persone .Assedi con decine di migliaia di morti per fame . Impossibilita' di coltivare la terra ( gia' in condizioni climatiche sfvorevoli ) in simili condizioni e quindi morte per mancanza di cibo . La gente si nutriva di erba e ne moriva Si verificano terribili episodi di cannibalismo. Alcune donne attiravano gli uomini per ucciderli e cibarsene In questi 18 anni e' presumibile uno decimazione della popolazione e uno stato generale di debilitazione. Con le terre coltivabili preda del ritorno boschivo Come se non bastasse a partire dal 541 a cadenza di 12 15 anni fino almeno al 590 si presento' la peste bubbonica detta di Giustiniano
Procopio di Cesarea riporta come, al suo culmine, l'epidemia uccideva 10.000 persone al giorno nella sola Costantinopoli, una stima forse gonfiata dal generale stato di emergenza (alcuni storici moderni parlano comunque di circa 5.000 al giorno, arrivando ad uccidere il 40% della popolazione cittadina, mentre guardando al Mediterraneo orientale la riduzione di popolazione dovette essere attorno al 25%). Non essendo possibile trovare luoghi dove seppellire i morti, i cadaveri dovevano essere spesso lasciati all'aperto, favorendo la diffusione del contagio. Giustiniano promulgò nuove leggi per snellire le procedure legate alle pratiche ereditarie, che raggiunsero un picco causato dalle innumerevoli morti. La peste influenzò anche la Guerra gotica (535-553), dando agli Ostrogoti la possibilità di rafforzarsi durante la crisi che stava affliggendo gli avversari. La stessa città di Roma, nel 546, rimase quasi senza abitanti per alcuni mesi: la circostanza è attribuita, da Procopio di Cesarea, alla volontà del re Goto Totila, il quale avrebbe deciso di far spostare in Campania i pochi abitanti rimasti. Tuttavia, secondo il dato fornito da Procopio, sarebbero rimaste solo 500 persone nella città, già devastata dal conflitto, il che sarebbe assai inverosimile, rendendo quindi il dato probabilmente frutto della percezione di drammaticità che l'autore ebbe di quegli avvenimenti. Sebbene la guerra venne poi vinta dai Bizantini, si pensa che la peste sia stata una delle cause che impedirono una vera presa di possesso dei nuovi territori, che dovettero quasi essere lasciati a sé stessi per via della ridotta concentrazione demografica causata dell'epidemia da parte di entrambi i contendenti, aprendo così la strada alla invasione longobarda dell'Italia. Tuttavia, il periodo di maggior veemenza della pestilenza nella penisola lo si raggiunse tra gli anni sessanta e settanta del secolo. Il Liber Pontificalis ricorda come sotto papa Benedetto I (575-579) un'ondata epidemica seguita, da una grave carestia, indusse molte città assediate dai Longobardi ad aprire loro le porte tanto era il patimento. Paolo Diacono descrive le devastazioni prodotte dall'epidemia anche nel tessuto sociale, come in questa descrizione della peste che nel 565 decimò la Liguria: "tutti erano scappati e tutto era avvolto nel silenzio più profondo. Due figli se ne erano andati lasciando insepolti i cadaveri dei loro genitori; i genitori dimenticavano i loro doveri abbandonando i loro bambini". La peste Giustiniana fu sicuramente una delle cause principali che portarono al crollo della civiltà urbana, già fortemente indebolita dalle vicende belliche ed economiche, nei territori appartenuti all'impero Romano o all'epoca ancora controllati da Costantinopoli, segnando il definitivo passaggio dall'antichità al Medioevo. La peste si ripresentò a ondate fino al 750 circa, anche se non raggiunse più la virulenza iniziale. Le stime più accreditate parlano di 25 milioni di decessi, anche se vi sono alcune stime storiche che raggiungono la cifra di 100 milioni di morti totali.
Quante persone abitavano in Italia ne V secolo e nel VI secolo ? Epidemie e carestie , guerre continue , caratterizzano il dopo impero romano Probabilmente l'Italia era un territorio fortemente spopolato, che custodiva pero' ancora grandi ricchezze Quindi era una preda ambita ed anche facile da conquistare e sotto questa luce dovrebbe essere riesaminato il periodo che va sotto il nome del periodo delle invasioni barbariche o delle migrazioni barbariche Cio' che mi ha dato sempre da pensare e' la questione logistica : come faceva un esercito anche di qualche migliaio di uomini a sfamarsi in un paese il cui territorio era poco conosciuto ? Razziando ? sicuramente .Ma sarebbe bastato ? L'oro in definitiva non si mangia L'unica spiegazione e' che i barbari non venissero come un esercito ma come un popolo in migrazione , guerrieri , donne e bambini ( talvolte le donne atte al combattimento ) animali al seguito che permettevano a quel popolo di sopravvivere in movimento e di costituire una forza d'urto considerevole Forza d'urto notevole esercitata su nuclei poco numerosi e privi di una qualunque forma istituzionale che li collegasse tra di loro ( se non la Chiesa )
Le invasioni barbariche hanno termine con l'invasione longobarda e il successivo successo franco ( non e' invasione ma solo una semplice dipendenza istituzionale ) In modo particolare col consolidarsi a nord delle Alpi di poteri stabili e forti che solo a meta X secolo divengono una barriera
NEL X SECOLO ASSISTIAMO ANCORA ALLE SCORRERIE DEGLI UNGARI
CONTROLLO DEL TERRITORIO
La presenza delle MAFIE ci conforta a dire che la dove manca il controllo pubblico, s'instaura comunque un tipo di controllo basato su principi talvolta uguali e talvolta diversi Violenza e protezione in cambio di qualcosa Difficile che uomini pacifici riescano a riunirsi e a creare una forza difensiva comune , specie nelle campagne dove le persone sono piu' isolate
Tra IV e X secolo e' difficile dire come il PUBBLICO riuscisse ad esercitare un effettivo controllo sul territorio e quindi valutare quanto questo fosse solo formale Di certo siamo di fronte a molte forme di usurpazione del potere pubblico , magari poi sanzionati da riconoscimenti formali Chi era presente su un piccolo territorio e riusciva ad esercitare una sufficiente violenza da costringere ad accettarne l'arbitrio e la protezione alla fine spesso riusciva ad ottenere il riconoscimento dello status quo in cambio di un atto di sottomissione e di fedelta' al potere centrale
LA STORIA OGGI CI DICE,in attesa di conferme che : I Longobardi nel 568, guidati da Alboino, si insediarono in Italia, dove diedero vita a un regno indipendente che estese progressivamente il proprio dominio sulla maggior parte del territorio italiano continentale e peninsulare. Il dominio longobardo fu articolato in numerosi ducati, che godevano di una marcata autonomia rispetto al potere centrale dei sovrani insediati a Pavia; nel corso dei secoli, tuttavia, grandi figure di sovrani come Autari, Agilulfo (VI secolo), Rotari, Grimoaldo (VII secolo), Liutprando, Astolfo e Desiderio (VIII secolo) estesero progressivamente l'autorità del re, conseguendo un rafforzamento delle prerogative regie e della coesione interna del regno. Il Regno longobardo, che tra il VII e l'inizio dell'VIII secolo era arrivato a rappresentare una potenza di rilievo europeo
La superficie complessiva dell'Italia ammonta attualmente a 302.073 chilometri quadrati e, per la sua conformazione orografica, il Paese risulta caratterizzato da un territorio prevalentemente collinare (pari al 41,6% della superficie complessiva), seguito da quello di montagna (35,%) e di pianura (23,2%)
Ammesso per caso estremo fossero arrivati in Italia 400.000 ( cifra impossibile si parla al piu' di 200.000 ) longobardi considerando le donne ed i bambini, ammesso avessero potuto disporre di 100.000 guerrieri e' necessario valutare con molta serenita' come sia stato possibile siano riusciti ad insediarsi da padroni in quasi tutta Italia La mancanza di istituzioni statali La mancanza di un esercito regolare lo spopolamento che doveva essere enorme ................ Possono far capire qualcosa ma non tutto E rendono pieno di interrogativi il reale controllo del territorio da parte dei Longobardi Gli stessi interrogativi che mi pongo quando mi parlano della conquista normanna della Sicilia da parte di un pugno di uomini
La caduta di un forte stato centralizzato avra' comportato sicuramente il trionfo di piccoli poteri locali basati sulla violenza e sulla sopraffazione ma poi su situazioni di convivenza
Lo spopolamento italico legato a malattie e a carestie da quello che ho letto venne aggravato dalla piccola glaciazione del VI secolo che ha lasciato tracce nei cerchi degli alberi ( con un accrescimento molto sotto media ) e probabilmente sugli uomini per la minore fertilita' del suolo e quindi di una piu' marcata denutrizione La guerra Greco-Gotica avra' aggravato la situazione demografica con ulteriori forti sconquassi nella produzione agricola e incertezza nella vita delle persone con calo del tasso di fertilita' e con aumento delle cause di mortalita'
Non si puo' davvero pensare che non esistesse un enorme quantita' di genti barbariche nelle steppe tra Europa ed Asia e nel nord Europa Quindi ci sta una migrazione di massa verso territori non piu' in grado di difendersi Penso che in quel momento la parola controllo del territorio avesse un significato molto diverso da come lo intendiamo noi Penso che la civilta' romana abbia come base la citta' . Quindi in realta' un eventuale conquista longobarda e' legata alla conquista delle citta'. La conquista del contado non ha significato . Citta' che saltate le istituzioni erano quasi del tutto scollegate tra loro ( solo la Chiesa , e con notevoli difficolta' , fungeva da raccordo e citta' comunque con dimensioni demografiche da attuale piccolissimo paese ) Quindi un controllo del territorio fortemente localizzato. Con centri di potere legati alle citta' e probabilmente con un controllo del territorio scarso e predatorio Non vedo niente di illogico in una migrazione di un popolo di 80.000-100.000 persone con vacche e pecore al seguito ( che gli risolvevano il problema logistico ) abituati a vivere in tendopoli , che investono a bande citta' di 5.000 abitanti che traggono il sostentamento dalle campagne circostanti e che possono sostenere un assedio solo per pochi mesi Ai Longobardi poi si saranno aggiunti nel frattempo molti barbari che vivevano gia' in Italia , e che si unirono alla rapina prima e poi al controllo
LA PAROLA ALLO STUDIOSO : STEFANO GASPARRI
professor of Medieval History and a specialist in Early Middle Age, in particular of Italian History. Università Ca' Foscari Venezia, Dipartimento di Studi Umanistici, Faculty Membe
Mi e' parso condivisibile La storiografia italiana ha sempre rifiutato l’eredità barbarica. I Longobardi, in particolare, sono sempre stati ritenuti i più barbari di tutti. Questo per molti motivi: per le polemiche dell’età del Risorgimento, per la natura cattolica della storiografia italiana (i Longobardi erano nemici dei papi) e per il grande peso della cultura classica, che ha sempre ritenuto non solo l’età longobarda, ma in generale il medioevo come un periodo di negazione delle radici romane dell’Italia. Per questo motivo è stata sempre negata la fusione fra Longobardi e Romani. Ma la storiografia più recente ha mostrato che nell’VIII secolo la fusione fra Longobardi e Romani era ormai avvenuta: l’intera popolazione libera del regno identificava se stessa come longobarda.
La migrazione longobarda in Italia tra mito e realtà
Migrazione, etnogenesi, integrazione nel mondo romano: il caso dei Longobardi,
Le molteplici identità etniche dei Longobardi in Italia
La storiografia italiana e i secoli bui: l’esempio dei Longobardi
I barbari, l’impero, l’esercito e il caso dei Longobardi
Identità etnica e identità politica nei regni barbarici postromani: il problema delle fonti
«Nobiles et credentes omines liberi arimanni».
Il potere del re. La regalità longobarda da Alboino a Desiderio,
Le basi economiche del potere pubblico in età longobarda
Una fine inevitabile? Il crollo del regno longobardo di fronte ai Franchi e al papato,
Un governo difficile. Note per uno studio dell’Italia nella prima età carolingia
I LONGOBARDI, I ROMANI E L’IDENTITÀ NAZIONALE ITALIANA
gruppi dominanti nell'Italia longobarda e carolingia
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La realta' che il professore Stefano Gasparri , oltre al fatto che noi siamo i longobardi i Goti i Romani , ci mostra ci fa capire che in molti usano e impongono la storia per scopi che con la storia non c'entrano e quindi la manipolano per creare diritti ed opinioni e per far dimenticare abusi . Cioe' gli storici del passato non sono sfuggiti alla trappola
La Chiesa cospira il danno contro il REGNO LONGOBARDO, favorendo il re franco CARLO probabilmente pensando di poterlo manovrare con facilita' nel proprio interesse
ANTEFATTO
Nel 687 Pipino di Herstal, maggiordomo del re di Austrasia, sconfisse i tenaci Neustriani a Tertry e unì Austrasia e Neustria. I discendenti di Pipino, i Carolingi, continuarono a governare poi regnare sui due regni. Con la benedizione di papa Stefano II, dopo il 751, Pipino il Breve depose formalmente i Merovingi ed assunse il controllo dell'intero regno franco. Neustria, Austrasia, Borgogna e Aquitania vennero in seguito unificate sotto un'unica autorità e i nomi "Neustria" ed "Austrasia" sparirono gradualmente. Infatti con il Trattato di Verdun, dell'843, i vecchi regni di Neustria e Aquitania vennero assegnati a Carlo il Calvo, che prese il titolo di re dei Franchi occidentali.
Carlo detto poi Magno (2 aprile 742 – Aquisgrana, 28 gennaio 814), è stato re dei Franchi dal 768, re dei Longobardi dal 774 e dall'800 primo Imperatore dei Romani, incoronato da papa Leone III nell'antica basilica di San Pietro in Vaticano. L'appellativo Magno gli fu attribuito dal suo biografo Eginardo, che intitolò la sua opera Vita et gesta Caroli Magni. Figlio di Pipino il Breve e Bertrada di Laon, Carlo divenne re nel 768, alla morte di suo padre. Inizialmente regnò insieme al fratello Carlomanno. La morte improvvisa di quest'ultimo, avvenuta nel 771 in circostanze misteriose, rese Carlo unico sovrano del regno franco. Questo regno fu da lui allargato, grazie a una serie di vittoriose campagne militari, che inclusero la conquista del Regno longobardo, fino a comprendere una vasta parte dell'Europa occidentale.
La Chiesa ha un pesante influsso sulla storia italiana Cerniera tra nord e sud della penisola
ha uno sconfinato esercito spirituale salvaguardia la cultura antica e comunque conserva i rudimenti culturali Ha il grande merito di conservare una parte del mondo romano Superstizione : governo delle anime inferno paradiso culto dei santi delle reliquie moderazione della violenza ....................frati suore . Raccolta di denaro : potenza finanziaria Per la prima volta ( una delle molte ) ostacolano l'unificazione d'Italia sotto il regno dei re longobardi Senza trovare mai la forza di unificare la Nazione sotto il suo dominio I Vescovi diventano un riferimento spirituale ma anche politico
Carlo magno conquista un'ampia fetta di territorio europeo In parole povere ha un'organizzazione militare che gli consente di minacciare e imporre tributi ad un ampia fetta di Europa La sua amministrazione fiscale e' rozza ed elementare Niente a che fare con l'organizzazione centrale dello stato Nasce con lui un gracile e perverso sistema ( una sorta di catena di Sant'Antonio del potere) che di fatto per l'assoluta impossibilita' di Carlo e dei suoi discendenti di controllare il territorio conferma nel potere chi gia' lo deteneva e in un certo qual modo lo legittima cioe' legittima una potere basatto sulla prepotenza e non sul diritto statale
dal sito https://www.skuola.net/storia-medievale/feudalesimo-caratteristiche.html Il feudalesimo fu la tipica organizzazione giuridica e amministrativa nata in età carolingia. Si fondava su legami personali tra due individui del quale il più potente concedeva protezione e beni ricevendo in cambio fedeltà i servizi (tra questi beni vi era di solito un feudo ossia una terra più o meno estesa). L'individuo più potente concedeva al vassallo un feudo. Il feudalesimo è un sistema per governare una realtà pubblica sulla base di rapporti privati infatti durante quest'epoca l'economia era poco sviluppata, il re non aveva denaro ma possedeva molte terre e con queste pagava i servizi ricevuti dai guerrieri inoltre il potere a livello locale non era presente e per questo ci si rivolgeva ad autorità intermedie in grado di fornire la protezione richiesta. Il rapporto feudale si basava sul vassallaggio ossia sul giuramento di fedeltà di un individuo verso l'altro. L’investitura serviva ad assicurare un vero e proprio contratto tra Signore e Vassallo e rivestiva un preciso valore simbolico. In questo caso il vassallo rendeva omaggio mettendosi in ginocchio, disarmato, a capo scoperto, ponendo le mani in quelle del Signore successivamente c’era lo scambio reciproco del bacio con l’affidamento del feudo. Il feudalesimo era un rapporto tra ceti levati della società, mentre la signoria rurale riguardava rapporti tra un signore i suoi contadini. Il feudo era un bene revocabile nel caso di fellonia o di morte del vassallo. Indebolimento dell’autorità centrale ossia dello Stato anche se il feudalesimo impedì che si disgregasse del tutto. Il potere del signore era costituito dal castello un villaggio cinto da mura, una villa, una fattoria fortificata. Solo verso il XI secolo assunse il significato di edificio in pietra. I signori sono due poteri l'immunità e la banalità: - l'immunità era il diritto di escludere le proprie terre al controllo degli agenti del re; - la banalità consisteva nell’utilizzare, pagando profumatamente gli attrezzi del signore; Il mondo feudale era diviso in tre ordini oratores, bellatores e laboratores; - oratores, chierici, sacerdoti pregavano per tutti? a loro spetta il rapporto con Dio; - bellatores, guerrieri, cavalieri difendevano tutti? sono gli unici a portare le armi; - laboratores, villani, contadini lavoravano per tutti. dal sito https://www.skuola.net/storia-medievale/feudalesimo-caratteristiche.html
Ogni feudatario esercitava un potere assoluto sulle sue terre, esercita la giustizia, regola la vita delle persone : un dio in terra in pratica aldisopra di ogni legge
IL CONTROLLO DEL TERRITORIO DEI FRANCHI ( CARLO ED I SUOI DISCENDENTI )
Non e' facile definire il concetto di controllo del territorio E' piu' facile dire che con la tal battaglia Carlo magno sconfisse i longobardi , ma agli effetti del vivere delle genti che cosa cambiasse in realta' e' molto difficile dirlo Non e' pensabile che a livello locale mutassero molte cose
In realta' il controllo del territorio e' formale da parte delle nuove autorita' e molto spesso il territorio rimase sotto il controllo di chi gia' lo controllava , sottomessosi all'autorita regia franca La Chiesa diventa la sentinella morale del sistema Punizione , benedizione , superstizione
L'ESPANSIONE MUSULMANA SUL MEDITERRANEO
Pirenne in un libro un poco eretico : Il commercio che era pressoche' morto con la grande conquista mussulmana Vedi : HENRI PIRENNE MAOMETTO E CARLO MAGNO
Pirenne nacque in Belgio nel 1862 A soli 24 anni ottenne la cattedra di Storia medioevale all'Universita' di Gand muore nel 1935 Tra le sue opere Storia d'Europa e Storia del Belgio Maometto e Carlomagno e' stata pubblicata dopo la morte nel 1937 E' un' opera ricchissima di proposte Si contraddistingue per l'originalita e la novita' delle tesi avanzate Vede un mondo antico commercialmente ancora vivo sino alla conquista mussulmana del Mediterraneo che spegnera' definitivamente i commerci per lungo tempo
un'antica tradizione popolare attribuisce a Carlomagno il merito e la gloria di aver ricostruito Firenze ridotta dagli invasori barbari cioe' Goti e Longobardi a un mucchio di rovine . E quando la citta' divento' uno Stato importante , ogni volta che un suo ambasciatore andava a Parigi , non mancava mai di accreditarsi come figlio di una citta' che a sua volta si considerava figlia di << Monsignor San Carlomagno>> . Al che il Re francese di turno rispondeva regolarmente ricordando tutto cio' che Monsignor San Carlomagno aveva regalato a Firenze: una nuova cerchia di mura , i borghi e i castelli circonvicini , le decorazioni del Battistero , un frammento della Santa Croce e perfino il nome che da Flurenzia aveva trasformato in Fiorenza, Tutto cio' faceva parte del rituale diplomatico , ma non conteneva nulla di vero . Per due volte , di ritorno da Roma ,Carlomagno e sua moglie Ildegarda si erano fermati sulle rive dell'Arno dove allora ai primi dell'800 , si ammassavano alcune casupole con poche centinaia di abitanti .Firenze non era che questo , e l'imperatore non le diede mai di che diventare qualcosa di piu'. Sembra soltanto che in una di queste occasioni ricevesse alòuni monaci dell'abbazia di Sant'Ilario .Essi chiedevano giustizia contro un certo Gunibrando che aveva loro rubato una stalla con alcuni buoi. questo Gunibrando era un Longobardo che i suoi Re avevano investito del titolo di Duca di Flurenzia : Carlomagno gli tolse questa investitura , aboli il Ducato longobardo di Firenze trasformandolo in una Contea franca e ne nomino' titolare un nobile del lago di Costanza : Scrott. ....................................... Indro Montanelli , Roberto Gervaso "L'Italia dei Comuni " Rizzoli editore:
La conquista franca non ha in pratica il controllo del territorio Vichinghi , Saraceni , Ungari imperversano rendendo quel mondo difficile
La rovina della civilta' romana sara' probabilmente occorsa in moltissimo tempo , un lento degrado, ma il risultato sociale e culturale e' catastrofico Si apre un'immensa voragine che inghiotte cultura , filosofia, societa' , diritto, gusto artistico, commercio , ricchezza, e riporta il mondo indietro di secoli
Col disfacimento del mondo romano insieme al commercio e alla ricchezza vi e' un crollo della manifattura e forse delle specializzazioni dei popoli stanziali E come se il mondo facesse un gigantesco passo indietro Mancando del necessario, tutto il mondo del bello e del pensiero diventa estraneo alla vita quotidiana Molto dello scibile viene dimenticato e' come se un sofisticato strumento tecnologico venga messo nelle mani di un bimbo stupido che lo utilizza per piantare i chiodi
Qui bisognerebbe esaminare il punto di vista di PIRENNE che vede i regni barbarici invasori tentare di romanizzarsi e vede quindi i traffici continuare sotto l'egida dell'unico imperatore rimasto quello di Oriente Mantenersi la presenza dell'oro nella moneta Mantenersi un elite colta romana ai livelli dell'amministrazione
Fino all'occupazione e al controllo del mediterraneo da parte mussulmana Un'opera del 1937 Maometto e Carlomagno
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Con Carlo Magno siamo di fronte ad un mondo statale diverso che vede la creazione abbastanza logica ed assurda del mondo feudale caratterizzata da una marcata mancanza di controllo del territorio da parte del potere centrale Potere centrale che non si basa piu' sul diritto dello stato potere centrale che si basa sulla FIDELITAS , sul giuramento sacro di fedelta' , sul giuramento davanti a Dio Potere centrale , che ora appare adottare un modello di tipo mafioso basato sulla violenza e sulla prepotenza, lo Stato Affida il controllo a signorotti locali che lo esercitano con la forza e con cui crea un complesso rapporto di fidelitas
Storia d'ITALIA....ANNI 795 - 814 d.C.....................................CARLOMAGNO IMPERATORE
Il demanio pubblico possedimenti fiscali Al tempo di Carlo Magno, per Fisco, intendiamo le entrate e i possedimenti dell'Imperatore. I cosiddetti possedimenti fiscali, che già facevano parte del patrimonio personale dei Pipinidi, vennero accresciuti durante le campagne militari dell'Imperatore, mediante le confische effettuate ai danni dei precedenti capi politici e militari. Carlo Magno possedeva direttamente qualcosa come 2000 unità produttive, chiamate ville, organizzate con il sistema curtense. Questo sta a significare che, in tutto l'impero, non meno di mezzo milione di persone lavoravano alle dirette dipendenze del sovrano, senza alcuna intermediazione. L'organizzazione e la dislocazione di queste aziende aveva carattere notevolmente dispersivo. Alcune di esse erano vicine tra loro, nelle aree più visitate da Carlo Magno, mentre altre erano disseminate nelle zone di frontiera. Le ville però, essendo relativamente lontane una dall'altra, non avrebbero mai potuto ospitare tutte permanentemente l'Imperatore. Carlo Magno aveva quindi posto precise disposizioni su come utilizzare le eccedenze produttive di quei possedimenti sui quali la corte regia non passava. Alcune quote dovevano essere instradate al mantenimento della corte, qualora l'azienda venisse a trovarsi nelle vicinanze della residenza imperiale, mentre altre costituivano gli approvvigionamenti che dovevano essere inviati all'esercito durante le campagne estive. Infine, altre ancora, dovevano essere vendute e il ricavato trasmesso direttamente a palazzo. L'imperatore, insomma, decise di diversificare la produzione delle sue aziende e di stabilire a priori la loro destinazione d'uso. L'applicazione delle disposizioni imperiali per l'amministrazione dei possedimenti fiscali era affidata a dei gerenti che,in una certa misura, potevano agire con indipendenza e intraprendenza nella gestione delle ville.
I possedimenti ecclesiastici I possedimenti ecclesiastici equiparati a quelli fiscali l'impero era suddiviso in più di 200 vescovati e 600 abbazie che erano possessori a loro volta di patrimoni immensi, per esempio l'abazia di Saint-Germain-des-Prés possedeva all'incirca 200 ville e dava lavoro a circa 15.000 contadini. Sui possedimenti ecclesiastici vigeva l'immunità, perché i funzionari pubblici non potevano esercitare la legislazione laica sul territorio, come avveniva al tempo di Pipino il Breve e Carlo Martello. Carlo Magno considerò i beni ecclesiastici come dei possedimenti pubblici di diversa natura: abati e vescovi, essendo uomini del Re, dovevano mettere a disposizione della corona le loro entrate, quando le necessità lo richiedevano. Spesso gli amministratori delle proprietà ecclesiastiche dovevano aiutare i gerenti delle aziende fiscali al mantenimento del Re quando era residente nella zona, inoltre dovevano versare annualmente dei contributi che pudicamente venivano chiamati dona, ma che in realtà erano imposti direttamente dal sovrano per sostenere le campagne militari dell'esercito. A livello amministrativo, i contadini liberti o coloni-affittuari che coltivavano i mansi sulle terre della chiesa, oltre che a pagare un canone annuo in natura ai monaci o ai vescovi, dovevano corrispondere il censo regale per il sovrano come se si fossero trovati sulle terre fiscali. I liberti o gli schiavi, come aggiunta al censo, dovevano pagare una tassa personale come riconoscimento del loro statuto giuridico. Teoricamente, non tutte le abbazie era considerate come un bene demaniale. Rientravano sotto questa categoria quelle personalmente fondate dal Re, quelle accresciute con donativi di terre fiscali e quelle che si erano accomandate. Le altre, specialmente fondate da privati, non erano tenute né ai contributi né al pagamento delle tasse. Spesso i possedimenti ecclesiastici venivano affidati a notabili laici (conti o marchesi) come elemento suppletivo per espletare e autofinanziarsi i compiti che dovevano corrispondere al sovrano. Queste donazioni venivano chiamate nel linguaggio di allora Precariae Verbo Regis, dove Precaria stava a significare la richiesta o la supplica che veniva fatta dal conte per ottenere il possesso del bene e Verbo Regis la concessione da parte del sovrano. Molte volte, queste alterazioni del demanio trovavano l'aperta avversione da parte delle cariche ecclesiastiche. I possessori, infatti, avevano la tendenza a sfruttarle fino all'osso, gravando di dazi e di corvée i contadini, arrivando addirittura a vendere le suppellettili e la mobilia di chiese e monasteri per poi reinvestire i guadagni negli affari privati. Lo stesso Carlo Magno, nel suo Capitulare de villis, dovette specificare a più riprese di non appesantire gli asserviti con interminabili giornate lavorative, di esigere i telonei per le merci adibite al commercio e non quelle che venivano trasportate dai campi alla residenza padronale, "di non esigere il teloneo per attraversare un ponte quando il fiume può essere guadato senza difficoltà", di non "far pagare il teloneo in aperta campagna dove non ci sono né ponti né guadi". Gli stessi chierici arrivarono ad appellarsi direttamente all'Imperatore affermando: "che il Re abbia i suoi possedimenti pubblici per il demanio e che la chiesa abbia i suoi possedimenti per Cristo, che servano ad aiutare i poveri e a consolare le vedove" e ancora: "gli uomini di chiesa sono direttamente dipendenti dal Signore e non devono usare di accomandarsi a qualcuno come fanno i laici". Carlo Magno pretese di conseguenza che i notabili laici, concessori di queste terre, almeno pagassero l'affitto ai monaci come era stato convenuto. Un'altra destinazione d'uso dei possedimenti della chiesa era quella di concedere questi beni ai ministri o ai chierici che servivano l'Imperatore alla corte di Aquisgrana, per poter assicurarsene la fedeltà anche in futuro. Molto spesso, molti di questi ministri, chiamati "abati-laici" anche se in realtà alcuni erano chierici, non erano obbligati a prendere i voti religiosi e nemmeno avevano l'obbligo della residenza, così che potessero rimanere a sbrigare il loro compito presso la corte. Ad esempio, molti intellettuali di Carlo Magno erano grandi possessori di fondi ecclesiastici: Alcuino, oltre ad essere arcicappellano, era anche abate del monastero di Tours; Teodulfo, poeta di corte e messo dominico, fu nominato anche vescovo di Orléans e Paolo Diacono, storico, poeta e grammatico di Latino presso il palazzo reale, venne nominato abate di Montecassino. Nella generazione immediatamente successiva, lo stesso biografo e storico di palazzo Eginardo fu nominato abate di Seligenstadt. Alcune mentalità più moderne e sensibili cominciarono a contestare l'uso di disporre dei fondi ecclesiastici come un secondo demanio, ma all'epoca di Carlo Magno queste consuetudini erano parte integrante dell'azione di governo.
La società carolingia era suddivisa in classi e aveva caratteristiche fortemente clientelari di modo che ogni uomo dipendesse da un altro, dal quale, in cambio di favori, otteneva protezione e remunerazione. Tutte queste prerogative si riproponevano a cascata sino al più basso gradino sociale che era quello degli schiavi. Possiamo suddividere allora la società in due grandi rami: quello dei liberi e quello dei servi. Re-Imperatore, conti, marchesi, vescovi, abati, vassalli regi e valvassini costituivano una casta gli altri - valvassori, proprietari terrieri, uomini liberi, coloni, liberti, schiavi casati e servi - costituivano il popolo. Formalmente la libertà completa si fermava a livello degli uomini liberi mentre tutti gli altri venivano accomunati alla medesima condizione servile. Le classi più abbienti, beneficiarie di vasti possedimenti, erano esenti dal pagare qualsiasi tipo di imposta o tassa. Sui liberi che, nelle aspettative di Carlo Magno, costituivano la spina dorsale del popolo franco, non pesavano delle vere e proprie "imposte" (ad esempio non pagavano alcun censo) ma erano tenuti a prestare opere di pubblica utilità sulle terre padronali, pagavano una specie di tassa per l'esercito, versavano i telonei ed erano tenuti a prestare contributi per il buon funzionamento del governo. Qualsiasi notabile o giudice nell'esercizio pieno delle sue funzioni (conte, vicario, centenario o vassallo regio) poteva requisire approvvigionamenti e cavalli sulle terre dei liberi. L'esercito di passaggio poteva requisire foraggio ed usare i terreni per far pascolare le cavalcature; in aggiunta i proprietari non soggetti ad alcun vassallaggio dovevano rifornire l'armata provvedendo all'allestimento dei carri con generi alimentari di prima necessità ed alla fornitura di buoi e cavalli. Tutti gli altri, fossero essi liberi affittuari o liberti, servi o casati obbligati a lavorare sulle terre del padrone, erano tenuti a corrispondere un affitto in natura o denaro, le cui proporzioni erano nell'ordine del terzo del raccolto o dell'equivalente monetario, oltre che al censo regale. Erano inoltre tenuti a svolgere per contratto una serie di giornate lavorative nella zona padronale, la pars dominica, insieme agli schiavi. Pagavano i telonei per utilizzare le attrezzature del signore (mulini, frantoi). Il reclutamento avveniva essenzialmente alla frontiera, nella zona di immediato svolgimento delle operazioni militari. Solo nelle campagne contro i Sassoni e gli Avari si verificò una chiamata simultanea in più regioni dell'Impero. I notabili più abbienti potevano permettersi armi e cavalli, nonché di convocare i vassalli diretti all'esercito. Anche i vassalli regi, nominati dall'Imperatore e che usavano circondarsi di piccoli eserciti privati, potevano senza alcuno dubbio espletare al servizio militare. A tutti costoro, compresi vescovi e abati, veniva calcolata una quota minima di soldati da portare al fronte, secondo il numero di unità di mansi coltivati divisa per quattro. Gli ecclesiastici potevano affiancare gli eserciti, ma spessissime volte ne erano esentati, pagando una tassa e nominando dei laici che potessero combattere al loro posto. Si poteva verificare che alcuni servi o liberti potessero avere l'onore di entrare nella clientela armata di un signorotto locale, quindi la chiamata alle armi non era strettamente connessa alla proprietà terriera. Perciò Carlo Magno emanò precise disposizioni secondo le quali "qualsiasi individuo abbia rapporti di vassallaggio, indipendentemente dalla sua condizione giuridica, sia considerato abile all'esercizio delle armi". I liberi avevano parecchie difficoltà a rispondere alla chiamata. Se i più ricchi allodiali, con qualche sforzo, riuscivano ad acquistare l'equipaggiamento necessario, i piccoli proprietari dovevano compiere sforzi considerevoli. Anche qui, i capitolari regi stabilivano minuziosamente come si doveva operare in questi casi: se un libero non riusciva a procurarsi l'armamento, altri tre dovevano provvedere al suo sostentamento. Il numero degli aiuti variava a seconda della campagna militare: durante la guerra contro gli Avari, per ogni libero sei dovevano comprargli l'equipaggiamento, mentre per quella contro i Sassoni essi dovevano essere sette. Per le operazioni contro gli slavi ne bastavano solamente due. Anche l'armamento era regolato secondo precisi criteri: i più abbienti dovevano accorrere alla chiamata armati di spada lunga, spada corta, lancia, arco e faretra con frecce più un'armatura costituita da una cotta di maglia e dalla cavalcatura. I liberi proprietari indipendenti potevano permettersi (unendo i loro sforzi) l'armatura e la cavalcatura. Si scoraggiavano i fanti più poveri a rispondere alla convocazione armati di solo bastoni indirizzandoli ed incoraggiandoli a costituire il loro equipaggiamento unicamente di arco con frecce. Il mondo di allora era fortemente spopolato (stime parlano di circa 20 milioni di abitanti nell'area europea di un milione e mezzo di chilometri quadrati), con le città maggiori quali Parigi, Orléans o Pavia, che non superavano i 5.000 abitanti. In questo contesto la circolazione di merci e di persone era scarsa, la moneta rara e di bassa qualità. Mentre l'impero romano d'Occidente aveva basato la propria economia sugli scambi commerciali, soprattutto marittimi e sulla vita urbana, gravitando verso il Mediterraneo, l'Impero carolingio aveva come base economica l'agricoltura latifondista, caratterizzata prevalentemente da una produzione di sussistenza. Le curtes erano articolate in base ad una distinzione tra la terra direttamente gestita dal proprietario fondiario attraverso manodopera servile direttamente alle sue dipendenze, la pars dominica (terra del dominus), e la terra data in concessione ai coloni, la pars massaricia. Quest'ultima era composta da piccoli poderi, detti "mansi", sufficienti al sostentamento di una famiglia, concessi in affitto a famiglie di massari liberi in cambio di un canone in denaro o in natura oppure affidati al lavoro dei servi casati. I massari pagavano al proprietario il canone e si impegnavano ad effettuare nella parte dominica un certo numero di servizi per il signore, detti corvées (richieste). Le curtes non rappresentano territori compatti, ma risultano frammisti spesso a possessi di altri signori fondiari, indominicati o in concessione: i "villaggi" erano spesso collocati dove maggiore era la concentrazione di terre frammiste, e riunivano le abitazioni di coloni che rispondevano a diversi signori. Gli scambi erano quasi del tutto inesistenti, tuttavia viene valutato in modo piuttosto positivo il ruolo delle eccedenze della produzione fondiaria: nei villaggi o in centri più consistenti e di nuova formazione, erano frequenti piccoli mercati locali, dove lo scambio avveniva prevalentemente tramite il baratto, data la scarsità di monetazione. Perciò è indubbia la presenza di scambi spontanei, regionali: d'altra parte le rotte continentali nord-sud, vedevano commercianti musulmani che dalle sponde occupate dell'Africa proponevano beni di lusso e merci pregiate, così come i Frisoni, attivi nella regione moso-renana, e gli ebrei. È in questo periodo grosso modo (per tutto il sec. IX) che nacquero di insediamenti più consistenti: questi erano prevalentemente collocati alla foce di corsi fluviali, presso sedi di zecche (come nella zona moso-renana), oppure presso sedi vescovili, e in generale in prossimità di nuclei più antichi di urbanizzazione romana (in particolare nelle regioni mediterranee). Soltanto oltre il secolo IX, nel X e XI l'incastellamento favorì una concentrazione territoriale che vedeva la fine della dispersione in insediamenti sparsi propri del regime curtense, e la nascita, a partire dai castelli di città vere e proprie. Inoltre, è a partire dalla tarda età carolingia che vennero applicate nuove tecniche agricole fondamentali per il futuro incremento produttivo del suolo: l'utilizzo del mulino ad acqua, il collare per buoi e cavalli posto in posizione più comoda (giogo), l'abbandono dell'aratro in legno in favore di quello in ferro, la rotazione triennale. Certamente, nel periodo carolingio, l'elemento più rilevante, rispetto al quadro desolante dei due secoli precedenti, sembra limitarsi ad una riorganizzazione della produzione agricola nella nascita della villa classica carolingia: le vie di comunicazione sono sempre prive di manutenzione, e le vie fluviali e marittime sono privilegiate. La precarietà economica feudale e la mancanza di un forte potere centrale, fece assumere alla reggenza franca un modello di governo peripatetico. Lo stesso Carlo Magno, installava la sua corte nei vari villaggi dove alloggiava durante i suoi spostamenti nel vasto impero. Tutti gli uomini, vivendo in un'economia prevalentemente di sussistenza basata sullo scambio in natura (baratto), vivevano nella necessità di dover far affidamento sulle scorte naturali che deperivano o si esaurivano in un certo lasso di tempo il che impediva la nascita di qualsiasi forma di risparmio (tesaurizzazione). Da qui il nomadismo anche dei poteri centrali i quali; una volta esaurite le risorse dovevano spostarsi in altre zone. Carlo viaggiava come un povero viandante su una carrozza trainata da buoi. Dovette inoltre impiegarsi in prima persona nel commercio, diventando padrone di un verziere e di un allevamento di polli. La rendita di queste attività gli permise di mantenere personalmente le sue residenze estive nel Brabante e nell'Heristal. Nonostante ciò Carlo cercò di razionalizzare e controllare l'economia, facendo redigere per esempio inventari di beni immobili soprattutto nelle maggiori abbazie. Inoltre cercò di frenare l'ascesa dei prezzi. Carlo, una volta sconfitti i Longobardi, liquidò il sistema monetario basato sul solido d'oro dei bizantini. Egli e il re Offa di Mercia ripresero il sistema creato da Pipino e da Aethelberto II. Sapendo dell'inutilità di una moneta aurea, vista la rarefatta circolazione monetaria, Carlo (tra il 781 e il 794) estese nei suoi vasti domini un sistema monetario basato sul monometallismo argenteo: unica moneta coniata era il "denaro". Non essendo prevista la coniazione di multipli, l'uso portò all'affermazione di due unità di conto: la libbra (unità monetaria e ponderale allo stesso tempo) che valeva 20 solidi o 240 denari Durante questo periodo la libbra ed il solido furono esclusivamente unità di conto, mentre solo il denier fu moneta reale, quindi coniata. Per oltre cento anni il denaro mantenne inalterato peso e lega, con un contenuto di metallo pregiato attorno ai due grammi circa. I primi slittamenti iniziarono nel X secolo. I primi Ottoni (961-973 e 973-983) misero ordine nel sistema consacrando lo slittamento del denaro in termini di peso e di fino: una "lira" (ossia 240 denari) passò da g 410 a g 330 di una lega argentea peggiore (da g 390 di argento fino a g 275).
Oltre ai Conti stabiliti da Carlo Magno, vi erano, al principio del secolo IX, molti possessori di terre feudali, ricevute cioé come in prestito dal re, i quali già esercitavano certi diritti di autorità quasi sovrana sopra le persone, o schiavi o servi o liberi contadini, che le abitavano. Costoro spiavano tutte le occasioni favorevoli per aumentare questi loro diritti, e per ragione della debolezza dei successori di Carlo Magno, e per gli avvenimenti che poi accaddero, riuscirono ad avere anch'essi, sopra gli abitanti dei loro feudi, autorità simile a quella dei conti e anche maggiore. Così si stabilì il sistema feudale o feudalesimo, che consiste nell'esservi una moltitudine di signori, ciascuno dei quali domina sopra una determinata porzione di terreni, cioè sopra un feudo, con obbligo verso il re di un atto di omaggio, di un determinato tributo (prestazioni) e di un contingente di soldati in caso di guerra (ost o cavalcata). Spesso poi coloro che avevano grandi feudi, ne davano porzioni ad altri, i quali diventavano debitori degli stessi obblighi verso di essi; e queste divisioni furono dette feudi minori, mentre quelli ricevuti immediatamente dal re dicevansi maggiori. Il re o colui che dava un feudo si chiamava caposignore; chi lo riceveva vasso o vassallo o feudatario o uomo o milite; l'atto con cui si conferiva il feudo dicevasi investitura e l'atto con cui il vassallo dichiarava e giurava la sua fedeltà al caposignore nell'investitura e in altre circostanze dicevasi omaggio, perché si dichiarava appunto homo, cioè uomo ligio del suo caposignore. Oltre agli obblighi sopra indicati, il vassallo doveva il servizio di giustizia o di corte, che consisteva nell'andare a sedersi alla corte di giustizia del caposignore, e nel sottomettersi egli stesso al giudizio di questa corte. II vassallo era infine obbligato a dare consiglio quando questo gli fosse stato richiesto: e, in casi eccezionali, il caposignore esigeva da lui soccorsi in denaro o aiuti. Se il vassallo mancava ai suoi obblighi, si rendeva colpevole di fellonia e incorreva nella confisca del feudo. Grandissimo dal IX secolo in poi divenne il numero dei feudi e delle loro varietà; s'infeudarono persino diritti, come quello di pesca, caccia e transito sui fiumi; si infeudarono cariche, sia civili, sia militari: s'infeudarono minuzie, come lo spigolare e il racimolare; che più? s'infeudò persino l'aria ad uso dei mulini a vento, creando il feudo in aria, o feudo volante. Le stesse terre allodiali, che cioè un libero possedeva veramente, divennero quasi tutte feudi; perché i loro possessori, vedendosi privi di quei cospicui diritti che erano annessi al feudo, cedevano liberamente o vendevano a qualche feudatario le terre, a patto di riceverle di nuovo da lui come feudo; così incontravano dei doveri verso quel loro signore, ma costui tutelava il possesso dell'allodio e i diritti feudali che con l'investitura aveva acquisito. L'allodio così cambiato in feudo dicevasi feudo oblato, a differenza degli altri che dicevansi dati. C'erano in principio solo feudi maschili, ma presto ve ne furono anche dei femminili, cioè che si potevano per successione trasmettere a femmine; anzi, poi questi si moltiplicarono, quando si usò assegnarli in dote nei matrimoni. Si aveva a questa maniera una grande scala feudale: a capo di essa era il re, poi venivano i duchi, poi i conti, poi i visconti, poi i baroni, poi i castellani, poi i valvassori, poi i valvassini, i cittadini, i villani, i semiliberi o aldiori e i servi o schiavi; la nobiltà e il potere si fermavano ai valvassori, gli altri formavano il popolo. L'autorità del re, per quanto fosse in primo posto e da lui derivasse per concatenazicne ogni autorità, era nulla, solo disponeva da padrone dei vassalli a cui immediatamente aveva dato feudi; il resto non aveva nulla a che fare con lui, poiché non contano alcune prerogative regali nel campo giudiziario: molti feudatari ignoravano spesso il nome del re, anzi contro di lui avevano diritto di portar guerra, se da lui non erano immediatamente stati investiti. Troppo note sono le cattive conseguenze del sistema feudale. Attribuendo a esso la sovranità a un numero grandissimo di signori, che non avevano nei loro domini altro freno, altro limite ai loro voleri che la coscienza;
Storia d'ITALIA....ANNI 795 - 814 d.C .....................................CARLOMAGNO IMPERATORE - L'ITALIA - VENEZIA
i sovrani usarono come strumento di governo il vassallaggio, già praticato nel mondo franco di re merovingi. Per stabilire una forma di controllo sui nobili franchi e per assicurarsi il loro sostegno militare, i sovrani avevano iniziato a legarli a se attraverso il vassallaggio, un contratto sancito da una cerimonia (l'omaggio), nella quale il vassallo (il nobile) giurava fedeltà al signore e disponibilità a prestare per lui servizio armato. Il signore in cambio gli dava protezione e gli concedeva un beneficio, che poteva essere l'assegnazione di un terreno oppure di un incarico da cui derivare un reddito. Nel corso degli anni, la natura delle cariche feudali aveva subito profonde modifiche. Inizialmente il beneficio (che non era, come si pensa, la concessione di terre bensì il compenso o la concessione patrimoniale elargita dal re-senior al vassallo) e l'ufficio (cioè la dignità) feudale venivano concessi solo nei termini temporali del legame vassallatico e, di conseguenza, alla morte del vassallo i suoi benefici tornavano nelle mani del sovrano che, di solito, le riassegnava ai discendenti dei vassalli. Si era, dunque, in presenza di un'ereditarietà di fatto, se non ancora di diritto, degli uffici feudali. il tempo lavorava a favore dei Conti e già nell'843, Carlo il Calvo, appena diventato re di Francia, era stato costretto a promettere di revocare un feudo non "in base al capriccio", bensì solo in seguito "ad un giudizio rispondente a giustizia ed equità". La situazione indeboliva il potere del sovrano, che si vedeva sottrarre funzioni pubbliche, tanto più quando ciò riguardava gli uffici maggiori (duca, marchese, conte), implicanti il governo delle province del regno. Risultano così comprensibili sia le spinte dei feudatari a vedersi riconoscere in diritto quanto già avveniva in fatto, sia le resistenze dei sovrani, timorosi di ulteriori limitazioni ai loro poteri. Il Capitolare di Quierzy è un testo normativo promulgato il 14 giugno 877 nella città di Quierzy-sur-Oise da Carlo il Calvo. Esso non istituì, come è di comune credenza, l'ereditarietà dei feudi, ma regolò in forma quasi del tutto ufficiale una pratica già diffusa: la possibilità di lasciare il beneficium, alla morte del vassallo, in eredità ai figli. Inoltre questo atto confermò come le funzioni di conte e vassallo fossero ben differenti l'una dall'altra. L'occasione a partire dalla quale il capitolare di Quierzy fu emanato fu quella di una spedizione militare dei franchi contro i saraceni: per mezzo di esso l'imperatore Carlo il Calvo intendeva assicurare la continuità del titolo beneficiario ai signori che avessero preso parte alla spedizione. Fino al loro ritorno, queste terre non sarebbero state affidate a nessun altro, ma in caso di morte durante l'impresa, sarebbero - per l'appunto - tornate al senior che avrebbe deciso come disporne. Non di rado accadeva che queste passassero ai figli dei vecchi possidenti e poi il re, al ritorno dalla guerra ne confermasse il titolo nella natura di beneficio. Tuttavia il capitolare garantiva soltanto al beneficiario in vita (e non ai suoi eredi) la solidità del possesso fondiario. Il capitolare di Quierzy, emanato da Carlo il calvo nell'877, sancì l'ereditarietà dei feudi maggiori, pratica già concretamente in uso da un certo tempo. Il poter succedere al padre consentiva ai figli di non perdere i beni immobili, mentre per i sovrani significava avere sempre uomini al proprio servizio. Carlo il calvo venne dunque incontro alle richieste dei grandi feudatari, che volevano essere rassicurati su quanto sarebbe accaduto mentre essi erano al seguito dell'imperatore. Il risultato dell'assemblea di Quierzy fu dunque un capitolare, che stabilì i limiti entro cui il reggente poteva muoversi, garantendo lo status quo fino al ritorno del sovrano. Con il capitolare dell’877, Carlo il calvo intendeva tutelare i diritti del sovrano e dare garanzie a coloro che stavano per intraprendere con lui una campagna militare. Alcuni articoli mostrano che il potere centrale si stava logorando, perché fra carica pubblica e beneficio privato si creava sovente una pericolosa confusione. Anche se questo documento non autorizza esplicitamente la trasmissione ereditaria dei feudi, rende però evidente che tale consuetudine era ormai diffusa. . Se muore un conte, il cui figlio è con noi, nostro figlio, insieme con gli altri nostri fedeli, scelga fra coloro che gli furono più intimi e più vicini colui che con i ministeriali della stessa contea e con il vescovo dovrà amministrare la contea predetta, fino a quando noi non ne saremo informati. Se invece avrà un figlio in età minore, questi, insieme con i ministeriali della contea e con il vescovo della diocesi in cui essa si trova, amministri la contea stessa, finché di questo non giunga a noi notizia. Se però non ha figli, nostro figlio, unitamente con gli altri nostri fedeli, scelga chi deve amministrare la contea insieme con i ministeriali della stessa contea e col vescovo, finché non giungano i nostri comandi. E a questo riguardo nessuno abbia a risentirsi se daremo la contea a chi crederemo opportuno, e non a colui che nell’intervallo l’ha governata. Analogamente si farà per i nostri vassalli. E vogliamo ed espressamente comandiamo che gli abati e i conti o anche gli altri fedeli nostri cerchino di seguire le stesse norme verso i loro vassalli. I vescovi e il conte più vicino curino, tanto per i vescovadi che per le abbazie, che alcuno non sottragga le cose o i beni delle chiese, e che nessuno impedisca che ad esse si facciano donazioni. Se alcuno oserà farlo paghi secondo le leggi umane, e quindi secondo le leggi ecclesiastiche dia riparazione alla chiesa che avrà danneggiato e paghi a noi una multa grave, secondo la misura della colpa e come a noi piacerà. Se qualcuno dei nostri fedeli, dopo la nostra morte, per amor di Dio e per amor nostro, vorrà rinunciare al secoloe avrà un figlio o parente che possa giovare allo Stato, gli sia data facoltà di trasferirgli le sue cariche, secondo che giudicherà meglio. E se vorrà vivere in pace nel suo allodio [terra posseduta in libera proprietà] nessuno osi cercare di impedirglielo, e null’altro gli si chieda che di essere pronto alla difesa della patria Per quanto riguarda la successione dei feudi, la nona disposizione del capitolare stabiliva che, nel caso fosse morto un conte il cui figlio si trovasse al seguito dell'imperatore o nella minore età, il reggente non avrebbe potuto nominare un successore, essendogli solo concesso di procedere ad un'amministrazione provvisoria della contea, fino al ritorno del re. Più in particolare le procedure erano le seguenti: In caso di morte di un conte il cui figlio si trovasse al seguito dell'imperatore, il reggente avrebbe dato l'incarico di amministrare provvisoriamente la contea ai parenti più prossimi del defunto, al vescovo della diocesi in cui si trovavano i territori in questione e ai ministeriali della contea stessa, fino a quando l'imperatore non avesse disposto in proposito; Se il conte defunto avesse avuto un figlio nella minore età, questi avrebbe amministrato provvisoriamente la contea, assistito dal vescovo e dai ministeriali; Se il conte fosse morto senza figli, il reggente avrebbe nominato un amministratore della contea, che avrebbe svolto il suo compito assieme al vescovo e ai ministeriali; Il re esprimeva poi la volontà che anche i conti e i signori ecclesiastici adottassero disposizioni simili nei confronti dei loro uomini. Nella decima disposizione si stabiliva inoltre che, dopo la morte del re, se uno dei feudatari avesse voluto ritirarsi in convento, avrebbe potuto liberamente lasciare i suoi honores ai figli o ai parenti. Quando la centralità del potere regio perse la propria efficacia nell'amministrazione del regno determinando un vuoto di potere, i signori resero ereditario il beneficio che avevano ottenuto dal sovrano Dal X secolo i benefici concessi ai vassalli in cambio dei loro servizi iniziarono a essere chiamati feudi e la cerimonia veniva chiamata investitura. A differenza del beneficio, il feudo implicava per il vassallo la giurisdizione non solo sulle proprietà che gli venivano affidate, ma anche sugli uomini che le abitavano e sui beni di questi ultimi. Tra il 10 e l'11 secolo i vincoli di fedeltà e di subordinazione si estesero ulteriormente: i vassalli potevano assegnare una parte dei loro feudi a vassalli minori. Si instaurò quindi una vasta rete di rapporti personali che andò a costituire il sistema feudale. Ciò favorì l’affermarsi di una concezione patrimoniale del feudo: i feudatari cominciarono a considerarlo parte del patrimonio familiare che poteva essere trasmesso in eredità ai figli. Il potere centrale, troppo debole, non era capace di contrastare ciò, quindi fu costretto a riconoscere ufficialmente l’ereditarietà dei feudi maggiori (quelli concessi dal sovrano i vassalli) attraverso il capitolare di Quierzy nell'877. I feudi minori furono resi ereditari nel 1037 con la Costituto de Feudis. Nel 1037 sotto l'imperatore Corrado II videro riconosciuti tale prerogativa attraverso un editto noto come l'Edictum de beneficiis (in età moderna battezzato come Constitutio de feudis) che decretava l'ereditarietà dei benefici minori. L'Edictum de beneficiis regni Italici, in seguito noto anche come Constitutio de feudis, è un documento[1] emanato sotto forma di costituzione imperiale dall'imperatore del Sacro Romano Impero, Corrado II il Salico, il 28 maggio 1037 a Cremona, in concomitanza con l'assedio di Milano. Il documento viene redatto allo scopo di smorzare le ribellioni dei vassalli italiani dell'imperatore e va a regolare il diritto di successione feudale per i feudi minori. In precedenza, il diritto di successione era regolato solo per i feudi maggiori, tramite il Capitolare di Quierzy emanato, nell'anno 877, dall'imperatore franco Carlo il Calvo. Nella Constitutio de feudis vengono estesi ai vassalli minori i benefici di cui godevano i grandi feudatari del sovrano, equiparando le gerarchie feudali.
EREDITARIETA' DEI FEUDI CONCESSI
ANNO 877 Il capitolare di Quierzy, emanato da Carlo il Calvo nell'877, sancì l'ereditarietà dei feudi maggiori, pratica già concretamente in uso da un certo tempo. Il poter succedere al padre consentiva ai figli di non perdere i beni immobili, mentre per i sovrani significava avere sempre uomini al proprio servizio.
ANNO 1037 L'Edictum de beneficiis regni Italici, in seguito noto anche come Constitutio de feudis, è un documento emanato sotto forma di costituzione imperiale dall'imperatore del Sacro Romano Impero, Corrado II il Salico, il 28 maggio 1037 a Cremona, in concomitanza con l'assedio di Milano. Il documento viene redatto allo scopo di smorzare le ribellioni dei vassalli italiani dell'imperatore e va a regolare il diritto di successione feudale per i feudi minori
Il feudo concesso non è revocabile se non per giusta causa e i feudatari minori possono ora venire giudicati da loro pari e far ereditare i loro possessi ai propri figli, anche se donne o minori. Viene mantenuto un vincolo di tutela dei feudatari maggiori sui feudi dei loro vassalli (così come viene mantenuto per il reggente sui feudatari maggiori) riconoscendo ai signori il diritto di fissare una tassa sull'eredità del feudo del vassallo a lui sottoposto, conservare il controllo del feudo fino alla maggiore età dell'erede, se minorenne, o fino a che, se donna, non abbia sposato un partito gradito.
Con l'ereditarieta' dei feudi siamo di fronte alla nascita di una Aristocrazia ereditaria quasi definibile come una proto-nobilta'
UNA CONVINZIONE FALSA MA CHE INCREDIBILMENTE ANCORA HA MOLTO SUCCESSO
DOMANDA : Strettamente parlando non sono un esperto della storia della Nobiltà Italiana oppure un genealogista, ma un semplice appassionato di storia che si é spesso interessato e appassionato a quali siano le "origini" delle nobiltà Italiana. Per origine intendo le origini etniche e come queste etnie si siano distribuite nelle varie zone del Paese. Si può certamente affermare che la nobiltà Italiana abbia origini etniche molto piú eterogenee rispetto alla Nobiltà di altre nazioni europee, come la Francia o soprattutto la Germania, e tale eterogeneità é riflessa nella stessa popolazione Italiana. Nel Piemonte per esempio, per quanto riguarda la "noblesse d'épée, prevale l'origine Franca, grazie alle nobili famiglie giunte al seguito di Carlo Magno. In epoca moderna poi, con un processo simile a quello della vicina Francia, vi é l'ascesa di una classe di burocrati che formerà una "noblesse de robe". Nel Centro Italia il panorama sembra ancora più complesso:in regioni come la Toscana, l'Umbria e le Marche si può a mio avviso fare un utile distinzione tra le città più o meno grandi, ed i piccoli paesini con il contado. Nel periodo medioevale in quasi tutti i centri urbani dell'Italia centrale, il potere militare e civile é stato sottratto in maniera più o meno violenta alla vecchia classe feudale, a cui si é sostituita una nobiltà "borghese" formata da mercanti, artigiani, medici, giuristi, che in seguito rafforzò il proprio potere con l'acquisto di proprietà fondiarie, costituendo una nobiltà a tutti gli effetti e dando vita a regimi oligarchici /patriziali. Potremmo dunque parlare di una vittoriosa riscossa degli autoctoni Italici contro la componente Germanica rappresentata dai vecchi feudatari, destinati a decadere o scendere a patti con la nuova realtà?Nel contado e nei paesini più piccoli al contrario, e soprattutto nelle zone interne appenniniche, la componente Germanica/feudale, sia essa di origine Longobarda oppure Imperiale, é riuscita a tenere saldamente le redini del potere, subordinando la componente Italica più o meno fino alla Rivoluzione Francese. Nel Sud la situazione é ancora diversa. Dapprima, nel Ducato di Benevento, la nobiltà é ovviamente Germanica, che però in buona parte decade con l'invasione dei Normanni, i quali stabiliranno saldamente il potere delle proprie famiglie, conservandolo anche durante la dominazione Angioina e Spagnola, periodi in cui si aggiungeranno ovviamente famiglie Francesi e Spagnole. La componente autoctona qui non trova alcun accesso all'alta nobiltà, alla grande aristocrazia, ma si accontenterà di compiere una timida ascesa al patriziato provinciale. In ultimo mi viene in mente la nobiltà Veneziana, in cui fin da subito é unicamente la componente Italico-Bizantina ad essere dominante, e l'aristocrazia Veneziana in ogni suo aspetto sembra conservare decisamente un anima Bizantina, costituendo a mio avviso un unicum nel panorama della penisola Italiana
RISPOSTA Sono molto poche le famiglie che possono vantare genealogie documentate ante1200 Di conseguenza e' assai difficile stabilire l'origine della nobilta' italica La macrostoria negli ultimi venti anni e'molto cambiata nei metodi di ricerca e nelle conclusioni Gli storici oggi sono molto piu' attenti nell'esame dei documenti coevi conservati negli archivi E sono divenuti molto attenti alla microstoria intesa come storia familiare e genealogie ( e qui si sgretolano migliaia di storie familiari inventate ) Tenga conto che era prassi comune nelle famiglie nobili inventare origini antiche e quasi mitologiche Purtroppo la storia ancora raccontata nei nostri istituti scolastici e' una storia in ritardo con le nuove ricerche ( quando non gia' in ritardo con le vecchie ) E ci sono molti presunti storici che scrivono ancora una storia da giornaletto spacciandola per divulgazione, privandola cosi della sua funzione di memoria di una collettivita Quindi di quella stessa utilita' che ha la memoria ( esperienza ) per l'individuo Quando legge di una famiglia che ha radici nei Romani nei Longobardi , nei Franchi ,nei Normanni , ........si metta sul chi vive e cerchi di esaminare le fonti coeve , e verifichi se i documenti sono stati falsificati o sono autentici . se si utilizzano omonimie ..................... Questo non vuol dire che non ci siano famiglie che possano dimostrare legami coi Longobardi o coi Franchi o coi Normanni ( coi Romani e' una bestemmia ) ma sono veramente poche Tenga poi conto che quando si parla di Longobardi , di Franchi , di Normanni bisogna capire i numeri che sono in gioco Si parla per i Longobardi di un numero di 100,000 --400 000 tra donne e uomini che si spargono in un Italia che per quanto spopolata da carestie e pestilenze ( la piccola glaciazione. citta' ridotte a poche migliaia di persone ) quei tre o quattro milioni di persone doveva almeno ancora contenere Non ci e' affatto chiaro la capacita' di controllo che potevano esercitare i Longobardi sul territorio e dove E se alla fin fine si affidassero ad elementi locali per la riscossione delle tasse Prenda con le molle tutti gli studi genealogici fatti dagli eruditi dal 1500 in poi Anche prima Tenga conto che Dante Alighieri seguendo Giovanni Villani fissa i cognomi a Firenze intorno al 1050 , ma viene smentito dall'esame fatto oggi dagli studiosi sui documenti coevi Infatti i documenti mostrano l'inesistenza del cognome a Firenze fino a un periodo tra il 1150 e il 1200. ( Un individuo colto che vive nel 1300 sbaglia di molto su avvenimenti che erano relativamente poco distanti da lui ) Quindi le varie ipotesi sulla nobilta' italica risentono molto di convinzioni radicatesi a lungo andare : la storia della menzogna ripetuta che col tempo diventa una verita' E' comunque quasi sempre la ricchezza la principale causa in Italia della nobilitazione di uno o piu' rami familiari. Quindi quasi sempre bisogna seguire i cicli di arricchimento e impoverimento delle famiglie per studiare la nobilitazione.
DOMANDA : Dovremmo iniziare davvero a dubitare di tutto? Intendo dire, ammettiamo anche che molte famiglie abbiano falsificato documenti, per attribuirsi origini piú antiche e piú nobili (d'altronde é ciò che fanno attualmente tantissime persone non nobili), per questo dovremmo dubitare anche degli ultimi elementi certi? Per esempio dubitare che la nobiltà Italiana delle origini abbia un'origine Germanica. La nobiltà senatoria era stata sterminata, esiliata o degradata dai barbari germanici, che si erano sostituiti ad essa. I cognomi poi, i primissimi cognomi, appartenevano solo a famiglie nobili e mostrano chiaramente un origine germanica, sottolineata anche dal fatto che i membri di queste stirpi seguissero leggi longobarde. Il fatto che le famiglie che possono far risalire le proprie origini al XI-XII siano pochissime, a mio avviso non toglie il fatto che quasi tutte queste famiglie siano di origine germanica
RISPOSTA Quello che voglio dire e' che inizialmente prevale il ceto dirigente longobardo ma poi prima lentamente poi sempre piu' rapidamente i popoli si confondono Non e' piu' o bianco o nero le cose cominciano a mescolarsi in sfumature di grigio Emergono nuovi ricchi che entrano nel ceto dirigente Dall'entrata dei Longobardi in Italia nel 568 alla caduta del loro predominio 774 passano un numero di anni tali che i due popoli si mescolano Noi siamo gli eredi non di Roma ma di quel misto di mondo latino e barbaro ( longobardo, goto, .....) determinatosi in quei quasi 200 anni I nomi che legge sui documenti significano pochissimo Un poco piu' significativa e' la legge che gli individui dichiarano di seguire , ma anche qui in duecento anni possono essere successe tante cose ( ricordo : Parigi val bene una messa ) Insomma credo che attualmente con la scarsa documentazione di cui disponiamo nessuno possa affermare certezze del mondo intorno al 900--1000 ( E' pur vero che si stanno intensificando gli studi specie archeologici sul periodo longobardo ) Tenga conto che il ceto dirigente e' fragile e subisce un ricambio rapido Se hai molti figli la ricchezza e il potere si fraziona pericolosamente Se limiti i figli corri il rischio dell'estinzione genealogica Poi ci sono i rovesci di fortuna e al contrario eventi fortunati -------------- In definitiva Veniamo da una lunga tradizione che vedendo nei Longobardi e nei Franchi i popoli vincitori ( stereotipi ) volle creare il mito delle famiglie del ceto dirigente ( eliminiamo questa parola nobili che richiede precise contestualizzazioni storiche ) discese dai barbari vincitori In realta'dopo un certo periodo esistono solo dei popoli che possono esser considerati confusi tra loro (anche tenendo conto dei numeri iniziali ) Credo molto piu' interessante sia riflettere sulla grande differenza del centro nord italiano dal resto dell'Europa e in un certo modo dal sud Italia Non ci si ferma mai abbastanza a pensare alla grandezza del periodo comunale italiano : di una modernita' sconvolgente per quei tempi Il suo declino da insegnamenti da tener di conto anche oggi Il Comune italiano medioevale ( secolo xiii ) deriva dal termine Bene Comune Le esperienze popolari che prepareranno il Rinascimento hanno radici antiche
La storiografia italiana ha sempre rifiutato l’eredità barbarica. I Longobardi, in particolare, sono sempre stati ritenuti i più barbari di tutti. Questo per molti motivi: per le polemiche dell’età del Risorgimento, per la natura cattolica della storiografia italiana (i Longobardi erano nemici dei papi) e per il grande peso della cultura classica, che ha sempre ritenuto non solo l’età longobarda, ma in generale il medioevo come un periodo di negazione delle radici romane dell’Italia. Per questo motivo è stata sempre negata la fusione fra Longobardi e Romani. Ma la storiografia più recente ha mostrato che nell’VIII secolo la fusione fra Longobardi e Romani era ormai avvenuta: l’intera popolazione libera del regno identificava se stessa come longobarda. by Stefano Gasparri
E quando arriva Carlo quello che gli basta sono i tributi ed un atto formale di sottomissione e il controllo dei confini Quindi la maggior parte dei potentati locali rimangono gli stessi del Regno d'Italia longobardo cioe' Italiani frutto di una complessissima fusione tra popoli
DOMANDA Però dovremmo iniziare davvero a dubitare di tutto?
RISPOSTA mi pare maledettamente logico il dubitare La realta' che il professore Stefano Gasparri , oltre al fatto che noi siamo i longobardi i Goti i Romani , ci mostra ci fa capire che in molti usano e impongono la storia per scopi che con la storia non c'entrano e quindi la manipolano per creare diritti ed opinioni e per far dimenticare abusi . Cioe' gli storici del passato non sono sfuggiti alla trappola
Nel nostro caso lo stesso assunto di partenza era in un certo modo scorretto , il termine "nobilta" come tanti altri termini ha un intrinseco significato diverso di luogo in luogo , e nello stesso luogo di tempo in tempo Non c'e' continuita' di contenuti tra la proto-nobilta' feudale e la nobilta italiana del novecento
interessante questa breve lettura Famiglia e lignaggio: l’aristocrazia in Italia a cura di Marco Bettotti [versione 1.2 - novembre 2004] per Reti medievali
.................. stabilirono giuridicamente la propria disuguaglianza rispetto agli altri.
......Il termine nobilis, concordemente con il suo etimo, significa “ben conosciuto” oppure “che tutti conoscono”, ma nell’uso storiografico è invalsa la distinzione fra “aristocrazia” e “nobiltà”, cioè fra una “nobiltà di fatto” e una “nobiltà di diritto”, conseguenza di un processo di chiusura per cui i ceti preminenti ad un certo punto della loro evoluzione stabilirono giuridicamente la propria disuguaglianza rispetto agli altri. Sebbene quindi già il mondo antico ci abbia trasmesso i concetti di nobilis e nobilitas, per l’alto medioevo i termini aristocrazia e nobiltà non si possono usare indifferentemente. In questa scheda si fa tuttavia prevalente riferimento ad un’età successiva ai secoli X e XI, quando le aristocrazie avevano già conseguito una ben chiara caratterizzazione sociale, ponendo fine ad un lungo periodo dominato dal disfarsi e riformarsi di sempre nuove élites e dando origine a lignaggi dinasticamente definiti e destinati a durare per più generazioni. Si usa quindi “aristocrazia” nel titolo e altrove, ma ripetutamente “nobiltà” in più punti del testo: si tratta di una interscambiabilità che ha precise origini storiografiche.
Questo potere centrale vive in simbiosi con la Chiesa cattolica ( che e' fondamentalmente la detentrice della cultura ) molto piu' di quanto appaia e nonostante i molti contrasti a volte anche violentissimi e apparentemente insanabili
( E sempre e' la Chiesa a portare avanti l'opera di conciliazione : consapevole che lo scontro porterebbe alla rovina di entrambi i contendenti , fino al punto da fare alla lunga dell'avversario il piu' forte: ed allora l'equilibrio sara' rotto definitivamente e la Chiesa scomparira' lentamente dalla storia). Ma questo e' un altro discorso
In una lucida piccola sintesi intitolata :"il santo" compresa nel volumetto "l'uomo medievale" ed edito da GLF editore Laterza , Andre Vauchez trateggia uno dei punti cruciali della storia europea : il rapporto tra nobilta' e Chiesa tra un potere e quello spirituale della Chiesa
Un volumetto , una decina d'euro, un pieno di riflessioni illuminanti per capire meglio la storia dell'oggi . Per farlo si prende in considerazione l'uomo medievale : il guerriero , il religioso , il contadino ,la donna, l'intellettuale,l'artista , il mercante , il santo ,l'emarginato Si vede cosi come tanti luoghi comuni profondamente radicati in noi nascano da lontano ---e come li abbiamo assorbiti solo respirando l'aria---
da André Vauchez : Il santo
.........Se il santo diventa allora una risorsa per i diseredati e per le vittime dell'ingiustizia , non si presenta tuttavia ---ad eccezione di qualche martire altamente politicizzato come san Leger d'Autun (morto nel 678 ) -----come avversario del potere temporale. Al contrario uno dei tratti caratteristici dell'epoca e' la simbiosi che si stabilisce tra le classi dirigenti ecclesiastiche e laiche. Si e' talvolta utilizzato il termine "agiocrazia " per indicare il periodo che va dalla fine del secolo VI alla fine dello VIII , tanto questo e'stato ricco di santi associati , talvolta molto strettamente al potere , come san Eligio in Francia o , a Roma , san Gregorio Magno che si sostitui alla vacillante autorita' imperiale e prese nelle sue mani la difesa e l'amministrazione della citta'. Si tratta, qui , di un caso limite e, a Nord delle Alpi, la situazione era sensibilmente diversa : non sono tanto gli esponenti della Chiesa che accedono al potere quanto l'aristocrazia franca , anglosassone o germanica che stabilisce la sua manomissione sulla Chiesa, pur aiutandola ad impiantarsi nella regioni rurali che fino a quel momento erano sfuggite alla sua influenza e sostenendo attivamente l'impresa di cristianizzazione condotta presso le popolazioni germaniche ancora pagane da missionari come san Bonifacio in Turingia e san Corboliano di Freisling in Baviera
La principale conseguenza di questa stretta collaborazione tra Clero e quadri dirigenti fu, come ha ben dimostrato K.Bosl , la legittimazione religiosa della situazione sociale eminente dell'aristocrazia nei confronti del resto degli uomini , liberi o no. La credenza che si affermo allora , secondo cui il santo non puo' essere che nobile e che un nobile ha piu' possibilita' di diventar santo di un altro qualunque, non era , almeno all'origine una sovrastruttura ideologica imposta dalle classi dominanti o dalla Chiesa. Essa aveva radice nella convinzione , comune al cristianesimo tardo-antico e al paganesimo germanico e condivisa tanto dai dominanti quanto dai dominati , che la perfezione morale e spirituale poteva difficilmente svilupparsi al di fuori di un illustre lignaggio. Di qui lo stretto legame che si stabili a questa epoca nei fatti , e che diventera' in seguito un luogo comune agiografico difficile da rimettersi in discussione , fra santita' potere e nobilta' del sangue. la Prima conseguenza di questa affermazione dell'"Adelheilige---il santo nobile--- fu l'esclusione della gente d'origine sociale oscura da quelle vie regie della santita' che costituivano allora l'episcopato e la dignita' abbaziale . Ormai, e per un pezzo gli umili ---questa massa anonima di servi che agli occhi dell'aristocrazia non avevane' pensiero ne' liberta'----non potranno accedere alla gloria degli altari se non per la via eremitica che fino allo CI secolo , non fu molto molto diffusa in Occidente. In una societa' dove poverta' ed estrema ascesi si trovavano ad essere relegate al margine , i servitori di Dio di cui si conservava il ricordo dopo la morte furono soprattutto i fondatori di chiese o di monasteri poiche la gratitudine dei clerici e dei monaci si manifestava con la redazione di "una Vita" o con l'istituzione di un culto in loro onore. Le famiglie nobili stimolarono d'altronde spesso il loro zelo distribuendo esse stesse delle reliquie dei loro membri piu' illustri . Cosi fecero per esempio , i primi Carolingi col loro antenato sant'Arnolfo , vescovo di Metz (morto nel 640 ) o con santa Gertrude di Nivelles ( morta nel 659), figlia del maestro di palazzo di Pippino di Landen e4 di santa Itta , sorella di santa Begga. In questi personaggi, dell'uno o dell'altro sesso , e attraverso le loro biografie si esprime una nuova concezione di santita', fondata su una nascita illustre , l'esercizio della autorita' e il possesso di richezze spesso considerevoli , messi al servizio della diffusione della fede cristiana. Talvolta , specialmente negli uomini ci si aggiungeva la bella presenza fisica e una grande affabilita' nelle reazioni sociali. Siamo molto lontani dall'ideale ascetico del V secolo e piu' ancora dai santi delle origine cristiane
In complesso l'Occidente doveva ereditare dall'alto Medioevo tutta una serie di rappresentazione mentali nel campo della santita' che solo lentamente e parzialmente saranno rimesse in discussione nei secoli seguenti.Tra questi tratti fondamentali figurano la preponderanza maschile ( il 90% dei santi dell'epoca e' di uomini ), quella degli adulti ----l'infanzia non suscitava allora alcun interesse particolare----e soprattutto gli stretti legami tra nascita aristocratica e perfezione morale e religiosa ................................... André Vauchez : Il santo Ha studiato all'École normale supérieure e all'École française de Rome. La sua tesi, sostenuta nel 1978, fu pubblicata nel 1987 in inglese con il titolo Sainthood in the Later Middle Ages ed è divenuta un classico di riferimento per lo studio di questo argomento. Vauchez fu nominato direttore degli studi medievali dell' École française de Rome (1972–1979), ricercatore presso il Centre national de la recherche scientifique e professore di storia medievale presso l'Università di Rouen (1980–1982) e l'Università di Parigi X Nanterre (1983–1995). Ha ricevuto il Premio Balzan di storia medievale nel 2013. (Wikipedia)
L'impero resistette nella forma datagli da Carlo Magno fin quando fu in vita il figlio Ludovico il Pio. Alla morte di Ludovico, l'impero fu diviso fra i suoi tre eredi: Lotario I, Carlo il Calvo e Ludovico II il Germanico. Ludovico I, o Luigi I (Casseuil-sur-Garonne, 16 aprile 778 – Ingelheim am Rhein, 20 giugno 840), detto Ludovico il Pio o Ludovico il Benevolo
CONTROLLO DEL TERRITORIO
Nell'Impero carolingio e nel Sacro Romano Impero i missi dominici (sing. missus dominicus) erano funzionari che l'imperatore inviava come suoi rappresentanti nelle varie parti dell'impero. Erano sempre nominati in coppia, un ecclesiastico (vescovo o abate) e un laico (conte o duca), scelti di solito tra gli appartenenti alla corte imperiale (Palatium), e venivano inviati in una circoscrizione dell'impero (missiaticum) che dovevano visitare. Le circoscrizioni da loro presidiate, i missatica, costituiti all'interno delle province ecclesiastiche (i metropoliti rivestirono un ruolo importante in questo sistema), vennero limitati dall'802 ai tria regna (la Neustria, l'Austrasia e Borgogna), mentre gli altri regni ebbero una specie di missaticum a parte, in cui ebbero nuovamente un ruolo importate i metropoliti, come quello di Salisburgo (non a caso un arcivescovado fondato da Carlo Magno). In ogni località i missi dovevano tenere un'assemblea di tutti gli uomini liberi, nel corso della quale veniva solennemente giurata fedeltà all'imperatore, venivano pubblicati i capitolari e venivano raccolte le lamentele sull'operato dei funzionari imperiali. I missi, inoltre, espletavano una serie di importanti attività: presiedevano i processi per i fatti più gravi; nominavano gli scabini; svolgevano indagini sulla riscossione delle imposte, sulla moneta falsa, sulla manutenzione delle strade, sulla conservazione delle proprietà imperiali e sulla gestione delle chiese; vigilavano sull'operato dei funzionari imperiali (tra i quali erano ancora compresi i conti e i duchi), con la facoltà di poterli revocare; vigilavano sul clero e sull'osservanza dei precetti religiosi (anche da parte dei laici); raccoglievano le suppliche delle vedove e degli orfani; potevano emanare ordini a privati, funzionari pubblici e al clero (compresi i vescovi) la cui inosservanza, in virtù del banno regio, comportava l'applicazione di sanzioni pecuniarie. Istituiti in modo permanente con un capitolare di Carlo Magno dell'802, ma già sporadicamente utilizzati dai suoi predecessori, i missi avevano lo scopo di assicurare un efficace controllo dell'autorità centrale su tutto l'impero. Tuttavia, con la decadenza dell'impero, la loro azione si mostrò sempre meno efficace anche perché, a partire dal regno di Ludovico il Pio, finirono per essere scelti nell'ambito della stessa circoscrizione, in cui avrebbero dovuto svolgere le loro funzioni, e questo li rese molto più vicini agli interessi della aristocrazia locale che a quelli dell'autorità centrale. Sparirono definitivamente verso la fine del IX secolo in Francia e Germania e nel corso del X secolo in Italia.
Lo scabino in epoca medievale era un membro del corpo di esperti nel diritto legislativo e consuetudinario dal quale si traevano i componenti del collegio che, su richiesta del conte o dei missi dominici, pronunciava un giudizio, poi fatto proprio dal conte o dai missi con la formale emanazione della sentenza.
Ottone I di Sassonia ( nato nel 912 ) Il fondatore della potenza della Germania nel Medioevo Restauratore del potere imperiale in Europa dopo la dissoluzione dell’Impero carolingio, Ottone I fu il fondatore del Sacro Impero romano-germanico.
ANNO 936 OTTONE DI SASSONIA VIENE INCORONATO RE DI GERMANIA
Ottone dovette subito fare i conti con le ribellioni e le spinte autonomiste dei grandi signori tedeschi. Dopo la dissoluzione dell’Impero carolingio (Carlomagno), infatti, essi avevano goduto di sempre maggiore libertà ed era necessario ridimensionarne i poteri. Per rafforzare il potere monarchico Ottone decise di scegliere i suoi più importanti feudatari non tra i membri delle famiglie aristocratiche del regno, come era stato fino ad allora, ma tra i vescovi tedeschi, che diventarono i suoi migliori e più fidati servitori. Terre, contee, palazzi e privilegi furono concessi in dono alla Chiesa tedesca e ai vescovi, che acquistarono un ruolo politico molto importante nella storia di questo paese. La Germania si popolò, così, di principati episcopali, ossia di territori più o meno ampi guidati da un vescovo (in latino episcopus).
ANNO 951 OTTONE DI SASSONIA RE D'ITALIA
Nel 951 Ottone interviene nella penisola contro re Berengario II, e dopo averlo sconfitto e reso suo vassallo assume la corona d’Italia a Pavia.
ANNO 955 CESSANO LE INCURSIONI UNGARE La battaglia di Lechfeld (10 agosto 955) segnò la fine delle incursioni dei Magiari o Ungari in Europa centrale, grazie alla vittoria decisiva dell'esercito del re germanico Ottone il Grande sul capo militare magiaro, l'harka Bulcsú, e i suoi luogotenenti Lehel e Súr.
Sul campo di battaglia i nobili germanici esultarono per la vittoria e sollevarono sui loro scudi Ottone, proclamandolo loro Imperatore. Alcuni anni dopo, ancora forte di questa vittoria, Ottone si recò a Roma e si fece incoronare dal pontefice stesso. Nel frattempo i magiari si convertirono al Cristianesimo: le incursioni ungare in Europa potevano dirsi concluse. Con questa battaglia si concluse il lungo periodo delle invasioni barbariche iniziato nel 4°-5° secolo d.C.: gli Ungari, che con le loro incursioni avevano minacciato l’Europa, si ritirarono a est e abbandonarono i saccheggi. Si stanziarono sulle rive del basso Danubio, si convertirono al cristianesimo e fondarono lo Stato magiaro, entrando progressivamente a far parte della storia europea.
ANNO 962 OTTONE IMPERATORE SACRO IMPERO ROMANO GERMANICO e Privilegium Othonis
nel 962 Ottone fu incoronato imperatore da Giovanni XII. Nasceva così il Sacro Impero romano-germanico e il destino dell’Italia si univa per secoli a quello della Germania. Dopo essere stato incoronato imperatore, Ottone intese ribadire la sua supremazia anche sul papa e sulla Chiesa di Roma: con il Privilegium Othonis fu stabilito che il papa non potesse venire eletto senza il consenso dell’imperatore.
OTTONE re d'Italia ed imperatore e' quindi un punto nodale nella storia italiana due tappe essenziali La fine delle invasioni degli Ungari in Italia Una tappa molto importante nella storia della Germania e dell'Europa fu la vittoria di Ottone a Lechfeld contro gli Ungari Il 10 agosto del 955 il re di Germania Ottone I fermò, grazie alla sua cavalleria pesante, le orde magiare che terrorizzavano il continente Coincidente con la vittoria , la conseguente maggior sicurezza , abbiamo una evoluzione demografica , una evoluzione delle produzioni industriali e commerciali Una nuova concezione del controllo: Ottone dovette subito fare i conti con le ribellioni e le spinte autonomiste dei grandi signori tedeschi. Dopo la dissoluzione dell’Impero carolingio (Carlomagno), infatti, essi avevano goduto di sempre maggiore libertà ed era necessario ridimensionarne i poteri. Per rafforzare il potere monarchico Ottone decise di scegliere i suoi più importanti feudatari non tra i membri delle famiglie aristocratiche del regno, come era stato fino ad allora, ma tra i vescovi tedeschi, che diventarono i suoi migliori e più fidati servitori. Terre, contee, palazzi e privilegi furono concessi in dono alla Chiesa tedesca e ai vescovi, che acquistarono un ruolo politico molto importante nella storia di questo paese. La Germania si popolò, così, di principati episcopali, ossia di territori più o meno ampi guidati da un vescovo (in latino episcopus). ( Treccani ) Questa scelta alla lunga non si rivelera' felice per l'Impero ma avra' un grosso impatto nelle citta' italiane centrosettentrionali Nelle campagne continuera' quel potere signorile autoorganizzato e radicato da lungo tempo , ma da questo momento questo potere dovra' cominciare a confrontarsi con la forza militare delle citta' Dopo essere stato incoronato imperatore, Ottone intese ribadire la sua supremazia anche sul papa e sulla Chiesa di Roma: con il Privilegium Othonis fu stabilito che il papa non potesse venire eletto senza il consenso dell’imperatore. Pertanto, sotto Ottone I e i suoi successori della dinastia ottoniana, i vescovi della Reichskirche (letteralmente "la Chiesa imperiale") rappresentarono le fondamenta del sistema amministrativo imperiale; la loro investitura veniva simboleggiata dalla consegna dell'anello e del bastone pastorale da parte dell'imperatore al vescovo nominato. Questa pratica non riguardò solamente le diocesi ma anche i monasteri reali e i grandi capitoli secolari. L'avvento al potere della dinastia salica, nel 1024, con l'elezione di Corrado II non cambiò nulla in questa organizzazione che perdurò fino al regno di Enrico III (1039-1056).[8] Monasteri e sedi vescovili diventarono così centri di potere anche economico in tutta Europa e nessun regnante poteva rinunciare a esercitare il controllo sulle nomine di vescovi e abati. Con tale sistema la funzione vescovile fu snaturata, perché l'assegnazione della carica non era più basata sulle doti morali o sulla cultura religiosa del candidato, ma esclusivamente sulla sua personale fedeltà all'imperatore. La pratica, inoltre, degradò rapidamente nella simonia, cioè nel dare il titolo vescovile a quei laici che erano in grado di versare cospicue somme di denaro all'imperatore, certi di recuperarle in seguito tramite i benefici feudali che ormai accompagnavano la nomina.
Alle origini del Comune italiano come realtà istituzionale e politica : Il testo che segue è un documento importante che bisogna conoscere per studiare le origini storiche e il significato istituzionale dei Comuni italiani. Il testo è del 962, precede quindi di un secolo la nascita attestata dei Comuni, ma illumina su una condizione indispensabile per la loro genesi. Si tratta del diploma concesso da Ottone I al vescovo di Parma. In esso l’imperatore concede al vescovo l’immunità dal potere dei Conti che esercitavano la loro signoria nelle campagne circostanti. In sostanza questo significa che la città dove il vescovo risiede, non sarà più sottomessa al potere pubblico dei Conti, ormai incontrollabili dal potere imperiale e tendenti a signoreggiare anche con arbitrio sugli abitanti delle campagne. La città, diventando autonoma dal potere comitale, acquisisce un’autonomia giuridica. Adesso è il vescovo che assume il potere pubblico nella città. Gli abitanti di questa cominciano a considerare il vescovo non come un signore-padrone (questo tipo di signoria era quella del conte di campagna), ma come un funzionario pubblico legittimato dall’imperatore. Il vescovo riveste un potere giuridico, fondato sul diritto e non sull’arbitrio, e funzionale al benessere pubblico. I cittadini sottomessi a un potere riconosciuto e legittimato si sentono più liberi degli abitanti di campagna, ormai ridotti alla condizione servile quale che fosse il loro status originario.
Ottone I a Uberto vescovo di Parma, 962
In nome della santa e individua Trinità, Ottone, imperatore Augusto per disposizione della divina Provvidenza… Sia a conoscenza di tutti i fedeli della santa Chiesa e nostri, tanto presenti come futuri, la solerzia, come Uberto, vescovo della chiesa di Parma, presentandosi alla nostra clemenza ha chiesto che noi, giovando alla sua chiesa, al modo dei nostri predecessori, lo arricchissimo di quelle cose che spettavano al regio potere e alla pubblica funzione, e specialmente di quelle per le quali la sua chiesa veniva lacerata da parte del comitato, cioè che noi trasferissimo le cose e i servi tanto di tutto il clero di quello stesso vescovato in qualunque luogo si trovino, quanto di tutti gli uomini che abitano dentro la medesima città dalla nostra giurisdizione alla giurisdizione e dominio e distretto della santa Chiesa, così che abbia la potestà di deliberare e decidere tanto sulle cose e sui servi del clero sopraddetto, quanto anche sugli uomini che abitano dentro la stessa città e le cose e i servi loro, come se fosse presente il conte del nostro palazzo. Noi, considerando e valutando l'utilità per la dignità dell'impero sopraddetto e per tutti i mali che spesso accadono fra i conti di uno stesso comitato ed i vescovi della medesima Chiesa, perché sia eliminata interamente ogni passata lite e scisma e perché lo stesso vescovo con il clero a lui affidato viva pacificamente e attenda senza alcuna molestia alle preghiere, tanto per la salvezza nostra come per la stabilità del regno e di tutti coloro che vivono nel nostro regno, concediamo e permettiamo e dal nostro diritto e dominio trasferiamo nel di lui diritto e dominio completamente e gli affidiamo le mura della stessa città ed il distretto ed il teloneo [imposta sul mercato]ed ogni altra pubblica funzione tanto entro la città quanto fuori da ogni parte della città per lo spazio di tre miglia attorno, segnato e determinato nella linea di confine con pietre terminali… e le strade regie e il corso delle acque e tutto il territorio coltivato e incolto ivi giacente e tutto ciò che è di pertinenza dello Stato. Inoltre concediamo anche che tutti gli uomini abitanti nella città e nel territorio sopraindicato, ovunque abbiano beni ereditari o acquisiti, o dei servi, tanto nel comitato parmense, quanto nei comitati vicini, non corrispondano alcuna prestazione ad alcuna persona del nostro regno, né osservino il placito di chiunque se non del vescovo di Parma che sarà in carica in quel momento, ma abbia il vescovo della stessa chiesa licenza, come se fosse il conte del nostro palazzo, di definire, deliberare e decidere di tutte le cose e dei servi tanto di tutti i membri del clero dello stesso vescovato, quanto anche di tutti gli uomini che abitano entro la predetta città, con contratto di affitto, di livello ovvero di precaria, ovvero castellani e così trasferiamo dal nostro diritto e dominio nel suo diritto e dominio…
Storia di Firenze..........................UNA CONCESSIONE IMPERIALE FONDAMENTALE UNGARI ( https://www.italiapedia.it/ungari_appr_1113_provincia-di-latina_12-059 ) Abilissimi cavalieri, maneggiavano con uguale perizia arco, lancia, ascia e spada secondo le necessità ma furono particolarmente rinomati come arcieri a cavallo; questi ultimi, infatti, costituivano il grosso dell'esercito e spesso ebbero ragione della cavalleria pesante delle armate occidentali. L'Italia subì le scorrerie degli ungari dall'899 al 954. Un primo tentativo di arrestarne l'avanzata, compiuto dal re d'Italia Berengario I, fallì in una cruenta battaglia sul Brenta lasciando campo libero alle orde ungare. L'incursione più lunga e devastante fu quella del 937-938, che attraversò tutta la penisola fino alla Campania e investì anche la maggior parte delle regioni europee (Baviera, Turingia, Sassonia, Franconia e Borgogna). Una nuova spedizione fu intrapresa nel 942, con l'intenzione di attaccare direttamente Roma: respinti dalle difese della città, gli ungari si spinsero nella Sabina, dove vennero sconfitti e dispersi. Le ultime incursioni sul suolo italiano si situano nel periodo compreso tra il 951 e il 954. Nel 955 l'imperatore Ottone I di Sassonia sgominò a Lechfeld, il 9 agosto, un'armata di 100.000 ungari. In seguito a questa definitiva sconfitta il popolo ungaro prese stabile dimora in Pannonia dove, dopo la conversione al cristianesimo di re Géza (972-997) e di re Wajk (969-1038), che fu incoronato da papa Silvestro II e assunse il nome di Stefano I, gettarono le basi per la costruzione del futuro stato dell'Ungheria. Le invasioni di questi guerrieri formidabili, d'altro canto, non lasciarono tracce riconoscibili sul suolo italiano e spesso i segni del loro passaggio si confondono con quelli lasciati dalle bande saracene.
Penso che gli antichi cronisti amassero giocare con le cifre e che i 100.000 Ungari fossero una cifra sparata a caso Un numero che doveva dar conto solo di un grande gruppo Resta che questa si puo' definire l'ultima invasione
Segnamoci questa data del 955 in cui l'uomo che diverra' Ottone I di Sassonia sgominò a Lechfeld, il 9 agosto, un grande esercito di Ungari in questi anni effettivamente inizia la ricostruzione europea Ricostruzione che avverra' sotto forme sociali molto diverse in modo particolare nella nostra Italia centro settentrionale
Ora l'Italia dovra' vedersela con gli imperatori tedeschi Ma ancora una volta possiamo notare come il controllo del territorio era di fatto estremamente scarso . E i signori feudali italiani ebbero per tempi molto brevi un effettivo controllo del Territorio e come le CITTA' fossero nuovamente pronte a riprendere uno spazio politico
Ma che ne e' del potere pubblico intorno al 1000 Che succede in Toscana tra il 955 ed il 1113 anno in cui muore Matilde
Con la locuzione lotta per le investiture si fa riferimento allo scontro tra Papato e Sacro Romano Impero che si protrasse dal 1073 fino al 1122, riguardante il diritto di investire (cioè di nominare) gli alti ecclesiastici e il Papa stesso. Durante il Medioevo l'investitura era un atto con il quale, attraverso un rito detto omaggio, un signore, il senior, conferiva a un'altra persona, il vassus, un possesso o un diritto, il beneficium. Nell'XI secolo i sovrani laici ritenevano una loro prerogativa il potere di nominare vescovi e abati di loro scelta, e quindi investirli spiritualmente, come conseguenza di aver affidato a loro dei beni materiali. Tale consuetudine dava al potere temporale una supremazia su quello spirituale e ciò si era tradotto in un profondo fallimento del clero, non in grado di svolgere la propria funzione.
La controversia tra Papato e Imperatore fu determinata dalla preminente influenza a mano a mano assunta dall’imperatore nella promozione dei chierici alle dignità ecclesiastiche, alle quali invece secondo le norme canoniche dovevano essere designati soltanto mediante libera elezione dal clero e dalla comunità dei fedeli. Già con Carlomagno il potere regio aveva cominciato a intervenire nella nomina dei vescovi e degli abati. Successivamente, con la creazione della feudalità ecclesiastica, sviluppatasi soprattutto in Europa occidentale durante i regimi dei sovrani della casa di Sassonia (imperatore Ottone I), l’ingerenza dei laici nelle cose ecclesiastiche aumentò ancor più mediante la pratica, connessa con il conferimento del beneficio feudale, dell’i. (donde la denominazione, appunto, di lotta per le i.): questa si mostrò fattore determinante della corruzione e della simonia ecclesiastica, che apparvero così legate istituzionalmente alla sottomissione delle cose ecclesiastiche alle compromissioni del gioco politico. Il Papato, scaduto di prestigio e ridotto al rango di una forza in cui si facevano valere agenti di potere locale, ebbe, il più delle volte, a subire l’iniziativa dell’Impero, che, talora, si rivelò di fatto moralizzatrice, pur perseguendo finalità politiche contingenti.
I primi tentativi di un movimento di riforma della vita ecclesiastica presero le mosse dall’abbazia di Cluny in Borgogna, già nel 10° sec.; ma solo verso il 1050, per impulso specialmente dell’opera svolta nella cancelleria papale da Ildebrando di Soana (poi papa Gregorio VII), la lotta contro la simonia e il più generale problema delle investiture divenne argomento di misure disciplinari e di decisioni canoniche. Sotto il pontificato di Niccolò II, nel Concilio Lateranense del 1050, il problema della riforma della Chiesa fu posto in termini nuovi: sganciamento del Papato dalla preponderante influenza dell’Impero da un lato, ed eliminazione dell’ingerenza laica nelle cose ecclesiastiche dall’altro. Mentre infatti si stabilì che il pontefice d’allora in poi fosse eletto, con esclusione di un intervento diretto imperiale, dal collegio dei cardinali, si fece aperto divieto a chiunque di ricevere una chiesa dalle mani di un laico; divieto ribadito da Alessandro II nel 1063 e, con esplicito riferimento ai vescovi, da Gregorio VII nel 1075. Con il decreto gregoriano comminante la scomunica ai contravventori, laici ed ecclesiastici, delle norme disciplinari statuite dal Concilio Lateranense del 1059, e insieme con l’affermazione, su un piano teorico, della volontà accentratrice di Gregorio VII nel Dictatus papae, la lotta delle investiture entrò nella sua fase decisiva, che fu condotta senza esclusione di armi, materiali e spirituali. Durante il lungo e drammatico contrasto tra papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV, il problema dell’investitura ecclesiastica da parte del laicato divenne un aspetto di quello generale dei rapporti tra Impero e Papato, dei rispettivi limiti e delle loro interferenze. La lotta, proseguita anche dai successori immediati di Gregorio, Vittore III (1086-87) e Urbano II (1088-99), sempre contro l’imperatore Enrico IV, si attenuò durante il pontificato di Pasquale II (1099-1118), il quale nel 1111 a Sutri si dichiarava disposto alla rinuncia di ogni beneficio feudale a vantaggio di vescovi e abati, in cambio di una vera libertà della Chiesa, in tal modo resa indipendente dall’ingerenza del potere imperiale: rinuncia, tuttavia, che restò lettera morta, per l’opposizione dei contrastanti interessi, subito insorti violentemente a impedirne l’attuazione.
La lotta per le investiture e' disputa che oppose, dall’ultimo quarto dell’11° sec. sino al concordato di Worms (1122), il papato e l'Impero per la preminenza nel conferimento (l'investitura) delle dignità ecclesiastiche di vescovo e abate ai chierici. I primi movimenti intesi ad ottenere una maggior indipendenza della Chiesa si ebbero già all'inizio del 900 all'interno dell'ambiente monastico, ma fu nel secolo successivo che una vera riforma si diffuse in tutta la Chiesa. L'apice di suddetta riforma si ebbe durante il pontificato di papa Gregorio VII (iniziato nel 1073), il quale, fervente sostenitore del primato papale sopra qualsiasi altro potere, entrò duramente in conflitto con l'imperatore Enrico IV di Franconia, dando inizio alla lotta per le investiture. Lo scontro ebbe risvolti gravi e inediti, con l'imperatore che arrivò ad ordinare al pontefice di dimettersi dal proprio ruolo e questi, per tutta risposta, giunse a scomunicare e deporre il primo. Celebre il viaggio che Enrico intraprese nel 1077 per chiedere perdono a Gregorio VII, ospite in quel tempo della contessa Matilde di Canossa, affinché gli togliesse la scomunica e quindi ripristinasse il dovere di obbedienza da parte dei suoi sudditi, già sollevati contro di lui. Il pontificato di Gregorio terminò tuttavia nel peggiore dei modi: venne eletto un antipapa, Clemente III, mentre il pontefice morì in esilio a Salerno sotto la protezione del normanno Roberto il Guiscardo. Il confronto perdurò anche con i successori di Gregorio VII, per poi terminare nel 1122, quando papa Callisto II e l'imperatore Enrico V si accordarono con la stipula del concordato di Worms. L'accordo prevedeva che la scelta dei vescovi ricadesse sulla Chiesa e che poi essi prestassero giuramento di fedeltà al monarca secolare; si andava affermando il diritto esclusivo della Santa Sede ad investire le cariche ecclesiastiche con l'autorità sacra, simboleggiata dall'anello vescovile e dal bastone pastorale;
oltre a riaffermare i deliberati del 1059 in ordine alla libertà dell’elezione papale (peraltro osservati raramente nello stesso periodo della lotta), escluse qualsiasi intervento laico dall’investitura spirituale; se nel regno di Germania l’imperatore conservava la possibilità di influire sulle elezioni alle sedi episcopali e abbaziali, tale possibilità era esclusa invece in Italia e in Borgogna. Con la lotta per le investiture il Papato iniziò il processo di svincolamento dalla tutela del potere imperiale, diventando l’unico e sovrano regolatore e giudice dell’ordinamento interno della Chiesa; infatti gli imperatori del Sacro Romano Impero rinunciarono al diritto di scegliere il pontefice.
l'imperatore conservava solo il diritto di presiedere alle elezioni di tutte le alte cariche ecclesiastiche e di arbitrare le controversie.
PREMESSA Solo nel 877 il vescovo Guibodo ricevette in dono da Carlomanno la corte regia di Parma, questa donazione fu un atto di ringraziamento da parte del re al vescovo che aveva parteggiato per il padre di Carlomanno, Ludovico II il Germanico,nella sfortunata lotta per il titolo di imperatore.
Ebbe così inizio il potere temporale dei vescovi su Parma e Guibodo decise subito di dotarsi di un consiglio che lo affiancasse nella gestione degli affari spirituali e temporali, per questo il 29 dicembre dello stesso anno alla presenza dei vescovi delle città limitrofe annunciò la nascita del Capitolo della Cattedrale di Parma.
Nell’891 Guido II di Spoleto, imperatore (891-894) e re di Italia (889-894) istituì la marca di Lombardia e vi incluse i comitati di Parma, Piacenza, Reggio e Modena. In quella fase storica, tuttavia, si stava realizzando la trasformazione del potere comitale in quello politico episcopale.
Tuttavia occorre considerare che la donazione di Carlomanno era a titolo personale per cui Guibodo nel suo testamento del 892 predispose che i beni passassero prima alla consanguinea Vulgunda e infine ai canonici del capitolo della Cattedrale.[15] Il possesso dei beni venne confermato a Guibodo da Arnolfo di Carinzia nel 894, quindi alla morte del vescovo, avvenuta nel 895 dC, i canonici del Capitolo della cattedrale, dopo la parentesi di possesso dei beni da parte di Vulgunda, esercitarono il potere temporale sulla corte regia di Parma e su tutti i territori limitrofi che erano stati donati a Guibodo.
I beni confermati al capitolo, oltre che alla corte regia di Parma, constavano di un vasto territorio della bassa parmense che andava grossomodo da Caput Parioli a nord di Fontanellato spingendosi alle porte di Soragna, comprendendo il territorio di San Secondo e Palasone sino a spingersi a Sacca di Colorno. I territori assegnati a Parma comunque erano inferiori a quelli che possedevano allo stesso tempo altri episcopati e questo è dovuto al fatto che il potere temporale del vescovo arrivò in ritardo rispetto ad altri luoghi, ciò comportò un dominio a macchia di leopardo sul territorio essendo molti feudi del parmense già assoggettati al potere temporale di altri enti ecclesiastici
Alle origini del Comune italiano come realtà istituzionale e politica
http://www.secondanavigazione.net/Ottone%20a%20Uberto.html
Il testo che segue è un documento importante che bisogna conoscere per studiare le origini storiche e il significato istituzionale dei Comuni italiani. Il testo è del 962, precede quindi di un secolo la nascita attestata dei Comuni, ma illumina su una condizione indispensabile per la loro genesi.
Si tratta del diploma concesso da Ottone I al vescovo di Parma. In esso l’imperatore concede al vescovo l’immunità dal potere dei conti che esercitavano la loro signoria nelle campagne circostanti. In sostanza questo significa che la città dove il vescovo risiede, non sarà più sottomessa al potere pubblico dei conti, ormai incontrollabili dal potere imperiale e tendenti a signoreggiare anche con arbitrio sugli abitanti delle campagne. La città, diventando autonoma dal potere comitale, acquisisce un’autonomia giuridica. Adesso è il vescovo che assume il potere pubblico nella città. Gli abitanti di questa cominciano a considerare il vescovo non come un signore-padrone (questo tipo di signoria era quella del conte di campagna), ma come un funzionario pubblico legittimato dall’imperatore. Il vescovo riveste un potere giuridico, fondato sul diritto e non sull’arbitrio, e funzionale al benessere pubblico. I cittadini sottomessi a un potere riconosciuto e legittimato si sentono più liberi degli abitanti di campagna, ormai ridotti alla condizione servile quale che fosse il loro status originario.
Ottone I a Uberto vescovo di Parma, 962
In nome della santa e individua Trinità, Ottone, imperatore Augusto per disposizione della divina Provvidenza… Sia a conoscenza di tutti i fedeli della santa Chiesa e nostri, tanto presenti come futuri, la solerzia, come Uberto, vescovo della chiesa di Parma, presentandosi alla nostra clemenza ha chiesto che noi, giovando alla sua chiesa, al modo dei nostri predecessori, lo arricchissimo di quelle cose che spettavano al regio potere e alla pubblica funzione, e specialmente di quelle per le quali la sua chiesa veniva lacerata da parte del comitato, cioè che noi trasferissimo le cose e i servi tanto di tutto il clero di quello stesso vescovato in qualunque luogo si trovino, quanto di tutti gli uomini che abitano dentro la medesima città dalla nostra giurisdizione alla giurisdizione e dominio e distretto della santa Chiesa, così che abbia la potestà di deliberare e decidere tanto sulle cose e sui servi del clero sopraddetto, quanto anche sugli uomini che abitano dentro la stessa città e le cose e i servi loro, come se fosse presente il conte del nostro palazzo. Noi, considerando e valutando l'utilità per la dignità dell'impero sopraddetto e per tutti i mali che spesso accadono fra i conti di uno stesso comitato ed i vescovi della medesima Chiesa, perché sia eliminata interamente ogni passata lite e scisma e perché lo stesso vescovo con il clero a lui affidato viva pacificamente e attenda senza alcuna molestia alle preghiere, tanto per la salvezza nostra come per la stabilità del regno e di tutti coloro che vivono nel nostro regno, concediamo e permettiamo e dal nostro diritto e dominio trasferiamo nel di lui diritto e dominio completamente e gli affidiamo le mura della stessa città ed il distretto ed il teloneo [imposta sul mercato]ed ogni altra pubblica funzione tanto entro la città quanto fuori da ogni parte della città per lo spazio di tre miglia attorno, segnato e determinato nella linea di confine con pietre terminali… e le strade regie e il corso delle acque e tutto il territorio coltivato e incolto ivi giacente e tutto ciò che è di pertinenza dello Stato. Inoltre concediamo anche che tutti gli uomini abitanti nella città e nel territorio sopraindicato, ovunque abbiano beni ereditari o acquisiti, o dei servi, tanto nel comitato parmense, quanto nei comitati vicini, non corrispondano alcuna prestazione ad alcuna persona del nostro regno, né osservino il placito di chiunque se non del vescovo di Parma che sarà in carica in quel momento, ma abbia il vescovo della stessa chiesa licenza, come se fosse il conte del nostro palazzo, di definire, deliberare e decidere di tutte le cose e dei servi tanto di tutti i membri del clero dello stesso vescovato, quanto anche di tutti gli uomini che abitano entro la predetta città, con contratto di affitto, di livello ovvero di precaria, ovvero castellani e così trasferiamo dal nostro diritto e dominio nel suo diritto e dominio…
Il potere Temporale concesso a Uberto e' fondamentalmente legato a questa concessione che sancisce una sorta di nascita legale di una sorta di proto--Comune con un'autorita' che si estende fuori le mura in maniera circoscritta alle tre miglia
E vi e' una sorta di spartizione del comitato tra la citta' ed i conti del territorio ( e siamo sempre a parlare dell'enorme difficolta' a gestire il territorio da parte dell'impero costretto nonostante la forza degli Ottoni ad accettare il ricatto dei potentati locali )
UBERTO
ante 951-Parma dicembre 980
Dal 951 al 980 occupò la carica di Cancelliere di Berengario e di re Adalberto, poi di arcicancelliere dello stesso Adalberto e, dopo essere stato eletto Vescovo di Parma, di Arcicancelliere dell’Impero e d’Italia sotto Ottone il Grande e sotto Ottone II. La prima volta Hubertus cancellarius compare quando Berengario e re Adalberto confermarono da Pavia il 17 gennaio 951 al monastero di San Sisto in Piacenza le corti di Guastalla, Campo Miliacio, Cortenova, Sesto, Luzzara, Villola e Pegognaga con ogni dipendenza e il monastero di Cotrebbia. Da Pavia, come capo effettivo della cancelleria, sottoscrisse diversi diplomi, riconfermando possessi e diritti, il 23 gennaio e il 22 settembre e da San Marino il 26 settembre dello stesso anno. Dopo alcuni anni lasciò la carica di Cancelliere ma riappare come tale in diplomi di Berengario e di Adalberto sottoscritti in Verona il 13 gennaio 958, in Pavia il 18 luglio dello stesso anno e il 25 ottobre 958 o 959. Berengario e Adalberto, da Ravenna, il 24 aprile 960 donarono al loro fedele Guido alcune corti in Toscana addivenendo alle preghiere del conte Amizo e di Huberti episcopi nostrisque dilecti fidelis, che sottoscrisse il diploma come cancelliere. Uberto, dunque, già eletto Vescovo della Chiesa parmense, tuttavia continus a coprire l’alto ufficio di Cancelliere. Come Vescovo e Arcicancelliere di re Adalberto, compare ancora in un diploma da Arezzo del 28 febbraio 961, con la sottoscrizione ad vicem Huberti episcopi et archicancellarii, e come Cancelliere di Berengario e di re Adalberto in un diploma da Verona del 30 maggio 961. Dopo che Berengario mosse guerra ad Adalberto Attone presso Canossa, i signori italiani, ormai stanchi dei continui conflitti, chiamarono l’Imperatore alla Dieta convocata in Milano e nell’ottobre 961 vennero deposti Berengario e Adalberto. Ottone I, eletto re d’Italia nel novembre, si portò poco dopo a Roma, ove il 2 febbraio 962 fu incoronato imperatore da papa Giovanni XII. Il 13 febbraio confermò solennemente alla Santa Sede tutti i possessi concessi da Pipino, Carlo Magno e da altri. Il patto ottoniano col Pontefice fu firmato da Uberto, che si trovava a Roma: Signum Hucberti Parmanensis ecclesie episcopi.
Il privilegio è ritenuto originale dal Baronio, dubbio invece dal Muratori. Nonostante la risoluzione presa dal re Ugo al fine di assicurare Uberto e la sua Chiesa da ogni prepotenza, tuttavia i conti del contado continuarono a molestarlo. Uberto non tardò a esporre i bisogni della sua Chiesa al nuovo imperatore, pregandolo di provvedere perchè in avvenire non fosse più minacciata da alcuno. L’Imperatore, da Lucca, il 13 marzo 962 concesse a Uberto presulis nostri karissimi fidelis le più ampie immunitl. L’Imperatore cedette a Uberto ogni diritto e il pieno dominio della cittl, le mura, il teloneo, il distretto e ogni pubblica funzione regia tanto sulla cittl che fuori per un raggio di tre miglia determinato dalle ville e castelli seguenti: a oriente di Beneceto, Casello e Coloreto, a mezzodo di Porporano, Alberi e Vigheffio, a sera di Vicofertile, Fraore ed Eia, a nord di Baganzola, Casale Pancarano e Terabiano, con tutte le loro adiacenze e pertinenze. Cedette inoltre le vie regie, il corso delle acque, il territorio adiacente e ciò che apparteneva alla pubblica cosa. Ordinò poi che gli uomini della città o abitanti entro i confini sopraindicati fossero chiamati in giudizio dal solo Uberto per ragioni di eredità o di lite, il quale avrebbe giudicato tamquam noster comes palatii. Il solo Uberto avrebbe potuto decidere, definire e deliberare intorno alle cose e alle famiglie, tanto dei chierici che di tutti gli uomini residenti nella terra dello stesso Vescovado, mentre nessun marchese, conte e visconte avrebbe potuto esercitare qualsiasi pubblica funzione. Concesse a Uberto la potestà di eleggere e ordinare i notai, i quali, dovendo discutere le cause dello stesso vescovado, avrebbero ricevuto i testamenti senza alcuna proibizione o controversia del conte del contado. Se non si fosse potuto giudicare senza contrasto, concedimus ejusdem episcopi vicedomino ut sit noster missus, avendo la potestl di deliberare, definire e giudicare tamquam noster comes palatii. Uberto si trovò presente a Pavia a un placito del 27 settembre 962 dato dal marchese Oberto, conte di palazzo. Si sottoscrisse Hubertus Ep. interfui. Uberto fu tenuto in grande estimazione da Ottone I, che a San Leo il 10 maggio 963 concesse un privilegio ai canonici di Arezzo consultu et interventu venerabilis episcopi Huberti fidelis nostri. Uberto fu a Roma con l’Imperatore nell’autunno del 963. Si trovò presente al sinodo romano del 4 dicembre convocato per deporre il papa Giovanni XII (Liutprando, Storia di Ottone I). Secondo Raterio, vescovo di Verona, in quel congresso Uberto fu reputato degno di governare la Chiesa di Dio. L’Imperatore lo delegò suo messo a giudicare in Toscana con il marchese Oberto, conte di palazzo. A Lucca il 9 agosto 964 Uberto, quale missus domni Imperatoris, fu presente al giudizio presieduto dal marchese Oberto, che riconobbe i diritti della Chiesa di Reggio. Il 24 dicembre si trovò di nuovo a Roma e fu presente quando Ottone confermò la donazione fatta ad Adelaide, badessa del Monastero di Santa Maria Maggiore presso l’antico palazzo imperiale, da Fazio, suo nipote. Uberto dovette certamente essere assai dotto e stimato, se meritò l’amicizia di Raterio, vescovo di Verona, il quale non solo gli dedicò il suo trattato (De contemptu Canonum, scritto nel 964) ma volle anche donare alla Chiesa parmense certi terreni che possedeva nel contado. Ottone elevò Uberto alle più alte cariche: lo nominò suo Arcicancelliere del Regno d’Italia (2 dicembre 966-28 marzo 973) e lo elesse anche Arcicancelliere dell’Impero, nella quale altissima carica rimase dell’8 luglio 967 al 29 giugno 968. Come capo delle due cancellerie dovette accompagnare ovunque la Corte e trattare delle cose pubbliche italiche e germaniche. Dopo un anno o poco meno dalla sua elezione, si determinò a rinunciare al cancellierato germanico. Il 2 dicembre 966, in Pisa, Ottone I concesse, precibus Huberti episcopi dilecto, fidelique nostro, le più ampie immunità a Pietro, vescovo di Volterra.
E' in questo diploma che Uberto compare la prima volta con la qualifica di Arcicancelliere: ad vicem Uberti archicancellarii. A Monte Veltraio il 12 giugno 967 Uberto intervenne come missus nel giudizio presieduto dal marchese Oberto, conte di palazzo, per una lite tra il monastero di Santa Fiora e Sant’Andrea e i Valcheri. Da Ravenna, Ottone nel 968, su richiesta di Uberto, concesse il permesso di istituire il mercato alla insula Pergamensis nel luogo detto di San Sisinio, nel giorno della festa, e di edificare in una certa altra localitl un porto per la sicurezza delle barche veneziane, chioggiote e ferraresi. Dovendo Ottone passare in Calabria, lo accompagns durante il viaggio a Fermo il 2 novembre assistette, presente l’Imperatore, alla sentenza su di una controversia tra l’abate del monastero di Santa Croce e il vescovo della stessa cittl. Se Ottone I il 23 dicembre dello stesso anno privilegis con suo diploma il monastero detto Casa aurea, confermandone i beni che gil possedeva, ciò si dovette interventuque nostri dilectissimi fidelis Huberti scilicet Parmensis ecclesie presulis. L’Imperatore il 18 aprile 969, alle istanze di Uberto, concesse al nobile Ingone e ai suoi figli Uberto, Ribaldo e Oberto parecchie proprietl in diversi contadi d’Italia (in quello di Parma, le corti di Tortiano, di Stadirano e di Vicofertile). Da Bovino il 1I maggio (a lui era ricorso Uberto, nostram adiisse clementiam) l’Imperatore confermò al monastero della Santissima Trinitl e all’abate Adamo, nel luogo detto l’Isola di Pescara o Casa Aurea, i beni e i possessi. Il 20 maggio, presso Conca in Romagna, sempre per l’intervento di Uberto, l’Imperatore riconfermò alla Chiesa di Asti tutti i diritti e i possessi gil conferiti per il passato dai re e imperatori suoi antecessori. Ancora su preghiera di Uberto e Diederico, vescovo metensis, Ottone il 22 aprile 972, da Roma, concesse ad Azo, abate del cenobio di Santa Sofia di Benevento, la conferma dei beni dei quali era in possesso. Ottone il Grande morì il 7 maggio 973 e al governo dell’impero restò il figlio Ottone II. Di Ottone II Uberto fu Arcicancelliere dell’Impero dal 25 ottobre 967 sino al 16 febbraio 968 e Arcicancelliere del Regno d’Italia dal 6 ottobre 968 sino al 12 febbraio 980. Probabilmente Uberto rinunciò alla carica effettiva di Cancelliere d’Italia perchè, già avanti negli anni, non gli era più possibile seguire l’Imperatore ogniqualvolta scendeva in Italia. Invece la carica onorifica di Arcicancelliere gli consentì di rimanere presso l’Imperatore come consigliere: summus consiliarius. Alla morte di Guido, vescovo di Modena e abate di Nonantola, i monaci elessero loro Abate Uberto e Ottone ne confermò l’elezione nel febbraio 970: Hubertus per dei misericordiam Sancte parmensis Ecclesie episcopus, seu aba monasterii sancti Silvestri sito Nonantula qui per electionem Monachorum ipsius Monasterii et jussionem dominorum Imperatorum aba existit.
FONTI E BIBL.: N.Pelicelli, Vescovi della Chiesa Parmense, 1936, 93-99; A. Schiavi, Diocesi di Parma, 1940, 237.
RINASCITA DEI COMMERCI : LE REPUBBLICHE MARINARE PISA , VENEZIA , GENOVA , NOLI , GAETA , AMALFI , ANCONA ,RAGUSA il termine "repubblica" non va inteso nel significato moderno: fino a Machiavelli e a Kant, tale termine era sinonimo di "Stato", e non era contrapposto a governo nobiliare
L'espressione repubbliche marinare è stata coniata dalla storiografia ottocentesca, quasi in coincidenza con la fine dell'ultima di esse: nessuno di questi Stati si è mai autodefinito repubblica marinara. Lo storico che introdusse l'espressione e mise a fuoco il concetto corrispondente fu lo svizzero Simondo Sismondi nel 1807, nell'opera Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo.
il problema non e' nel numero di Repubbliche scelto,
il problema non e' nella dislocazione di queste Repubbliche
non e' nel ,,,,,,,,,
il problema e' nel termine e nella sostanza
Perche' Repubbliche ?
Repubblica di Pisa. antica Repubblica marinara italiana (1000–1406) ... Intorno al 1000 Pisa divenne una delle maggiori Repubbliche marinare italiane.
Perche' parlo in uno stesso istante cronologico parlo della Repubblica marinara di Pisa e del Comune di Milano ?
Non sto forse creando dal nulla una confusione storica chiamando due evoluzioni sociali paragonabili con nomi diversi ? ( dove Comune e' il nome appropriato al momento storico )
Dice Yves Renouard nel suo " Gli uomini d'affari italiani nel medioevo" Lo sviluppo economico delle citta' dell'interno e' evidentemente una conseguenza di quello delle citta' marinare : sono queste ultime che hanno rianimato gli scambi internazionali e partecipato direttamente alle crociate. Ma dai loro porti si diramava un' attivita' in incessante processo di crescita . Esse tendevano ad assorbire prodotti suscettibili di esportazione e il legname necessario alle costruzioni navali , cercavano di imporre sui mercati interni le merci importate . Rapidamente nel XII secolo , nelle citta' dell'interno piu' favorite dalla posizione geografica la vita economica si sviluppa con intensita' progressiva . Vi nasce nella maggior parte dei casi e come nelle citta' marinare , a opera delle famiglie feudali o borghesi alle quali la condizione sociale in citta' o proprieta' immobiliari urbane o rurali fornivano rendite in denaro ; tali rendite accumulate costituiscono ordinariamente il primo capitale investito negli affari . Benche inizialmente lo imiti ,l'uomo dell'interno non concepisce gli affari allo stesso modo del'abitante di un grande porto .Per lui non si tratta ne' di navigare sul mare ne' di costruire navi. Il suo orizzonte e' fatto di montagne e foreste ; la cornice della sua citta e' una campagna agricola ; egli pensa del tutto naturalmente a procurarsi cio' che gli manca scambiandolo con i prodotti della terra che lavora per fornirli di maggior valore. Il suo commercio si svolge per via di terra o d'acqua dolce……………………………….. ( l'affermazione : "Vi nasce nella maggior parte dei casi e come nelle citta' marinare , a opera delle famiglie feudali ……" e' ancora fonte di discussione tra gli storici . E' pero' importante la visione che Renouard ha dello sviluppo delle citta' dell'interno Wiki : La ripresa economica che si ebbe in Europa a partire dal IX secolo, abbinata all'insicurezza delle vie di comunicazione terrestri, fece sì che le principali rotte commerciali si sviluppassero lungo le coste del mar Mediterraneo: in questo contesto, e data la crisi dei poteri centrali, alcune città portuali furono in grado di acquisire sempre maggiore autonomia, fino a ricoprire un ruolo di primo piano nello scenario europeo.]
Interessante notare che ben sei di esse - Amalfi, Venezia, Gaeta, Genova, Ancona e Ragusa - iniziarono la propria storia di autonomia e mercatura dopo essere state quasi distrutte da un terribile saccheggio, oppure furono fondate da profughi di terre devastate. Queste città, esposte alle incursioni dei pirati e trascurate dai poteri centrali, organizzarono in modo autonomo la propria difesa, accoppiando l'esercizio del commercio marittimo a quello della sua protezione armata
furono poi in grado, nei secoli IX, X e XI, di passare all'offensiva, ottenendo numerose vittorie contro i saraceni, a partire dalla storica battaglia di Ostia dell'849. I traffici di queste città raggiungevano l'Africa e soprattutto l'Asia, inserendosi efficacemente tra la potenza marittima bizantina e quella islamica, con le quali si stabilì un rapporto complesso di competizione e di collaborazione per il controllo delle rotte mediterranee.
Ognuna di esse fu favorita dalla propria posizione geografica, lontana dalle principali vie di passaggio degli eserciti e protetta da monti o lagune, che la isolò e le permise di dedicarsi indisturbata ai traffici marittimi. Tutto ciò portò a una graduale autonomia amministrativa e, in alcuni casi, a una vera e propria indipendenza dai poteri centrali, i quali da tempo non riuscivano più a controllare le province periferiche: l'Impero bizantino, il Sacro Romano Impero, lo Stato Pontificio.[34]
È inoltre importante ricordare che le forme di indipendenza che si vennero a creare in queste città furono varie, e tra esse stenta a orientarsi il moderno modo di considerare i rapporti politici, che distingue nettamente tra autonomia amministrativa e libertà politica.
Wiki : La Toscana tendera' a svilupparsi sulle direttive di PISA , di LUCCA. di FIRENZE , di SIENA Altri centri : PISTOIA , AREZZO , VOLTERRA , SAN GIMIGNANO, PRATO Credo che ad un certo punto la storia di una parte d'Italia e la storia d'Europa prendano cammini fortemente diversificati Un ininterrotto cammino feudale in Europa ( Francia , Spagna , Germania meno Inghilterra e Paesi bassi ) che con volti diversi arriverra' alla rivoluzione francese Un cammino basato sulla centralita' politica della CITTA' nell'Italia del centro nord e al conseguente lungo abbandono del sistema feudale per una scelta COMUNALE Una scelta questo separatismo molto moderna ma inadatta a tempi dove la forza e la violenza era il fattore predominante Una scelta che crea istituzioni ricche di fermenti sociali culturali economici ma anche deboli sul piano militare Una scelta che insieme all'azione della Chiesa papista ( fortemente mobilitata contro qualunque azione unitaria ) rendera' impossibile unire le forze per conservare l'indipendenza della penisola , e che non sara' nemmeno in grado di evitare dissanguanti lotte intestine Come i capponi di Lorenzo Tramaglino ............... “Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all’in giù, nella mano d’un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.” Purtroppo le alterazioni storiche fatte dalle famiglie dirigenti nei vari secoli con la scusa del lustro familiare hanno costruito una storia parallela che oggi bisogna smontare elemento per elemento per renderla effettivamente utile al riscontro della MACROSTORIA
Insomma viene seguito anche qui lo schema comunale che inizia sotto la guida del Vescovo , sotto gli occhi degli Attonidi ( quelli si MARCHIO ) , ed intorno alla morte di Matilde prende la sua strada autonoma
Nella Tuscia si sviluppa il dominio degli Attonidi ( discendenti dal longobardo Adalberto Atto ---impropriamente individuati da cronachisti e storici come i Canossa ) che in alcuni periodi tende a diventare autonomo E non puo' sfuggire come questo dominio e le zone contigue diventino la culla della successiva affermazione dei regimi comunali , che diversifica il cammino italiano da quello feudale del resto d'Europa L'IMPORTANZA DEGLI ATTONIDI PER GLI AVVENIMENTI FUTURI Gli Attonidi stirpe longobarda ( qualunque cosa voglia dire ) discendente da Adalberto Atto figlio di Sigifredo sono da tenere in grandissima considerazione GLI ATTONI O ATTONIDI IMPROPRIAMENTE INDIVIDUATI DAI CRONISTI E DAGLI STORICI PER COMODITA' INDIVIDUATIVA COME "I CANOSSA" IN REALTA' ANCHE ATTONI o ATTONIDI E' UN INVIDUAZIONE A POSTERIORI FATTA DAGLI STORICI ( siamo in un eta' precognomica ) Intanto correggiamo la brutta abitudine di attribuire agli Attonidi uno stemma Anche attribuire uno stemma a Matilde (di Canossa) e ai suoi ascendenti e' sforzo di fantasia Matilde muore nel 1115 quindi come abbiamo visto in periodo prearaldico e quindi non ha alcuno stemma Ovviamente cio' a maggior ragione e' vero per i suoi ascendenti Bonifacio, Tedaldo, Adalberto Atto , Sigifredo RETRODATAZIONE DI UNO STEMMA AGLI ASCENDENTI Capita spesso che lo stemma dei discendenti venga attribuito agli ascendenti senza bisogno di ulteriore documentazione Lo stemma nasce anche qui dallo stemma di una famiglia che si dichiara discendente ( sembra con una documentazione assolutamente non probante ) : i Da Canossa ancora viventi a Verona talvolta capita che lo stemma venga retrodatato a gente che parenti non sono su base documentaria , come in questo caso in cui gioca un omonimia Omonimia che in realta' nemmeno esiste perche' per gli Attonidi : Canossa non e' un cognome ma un'individuazione storica Quindi uno stemma arbitrariamente retrodatato ad un tempo in cui l'araldica non esisteva e comunque collegando due famiglie non collegabili documentalmente stemma del Podesta Guido da Canossa---1382 ----Bargello -Firenze
Dagli ultimi decenni del sec. XIII al 1502 il Bargello, la cui costruzione venne iniziata verso il 1255, fu la sede del Podestà di Firenze, chiamato anche Pretore. Tale carica venne poi sostituita da un Consiglio di Giustizia o Rota e quindi il palazzo dal 1502 al 1574 fu abitato dai Giudici di Rota. Nei secoli successivi l'edificio fu adibito a prigione e a tal scopo modificato; solo fra il 1854 e il 1867 l'architetto Francesco Mazzei e il pittore Gaetano Bianchi lo liberarono dalle sovrastrutture, tentando il recupero dell'edificio trecentesco. Il cortile è decorato dagli stemmi di Podestà e Giudici di Rota che risiedettero nel Bargello; tale usanza era diffusa in Toscana ed esempi simili si trovano sui palazzi pubblici di Fiesole, Colle val d'Elsa, Poppi, San Giovanni val d'Arno e Radda. L'abitudine di lasciare il proprio stemma sembra essere molto antica ed è sancita da alcuni Statuti comunali. La decorazione del cortile comprende inoltre le insegne antiche dei Quartieri e dei Sestieri scolpite in pietra e colorate. Durante i restauri ottocenteschi furono invece dipinte nelle volte i gonfaloni dei quartieri e alcuni stemmi di Podestà. Copie moderne delle insegne personali sono state collocate sulle pareti esterni del cortile. L'edificio è stato restaurato dopo l'alluvione del 1966 e con esso parte degli stemmi. Il presente scudo è l'arme personale di Guido da Canossa di Reggio, Podestà di Firenze nel 1382 come un elenco conservato al museo del Bargello Quindi in realta' la mitica contessa Matilde non si e' mai chiamata Matilde di Canossa
E' concettualmente errato (ma suggestivo e fortemente indicativo) dire "Matilde di Canossa"
Bonifacio si autoidentifica e si sottoscrive come MARCHIO , non come Bonifacio Attonide o come Bonifacio di Canossa
Con che logica gente che dominava almeno un sesto dell'Italia avrebbe dovuto usare identificarsi con una fortezza sperduta per quanto importante ?
Identificavano se stessi con la carica pubblica che detenevano DUX MARCHIO COMES COMITISSA
Titoli che avevano in quel momento ( Riferendosi al Ducato longobardo o alla Marca franca o alla Contea franca ) ben altro valore a quello che quegli stessi titoli avranno solo tre secoli dopo L'uso improvvido da parte degli storici di questa identificazione a posteriori come Canossa ha reso piu' facile la confusione con la famiglia effettivamente cognominata da Canossa ( poi Canossa ) che prende effettivamente il cognome dall'aver detenuto poteri signorili sulla rocca di Canossa
A questa famiglia sia il Muratori sia il Tiraboschi assegnano come capostipite conosciuto Albertus de Canusio non collegabile agli Attonidi ,( e io non sono a conoscenza siano emersi successivamente documenti capaci di modificare queste conclusioni )
L'omonimia ( se di omonimia si puo' parlare non potendosi parlare di un cognome Canossa per gli Attonidi) tra le due famiglie passa attraverso il legame che hanno in tempi diversi i due guppi parentali con la rocca di Canossa
Gli Attonidi furono una potente famiglia feudale di stirpe longobarda che, a partire dai primi decenni del X secolo, si insediò nelle valli dell'Appennino reggiano.
Sigifredo, originario di una famiglia di Lucca, è considerato il capostipite della casata e suo figlio Adalberto Atto (da cui il nome della famiglia "Attoni o Attonidi ) fu il primo conte di Mantova e il costruttore del Castello di Canossa,. Utilizzarono presto il titolo di comes (conte) e ricevettero molti altri territori, in prevalenza toscani, dagli Imperatori del Sacro Romano Impero: prima Lucca, poi Mantova nel 940, Modena, Carpi e Reggio nel 962, Brescia nel 980, Ferrara, Parma, Piacenza, Bergamo e Cremona nel 984, e Guastalla nel 991. Nel 1027 la marca di Toscana fu concessa a Bonifacio e nel 1100 la marca di Verona a Matilde, conosciuta come la Gran Contessa. Con Matilde, infatti, il dominio degli Attonidi raggiunse la sua massima estensione e i suoi territori vennero chiamati terre matildiche, ma fu anche l'ultimo grande esponente della dinastia degli Attonidi
NOTA BENE Anselmo di Besate , (Milano, 1020 ca. – dopo il 1048)
In Parma, probabilmente durante un suo secondo soggiorno (e dopo aver ascoltato le lezioni di Sichelmo in Reggio), A. scrisse la sua opera di maggior rilievo, la Rhetorimachia.
I termini cronologici estremi per la composizione dell'opera sono: maggio 1046-maggio 1048.
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Tedaldo Comes e Marchio figlio di Adalberto Atto (X secolo – 1012)
La denominazione de Canussa per designare sia Tedaldo sia il padre, che è sintomo di una precoce formazione cognominale volta a identificare la linea agnatizia di Adalberto Atto, è attestata per la prima volta nella Rethorimachia di Anselmo da Besate (a cura di K. Manitius, 1958, II, cap. 2, p. 141), che menziona il matrimonio di Prangarda, figlia di Adalberto Atto e sorella di Tedaldo, e il marchese arduinico Manfredo.
Dalla voce Tedaldo di Canossa di Tiziana Lazzari - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 95 (2019)
io credo che l'interpretazione della professoressa di una precoce cognomizzazione sia un poco troppo audace. La prima caratteristica di un cognome e' l'ereditarieta'. Poi occorre trovare nei documenti notarili che riguardano direttamente la persona, la persona stessa nominata con quel cognome precoce
Siamo, mi pare, solo in presenza di una personale identificazione di un cronachista da non generalizzarsi e da non confondere con un cognome
Una genealogia dei Canossa di Verona prende spunto da una genealogia che parte dal buio dei tempi ( la gente Atia romana intorno al 400 DC) parto della fervida fantasia di Alessandro Canobbio che allaccia a Matilde di Toscana Origine della nobilissima ed illustrissima famiglia Canossa ...............................Alessandro Canobbio ....... anno 1593 e' veramente difficile accettare che un albero di questo tipo non documentato correttamente possa essere stato nel XVII secolo considerato attendibile ed addirittura messo alle stampe :specchio dei tempi Cenni intorno all'illustrissima famiglia ............Cesare Cavattoni modena 1859 Varie famiglie illustri di Verona ............Antonio Cartolari 1865 Varie famiglie illustri di Verona ............pag 174 Angelo Ferretti 1884 Una sintesi della faccenda ..................tenendo conto che Guido Guerra e' uno di quelli individuati dagli storici come conti Guidi importanti questi studi Guido da Canossa ---Treccani---Gherardo Ortalli Bonifacio da Canossa---Treccani--Gherardo Ortalli Il cavallo di Gabrotto di Canossa Storia dei Canossa di Verone e di Mantova USURPAZIONE FONDAMENTALE questo saggio che ci mette a contatto con l'usurpazione dei poteri della carica pubblica Saggio di Giuseppe Sergi....i poteri dei Canossa : poteri delegati, poteri feudali ,poteri signorili FONDAMENTALE questo saggio che mostra i legami tra il castellano e la popolazione in un reciproco tentativo di convivenza Il cavallo di Gabrotto di Canossa Un rapporto di protezione che assomiglia molto a quello dei Conti Guidi nel Casentino Probabilmente gia' da tempi antichi la societa' franca si caratterizza come la societa' dei castelli e la societa' italiana si caratterizza come la societa' delle citta' interessante questa breve lettura
Famiglia e lignaggio: l’aristocrazia in Italia
a cura di Marco Bettotti
[versione 1.2 - novembre 2004] per Reti medievali
......Il termine nobilis, concordemente con il suo etimo, significa “ben conosciuto” oppure “che tutti conoscono”, ma nell’uso storiografico è invalsa la distinzione fra “aristocrazia” e “nobiltà”, cioè fra una “nobiltà di fatto” e una “nobiltà di diritto”, conseguenza di un processo di chiusura per cui i ceti preminenti ad un certo punto della loro evoluzione stabilirono giuridicamente la propria disuguaglianza rispetto agli altri. Sebbene quindi già il mondo antico ci abbia trasmesso i concetti di nobilis e nobilitas, per l’alto medioevo i termini aristocrazia e nobiltà non si possono usare indifferentemente. In questa scheda si fa tuttavia prevalente riferimento ad un’età successiva ai secoli X e XI, quando le aristocrazie avevano già conseguito una ben chiara caratterizzazione sociale, ponendo fine ad un lungo periodo dominato dal disfarsi e riformarsi di sempre nuove élites e dando origine a lignaggi dinasticamente definiti e destinati a durare per più generazioni. Si usa quindi “aristocrazia” nel titolo e altrove, ma ripetutamente “nobiltà” in più punti del testo: si tratta di una interscambiabilità che ha precise origini storiografiche.
SE NON SI RIESCE A COMPRENDERE LA FORMAZIONE DI QUESTI CENTRI DI POTERE E DI DISUGUAGLIANZA VIENE MENO LA FUNZIONE DI MEMORIA ED EDUCATIVA DELLA MACROSTORIA In Germania si affermano due schieramenti politici che, più avanti, avranno un peso anche nelle vicende politiche italiane: i guelfi e i ghibellini.
Guelfi: sono favorevoli ad una alleanza con il Papato.
Ghibellini: difendono le prerogative dell'Impero contro il Papato.
.....considerazioni di Ottone vescovo di Frisinga e di Raevino (1115 ca.- 1158), zio di Federico I Barbarossa (1152-1190), sorpreso dalle forme di controllo che i comuni cittadini esercitavano sui …diocesanos…suos… compresi i grandi signori e feudatari, i domini loci I Latini… imitano ancor oggi la saggezza degli antichi Romani nella struttura delle città e nel governo dello Stato. Essi amano infatti la libertà tanto che, per sfuggire alla prepotenza dell’autorità si reggono con il governo di consoli anziché di signori. Essendovi tra essi tre ceti sociali, cioè quello dei grandi feudatari, dei valvassori e della plebe, per contenerne le ambizioni eleggono i predetti consoli non da uno solo di questi ordini, ma da tutti, e perché non si lascino prendere dalla libidine del potere, li cambiano quasi ogni anno. Ne viene che, essendo la terra suddivisa fra le città, ciascuna di esse costringe quanti abitano nella diocesi a stare dalla sua parte, ed a stento si può trovare in tutto il territorio qualche nobile o qualche personaggio importante che non obbedisca agli ordini delle città. Esse hanno preso anche l’abitudine di indicare questi territori come loro “comitati”, e per non mancare di mezzi con cui contenere i loro vicini, non disdegnano di elevare alla condizione di cavaliere e ai più alti uffici giovani di bassa condizione e addirittura artigiani praticanti spregevoli arti meccaniche che le altre genti tengono lontano come la peste dagli uffici più onorevoli e liberali. Ne viene che esse sono di gran lunga superiore a tutte le città del mondo per ricchezza e potenza. A tal fine si avvantaggiano non solo, come si è detto, per la saggezza delle loro istituzioni, ma anche per l’assenza dei sovrani, che abitualmente rimangono al di là delle Alpi
I Comuni :
una propria autonomia
il potere di nominare i consoli e successivamente il podestà .
battono una propria moneta
amministrano la giustizia
gestiscono internamente i tributi e hanno potere su il territorio circostante
Sul libro di Jean-Claude Maire Vigueur e arricchendo il ragionamento con interessanti considerazioni PAOLO GRILLO : Nelle campagne intanto troviamo situazioni di potere feudale: Esamina questa sorta di aristocrazia feudale Ne ricostruisce le genealogie Maria Elena Cortese ha studiato il controllo del territorio destinato a divenire Contado fiorentino da parte delle famiglie di tradizione feudale ed ha documentato la loro presenza a Firenze fino alla morte di Matilde di Canossa ( 1115 ) e il loro successivo abbandono della citta' rinserrandosi nei loro possessi feudali destinati a sgretolarsi sotto l'avanzata dell'esercito comunale Vengono descritte le vicende genealogiche e patrimoniali ricostruite di : Adimari , Attingi , Da Callebona , Da Cintoia ,Figuineldi , Firidolfi , Ghisolfi , Gotizi , Da Montebuoni , Nepotes Rainerii , Suavizi , Ubaldini ,Da Vicchio . ................Il fondamento della posizione di preminenza politica e socialedi queste famiglie , cosi come i processi di accumulazione dei loro patrimoni - che al momento in cui compaiono per la prima volta nelle fonti risultano in gran parte gia' formati e composti da possedimenti quasi esclusivamente allodiali- rimangono per noi dei percorsi oscuri , poiche' la documentazione superstite non ci permette di risalire piu indietro degli ultimi decenni prima del mille. Ben presto gli interessi delle Citta'-Stato urteranno contro questi potentati campagnoli , la maggior parte dei quali soccombera' in breve tempo la storia di Firenze dalla caduta dell'impero romano alla mitica rifondazione di Carlo Magno e' piccola cosa , ed e' praticamente sconosciuta Ma Firenze si prepara a vivere l'esperienza di Citta'-Stato ( o liberi Comuni ) in comune con il centro nord italiano Ed occorre domandarsi quale sia stato il fattore che ha differenziato il centro settentrione italiano da quasi tutto il resto di Europa dove hanno prevalso e continuato ad esistere le istituzioni feudali fondate da Carlo Magno Infatti OLTRALPE ha continuato a svilupparsi il medesimo modello di una societa' elitaria e di disuguali UN LUNGO CAMMINO Ora possiamo iniziare a parlare di Firenze come di una citta' stato GLI INIZI DELLA STORIA COMUNALE FIORENTINA i domini degli Attonidi Non puo' sfuggire come e' nelle terre del dominio Attonide e nelle zone circostanti che inizia la civilta' comunale italiana che si slega dalla mentalita' feudale E intorno la Repubblica genovese e quella veneziana con vocazione mercantile e il patrimonio di San Pietro .....considerazioni di Ottone vescovo di Frisinga e di Raevino (1115 ca.- 1158), zio di Federico I Barbarossa (1152-1190), sorpreso dalle forme di controllo che i comuni cittadini esercitavano sui …diocesanos…suos… compresi i grandi signori e feudatari, i domini loci I Latini… imitano ancor oggi la saggezza degli antichi Romani nella struttura delle città e nel governo dello Stato. Essi amano infatti la libertà tanto che, per sfuggire alla prepotenza dell’autorità si reggono con il governo di consoli anziché di signori. Essendovi tra essi tre ceti sociali, cioè quello dei grandi feudatari, dei valvassori e della plebe, per contenerne le ambizioni eleggono i predetti consoli non da uno solo di questi ordini, ma da tutti, e perché non si lascino prendere dalla libidine del potere, li cambiano quasi ogni anno. Ne viene che, essendo la terra suddivisa fra le città, ciascuna di esse costringe quanti abitano nella diocesi a stare dalla sua parte, ed a stento si può trovare in tutto il territorio qualche nobile o qualche personaggio importante che non obbedisca agli ordini delle città. Esse hanno preso anche l’abitudine di indicare questi territori come loro “comitati”, e per non mancare di mezzi con cui contenere i loro vicini, non disdegnano di elevare alla condizione di cavaliere e ai più alti uffici giovani di bassa condizione e addirittura artigiani praticanti spregevoli arti meccaniche che le altre genti tengono lontano come la peste dagli uffici più onorevoli e liberali. Ne viene che esse sono di gran lunga superiore a tutte le città del mondo per ricchezza e potenza. A tal fine si avvantaggiano non solo, come si è detto, per la saggezza delle loro istituzioni, ma anche per l’assenza dei sovrani, che abitualmente rimangono al di là delle Alpi
Enrico Faini : Firenze nell'eta' romanica ( 1000--1211 )
.........Del resto Firenze era stata menzionata in una disposizione legislativa dell'imperatore Lotario I , il capitolare di Corteolona del maggio 825 , come sede di una "schola" cui doveva far capo tutta la Tuscia ....Firenze nel secolo X aveva meritato , unica citta' toscana assieme a Pisa , la menzione nel Lessico bizantino noto col nome "Suida"
......Molti potenti avevano eletto Firenze a loro dimora privilegiata ; tra questi il Marchese Ugo di Tuscia poco prima del Mille , e , alla meta' del secolo XI . Goffredo di Lorena. anche lui Marchese, con la moglie Beatrice.
Nel giugno del 1055 si era tenuto a Firenze , alla presenza del Papa Vittore II e dell'Imperatore Enrico III un sinodo al quale avevano partecipato centoventi Vescovi
Il fratello del Marchese Goffredo . Federico , divenuto Papa ( Stefano IX ) era morto a Firenze il 29 marzo del 1058 ed aveva avuto sepoltura in S. Reparata . Nello stesso anno il Vescovo Gerardo ascendeva al soglio di Pietro mantenendo la titolarita' della sede fiorentina
.........Alla fine del secolo successivo i "Florentini" erano gia' concorrenti temibili sui mercati se in un diploma concesso nel 1081 da Enrico IV ai Lucchesi ci si preoccupava di escluderli dai benefici commerciali concessi ai "cives Lucenses"
Il Doren nel suo libro " Le Arti fiorentine" felice Le Monnier editore Firenze 1940 scrive : ………………..gia' alla fine del secolo XI mercanti fiorentini trovavansi sui mercati di Parma e S.Donnino , che gia' nel 1120 una via appena fuori di citta' aveva preso il nome dalle balle di merci che ivi erano fatte affluire per essere condizionate per la spedizione , quando si sappia che prima del tramonto del secolo XII i mercanti fiorentini eransi gia' fatti notare sui maggiori mercati mondiali dell'Occidente europeo , quelli della Sciampagna , e che nel 1178 era stato conchiuso un trattato tra Firenze , Siena , ed il Marchese del Monferrato , trattato che si riferiva espressamente al commercio di quelle due citta' toscane con la Francia , e quando ancora si sappia come gia' nel 1193 i Fiorentini avessero un fondaco a Messina , che vi dette il nome ad una ruga………………………
Fiumi scrive : pg 16 " Fioritura e decadenza dell'economia fiorentina" Leo Olshki editore Firenze 1977
……..I boni homines , che si evolveranno nei primi consoli cittadini , i giudici e gli assessori che assistono la contessa Beatrice e poi Matilde nei giudizi tenuti a Firenze , non tutti erano dei feudatari o dei cavalieri . in alcuni atti rogati tra il 1061 ed il 1100 troviamo numerosi nomi che denunziano casate che poi diventeranno illustri : Ughi , Giandonati , Lamberti , Gotizi , Visdomini ,Uberti , Sichelmi , Suavizi , Caponsacchi , Giuochi . Alcuni di essi , come i Visdomini , sono investiti di poteri giurisdizionali e sono da considerarsi nobili , ma altri e tra essi probabilmente gli Ughi , i Lamberti , Giuochi , Caponsacchi , sono i maggiori esponenti della nuova classe borghese e mercantesca che si andava inserendo nell'organismo dello stato . ……
VEDI Gli storici ,nella quasi totalita' sottovalutano l'importanza della nascita dell'Araldica e del cognome sul territorio Eppure l'inizio dell'uso del cognome ha un impatto molto forte sia nella socialita' che nella politica ; in un certo modo rafforza i gruppi familiari all'interno del Comune dando un'identita marcata alla parentela , cosa che il patronimico non erain grado di fare Molto importanti per la visione della storia fiorentina ( proprio negli anni in cui nascono i primi cognomi ) da punti di osservazioni diversi sono gli attuali studi del dottor Enrico Faini Il dr Faini esamina i manoscritti fiorentini sotto molte angolature , ne utilizza i vari aspetti e ne fa emergere molti dettagli Li compara in modo da trarne conclusioni che vanno oltre il singolo documento ma aprono ad una visione e ad un esame d'insieme Ed infine ( utile al nostro studio ) esamina anche l'origine di molte famiglie fiorentine tracciandone le piu' antiche genealogie Enrico Faini, Firenze nell’età romanica (1000-1211). L’espansione urbana, lo sviluppo istituzionale, il rapporto con il territorio, Firenze, 2010. complemento alla lettura del volume Sempre sull'argomento una serie di monografie In particolare il Faini dice : (Enrico Faini Firenze nell'eta' romanica Olschki editore) ...........Nonostante le personalita' che albergarono tra le sue mura e i meriti dei suoi stessi cittadini , Firenze non ebbe una storia scritta , neppure un abbozzo di storia , almeno fino alla fine del secolo XII (pagina Si domanda il dr Faini ...Se i Lucchesi non amavano la concorrenza commerciale dei fiorentini gia' nel 1081 e' segno che gia' allora gli abitanti della citta' del Fiore avevano qualcosa da esportare e da far scendere lungo le rive dellìArno . Forse si trattava di commerci ancora a medio raggio. (pagina Il problema se lo erano gia' posti Robert Davidsohn che nel suo " Storia di Firenze : le origini" affronta l'argomento ed affronta tutto l'argomento dei dissidi religiosi nella citta' e della riforma religiosa di Giovanni Gualberto Ed anche Yves Renouard nel suo "Le citta' italiane dal X al XIV secolo si pone il problema di trovare traccia dei commerci che gia' nel X secolo vedevano il coinvolgimento di Firenze Enrico Faini determina l'inizio di una decisa trasformazione economica ( con tutte le conseguenze sociali ) intorno al 1080 con un aumento della ricchezza nelle mani dei cittadini che comincia ad essere visibile intorno al 1130 e che da allora si fa sempre piu' facile da vedere e seguire In coincidenza con la morte della contessa Matilde (1115 ) si assiste al progressivo allontanamento volontario dell'aristocrazia del territorio dalla citta'. E si fa evidente una migrazione della gente del contado verso la citta' che evidentemente offre maggiori occasioni di lavoro e di condizioni di vita Altri studi sul periodo da cui si puo' ricavare molte utili indicazioni , anche se trattasi di studi datati R. Francovich ……………I castelli del contado fiorentino nei secoli XII e XIII Firenze 1973 AAVV …………………… Nobilta' e ceti dirigenti in Toscana nei secoli XI-XIII strutture e concetti COMUNE DI FIRENZE : DISGREGAZIONE DELLA MARCA DI TUSCIA : IL CONTADO FIORENTINO E I DOMINI DI CONTADO Quello che e' importante sottolineare e' il destino diverso che attende i vari paesi europei E tra i paesi europei l'Italia si trova gia' dall'inizio frammentata tra il centro nord ed il centro sud Con il centro nord impegnato a costruire la modernissima civilta' comunale , che offre forme di capitalismo ante litteram e un centro sud che segue la falsariga dell'Europa con regimi feudali A favorire questa divisione dell'Italia la politica papale che tende a dividere nord e sud del paese per non essere stritolata dalla loro unione Ed e' dalla caduta dell'Impero franco che la Chiesa operera' questa politica che causera'all'Italia infinite divisioni , infiniti lutti , IMPORTANTI STUDI UN POCO DATATI MA SEMPRE CON GRAN QUANTITA' DI SPUNTI il testo di riferimento per una visione d'insieme della storia di Firenze e' stato quello di Robert Davidsohn Robert Davidsohn ......"Storia di Firenze " volumi 1 , 2, 3,4 ,5,6,7,8 anno 1978 SBS Sansoni editore corredato da un apparato di note , mai tradotto in italiano Robert Davidsohn ...........................Forschungen 4 volumi Opera da ricordare e con alcuni punti da prendere ancora in considerazione e' : Pasquale Villari "I primi due secoli della storia di Firenze " 1883 Sansoni editore Firenze Imprescindibile ed eterna la raccolta dei documenti comunali : Pietro Santini, Documenti sull’antica costituzione del comune di Firenze, Documenti di storia italiana pubblicati a cura della R. Deputazione sugli studi di storia patria per le provincie di Toscana e dell’Umbria, X, Firenze, presso Giovan Pietro Vieusseux, 1895, alle pp. 1 – 174 i trattati, e alle pp. 223 – 236 gli atti di procedura civile. Pietro Santini ..............." Documenti antica costituzione del Comune di Firenze--Appendice " Leo S. Olschki editore Firenze Pietro Santini, Nuovi documenti sull’antica costituzione del Comune di Firenze, "Archivio Storico Italiano", serie V XIX (1897) , pp. 276-325. Altrettanto imprescindibile : EMANUELE REPETTI che offre uno studio della geografia toscana e della formazione dei toponimi toscani . Contiene anche dati di demografia Ovviamente in tutti questi libri vi e' il tentativo di ricostruire il passato , le istituzione comunali , le motivazioni dei fatti , la ricostruzione del ceto dirigente , le connessioni sociali , le convinzioni politiche attraverso i documenti coevi Il serbatoio delle documenti coevi ( fonti primarie ) e' principalmente l' ARCHIVIO DI STATO DI FIRENZE ARCHIVIO DI STATO DI FIRENZE Consigli di Roberto Segnini a chi va per la prima volta all'Archivio di Stato di Firenze ARCHIVIO DI STATO DI FIRENZE Fondi ARCHIVIO DI STATO DI FIRENZE Suddivisione fondi ARCHIVIO DI STATO DI FIRENZE Suddivisione fondi ARCHIVIO DI STATO DI FIRENZE Suddivisione fondi FONDO DIPLOMATICO RIPRODUZIONE DIGITALE : grazie ad essa, il ricercatore può oggi consultare online: significato di REGESTO Un regèsto (dal tardo latino regesta) è un repertorio cronologico degli atti governativi, comunali, privati (S. Maffei, 1727), riassunto del contenuto di un documento o di un atto (TB, 1872) che assume la valenza di sintesi più o meno ampia del contenuto di uno o più atti contenuti in un documento. La pubblicazione di un regesto rende accessibile agli studiosi le fonti documentarie. Il procedimento s'impone senz'altro per gran parte dei documenti del Basso Medioevo che, a causa della loro ingente quantità, non sarebbe possibile pubblicare per intero in tempi brevi. Secondo lo storico Raffaello Morghen nel regesto occorre "dare il riassunto dei singoli documenti senza omettere alcun dato". L'ampiezza maggiore o minore, cioè la quantità di informazioni da accogliere in questo sunto, dipende anzitutto dal tipo di pubblicazione cui esso è destinato o dal tipo di esame e di archiviazione e persino dall'autore stesso. ALCUNI DI QUESTI DOCUMENTI SONO STATI EDITI E COMMENTATI AGEVOLANDO L'APPASSIONATO CHE PUO' FARSI UNA PROPRIA CONVINZIONE ALCUNI DOCUMENTI EDITI ED IN PARTE REGESTATI Schiapparelli e Baldasseroni ......."Regesto di Camaldoli volume I" 1907 Istituto storico Italiano Luciana Mosiici .........." Le carte del monastero di Santa Felicita di Firenze" Accademia toscana di scienze e lettere "la Colombaria" Luciana Mosiici............"Le carte del monastero di San Miniato al monte , secoli IX-XII " Deputazione di Storia patria per la Toscana Anna Maria Enriques .."Le carte del monastero di S.Maria in Firenze (Badia) secolo XII " Istituto storico Italiano per il medioevo Luigi Schiaparelli ......." Le carte del monastero di S.Maria in Firenze (Badia) secolo X--XI " Istituto storico Italiano per il medioevo Palmerio di Corbizo da Uglione notaio " Imbreviature 1237-1238 " a cura L.Mosiici e F.Sznura Accademia toscana di scienze e lettere "la Colombaria" Renato Piattoli Le carte della canonica della cattedrale di Firenze (723-1149) Regesta Chartarum Italiae 23 Roma 1938 Giulia Camerani Marri Le carte del monastero Vallombrosiano di Montescalari Leo Olschki editore Firenze 1963 Quinto Santoli ............" il Liber censum del comune di pistoia . Regesti di documenti inediti sulla storia della Toscana nei secoli XI-XIV L. Pagliai Regesto di Coltibuono Schneider Regestum Volaterranum Natale Rauty : Documenti per la Storia dei Conti Guidi in Toscana . Le origini e i primi secoli 887-1164 Leo Olschki editore 2003 Padre Ildefonso di San Luigi Delizie degli eruditi toscani ...........24 volumi Firenze 1770-1789 G. Lami Sanctae Ecclesiae Florentina e Monumenta ..................................Firenze 1758 G. Cecchini Il Caleffo vecchio del comune di Siena 3 volumi......................Siena 1931 1940 Ovviamente lo stesso Pietro Santini Pietro Santini, Documenti sull’antica costituzione del comune di Firenze, Documenti di storia italiana pubblicati a cura della R. Deputazione sugli studi di storia patria per le provincie di Toscana e dell’Umbria, X, Firenze, presso Giovan Pietro Vieusseux, 1895, alle pp. 1 – 174 i trattati, e alle pp. 223 – 236 gli atti di procedura civile. Pietro Santini ..............." Documenti antica costituzione del Comune di Firenze--Appendice " Leo S. Olschki editore Firenze Pietro Santini, Nuovi documenti sull’antica costituzione del Comune di Firenze, "Archivio Storico Italiano", serie V XIX (1897) , pp. 276-325. Alla morte di Matilde la grande Contessa di Canossa nel 1115 il Comune di Firenze esisteva gia' nel senso che esisteva un ceto dirigente in grado di guidarne la societa' Con la morte di Matilde il Comune puo' iniziare a camminare con le sue gambe . Il cronista Senzanome accenna all'esistenza dei consoli nel 1125 Conosciamo i nomi di quattro consoli nel 1138 senza che sia possibile individuare il loro nucleo familiare : Firenze e' in questo momento demograficamente una piccola citta' . Ma uno sviluppo demografico tumultuoso la attende : la citta' diviene sede di industrie e di commerci ed attira cosi gente dal contado Questo grande sviluppo demografico e' il piu' significativo sintomo di una citta' che cresceva in ricchezza ed opportunita' di lavoro …………………………………………………. condivisibile quanto detto dal dr Faini ......credo che la demografia abbia un ruolo notevole nel determinare le caratteristiche di una societa' Una societa' nella quale i figli sono all'incirca lo stesso numero dei genitori sara' stabile , conservatrice. Al contrario una societa' nella quale la nuova generazione ha una consistenza assai maggiore della precedente sara' inquieta e densa di novita' Inoltre e' evidente che in una crescita tumultuosa nuovi soggetti politici si affaccino alla ribalta pretendendo una fetta di potere se non tutto il potere L'avvento di Federico Barbarossa imperatore dal 1152 --
Federico I Hohenstaufen, meglio noto come Federico Barbarossa (Waiblingen, 1122 circa – Saleph, 10 giugno 1190), è stato imperatore dei Romani, re dei Romani e re d'Italia.
Salì al trono dei Romani il 4 marzo 1152, succedendo allo zio Corrado III; nella primavera del 1155 fu incoronato re d'Italia a Pavia, e il 18 giugno dello stesso anno papa Adriano IV lo incoronò Imperatore a Roma. Due anni dopo, il termine sacrum ("santo") apparve per la prima volta in un documento in relazione al suo impero.
Successivamente fu formalmente incoronato re di Borgogna, ad Arles, il 30 giugno 1178. Fu chiamato Barbarossa dalle città dell'Italia settentrionale che tentò di governare; era conosciuto come Kaiser Rotbart, che ha lo stesso significato. La prevalenza del soprannome italiano, anche nell'uso tedesco successivo, riflette la centralità delle campagne italiane nella sua carriera.
Prima della sua elezione imperiale, Federico era per eredità duca di Svevia (1147-1152, come Federico III). Era il figlio del duca Federico II della dinastia degli Hohenstaufen e di Giuditta, figlia del duca di Baviera Enrico IX, del casato rivale dei Welfen. Federico, quindi, discendeva dalle due famiglie leader in Germania, rendendolo una scelta accettabile per i principi elettori dell'Impero.
Federico I Hohenstaufen (1123 circa - 1190) fu il duca di Svevia (dal 1147), re di Germania e sacro romano imperatore (dal 1152 al 1190).
Gli storici lo considerano tra i più grandi imperatori del Medioevo per le sue capacità organizzative, la lucidità politica, la forza.
E' lui che esce vincitore dalla lotta tra le due fazioni in Germania, cioè la guelfa e la ghibellina: Federico I di Svevia è imparentato con le due dinastie. Il su obiettivo principale è il ripristino dell’autorità imperiale, alla quale dovevano sottostare sia nobili che Comuni.
Alla dieta di Costanza, del marzo del 1153, avevano partecipato anche gli ambasciatori dei Comuni di Pavia e Como, e due mercanti di Laus (dal 1158 Lodi, fondata proprio dall'imperatore Federico I), venuti a implorare aiuto contro la prepotenza di Milano che, dopo avere distrutto Laus Pompeia nel 1111 e dopo avere vinto una guerra decennale contro Como (1127), ne limitava l'indipendenza e impediva lo sviluppo delle altre città.
Federico I approfittò di queste richieste di aiuto per intervenire nella politica italiana: egli seguiva un ideale di impero universale; il controllo sia sui Comuni a nord sia sul regno di Sicilia a sud era essenziale a questo scopo.
L'Italia era per l'imperatore tedesco il contesto ideale per ottenere alcune prerogative essenziali per realizzare la costruzione dell'impero universale: la supremazia nella contesa con il papato per la potestà civile universale, il legame con la tradizione dell'impero romano, cui Federico I si ispirava, e la sovranità su Comuni e feudatari. A tale scopo dispose un saldo controllo su tutti i territori della Corona, utilizzando funzionari di umili origini e provata fedeltà, i ministeriales, e si pose l'obiettivo di recuperare gli iura regalia, le regalie, ossia gli inalienabili diritti del potere regio (amministrazione della giustizia, difesa del territorio, riscossione delle imposte, battere moneta), poiché il potere comunale in Italia si stava arrogando poteri propri del sovrano sia all'interno sia all'esterno del territorio urbano, come dimostrava l'esempio di Milano, che aveva apertamente aggredito altri sudditi dell'imperatore.
Dopo la dieta di Costanza le condizioni per scendere in Italia c'erano tutte: lo chiedevano le famiglie feudali per limitare il potere comunale, lo chiedevano i piccoli Comuni alleatisi contro Milano, lo chiedeva il papa stesso, Anastasio IV, che auspicava l'intervento di Federico I contro il Comune di Roma, in cui a partire dal 1143 si era formato un regime capeggiato da Arnaldo da Brescia, un riformatore patarino contestatore del potere temporale dei papi, che aveva costretto papa Eugenio a ritirarsi a Orvieto.
Federico Barbarossa si rende conto che la gestione interna dei tributi da parte dei Comuni, che si trovano ad incassare le tasse, toglie di fatto soldi allo Stato centrale. Barbarossa è intenzionato a rientrare in possesso dei poteri dell’Imperatore, compreso il diritto alla riscossione delle tasse.
ANNO 1154 La dieta di Roncaglia
Federico Barbarossa nel 1154 convoca a Roncaglia la prima dieta (per dieta si intende un’assemblea) alla fine della quale:
riconferma i suoi poteri
provoca chiaramente lo scontento principalmente dei Comuni
Nel 1158 tornò in Italia per riaffermare ancora una volta i propri diritti sui Comuni lombardi, compreso il potere di nominare il podestà di ogni città. Milano, Cremona, Bergamo e Mantova considerarono questa richiesta inconciliabile con le libertà comunali riconosciute dai precedenti imperatori e si opposero con fermezza: fu l'inizio di una lunga serie di battaglie, che si protrasse fino al 1183 (anno in cui venne firmata la pace di Costanza) e che contò ben cinque discese dell'imperatore in Italia.
Nella dieta :
si riappropria dei diritti dell’Imperatore, chiamati “regalie”
decide che in ogni città si insedi un governatore imperiale
nega l’esistenza dei Comuni
abbatte le mura e deporta gli abitanti dei Comuni per per sottolineare l’inesistenza di queste entità
ristabilimento del Corpus iuris civilis, o lo stato di diritto romano, che controbilanciava il potere papale che dominava gli stati tedeschi dalla conclusione della lotta per le investiture.
L'eccessiva ingerenza del Barbarossa nelle questioni pontificie portò a una grave spaccatura fra la chiesa e l'impero, che sfociò in aperta ostilità alla morte di Adriano IV (1159). Federico non riconobbe la legittimità del nuovo pontefice Alessandro III e nominò una serie di antipapi.
Il papa reagì stringendo con i Comuni un'alleanza in funzione antimperiale, cui aderirono il Regno di Sicilia e Venezia.
Nel 1162 il Barbarossa condusse una spietata campagna contro Milano, Crema e i loro alleati, e rase al suolo le due città.
Nel 1162 assediò e rase al suolo la città di Milano, per intimare i comuni italiani ad accettare la Constitutio de regalibus.
Tra il 1167 e il 1168 occupò Roma e insediò sul soglio pontificio un antipapa, Pasquale III. In risposta, Alessandro III, rifugiato in Francia, lo scomunicò. Intanto con il giuramento di Pontida fu costituita la Lega Lombarda (7 aprile 1167), formata dalle città di Milano, Cremona, Mantova e Bergamo, alle quali si aggiunsero in seguito molti altri Comuni dell'Italia settentrionale, sotto la protezione del papa.
Nel corso dei successivi sette anni la Lega si rafforzò militarmente, ricostruì Milano, fondò la roccaforte di Alessandria e organizzò un sistema federale di amministrazione. La quinta discesa di Federico in Italia (1174-1176) terminò con la sua sconfitta a opera dell'esercito della Lega guidato da Alberto da Giussano (battaglia di Legnano, maggio 1176). Nel 1177 Federico fu costretto a riconoscere il papa Alessandro III e nel 1183 firmò la pace di Costanza, in base alla quale dovette concedere l'autonomia ai Comuni lombardi, pur conservando una limitata autorità sulle investiture delle principali cariche comunali.
I CAPITOLI DELLA PACE DI COSTANZA
Costanza, 25 giugno 1183.
Nel nome della santa ed individua Trinità. Federico, per concessione della divina clemenza, imperatore augusto dei Romani, ed Enrico sesto, figlio suo, augusto re dei Romani.
La mansueta serenità della clemenza imperiale è sempre stata solita concedere ai sudditi l'elargizione del favore e della grazia, Benché essa debba e possa correggere con fermezza e con rigore nei sudditi le colpe dei peccati, tuttavia essa deve maggiormente dedicarsi a reggere l'Impero Romano assicurando una favorevole tranquillità di pace e pii affetti di misericordia, ed infine essa deve riportare l'insolenza dei ribelli alla dovuta fedeltà e al dovuto riconoscimento della devozione.
Perciò tutti i fedeli dell'Impero, sia quelli del nostro tempo, sia quelli che verranno nel tempo futuro, sappiano che Noi, dopo aver aperto il nostro cuore, ricco di innata pietà, col solito favore della nostra bontà, abbiamo accettato la fedeltà e la devozione dei Lombardi che un tempo offesero Noi ed il nostro impero, e li abbiamo di nuovo ricondotti, insieme alla Lega e ai suoi fautori, nella pienezza della nostra grazia. Inoltre con clemenza Noi abbiamo perdonato tutte le offese e le colpe con le quali avevano provocato la nostra indignazione e abbiamo stabilito che i Lombardi debbono essere inseriti nel numero dei nostri diletti fedeli, dai quali Noi ci aspettiamo di ricevere un fedele servizio di devozione.
Pertanto abbiamo ordinato di scrivere nel presente privilegio la nostra indulgente pace, che con clemenza abbiamo a loro concesso, e abbiamo ordinato di corroborare la pergamena col sigillo della nostra autorità.
Il testo e la sequenza dei capitoli di pace è questo:
1) Noi Federico, imperatore dei Romani. ed Enrico figlio nostro, re dei Romani, concediamo per sempre a voi città, luoghi e persone della Lega le regalie e le vostre consuetudini sia nella città, sia sul territorio extra urbano, ad esempio in Verona e nel suo castello e nel distretto suburbano, e nelle altre città, luoghi e persone della Lega. Ciò avverrà in modo che nella città voi possiate avere tutte queste cose come finora le avete possedute o le possedete; sul territorio extra-urbano eserciterete senza alcuna contraddizione tutte le consuetudini che da antica data avete esercitato o che esercitate, cioè sul fodro, sui boschi e sui pascoli, sui ponti, sulle acque e sui mulini, come da antica data siete stati soliti avere o avete, e poi sull'arruolamento degli uomini per formare l'esercito, sulla fortificazione delle mura cittadine, sulla giurisdizione sia nelle cause criminali sia in quelle pecuniarie, dentro e fuori la città, e su tutte le altre materie che riguardano l'interesse delle città.
2) Vogliamo che tutti i rimanenti diritti regi siano determinati in questo modo: il vescovo del luogo e gli uomini della città e dell'episcopato eleggano delle persone di buona fama, che ritengano idonee a tale scopo, e che non manifestino odio speciale o privato contro la nostra Maestà, né contro le città; costoro giureranno che in buona fede e senza frode indagheranno e che consegneranno i diritti ritrovati, i quali spettano in particolare alla nostra Maestà.
3) Qualora riteniate che non sia necessario effettuare questa ricerca, chiediamo un censo di duemila marche d'argento all'anno; tuttavia se questa cifra sarà considerata elevata, sarà con equità diminuita.
4) Se qualcuno avrà presentato alla nostra Maestà un ricorso, e che riguardano sia la città che il territorio extra-urbano. respingeremo il ricorso ed imporremo al ricorrente un silenzio perpetuo.
5) Ciò che Noi, o un nostro predecessore, re o imperatore, diede o concesse a qualsiasi titolo di cessione ai vescovi, alle chiese, alle città o a qualsiasi altra persona, chierico o laico, prima della guerra, Noi lo considereremo valido e lo approveremo, fatte salve le precedenti concessioni. E in cambio di ciò essi prestino a Noi i consueti servizi militari, ma non sia pagato alcun censo.
6) Non reputiamo che i vantaggi economici, sia entro il perimetro urbano, sia fuori, che per il bene della pace abbiamo concesso alle città, e per i quali deve essere versato un censo, siano da comprendersi sotto il nome di regalie.
7) Siano annullati e resi privi di valore tutti i privilegi, le donazioni e le concessioni che furono effettuati da Noi, o dai nostri rappresentanti, a pregiudizio o a danno delle città, dei luoghi o delle persone della Lega a causa della guerra e ad offesa di qualcuno dei predetti.
8) Nella città in cui il vescovo possiede il comitato per privilegio di un imperatore o di un re, se i consoli sono soliti ricevere dal medesimo vescovo il consolato, lo ricevano da lui, come erano soliti riceverlo. Negli altri casi ciascuna città ottenga da Noi il consolato. Negli anni successivi, come saranno eletti i consoli nelle singole città, essi ricevano l'investitura dal nostro rappresentante che si trova nella città o nell'episcopato, e ciò avvenga per cinque anni; finito il quinquennio ciascuna città invii un proprio rappresentante alla nostra presenza per ricevere l'investitura. Così ci si comporterà in seguito cioè, terminati i quinquenni le città ricevano da Noi l'investitura, negli anni compresi entro il quinquennio essi otterranno l'investitura, come si è detto, dal nostro rappresentante, a meno che fossimo presenti in Lombardia, nel qual caso la ricevano da Noi. La medesima procedura sarà osservata con il nostro successore e tutte le invesititure avverranno gratis.
9) Qualora Noi, imperatore, per chiamata divina morissimo o lasciassimo il regno a nostro figlio, riceverete l'investitura in modo uguale dal nostro figlio o dal suo successore.
10) Nelle cause di appello il ricorso sia presentato a Noi se si supererà la somma di 25 lire imperiali fatti salvi il diritto e gli usi della Chiesa bresciana negli appelli; tuttavia non sarà obbligatorio recarsi in Germania, ma Noi terremo un nostro rappresentante nella città o nel territorio dell'episcopato che istruisca la causa di appello e giuri che in buona fede esaminerà le cause e pronuncerà la sentenza secondo le leggi e i costumi della città entro due mesi dal ricorso o dal momento in cui ha ricevuto l'appello, a meno che non si presenti un giusto impedimento o non intervenga il consenso di entrambe le parti.
11) I consoli che sono eletti nelle città, prima di ricevere consolato, prestino giuramento di fedeltà a Noi.
12) I nostri vassalli ricevano da Noi l'investitura e prestino giuramento come vassalli; tutti gli altri, dai quindici anni fino ai settanta, giureranno fedeltà come cittadini, a meno che siano persone a cui possa e debba essere condonato, senza frode, il giuramento.
13) I vassalli che durante la guerra o il periodo di tregua non richiesero l'investitura oppure non ci prestarono i dovuti servizi militari, per questo motivo non perdano il feudo.
14) 1 contratti di livello o di precaria mantengano il loro valore secondo la consuetudine di ciascuna città, nonostante la nostra disposizione legislativa, che è detta dell'imperatore Federico (cfr. Costitutio de iure feudorum, a. 1158).
15) Gratuitamente perdoniamo, Noi ed il nostro partito, tutti i danni, i furti e le offese, che patimmo in prima persona o tramite i nostri seguaci e che furono inferti dall'intera Lega o da qualche suo aderente o dagli alleati della Lega. Doniamo inoltre ad essi la pienezza del nostro perdono.
16) Non faremo una lunga ed inutile sosta con il nostro esercito in una città o su di un territorio episcopale a loro danno.
17) Ai membri della Lega sia permesso fortificare le città e costruire fortezze fuori di esse.
18) Sia lecito ai federati mantenere la Lega e rinnovarla tutte le volte che lo vorranno.
19) I patti stipulati per paura della nostra Maestà, o estorti con violenza dai nostri rappresentanti, siano annullati, né per essi si esiga qualche cosa; ad esempio il patto dei Piacentini per il ponte sul Po ed il fitto del medesimo ponte e delle regalie, la concessione ed il patto che il vescovo Ugo fece di Castell'Arquato, e se altri simili accordi sono stati fatti dallo stesso vescovo o dal Comune o da altri della Lega con Noi o col nostro rappresentante; il ponte, con tutti i suoi introiti resterà ai Piacentini ed essi saranno sempre tenuti a pagare il fitto alla badessa di Santa Giulia di Brescia; e si aggiungano altri patti simili.
20) Siano ritenute valide le sentenze che sono state pronunciate in base al diritto e secondo le leggi e le consuetudini contro uno o più membri della Lega, qualora per diritto valessero contro di loro, anche se avessero ricevuto il nostro perdono. Siano invece annullate quelle sentenze che sono state pronunciate contro gli aderenti alla Lega a causa della guerra e della discordia o del conflitto con la Chiesa.
21) I possessi che ciascun membro della Lega aveva in modo legittimo prima della guerra, qualora siano stati sottratti con la forza da coloro che non appartengono alla medesima Lega, siano restituiti senza i frutti e senza il pagamento dei danno; oppure siano tenuti in modo pacifico dagli antichi proprietari, qualora li avessero ricuperati, a meno che non siano assegnati a Noi perché riconosciuti come diritti regi da arbitri eletti.
22) Abbiamo ricevuto nella pienezza del nostro perdono ed abbiamo rimesso ogni offesa, Noi ed il nostro partito, con clemenza imperiale, al marchese Opizone. Egli procurò ingiuria a Noi e al nostri alleati dopo aver aderito alla Lega, sia combattendo personalmente, o per interposta persona. con le città lombarde, sia difendendone qualcuna. Non procureremo a lui, o alla sua parte, danno o imposizione, né direttamente, né per interposta persona, a causa delle passate offese.
23) In più, senza la nostra opposizione e quella dei nostri successori i Milanesi abbiano e posseggano liberamente e pacificamente la giurisdizione che erano soliti esercitare e che ora esercitano nei comitati del Seprio, della Marciana e della Bulgaria ed in altri comitati, eccettuati i luoghi che i Bergamaschi ora tengono in modo indiviso tra l'Adda e l'Oglio, eccetto Romano Vecchio e Bariano, fatti salvi e mantenuti in vigore i patti, le donazioni e le concessioni che i medesimi Milanesi in comune fecero alle città di Bergamo, Novara e Lodi; e per questa concessione quei patti non devono essere lesi.
24) A causa di queste concessioni, non sia acquisito alcun diritto a danno di qualche città della Lega, né alcuna di esse veda lesi i suoi diritti e le sue consuetudini.
25) I patti un tempo sottoscritti fra le città della Lega restino in vigore e siano validi.
26) Né a causa di queste concessioni si pensi che sia stato acquisito qualcosa dai Milanesi nell'episcopato di Lodi, salvo il diritto di Milano sulle acque del Lambro, se lo possiede, e salvo il diritto sul pedaggio.
27) Tutti gli aderenti alla Lega, che giureranno fedeltà a Noi, aggiungeranno nel testo del giuramento di aiutarci in buona fede a mantenere, se sarà necessario e se Noi o un nostro sicuro rappresentante lo richiederemo, i possessi e i diritti che Noi abbiamo e possediamo in Lombardia indipendentemente dalla Lega. E giureranno di ricuperarli qualora li perdessimo; ciò avverrà in modo che le città più vicine siano in primo luogo obbligate a farlo e, se sarà necessario, le altre siano tenute a fornire un adeguato aiuto. Si comporteranno in modo simile entro i loro confini anche le città della Lega che si trovano fuori dalla Lombardia.
28) Se una delle città non avrà osservato i patti che in questo accordo di pace sono stati stabiliti da Noi, le altre in buona fede la obblighino a rispettarli e la pace continui ad avere la sua validità.
29) Tutti coloro che sono soliti dare e che debbono fornire (quando sono soliti farlo e lo debbono fare) il consueto regio fodro a Noi, quando scendiamo in Lombardia, saranno tenuti a versarlo. Essi ripareranno le strade e i ponti in buona fede e senza frode, nonché in modo accettabile, sia nel viaggio di andata, sia in quello di ritorno. Forniranno a Noi e ai nostri seguaci, nell'andare e nel tornare, la possibilità di un sufficiente approvvigionamento di viveri e ciò in buona fede e senza alcuna frode.
30) Se Noi lo richiederemo, direttamente o per mezzo di un nostro rappresentante, le Città rinnoveranno i giuramenti di fedeltà per quelle cose che non avranno ottemperato nei nostri confronti.
31) Se alcuni, appartenenti al nostro partito, sono stati scacciati dai loro legittimi possessi questi siano a loro restituiti senza il pagamento degli interessi e dei danno arrecato, a meno che il possessore non si difenda esibendo il diritto di proprietà o affermando di essere il principale possessore, fatte salve tutte le precedenti concessioni. Infine tutte le offese siano a loro perdonate. Si curerà di salvaguardare il medesimo diritto, relativo alla restituzione, verso coloro che appartengono al nostro partito, a meno che la città sia obbligata da un giuramento di non restituzione, nel qual caso vogliamo che la possibilità della retrocessione sia decisa dall'arbitrato di uomini probi.
...................
Questi sono i luoghi e le città che ricevettero insieme a Noi, previo giuramento dei Lombardi, la predetta Pace ed essi giurarono di osservarla: Pavia, Cremona, Como, Tortona, Asti, Cesarea (Alessandria), Genova, Alba, e altre i città, luoghi e persone che appartennero e appartengono al nostro partito.
Questi sono i nomi dei rappresentanti che, ricevettero da Noi, a nome delle città, l'investitura del consolato: da Milano, Adobato; da Piacenza, Gerardo Ardizzoni; da Lodi Vincenzo; da Verona, Cozio; da Vicenza, Pilio; da Padova Gnaffo; da Treviso, Florio; da Mantova, Alessandrino; da Faenza, Bernardo; da Bologna, Antonino; da Modena, Arlotto; da Reggio, Rolando; da Parma, Giacomo di Pietro Bave; da Novara, Opizzo; da Vercelli Medardo; da Berrgamo, Attone Ficiano.
(Il testo qui riportato è pubblicato in «Monumenta Germaniae Historica», Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, I, a cura di L. WEILAND, Hannover-Leipzig, 1893, n. 293.
La traduzione è quella data dal Vignati nella Storia diplomatica della Lega Lombarda, cit., pp. 375-381.
La pace di Costanza (1183)
La pace di Costanza concluse a sette anni dalla battaglia di Legnano un trentennio di guerre e di attività diplomatiche fra le città e l’Impero. Durante questo periodo i comuni avevano messo a dura prova il loro sistema di governo che era stato collaudato dalle necessità della guerra.
Con la pace di Costanza i comuni acquisivano – dietro il pagamento di un canone annuo – il godimento delle regalìe, su cui si erano accese le dispute fin dalla seconda dieta di Roncaglia (1158) e che avevano dato origine alla guerra. Le regalìe – cioè i diritti regi – comprendevano anche la libertà di eleggere i propri magistrati per l’amministrazione della giustizia e per reggere gli organi comunali.
Inoltre con la pace di Costanza le città potevano mantenere la Lega e concludere quelle altre alleanze che avessero ritenuto opportuno; potevano intervenire sulle opere di fortificazione della città e infine ottenevano anche il riconoscimento delle leggi locali che a poco a poco avevano cominciato a formulare, e venivano così inserite nelle strutture giuridiche dell’Impero.
L’Impero conseguiva anch’esso notevoli vantaggi dalla pace, poiché i comuni, con il pagamento del canone annuo e del fodro – cioè una tassa che veniva applicata ogni volta che l’imperatore veniva in Italia per il mantenimento suo e del suo seguito –, ne riconoscevano l'autorità e in tal modo veniva restaurata la legalità che la lunga lotta era stata sul punto di spezzare.
Oltre alla bibliografia citata nelle testimonianze 28 e 29, cf. W. LENEL, Der Konstanzer Friede von 1183 und die italienische Politik Friedrichs I, in «Historische Zeitschrift», vol. 128, 1923; M. KAUFMANN, Die Italienische Politik Friedrichs I nach dem Frieden von Konstanz, Greisfwald, 1936; P. BREZZI, Le relazioni tra i Comuni italiani e l'impero, in «Questioni di storia medievale», Milano, 1946.
In nomine sancte et individue Trinitatis, Fridericus divina favente clementia Romanorum imperator augustus et Henricus sextus filius eius Romanorum rex augustus… Ea propter cognoscat universitas fidelium imperii tam presentis etatis quam successure posteritatis, quod nos solita benignitatis nostre gratia ad fidem et devotionem Lombardorum, qui aliquando nos et imperium nostrum offenderant, viscera nobis innate pietatis aperientes, eos et societatem ac fautores eorum in plenitudinem gratie nostre recepimus, offensas omnes et culpas, quibus nos ad indignationem provocaverant, clementer eis remittentes eosque propter fidelia devotionis sue servitia, que nos ad eis credimus certissime recepturos, in numero dilectorum fìdelium nostrorum computandos censemus. Pacem itaque nostram, quam eis clementer indultam concessimus, presenti pagina iussimus subterscribi et auctoritatis nostre sigillo communiri.
Cuius hic est tenor et series:
Nos Romanorum imperator Fridericus et fìlius noster Henricus Romanorum rex concedimus vobis civitatibus, locis et personis societatis regalia et consuetudines vestras tam in civitate quam extra civitatem… in perpetuum, videlicet ut in ipsa civitate omnia habeatis, sicut hactenus habuistis vel habetis; extra vero omnes consuetudines sine contradictione excerceatis, quas ab antiquo exercuistis vel exercetis: scilicet in fodro et nemoribus et pascuis et pontibus, aquis et molendinis, sicut ab antiquo habere consuevistis vel habetis, in exercitu, in munitionibus civitatum, in iurisdictione, tam in criminalibus causis quam in pecuniariis, intus et extra, et in ceteris que ad commoditatem spectant civitatum…
In civitate illa, in qua episcopus per privilegium imperatoris vel regis comitatum habet, si consules per ipsum episcopum consulatum recipere solent ab ipso recipiant, sicut recipere consueverunt; alioquin unaqueque civitas a nobis consulatum recipiet. Consequenter, prout in singulis civitatibus consules constituentur a nuntio nostro, qui sit in civitate vel episcopatu, investituram recipient, et hoc usque ad quinquennium. Finito quinquennio unaqueque civitas mittat nuntium ad nostram presentiam pro recipienda investitura, et sic in posterum, videlicet ut finitis singulis quinquenniis a nobis recipiant et infra quinquennia a nuntio nostro, sicut dictum est, nisi in Lombardia fuerimus. Tunc enim e nobis recipient. Eadem observentur in successore nostro. Et omnes investiture gratis fìant…
Cum autem nos imperator divina vocatione decesserimus vel regnum filio nostro concesserimus, simili modo a filio nostro vel eius successore investituram recipietis.
In causis appellationum si quantitas XXV libras imperialium excesserit, appellatio ad nos fiat… sed nos habebimus proprium nuntium in civitate vel episcopatu, qui de ipsa appellatione cognoscat et iuret, quod bona fide causas examinabit et diffiniet secundum mores et leges illius civitatis infra duos menses a contestatione litis vel a tempore appellationibus recepte, nisi iusto impedimento vel consensu utriusque partis remanserit…
Moram superfluam in civitate vel episcopatu pro damno civitatis non faciemus.
Civitates munire et extra munitiones eis facere liceat.
Item societatem, quam nunc habent, tenere et, quotiens voluerint, renovare eis liceat…
Possessiones, quas quisquis de societate ante tempus guerre iuste tenebat, si per vim ablate sunt ab his qui non sunt de societate, sine fructibus et dampno restituantur; vel si eas recuperaverit, quiete possideat, nisi per electos arbitros ad cognitionem regalium nobis assignentur…
Omnes de societate, qui fidelitatem nobis iurabunt, in sacramento fidelitatis adicient, quod possessiones et iura, que nos in Lombardia habemus et possidemus extra societatem, iuvabunt nos bona fide manutenere, si opus fuerit et super hoc per nos vel certum nuntium nostrum requisiti fuerint, et si amiserimus, recuperare; ita videlicet quod finitime civitates obnoxie sint principaliter ad hoc faciendum, et si opus fuerit, alie teneantur ad competens auxilium prestandum. Civitates de societate que sunt extra Lombardiam in suo confinio similiter teneantur facere.
Si qua vero civitatum ea, que in conventione pacis ex parte nostra statuta sunt, non observaverit, cetere civitates eam ad id observandum bona fide compellent, pace nichilominus in suo robore permanente.
Nobis intrantibus in Lombardiam fodrum consuetum et regale qui solent et debent et quando solent et debent prestabunt. Et vias et pontes bona fide et sine fraude et sufficienter reficient in eundo et redeundo. Mercatum sufficiens nobis et nostris euntibus et redeuntibus bona fide et sine fraude prestabunt.
In omni decimo anno fidelitates renovabunt in his qui nobis non fecerint, cum nos petierimus vel per nos pel nostrum nuntium…
[In nome della santa individua Trinità. Federico per divina clemenza Imperatore dei Romani Augusto e suo figlio Enrico Re dei Romani Augusto…
E però sappiano tutti i fedeli dell'Impero presenti e futuri, che noi per consueta benignità della nostra grazia, aprendo le viscere della nostra innata pietà alla fede ed all'ossequio dei Lombardi, i quali s'erano levati contro di noi e dell'Impero, li abbiamo ricevuti nella nostra grazia colla Società loro ed i loro fautori; che noi clementi condoniamo loro tutte le offese e le colpe colle quali avevano provocata la nostra indignazione, e che, avuto riguardo ai servigi di leale affetto che noi speriamo da loro, giudichiamo di annoverarli tra i nostri diletti e fedeli sudditi.
Per tanto abbiamo comandato di sottoscrivere e di confermare col sigillo della nostra autorità la pace che nella presente pagina abbiamo loro benignamente accordata. Tale ne è il tenore e la serie.
Noi Federico imperatore dei Romani ed il nostro figlio Enrico re dei Romani concediamo a voi città, terre e persone della Lega le regalìe e le consuetudini vostre tanto in città che fuori…
Che nella città abbiate ogni cosa come avete avuto sin qui ed avete, fuori poi esercitiate senza nostra contraddizione tutte le consuetudini come avete sino ad oggi esercitate.
Ciò sul fodro, sui boschi, sui pascoli, sui ponti, sulle acque e molini come usaste ab antico o fate ora nel formare esercito, nelle fortificazioni delle città, nella giurisdizione, così nelle cause criminali come pecuniarie entro e fuori, ed in tutte l'altre cose che appartengono agli utili delle città…
In quella città dove il vescovo ha giurisdizione di conte per privilegio imperiale o reale, se i consoli sogliono ricevere l'investitura della loro carica dal vescovo, continuino quell'uso. In caso diverso ciascuna città riceverà da noi il consolato, ed ogni volta che in alcuna città siano costituiti i consoli riceveranno l'investitura dal nostro nunzio che sarà nella città o nella diocesi.
Ciò vale per un quinquennio, finito il quale ciascuna città mandi un nunzio a ricevere l'investitura da noi, e così di seguito in modo che ogni quinquennio ricevano l'investitura da noi o dal nostro nunzio, se non fossimo noi in Lombardia, perché allora da noi la devono ricevere. Quest'ordine sia osservato col nostro successore, e tutte le investiture devono farsi gratuitamente… Dopo che fossimo morti od avessimo ceduto il regno a nostro figlio, da lui o dal suo successore riceverete le investiture.
Si faccia appello a noi nelle cause che sorpassano la somma di venticinque lire… pure nessuno deve essere costretto ad andare in Germania, ma noi avremo un nostro nunzio nella città o diocesi che conosca degli appelli e giuri che in buona fede esaminerà e definirà le cause secondo i costumi e le leggi di quella città, ed entro due mesi dalla contestazione della lite, cioè dal tempo che ricevette la causa, se non rimanga per giusto impedimento o per consenso delle parti… Non faremo dimora non necessaria nelle città e nelle diocesi a danno di nessuna città.
Sia lecito alle città di fortificarsi e fare fortilizii anche fuori.
E potranno conservare la Lega che ora hanno, e revocarla quando loro piaccia…
Quei possessi che qualsiasi della Lega teneva legittimamente prima del tempo della guerra, e che furono violentemente rapiti da quelli che non sono della Lega, siano restituiti senza compenso di frutti e danni, e se vennero ricuperati non ne sia inquietato il possessore, ad eccezione che gli arbitri eletti al riconoscimento delle regalìe non li assegnino a noi…
Tutti quelli della Lega che ci giureranno fedeltà aggiungeranno fedelmente nel giuramento, che ci aiuteranno a mantenere i possedimenti e diritti che abbiamo e teniamo in Lombardia fuori della Lega, ed a ricuperarli se li avessimo perduti, e ciò se sarà necessario, e saranno richiesti da noi per mezzo di un nostro messo sicuro. Con tale ordine, però, che le città più vicine al luogo dove occorre l'aiuto sieno le prime obbligate a prestarlo, le altre all'uopo mandino competente soccorso. Le città della Lega fuori di Lombardia abbiano il medesimo obbligo nei loro confini.
Se qualche città non osserverà quelle cose che nella convenzione di pace furono convenute a nostro favore, sarà costretta in buona fede all'osservanza dalle altre città, e, ciò non ostante, la pace resterà nel suo pieno vigore.
Quando noi entreremo in Lombardia quegli che sogliono e devono ci daranno nel tempo che sogliono e devono il consueto fodro reale, e ci riatteranno sufficientemente le vie, e ci appresteranno sufficiente vettovaglia in buona fede e senza frode per l'andata e il ritorno.
Richiedendolo noi o direttamente o per nostri nunzii ci rinnoveranno ogni dieci anni le fedeltà per quelle cose che non ci avessero fatte…].
Segno di Federico. Invittissimo imperatore dei Romani.
Io Gotifredo cancelliere dell'aula imperiale a vece di Cristiano arcivescovo della sede di Magonza e arcicancelliere della Germania, ho riconosciuto.
Questo documento è stato fatto nell'anno dell'Incarnazione del Signore MCLXXXIII, indizione I, regnante Federico, gloriosissimo imperatore dei Romani nell'anno XXXII del suo regno e XXVIIII del suo impero.
E' stato felicemente dato presso Costanza nella solenne Curia imperiale, il giorno 25 giugno. Amen.
Concetto di nobilta' di Federico II ...........................Il rigido concetto di nobilta' di Federico II ........Errico Cuozzo .......Federiciana 2005 La nobiltà, alla quale si accedeva per diritto di nascita, portò al consolidamento di un ceto aristocratico che traeva dal possesso della terra a titolo feudale e dall'esercizio delle connesse potestà i mezzi necessari per esercitare la militia.
Federico era consapevole di ciò. Ecco perché a partire dal 1221, per potere rafforzare la sua autorità nel Regno, procedette alla revisione di tutti i titoli di possesso relativi ai beni e ai privilegi feudali e, dopo avere fatto demolire, ovvero devolvere al demanio, le fortezze e i castelli costruiti abusivamente, disciplinò tutta la complessa materia feudale.
Egli iniziò col provvedere a ridefinire il servizio militare dovuto dai singoli feudi, per poter così ricostruire l'esercito regio. Ripristinata la distinzione normanna tra feuda integra e feuda non integra, fissò in 20 once d'oro la rendita annua di un feudo integro e, sulla base di questo rapporto, rese possibile la commutazione del servizio militare dovuto per un feudo con un versamento in denaro proporzionato alla consistenza del feudo posseduto (adohamentum). La lacunosa documentazione di cui si dispone ci impedisce di cogliere nei particolari l'attuazione di questo importante provvedimento che, liberando i feudatari dall'obbligo di prestare, necessariamente attraverso l'invio di cavalieri e di uomini armati all'esercito del re, il servizio militare dovuto per i propri feudi, pose le premesse per cancellare quella connotazione squisitamente militare che re Ruggero II d'Altavilla aveva attribuito alla feudalità del Regno. Di questa riforma fridericiana abbiamo soltanto delle prove indirette.
Innanzitutto la testimonianza di Andrea d'Isernia, che ricorda come "a principio enim statutum fuit quod feudum esset integrum, scilicet de viginti unciis" (Peregrina lectura. Commentarium in Constitutiones Regni Utriusque Siciliae […], a cura di G. Sarayna, Lugduni 1568, p. 223).
Poi un ordine dell'imperatore, forse da datare al 1236, che si legge tra le Epistolae di Pier della Vigna. Federico, nel prescrivere alle città demaniali e ai feudatari del Regno di Sicilia la contribuzione dovuta per la guerra che si accingeva a intraprendere in Lombardia, afferma che egli ha coscientemente adottato una soluzione diversa da quella dei re normanni, suoi predecessori. Mentre costoro hanno quasi reso disa-bitato il Regno a causa delle innumerevoli spedizioni intraprese in Africa e nelle altre regioni, egli, che può contare sugli uomini forniti dalla Germania ("multas enim nobis personas Germania germinat"; Historia diplomatica, III, p. 930), dispensa i regnicoli dal servire personalmente nell'esercito regio e commuta quest'obbligo nel versamento di una somma di denaro.
Nobilta romana......................................................Nobilta' romana nel medioevo di Sandro Carocci TORNO A RICORDARE : Famiglia e lignaggio: l’aristocrazia in Italia
a cura di Marco Bettotti [versione 1.2 - novembre 2004] per Reti medievali
.................. stabilirono giuridicamente la propria disuguaglianza rispetto agli altri.
......Il termine nobilis, concordemente con il suo etimo, significa “ben conosciuto” oppure “che tutti conoscono”, ma nell’uso storiografico è invalsa la distinzione fra “aristocrazia” e “nobiltà”, cioè fra una “nobiltà di fatto” e una “nobiltà di diritto”, conseguenza di un processo di chiusura per cui i ceti preminenti ad un certo punto della loro evoluzione stabilirono giuridicamente la propria disuguaglianza rispetto agli altri. Sebbene quindi già il mondo antico ci abbia trasmesso i concetti di nobilis e nobilitas, per l’alto medioevo i termini aristocrazia e nobiltà non si possono usare indifferentemente. In questa scheda si fa tuttavia prevalente riferimento ad un’età successiva ai secoli X e XI, quando le aristocrazie avevano già conseguito una ben chiara caratterizzazione sociale, ponendo fine ad un lungo periodo dominato dal disfarsi e riformarsi di sempre nuove élites e dando origine a lignaggi dinasticamente definiti e destinati a durare per più generazioni. Si usa quindi “aristocrazia” nel titolo e altrove, ma ripetutamente “nobiltà” in più punti del testo: si tratta di una interscambiabilità che ha precise origini storiografiche.
E' in cio' che s'intende per nobile la grande differenza tra i due tipi ideologici Il concetto oltralpe sfocia in una sorta di condanna : gli uomini non sono tutti uguali e la diversita' e' legata alla nascita concetto che chidera' la rivoluzione francese e tutte le altre che verranno in futuro per essere sradicato La dottoressa Silvia Diacciati ha approfondito il fenomeno popolare del XIII secolo nel suo libro : e' un libro che inquadra la storia del duecento fiorentino ( il secolo della grande affermazione fiorentina in Toscana ) Tenta un inquadramento prosopografico delle famiglie di popolani grassi che si avviano a divenire protagoniste del XIV secolo Un libro importante quindi anche per la storia di famiglia perche' emergono le origini delle famiglie di popolo fiorentine slegandole da origini fantastiche basandosi le considerazioni sulla documentazione archivistica Se Enrico Faini ci ha dato un quadro del XII secolo e degli inizi del XIII secolo Silvia Diacciati accende una luce su il periodo del "Primo Popolo" quei 10 anni fondamentali che vanno dal 1250 al 1260 Anni che trovano le loro premesse in quell'accumulo di denaro nella Citta' e in una parte della sua popolazione
Arricchimento di cui il Faini trova tracce gia nel 1080 ; Arricchimento destinato a sovvertire i rapporti di forza all'interno della struttura comunale con la perdita progressiva di privilegi fiscali e legali da parte dei "Milites" Interessante in molti punti e' l'analisi della dottoressa Silvia Diacciati che esamina buona parte del duecento fiorentino IDEOLOGIA POPOLARE La dottoressa Diacciati mette anche in risalto e spiega anche un concetto fondamentale : " l'ideologia popolare del periodo " un presupposto sociale che si radichera' fortemente nella societa' fiorentina fino a divenire una specie di" tabu' " sociale che continuera' a impregnare la cultura fiorentina fino all'avvento dei Medici al potere nel 1434 quando questi inizieranno a disgregare questo importante principio Non si puo' comprendere la storia di Firenze dei secoli futuri se non si comprende quanto fosse conculcata in ognuno questa ideologia Che sara' quindi un retaggio profondo Ideologia popolare che sta alla base della cultura fiorentina e rinascimentale degli anni a venire Ideologia popolare che comune alle altre realta' fara' dell'Italia comunale un esperienza del tutto particolare in Europa dove la stretta del feudalesimo mantiene una stretta sul sistema istituzionale Ideologia popolare di una modernita' sconvolgente , un fiore con un anticipazione del capitalismo moderno Che si spegne soffocata dal proprio campanilismo scontrandosi col mondo europeo ancora feudale ma avanzato istituzionalmente con la formazione degli stati nazionali Permeato di questa ideologia e' Brunetto Latini IN LAVORAZIONE ................................IN LAVORAZIONE..............................IN LAVORAZIONE
(Villani, Nuova Cronica, Libro IX, cap. X): «Nel detto anno MCCLXXXXIIII morì in Firenze uno valente cittadino il quale ebbe nome ser Brunetto Latini, il quale fu gran filosafo, e fue sommo maestro in rettorica, tanto in bene sapere dire come in bene dittare. E fu quegli che spuose la Rettorica di Tulio, e fece il buono e utile libro detto Tesoro, e il Tesoretto, e la Chiave del Tesoro, e più altri libri in filosofia, e de’ vizi e di virtù, e fu dittatore del nostro Comune. Fu mondano uomo, ma di lui avemo fatta menzione però ch’egli fue cominciatore e maestro in digrossare i Fiorentini, e farli scorti in bene parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la Politica». De bono communi
Istituzioni duecentesche Memorie di un magnate impenitente Neri degli Strinati
LE RIVOLTE OPERAIE DEL TRECENTO SONO SEMPRE STATE SCARSAMENTE STUDIATE MA ESSE ANTICIPAVANO DI CINQUECENTO ANNI LA PRESA DI COSCIENZA ALMENO DI UN MALESSERE SE NON IL TENTATIVO DI UN CAMBIAMENTO SOCIALE ED ANCHE IN QUESTA OCCASIONE LA CHIESA FU LA QUINTA COLONNA : IL VERME DENTRO LA MELA
PERCHE' NAUFRAGARONO QUESTI TENTATIVI DI DEMOCRAZIA FATTI CON CINQUECENTO ANNI DI ANTICIPO
Da parte mia penso non sia condivisibile pensare ad una Firenze con 5/6.000 abitanti nel 1150
LE MURA E L' INCREMENTO DEMOGRAFICO
Non mi pare che nessuno abbia mai utilizzato come indice la superfice utilizzata Le mura completate nel 1173 portano l'area a disposizione a circa 3 volte quella di prima . La città raggiunse così una superficie di circa 75 ettari contro i 24 della città romana. Se le circa 90-100.000 persone ipotizzate ai primi del trecento rendevano brulicante la citta voleva dire che questa era stata costruita per circa 90-100.000 abitanti E' probabile che nel 1173 si potesse parlare gia' di circa 30.000--40.000 persone, considerando che le case si estendevano ampiamente nel terreno fuori dalle mura ed oltrarno
La costruzione delle mura ( di un perimetro difensivo ) poneva dei problemi economici per la popolazione e strategici per la loro difesa Le case fuori dalle mura ma vicine ad esse potevano diventare un problema in vista di un assedio ...................
GUERRA E TESSUTO SOCIALE
Non si puo' prescindere quando si esamina il tessuto sociale della Firenze dei secoli X, XI,XII,XIII dalle necessita' della guerra Guerra che era una presenza continua nella vita del tempo Il Comune doveva organizzazzare uno stabile esercito con le sue forze ( non siamo ancora in grado a livello comunale di parlare di milizie mercenarie ) Esercito basato su una cavalleria sufficientemente specializzata formato dagli appartenenti alle famiglie piu' importanti e su una fanteria sicuramente meno specializzata formata dalla massa popolare Vedi : PHILIPPE CONTAMINE LA GUERRA NEL MEDIOEVO
La guerra in questo periodo richiedeva l'esistenza di una casta che poteva permettersi di dedicarsi quasi prevalentemente alle armi
La massa popolare era formata da artigiani , da una nuova categoria sociale quella dei mercanti che si stava espandendo come numero e iniziava a disporre di una frazione sempre piu' importante della ricchezza cittadina . , da un gran numero di lavoratori dipendenti
Ora risorgono i traffici Il risorgere dei traffici porta allo scontro tra il Comune e i signori dei castelli che rappresentano un ostacolo I signori dei castelli cercano di controllare i transiti ed imporre dazi e ruberie sulle merci Lo scontro provoca la rarefazione dei signori del contado Guidi , Alberti , Cadolingi ,Ubaldini , Pazzi della Valdarno.............
Ai nomi del Davidson , del Villari , del Santini , della De Rosa che hanno aperto la pista allo studio dei primordi fiorentini va aggiunta ora l'opera di Enrico Faini
Infatti importantissimi direi irrinunciabili per un'amante della storia sono gli attuali studi del dottor Enrico Faini
Trovo insomma alta la capacita' del dr Faini di esaminare i manoscritti sotto molte angolature di utilizzarne e padroneggiarne i dettagli e di farne emergere molti dettagli nascosti di scrutarli , di compararli in modo da trarne conclusioni che vanno ben oltre il singolo documento ma aprono ad una visione d'insieme
Enrico Faini, Firenzenell’età romanica (1000-1211). L’espansione urbana, lo sviluppo istituzionale, il rapporto con il territorio ,Firenze, 2010.
complemento alla lettura del volume
Uomini e famiglie nella Firenze consolare : http://eprints.unifi.it/archive/00001977/01/11-Faini.pdfEd ancora una serie di monografie
Enrico Faini ............." Il gruppo dirigente fiorentino dell’età consolare" Enrico Faini ............." Firenze al tempo di Semifonte " Enrico Faini ".........." Il ceto dirigente fiorentino in età protocomunale ( fine XI-inizio XIII secolo" )
ed anche lo studio sempre del dr Faini sulle origine delle famiglie fiorentine della cerchia consolare
Relativamente ai primi anni della vita comunale ci sono pochissime notizie : pochi sono i documenti a cui appoggiare le ipotesi, con tutto cio' i dati ricavati daEnrico Faini sono estremamente importanti
........Una parte notevole ( circa la meta' ) di quella che si usa chiamare aristocrazia consolare appariva per la prima volta nei documenti di compravendite a ridosso del primo incarico comunale ricoperto, quindi ben dopo la meta' del secolo XII . In un articolo che condensava i risultati di quella ricerca mi chiedevo quale fosse il motivo, la forza( sottintendevo : la forza economica ) che aveva spinto in cosi poco tempo tante famiglie dal vuoto documentario al governo del Comune...........................Se le pergamene ci parlano quasi solo di terra e se nelle pergamene c'e' poca aristocrazia consolare , allora sono possibili due ipotesi o il livello sociale dei consoli era basso ( e mi pare , tutto sommato , poco probabile ) oppure la loro ricchezza aveva un origine diversa rispetto alla terra . L'investimento fondiario fu evidentemente il punto di arrivo dell'ascesa sociale non ne costitui la base Non solo collocandosi cosi a ridosso del primo incarico comunale, e rimanendo spesso piuttosto isolato , l'investimento fondiario dovette rappresentare a lungo , anche nel momento di massima fortuna politica di certe famiglie una componente minoritaria delle loro attivita' economiche ............................................ Nasceva l'esigenza di fare
La societa' fiorentina cambia radicalmente a cavallo dei secoli XI e XII
In tempi diversi le cronache di Ricordano Malispini e di Dino Compagni sono state messe in odore di falso Le accuse sono cadute , anche se ancora alcuni esprimono dei sospetti
UNA PREMESSA : manipolazioni delle fonti
Vorrei condividere con voi il piacere di leggere questi due saggi ; il saggio del dr Enrico Faini abbinato al saggio del dr Amedeo De Vincentiis mette in evidenza come alterare la storia sia un metodo utilizzato da sempre e la incredibile sottigliezza di calcolo negli " ingenui " cronisti duecenteschi e trecenteschi http://eprints.unifi.it/archive/00000978/02/01_SdF_1_2006_Faini_saggi.pdf anche : T. Maissen, Attila, Totila e Carlo Magno fra Dante, Villani, Boccaccio e Malispini. Per la genesi di due leggende erudite, in Archivio storico italiano, 152, 1994, p. 621. La ricerca dimostra in modo convincente che Giovanni Villani inventò l’episodio della rifondazione di Firenze da parte di Carlomagno, che inserì tale episodio nel libro IV della cronaca attorno al 1333, che l’episodio venne inventato dal cronista in relazione al legame tra i principi angioni (in particolare Carlo di Calabria) e Firenze. V. anche Id., Von der Legende zum Modell: das Interesse an Frankreichs Vergangeheit während der italienischen Renaissance, Basilea- Francoforte, 1994. Da notare l'acutezza del Villani nella falsificazione mediante l' utilizzo di personaggi realmente vissuti fatti agire in modo da dare maggior credibilita' all'invenzione
ENEA SILVIO PICCOLOMINI ------------------------------------------------------------------------------------------- Il saggio della dr.ssa Roberta Mucciarelli ci mostra invece la creazione
Dal cinquecento in poi e' stato uso di molti genealogisti alterare i dati della ricerca.
Gamurrini Eugenio, Istoria genealogica delle famiglie nobili toscane et umbre (Firenze, 1668-85). Voll. 5 in-8 gr., pp. 2526, ill. n.t. e alberi genealogici, tela ristampa anastatica Arnaldo Forni editore Bologna Ammirato Scipione, Delle famiglie nobili fiorentine (Firenze, 1615). In-4, pp. 232, con 13 alberi genealogici, ristampa anastatica Arnaldo Forni editore Bologna
Talvolta e' addirittura accaduto che genealogisti professionisti abbiano creato falsi documenti ( creandoli ex novo o alterandoli ) o distrutto documenti E' evidente che chi faceva quel lavoro doveva dare soddisfazione a chi pagava . Un genealogista troppo rigido rischiava di non aver clientela I vari Spreti Crollalanza Litta Passerini trattando centinaia di famiglie e non potendo davvero controllarle una per una sui documenti di archivio hanno fatto talvolta da cassa di risonanza ad alcuni falsi genealogici avvallandoli con la loro autorita' di studiosi del settore Suppongo poi che le commissioni nobiliari non abbiano fatto di meglio E' presumibile quindi che alcuni alberi genealogici di pubblica fama siano in parte fasulli utilizzando anelli mancanti la dove abbisognava ----------------------------------------------------------------
la Tesi di Laurea del Faini : Il ceto dirigente fiorentino in età protocomunale (fine XI-inizio XIII secolo) ......Cercheremo di mettere in relazione i vari aspetti proposti dalla nostra griglia con i diversi momenti di avvento al governo comunale delle varie famiglie. Elaboreremo quindi una scansione del periodo da noi preso in considerazione (1172 - 1211) per verificare eventuali allargamenti del ceto dirigente o ricambi al vertice mettendoli in relazione con gli eventi della politica estera o con i mutamenti politico-istituzionali interni al Comune. Tenteremo infine di allargare la base documentaria per lo studio della composizione del personale dirigente cittadino e della sua azione (particolarmente quella giudiziaria) fino ad adesso fornita esclusivamente dalla raccolta di Pietro Santini (Documenti dell’antica costituzione del Comune di Firenze) vecchia ormai di più di un secolo.........
il dr Faini prova a descrivere l'evoluzione sociale ed economica della societa' e l'evoluzione politica L'esercito cittadino e la sua composizione l'importanza di gente abituata all'uso delle armi
Lo studio del dr Faini descrive il ceto dirigente fiorentino , l'esperimento consolare e l'esperimento podestarile Esperimento che tenta di mettere fine alle lotte tra famiglie del ceto dirigente per mezzo di una figura estranea e super partes La societa' dei militi la societa dei pedites il mondo delle Arti
Gli studi del Faini terminano la dove iniziano gli studi della dottoressa Daniela De Rosa e quelli successivi di Silvia Diacciati Nel frattempo la citta' ha assunto piu' chiaramente una connotazione mercantile
UNA IMPORTANTE CRONICHETTA : Cronica dello Pseudo Brunetto Latini
la cronichetta che va sotto il nome di Cronica dello Pseudo Brunetto Latini e' la principale fonte per i nomi dei consoli Ha una certa attendibilita' Infatti gli individui citati nella cronaca paiono essere individui che i documenti coevi mostrano appartenere al ceto dirigente fiorentino Qualcuno la attribui a Brunetto Latini il giurista maestro anche di Dante , da qui il nome ( il Santini porta argomenti contrari e abbastanza solidi a questa attribuzione)
La cronaca esiste in un abbozzo autografo , mutilo di tutta la parte piu' antica ( fino al 1080 ) e in una copia del secolo XV invece completa L'autore viveva , com'egli fa sapere , nel 1293 ; e il lavoro suo giunge fino al 1297, pur esistendo infine del codice originale un breve paragrafo , aggiunto da altra mano del 1303 E' stata fatta una minuta analisi di questa cronaca da Pasquale Villari, che ha pubblicato per intero il codice autografo ,( vedi Pasquale Villari "I primi due secoli della storia di Firenze " 1883 Sansoni editore Firenze) con l'aggiunta in principio delle poche notizie fiorentine e toscane che esistevano nella parte mancante dello originale , e sono state desunte dalla suddetta copia del secolo XV Anche Santini fa un acuta disanima di questa cronaca ( Quesiti e ricerche di storiografia fiorentina nel libro edito da Multigrafica editrice Roma 1972 : studi sull'antica costituzione del Comune di Firenze ) pur non trascrivendola dice : Debbono essere distinte in questo lavoro due parti , essenzialmente diverse tra loro . La seconda , che va dal 1285 al 1297 , ha carattere di maggiore originalita', perche' la storia generale ne e' parte secondaria ed e' fusa in un solo corpo con le notizie di storia fiorentina e toscana che prevalgono. Sicche' giustamente il Villari ha supposto che l'autore della cronaca abbia cominciato il lavoro appunto dal 1285 in poi per gli avvenimenti del tempo suo ; e l'abbia poi completato con quel che precede , cioe' con la prima parte dell'autografo Invero questa parte conserva ancora tutto il carattere di una prima minuta , essendo in essa staccate affatto tra loro le varie fonti : trascritte cioe sulla carta le une vicine alle altre in ordine cronologico , per servir poi a una piu' ordinata compilazione qual'e' quella della seconda parte. Ma al compimento del lavoro manco' all'autore la volonta' o la vita; tanto che la prima parte non solo rimase divisa e disordinata , com'e' nell'abbozzo , ma non fu neppure finita , perche' non va oltre il 1249: rimane quindi una lacuna fra questo anno e il 1285
ALCUNI STUDI
da: Storia d'Europa dalle
invasioni al XVI secolo, Firenze, 1956. Paragonata al resto dell'Europa occidentale, l'Italia si caratterizza, dopo l'XI secolo, come la terra delle città. In nessun luogo sono così numerose e così attive, ed in nessun luogo hanno un'importanza così preponderante. A nord delle Alpi, anche nelle regioni dove esse sono più sviluppate, come nella Fiandra e nei Paesi Bassi, esse sono ben lungi dal dominare tutto il movimento sociale; la nobiltà e le classi rurali conservano accanto ad esse la loro esistenza indipendente ed i loro interessi particolari. In Italia tutto è sottoposto alla loro azione o vi concorre. La popolazione rurale è sottomessa e non lavora che per esse; la nobiltà vi possiede i suoi «palazzi» merlati e sormontati da torri, il cui aspetto contrasta tanto violentemente con i castelli dei baroni del nord sparsi nella campagna, quanto l'esistenza dei loro abitanti con quella della cavalleria settentrionale. Occorre senza dubbio attribuire questa concentrazione sociale nelle città al permanere della tradizione antica. L'organizzazione municipale romana si era troppo profondamente radicata in Italia, vi aveva troppo riunito ed ammassato il popolo intorno alle città perché, al momento in cui queste si risvegliarono sotto la spinta del commercio, non riprendessero subito una posizione del tutto dominante. La vita municipale ritorna dunque così preponderante nella Lombardia e in Toscana come lo era stata nell'antichità. Ma se le condizioni materiali sono presso a poco le stesse, lo spirito è mutato. Il municipio romano non godeva di un'autonomia locale subordinata alla potenza formidabile dello Stato. La città. italiana del Medioevo, nel nord e nel centro della penisola, per lo meno, è una repubblica. Dall'XI secolo, la classe mercantile e industriale che comincia a formarsi trae vantaggio dal conflitto ira il papa e l'imperatore, per sollevarsi contro i vescovi e strappar loro l'amministrazione delle città. I primi comuni italiani sono stati giurati dai “patarini” in mezzo ai disordini della guerra delle investiture e all'esaltazione mistica. La loro origine è puramente rivoluzionaria e dalla loro nascita hanno contratto le abitudini di violenza che li caratterizzano fino alla fine. Di buon grado o no, il comune si impone in ogni città all'insieme della popolazione ed i suoi consoli elettivi, come gli scabini delle città belghe, possiedono nello stesso tempo il potere giudiziario e l'amministrativo. Ma, a mano a mano che la borghesia si sviluppa, i contrasti sociali si accentuano, ed i partiti si formano secondo gli interessi divergenti che vi si trovano in contrasto. I nomi che li designano fanno conoscere abbastanza bene la loro natura. Quello dei «grandi» si riferisce alla nobiltà cittadina alla quale si associano molti mercanti arricchiti; quello dei «piccoli» comprende le corporazioni di artigiani di ogni specie, il cui numero si moltiplica in proporzione all'aumento della prosperità. L assenza di un potere principesco, superiore ai partiti e capace di moderare le loro lotte, dà alle dispute nate fra i due gruppi sulla questione delle imposte e dell'organizzazione del potere municipale, un'asprezza e un accanimento che non presentano altrove. A partire dalla metà del XII secolo, la guerra civile diviene una epidemia cronica, Se vincono i grandi i piccoli sono massacrati senza pietà ; se i primi soccombono, vengono scacciati dalla città e si distruggono le loro case od i loro palazzi ; questi, poi, attendono l'ora della rivincita, si stabiliscono nella campagna vicina, e saccheggiano e molestano i loro compatrioti. Generalmente questi uomini banditi dalla città trovano protezione ed alleanza in una città vicina. Infatti, se la guerra dura in permanenza in seno alle borghesie, in generale domina anche i rapporti delle città. Costituendo altrettanti centri economici indipendenti, ognuna di esse non pensa che a sé, si sforza di assoggettare i contadini e le popolazioni dei dintorni all'obbligo di rifornirle, cerca con ogni mezzo di costringere il transito dei dintorni a confluire verso di sé, cerca di escludere le sue rivali dal suo mercato e di togliere loro, se possibile i loro sbocchi. Così l'urto di interessi è altrettanto violento al di fuori che all'interno. Il commercio e l'industria si sviluppano in mezzo ai combattimenti. In tutti questi piccoli mondi chiusi e cinti di mura, che si scrutano dall'alto delle loro torri, la loro energia si prodiga con lo stesso vigore a produrre ed a distruggere. Ogni città immagina che la sua prosperità dipenda dalla rovina delle sue rivali. Ai progressi dell'economia cittadina corrisponde una politica di particolarismo municipale sempre più limitato e feroce. Gli odi non hanno tregua che per l'incombere di un pericolo comune. Sono state necessarie le minacce la brutalità di Federico Barbarossa per riunire contro di lui la Lega Lombarda e giungere alla vittoria di Tagliacozzo. (…) L'accanimento dei partiti a distruggersi non impedì loro di pensare ai mezzi per rafforzare il governo municipale. Dalla seconda metà del XII secolo si cerca di renderlo indipendente dalle lotte civili affidandolo ad un podestà. Il podestà è. Per così dire, un principe temporaneo che il comune dà a se stesso e che, per garantire la sua imparzialità e la sua indipendenza nei riguardi dei partiti, si sceglie in un comune straniero. Ma poi l'istituzione non dette i risultati che si erano attesi. Quasi sempre i podestà furono obbligati, per far rispettare il loro potere, ad appoggiarsi ad una delle fazioni nemiche. In qualche città riuscirono, dal XIII secolo, ad impadronirsi sia con l'astuzia, sia con la violenza, grazie alla debolezza generale, dell'autorità suprema ed a fondare quelle tirannie che dovevano, nel Rinascimento, avere un'importanza considerevole. Penso qui agli Scaligeri di Verona ed ai Visconti di Milano. Il fermento politico e sociale delle città italiane non mancò di influire sulla loro vita religiosa. Il misticismo e l'eresia vi si diffondono nello stesso tempo e danno un nuovo alimento alla febbre che li infiamma. S. Francesco d'Assisi è figlio di un mercante, e l'ordine dei francescani trovò nelle borghesie il suo vero campo di azione. Ma vi abbondavano anche i Catari, i Fratelli del libero spirito, i Valdesi. (…) Non si può dubitate che l'eresia abbia reclutato la maggior parte dei suoi adepti tra gli operai occupati nelle industrie d'esportazione. Come in Fiandra, la si trova già potentemente sviluppata in Italia nel XIII secolo e, sempre come in Fiandra, ha per conseguenza la formazione di un vero proletariato operaio. I tessitori di Firenze, la grande città dell'industria dei tessuti del mezzogiorno, corrispondono, come quelli di Gand, di Ypres o di Douai, al tipo. usuale dell'artigianato cittadino. Invece di lavorare per loro conto, essi sono semplici salariati, impiegati dai mercanti. Il capitalismo nascente li sottomette al suo influsso; la sua forza e la sua azione aumentano via via che il commercio estende l'esportazione cittadina. Dalla prima metà del XIII secolo le stoffe fiorentine si diffondono in tutto l'Oriente ed i mercanti della città lo riforniscono di lana d'Inghilterra. Una simile attività manifatturiera presuppone evidentemente un grado già considerevole di sviluppo capitalistico. Le ricchezze accumulate dal commercio delle mercanzie si accrescono ancora col commercio del denaro. I cambiatori (banchieri) senesi e fiorentini si diffondono, nel corso del XIII secolo, in tutto l'Occidente, dove li designano con quel nome di Lombardi che, nell'inglese moderno, resta ancora legato a certe operazioni di prestito. (…) La situazione sociale dei banchieri e dei mercanti italiani ebbe come conseguenza di riavvicinarli alla nobiltà al punto di confonderli talvolta con essa. Questo processo fu tanto più rapido in quanto la nobiltà italiana, invece di vivete in campagna come quella dell'Europa settentrionale, aveva la sua residenza nelle città. Già alla fine del XII secolo si vedono nobili che si interessano alle operazioni commerciali, mentre dei mercanti divengono nobili. In breve, sotto l'influenza del capitale, la linea di divisione, che però resta così netta tra le classi giuridiche, si attenua al punto di quasi scomparire in Italia nel corso del XIII secolo. Si forma una aristocrazia per la quale la condizione sociale ha più importanza del sangue e nella quale il valore individuale è superiore al pregiudizio di nascita. La vita sociale e più sfumata, la vita politica più individuale. L'ambizione di ciascuno ha prospettive più illimitate; ci sono meno convenzioni, meno caste, più umanità ed anche più passioni. Anche qui Firenze è alla testa di tutte le altre città. Ed è onore immortale del suo popolo quello di aver dato i natali e formato quel genio a cui il mondo deve ciò che il Medioevo ha prodotto di più grande insieme alle cattedrali gotiche di Francia: la «Divina Commedia».
http://www.giustiniani.info/orizzontiaperti.pdf
Oggi , a posteriori , ritengo irrinunciabili le mie letture di storia fiorentina La visione di un medioevo cupo e scarsamente vitale che mi aveva conculcato la scuola ha lasciato il posto allo stupore per la forza di certi fermenti che debbono esser visti come pure miscele esplosive la lettura di " Gli uomini d'affari italiani nel medioevo " di Yves Renouard ( Rizzoli editore ) da la visione di una forza innarestabile , fa pensare ad una forza costruttrice che nessuna forza distruttrice puo' fermare E cosi ci pare il medioevo formicolante di spiriti avventurosi spinti dal desiderio della ricchezza a percorrerlo in lungo ed in largo
Certo che difficilmente si sarebbe osato scommettere nel secolo XI dei futuri grandi destini che la storia destinava a Firenze Impossibile allora paragonare Firenze a Pisa Dopo : tutta una serie di circostanze imponderabili inizieranno a concorrere per costruire un futuro radioso per Firenze ed una inesorabile eclissi per la potente repubblica marinara
Non si puo' fare a meno di notare come la storia della guelfissima Firenze e della Toscana costantemente s'incroci e spesso si scontri con il Papato e talvolta (troppo spesso ) con gli interessi nepotistici di questo o quel Papa pieno di ardore di fare di Firenze e della Toscana una proprieta' di famiglia Cosi la guelfissima Firenze vedra' troppo spesso l'ingerenza piu' o meno richiesta del Papa nei suoi affari interni I Papi interverranno suscitando nemici e minacciando la scomunica . La scomunica papale era quanto di piu' temuto in una citta' di mercanti e banchieri : molti principi ne approfittavano per sequestrare le merci fiorentine sulle piazze estere , altri ne approfittavano molto volentieri per bloccare il pagamento dei loro debiti Inoltre il Papato era per i mercanti fiorentini un ottimo cliente : spesso esattori delle decime ecclesiastiche spesso ad anticipare ai Papi prestiti da mal di testa ad interessi ugualmente da mal di testa , spesso a sfruttando le miniere di allume e di rame , spesso in cento altri affari con la corte pontificia . Infine i Medici dovranno ringraziare la sagacia delle trame di Leone X e Clemente VII per l'insignorimento su Firenze . Cio' che non avevano potuto Cosimo il vecchio e Lorenzo il magnifico riusci ai papi medicei
La storia di Firenze e' talmente legata ai traffici mercantili ed alle operazioni bancarie svolte in ogni parte del mondo ( fino ai luoghi piu' sperduti ) che scrivere una storia di Firenze prescindendo da questi traffici e' scrivere una storia monca La storia di Firenze s'intreccia con le vicende dei suoi mercanti . Solo dopo che si avra' una chiara visione dei traffici fiorentini si potra' scrivere la storia di Firenze . Parte della storia fiorentina ha le sue basi fuori della patria Occorre catalogare e regestare i documenti sui mercanti fiorentini presenti negli archivi di mezzo mondo e ad oggi non ancora completamente legati tra loro .
Dice Yves Renouard nel suo " Gli uomini d'affari italiani nel medioevo"
Lo sviluppo economico delle citta' dell'interno e' evidentemente una conseguenza di quello delle citta' marinare : sono queste ultime che hanno rianimat gli scambi internazionali e partecipato direttamente alle crociate. Ma dai loro porti si diramava un' attivita' in incessante processo di crescita . Esse tendevano ad assorbire prodotti suscettibili di esportazione e il legname necessario alle costruzioni navali , cercavano di imporre sui mercati interni le merci importate . Rapidamente nel XII secolo , nelle citta' dell'interno piu' favorite dalla posizione geografica la vita economica si sviluppa con intensita' progressiva . Vi nasce nella maggior parte dei casi e come nelle citta' marinare , a opera delle famiglie feudali o borghesi alle quali la condizione sociale in citta' o proprieta' immobiliari urbane o rurali fornivano rendite in denaro ; tali rendite accumulate costituiscono ordinariamente il primo capitale investito negli affari . Benche inizialmente lo imiti ,l'uomo dell'interno non concepisce gli affari allo stesso modo del'abitante di un grande porto .Per lui non si tratta ne' di navigare sul mare ne' di costruire navi. Il suo orizzonte e' fatto di montagne e foreste ; la cornice della sua citta e' una campagna agricola ; egli pensa del tutto naturalmente a procurarsi cio' che gli manca scambiandolo con i prodotti della terra che lavora per fornirli di maggior valore. Il suo commercio si svolge per via di terra o d'acqua dolce………………………………..
( l'affermazione : "Vi nasce nella maggior parte dei casi e come nelle citta' marinare , a opera delle famiglie feudali ……" e' ancora fonte di discussione tra gli storici sicuramente tra le famiglie d'una certa borghesia di piccoli proprietari che si era andata formando nel tempo )
http://www.rm.unina.it/didattica/strumenti/sapori/indice.htm Tratto da Armando Sapori, La mercatura medievale, Sansoni (Scuola Aperta), Firenze 1972 La mercatura medievaledi Armando Sapori
1. La ripresa demografica e la rivoluzione commercialeLa rinascita economica dell'Europa coincise con la rivoluzione commerciale del secolo XII, il cui presupposto era stato il fattore demografico. La diminuzione della popolazione, fermata alla fine del secolo VIII (la pestilenza generale della metà del secolo sarebbe riapparsa soltanto nel 1348), aveva fatto posto a un aumento intorno alla fine del secolo X allorché cessarono le distruzioni e vennero meno le incertezze dei grandi spostamenti dei popoli nomadi: aumento che accelerò il ritmo nei secoli dall'XI al XIII e si protrasse fin quasi alla metà del Trecento. Manca, naturalmente, una documentazione che consenta di esprimere numericamente le fasi di quell'incremento, il quale fu senza dubbio imponente anche se si risolse, come scrive Jacques Le Goff, in "un semplice recupero di poco superiore alla prosperità romana al chiudersi del secolo II". Imponente e determinante perché portò alla inversione di un'altra tendenza: dall'esodo dalle città verso le campagne, iniziato già prima della fine dell'impero, al ritorno della popolazione nei centri urbani sopravvissuti e all'insediamento in villaggi di nuova creazione. In rapporto all'aumento della popolazione ecco l'intensificarsi dell'agricoltura – la rivoluzione agricola – con l'abbattimento di foreste, il prosciugamento di paludi, il dissodamento e la messa a coltura di terre già improduttive. Un'opera vasta che culminò a metà del Trecento e che, fornendo i mezzi di sussistenza ai lavoratori delle città, rese possibile la ripresa delle manifatture. Via via, infine, che la produzione cresceva, si estendevano i traffici, per altro non limitati a brevi spazi neppure al tempo della cosiddetta economia curtense, e si arrivò lungo il corso appunto dei secoli dal XII al XIV al commercio internazionale. Roberto Lopez ha fatto un accostamento fra le conseguenze della commercializzazione e quelle della industrializzazione dei tempi moderni: conseguenze, s'intende, più modeste allora, ma pure di grande portata. Basti pensare infatti all'influenza che ebbe sulla bilancia commerciale del mondo occidentale che intensificava i rapporti con quello orientale: il lavoro accresciuto nelle officine, e il moto sempre più accelerato dei telai adibiti alla produzione dei panni di lana, e poi di seta e di cotone, la manifattura fondamentale del tempo, consentirono, infatti, di compensare con merci gli acquisti dei beni, appunto dall'oriente, per di più particolarmente cari, senza che dovessero essere ridotte fino all'esaurimento le scarse riserve dell'oro e dell'argento, monetati o no, del nostro continente. a) L'ITALIA ALL'AVANGUARDIA. Questo processo si constata dai paesi mediterranei all'Europa centrale, all'Inghilterra, verificandosi però situazioni diverse sotto gli aspetti quantitativo e qualitativo. Sotto entrambi, la Penisola italiana fu alla testa della ripresa e vi rimase per quasi due secoli di fronte alle altre regioni del mondo occidentale, designata a quella funzione di pioniere e di guida dalla posizione geografica; dal fatto che la sua popolazione aveva subìto perdite minori che altrove (e così al momento del generale incremento demografico partì da una quota più elevata); dal fatto che la maggior parte delle sue città erano rimaste e si erano organizzate di buon'ora a Comuni autonomi (veri piccoli stati, mentre all'estero, nel quadro delle signorie feudali e dell'accentramento monarchico, i Comuni erano piuttosto centri amministrativi). Quelle città inoltre avevano conservato alcune caratteristiche della civiltà romana come la divisione in classi, fra le quali quella dei negotiatores, e il raggruppamento degli artigiani in scholae, secondo la tradizione, appunto, delle antiche corporazioni. Si pensi a Pavia, centro politico fin dal secolo VI. Si pensi a Ravenna, che già sede dell'impero di occidente con gli ultimi imperatori, poi sede del regno ostrogoto, e poi ancora capitale per due secoli dei possedimenti bizantini in Italia, si abbellì di splendidi monumenti proprio allorché altrove si distruggevano le costruzioni romane; e fu centro importante di fiere con merci di tante provenienze, se il seguito di Carlomagno vi comprò stoffe ex transmarinis partibus per farne abiti sontuosi. Si pensi a Roma, centro della cristianità, dove convenivano i pellegrini, signori laici e alti dignitari ecclesiastici, i quali contribuivano con ricchi doni al fasto della corte pontificia e a quello delle basiliche. Si pensi alle città marittime dell'Adriatico e del Tirreno, i cui mercanti già dal secolo IX si erano spostati sulle coste opposte del Mediterraneo dall'Egitto a Costantinopoli. Per concludere sui secoli della preparazione, prima della crociata il Mediterraneo – sempre rimasto aperto agli scambi e non chiuso come ha pensato Henri Pirenne durante la fase irruenta dell'avanzata degli Arabi – era solcato quasi esclusivamente da navi di città della Penisola. http://www.rm.unina.it/didattica/strumenti/sapori/indice.htm Tratto da Armando Sapori, La mercatura medievale, Sansoni (Scuola Aperta), Firenze 1972
2. Le crociateAI seguito della crociata quegli scambi, divenuti sicuri, sarebbero stati continui e regolari; e il massimo dei vantaggi della congiuntura lo colsero appunto i mercanti italiani che disponevano delle navi per il trasporto dei cavalieri in Terrasanta e assicuravano a loro il rifornimento dei combattenti, dei mezzi bellici e degli approvvigionamenti. Siccome questo avveniva di continuo, si può dire che, per ciò che riguarda i traffici, le molte crociate fossero una sola. In cambio dei servizi resi i mercanti ottennero una quantità di concessioni nelle località conquistate, che si possono compendiare nella denominazione di "stabilimenti italiani in Terrasanta": una banchina nei porti per attraccarvi le navi, e nell'interno un quartiere nel quale avevano le loro abitazioni, i loro magazzini di deposito e le loro botteghe per la vendita, nonché una chiesa, un cimitero, un forno, un bagno pubblico e talvolta, ai margini, un pezzo di terra da far coltivare. Retti da propri consoli che applicavano le leggi delle rispettive repubbliche e avevano giurisdizione anche sugli indigeni, si trattava di vere colonie. Sistemati in quei possedimenti, quei mercanti avevano la possibilità di comprare le merci dei più lontani retroterra portate dalle carovane, merci che avrebbero rivenduto con alti profitti nel continente: non corrispondevano infatti dazi ai signori, o quanto meno notevolmente ridotti; e non correvano l'alea delle rimanenze in quanto conoscevano la loro clientela appartenente alle più alte classi sociali, sempre più esigente in fatto di qualità, alla quale si aggiungeva quella dei ceti medi via via che salivano nel tenore di vita. Furono gli anni dei più grossi guadagni, nerbo a loro volta per altre operazioni. Comunque quegli uomini accorti, che si inserirono abilmente nella congiuntura, non la poterono sfruttare appieno: per il che sarebbe occorso che non rimanessero sulle coste lasciando margini di guadagno agli intermediari carovanieri, ma penetrassero nell'interno dei paesi di origine delle merci. Però i Greci di Costantinopoli controllavano i Dardanelli e gli Egiziani la penisola di Suez, mentre nel Mediterraneo occidentale gli Arabi della Spagna erano padroni dello stretto di Gibilterra. La porta di Suez si provarono a forzarla i crociati, ma fallirono con le due imprese, la terza e la sesta, durante le quali morì l'imperatore Barbarossa e fu fatto prigioniero Luigi IX re di Francia. E così rimasero chiusi il Mar Rosso e l'Oceano Indiano. Conquistarono invece l'accesso all'Asia – attraverso alla quale poi, favoriti dall'improvviso abbandono da parte dei successori di Genghiz Khan delle invasioni mongoliche che si erano spinte fino alle soglie dell'occidente, si portarono (vedi Marco Polo) fino a Pechino – in virtù di una spregiudicata iniziativa di Venezia, il dirottamento della quarta crociata su Costantinopoli che inferse all'Impero bizantino un colpo da cui non si sarebbe ripreso: nell'Impero latino d'oriente, infatti, creato in quell'occasione e caduto dopo poco più di un cinquantennio e – questa volta per la manovra dei Genovesi rivali sempre più accaniti dei Veneziani – salirono al trono i deboli Paleologi. La lotta fra le città del Golfo e della Laguna si concluse con la sconfitta di Genova; ma se Venezia raggiunse l'apogeo, maturavano per lei i tempi duri dei secoli successivi culminati con l'avanzata dei Turchi. Anche sulla terza via, quella dell'Atlantico, ebbero successo. Dopo aver raggiunto alla fine del Dugento l’Inghilterra, ai primi del secolo XIV navi genovesi e veneziane gettavano l’ancora nel porto di Bruges, e con questo si collegava via mare il più grande impero commerciale del Mediterraneo con il più piccolo ma efficiente impero degli Anseatici, padroni dei mari del nord: fatto importante soprattutto perché lo stimolo alla navigazione atlantica avrebbe aperto la via alla possibilità dei viaggi di scoperta, mentre dal punto di vista pratico, immediato, quella importanza era minore, perché la rotta marittima da Venezia a Bruges era troppo lunga e più costosa dei percorsi terrestri attraverso ai quali da tempo quei due imperi si erano congiunti. http://www.rm.unina.it/didattica/strumenti/sapori/indice.htmTratto da Armando Sapori, La mercatura medievale, Sansoni (Scuola Aperta), Firenze 1972
Una visione molto diversa sull’influsso delle crociate LE GOFF, La civiltà, ecc., cit., pp. 94-95.Senza dubbio la crociata è apparsa – anche se questo impulso non era chiaramente né formulato né sentito dai crociati – per i cavalieri e i contadini dell'XI secolo uno sfogo al troppo-pieno dell'occidente, e il desiderio di terre, di ricchezze, di feudi oltremare è stato la primordiale attrattiva. Ma le crociate, anche prima di chiudere il bilancio con uno scacco completo, non hanno appagato la sete degli occidentali, e questi hanno dovuto cercare rapidamente in Europa, e dapprima nello sviluppo agricolo, la soluzione che il miraggio di oltremare non aveva loro consentito. Fronte di combattimenti, la Terra Santa non è stata quel focolare di acquisti, buoni o cattivi, che storici ingannevoli hanno piacevolmente descritto. Le crociate non hanno arrecato alla cristianità né lo sviluppo commerciale nato da rapporti anteriori con il mondo musulmano e dallo sviluppo interno dell'economia occidentale, né le tecniche e i prodotti venuti per altre vie, né l'attrezzatura intellettuale fornita dai centri di traduzione e dalle biblioteche di Grecia, di Italia (innanzi tutto di Sicilia) e di Spagna dove i contatti erano diversamente stretti e fecondi che non in Palestina, neppure quel gusto del lusso e quelle abitudini molli che moralisti arcigni di occidente credono essere l'appannaggio dell'oriente e il dono avvelenato degli infedeli ai crociati ingenui e senza difesa davanti agli incanti e alle incantatrici d'oriente. Senza dubbio i vantaggi ritratti soprattutto, non dal commercio, ma dal nolo dei battelli e dai prestiti consentiti ai crociati hanno permesso a certe città italiane (Genova e Venezia principalmente) di arricchirsi rapidamente; ma che le crociate abbiano suscitato il risveglio e lo sviluppo del commercio della cristianità medievale, uno storico veramente tale non lo può più ammettere. Che esse abbiano invece contribuito all'impoverimento dell'occidente, in particolare della classe cavalleresca, che lungi dal creare l'unità morale della cristianità esse abbiano fortemente contribuito a inasprire i contrasti nazionali nascenti (basta, fra le numerose testimonianze, leggere il racconto della seconda crociata a opera di Eudes de Deuil, monaco di Saint-Denis e cappellano del capetingio Luigi VII, dove si esaspera a ogni episodio l'odio fra Tedeschi e Francesi, e pensare a quello che sono stati in Terra Santa i rapporti per esempio fra Riccardo Cuor di Leone e Filippo Augusto o il duca di Austria che al suo ritorno si affretterà a farlo prigioniero), che esse abbiano scavato un solco definitivo fra occidentali e bizantini (da una crociata all'altra si accentua l'ostilità fra Greci e Latini la quale si concluderà nella quarta crociata con la presa di Costantinopoli da parte dei crociati nel 1204), che lungi dal mitigare i costumi, la furia della guerra santa abbia condotto i crociati ai peggiori eccessi, dai pogrom perpetrati sulla loro strada ai massacri e ai saccheggi (di Gerusalemme per esempio nel 1099, e di Costantinopoli nel 1204 come possiamo leggere nelle narrazioni dei cronisti sia cristiani sia musulmani sia bizantini), che il finanziamento della crociata sia stato il motivo o il pretesto dell'appesantimento della fiscalità pontificia, della pratica inconsiderata delle indulgenze, e che finalmente gli ordini militari impotenti a difendere e a conservare la Terra Santa si siano ripiegati sull'occidente per abbandonarvisi a ogni sorta di esazioni finanziarie o militari, ecco di fatto il pesante passivo di queste spedizioni. lo non vedo altro che l'albicocca come frutto possibile riportato nelle crociate dai cristiani.
3. Le fiere di ChampagneLungo le strade di terra, e quando fosse possibile quelle fluviali, quegli incontri fra le civiltà più avanzate del sud e del nord del continente avvenivano nel breve territorio della Champagne, nel quale si tenevano le famose fiere, il più grande mercato internazionale del tempo, e permanente per l’avvicendarsi senza discontinuità nel corso dell'anno dell’una all'altra in località vicinissime fra loro, a Provins, Troyes, Saint-Ayoul, Bar-sur-Aube. Frequentate da operatori di ogni provenienza, vi si trattavano merci d'ogni dove, dalla Russia all'oriente mediterraneo, dall'Inghilterra alla Spagna. Naturalmente dominatori furono i mercanti italiani, non soltanto per la quantità di capitali di cui disponevano, ma anche perché potevano estendere con i contratti di cambio il raggio del loro credito a molti centri di mercato in cui avevano affari gestiti da loro rappresentanti, i fattori delle "compagnie" (società commerciali di cui parleremo avanti), e soprattutto per lo stato avanzato della loro esperienza. A loro, infatti, si deve la impostazione di istituti di diritto: con la vendita su campione ecco la borsa merci; con lo stabilire a chiusura di ogni fiera la differenza fra crediti e debiti per le operazioni di compravendita effettuate, e portare il saldo, precisato nella "lettera di fiera", a pagamento nel prossimo raduno, ecco la stanza di compensazione. Tutto questo portò a una unificazione della tecnica commerciale, giovevole allo sviluppo generale, appunto, dei commerci. In quei convegni internazionali, infine, uomini che parlavano lingue diverse e che avevano usi e costumi diversi prendevano ad avvertire, inconsapevolmente ma sempre meglio, quel senso dell'Europa che già era balenato nel trovarsi insieme dei cavalieri crociati lungo le vie dalla Scozia alla Palestina. Il che richiama la funzione delle Olimpiadi del mondo greco nelle quali, nonostante i molti dialetti e le rivalità fra le tante città, si formò l'unità morale dell'Ellade. Le fiere di Champagne furono fiorenti fino a che la regione fu retta dai conti, la cui politica – scorte armate ai mercanti lungo le strade di accesso, e all'interno immunità, esenzione da tassazioni, garanzia degli impegni contrattuali assicurata mediante il sigillo di fiera – ne aveva fatto un'oasi di tranquillità; e presero a decadere da quando la regione fu incorporata nel regno di Francia, tormentato da eventi politici e noto per il suo fiscalesimo. D'altronde, però, si può dire che allora avevano esaurito la loro funzione. Molte città da Bruges a Firenze, a Venezia e a Genova, erano a loro volta divenute centri di mercato nei quali si trovavano tutti i beni che potessero essere richiesti. Inoltre e infine, questi centri si raggiungevano, come si è detto or ora, non soltanto per via di terra, ma anche con la navigazione atlantica. http://www.rm.unina.it/didattica/strumenti/sapori/indice.htmTratto da Armando Sapori, La mercatura medievale, Sansoni (Scuola Aperta), Firenze 1972
4. Le merci del commercio internazionaleLe merci si distinguevano in "grosse" e "sottili", e in base a questa dizione si è ritenuto a lungo che gli articoli ricchi costituissero il nerbo del commercio internazionale in quanto, poco ingombranti, erano facilmente trasportabili a grandi distanze senza notevoli spese, e per il loro alto pregio, anche se trattati in piccole partite, davano alti guadagni (per esempio perle e pietre preziose, profumi, spezie per la cucina e qualche materiale tintorio più caro, come la grana e la cocciniglia). Se fosse stato così, il traffico internazionale avrebbe impegnato pochissimi trasporti. Invece per le vie di terra e per quelle marittime circolavano in larga prevalenza carichi di merci povere o relativamente povere o comunque pesanti: generi alimentari richiesti dai paesi che ne erano privi o ne scarseggiavano in momenti di carestia o di guerra, e anche altri beni di cui si aveva un vero urgente bisogno non solo per la sussistenza. È il caso, per dirne una, del legname, indispensabile agli Egiziani per costruire, prima e più ancora nel corso delle crociate, navi per trasporti militari: lo avevano dai mercanti italiani che lo traevano dalle zone alpine della Dalmazia, e poi con i guadagni ritratti incrementavano a loro volta le flotte dei loro comuni contro gli infedeli. Pochi accenni ad alcune merci "grosse" più significative perché su di esse fece leva la politica degli stessi stati. a) IL SALE. Indispensabile alla cucina, richiesto per la conservazione del pesce di cui si faceva largo uso per i digiuni della Chiesa (mentre carne e pesci salati costituivano con le gallette le scorte alimentari dei viaggi per mare) era anche mezzo di imposizione dei pubblici poteri. Venezia, che pure ne traeva molto dalle sue lagune, monopolizzò il sale di Cipro e lottò con Genova e con Pisa per quello della Sardegna e della Sicilia, delle Baleari e dell'Africa del Nord. Un'altra controversia che si risolse con le armi si sarebbe avuta nel primo decennio del Cinquecento per la concorrenza fra le saline di Cervia e quelle di Comacchio: le prime di Giulio II e le altre di Alfonso d'Este duca di Ferrara, che in Piemonte e in Lombardia praticava prezzi più bassi di quelli del sale pontificio. b) IL VINO. Si esportava da alcune zone della Grecia, di Rodi, di Cipro, e in maggior quantità dalla Francia che aveva i più grandi vigneti. Henri Pirenne ha scritto che nel secolo XII avrebbe sollecitato la navigazione atlantica e avrebbe influito sul diritto commerciale. Yves Renouard ha documentato che le esportazioni dalla Borgogna nel 1308-1309 raggiunsero la punta massima di 102.704 tonneaux equivalenti a 850.000 ettolitri; dopodiché, riferendosi ai dati statistici del secolo XX, e trovato che nel 1900 la esportazione dei vini di Bordeaux era di 735.000 ettolitri, e nel 1950 quella da tutta la Francia di 900.000, ha concluso che "le cifre della esportazione del vino nel Medioevo erano di importanza moderna". c) IL GRANO. La sua produzione, rilevante nelle Puglie e in Sicilia (anche là una politica del grano degli Angioini), nonché nella Dalmazia e in alcune zone del Mar Nero, si aveva in altre località indicate nelle "pratiche di mercatura" (v. più avanti) insieme con le equivalenze delle misure di capacità fra l'una e l'altra. Dice Ruggiero Romano che se ognuna di quelle "corrispondenze" fosse una "via del grano", ossia se esse facessero testimonianza di scambi effettivi, si rivoluzionerebbero le attuali conoscenze: questo cereale avrebbe circolato per brevi tratti anche a grandi distanze, più di qualsiasi altra merce del tempo. Qualche cifra a prova di spostamenti a distanza di grosse partite. Nel 1276 Benedetto Zaccaria ( v. LETTURA 13) scaricò nel porto di Genova 10.000 mine di grano mercantile caricato sulle sue navi in Dalmazia; nel 1329 la compagnia fiorentina degli Acciaioli trasse dalla Puglia 114.000 salme corrispondenti a circa 136.000 tonnellate. Non per nulla Venezia e Firenze ebbero duri contrasti per accaparrarsi la produzione del Mezzogiorno.d) LA LANA. La maggior parte delle imbarcazioni che dal secolo XIII partivano dai porti delle isole britanniche avevano nella stiva i velli delle numerose mandrie che pascolavano attorno ai manors dei signori e dei grandi monasteri: velli portati soprattutto in Fiandra e in Italia. La sola Firenze, che ai primi del Trecento confezionava in 300 botteghe centomila pezze, usava per quelle di prima qualità (lavorate nei fondachi di San Martino) le sole lane inglesi, e per i panni di minor pregio la lana di altre provenienze, soprattutto del sultanato di Algarve (lana e panni di Garbo). Quella materia prima era così importante che l'Inghilterra vi impostò una sua politica, come si è detto che Venezia l'aveva impostata suI sale e gli Angioini sul grano. Ne favorì l'esportazione fino a che la manifattura indigena era rudimentale e i dazi percepiti all'uscita dei sacchi di lana dai porti di raccolta (stapola) costituivano i cespiti maggiori delle finanze regie; e la ostacolò a mano a mano che quella manifattura, fattasi le ossa, prese a esportare tessuti. e) IL COTONE E I TESSUTI DI COTONE. Il cotone si produceva in molte località: a detta del Pegolotti il più scadente era quello di Sicilia; di media qualità quello della Spagna, della Grecia, di Cipro, di Malta, di Creta, e in Italia delle Puglie e della Calabria; il migliore era prodotto nella Siria, ad Aleppo e soprattutto a Damasco. Così i mercanti genovesi e veneziani andavano a cercarlo fuori della cristianità. Fra i tessuti di cotone, i fustagni entrarono di buon'ora nel circuito del commercio internazionale: fabbricati dapprima quasi tutti in Italia, più che altro nel nord, scrive Franco Borlandi (a cui si deve lo studio più ricco di dati in proposito) che invasero nel secolo XII i mercati mediterranei da Costantinopoli all'Egitto alla Francia meridionale alla Spagna, e col Trecento si erano diffusi nell'Europa centrale da Basilea a Norimberga, nella Boemia, e avevano raggiunto le Fiandre e l'Inghilterra. Non erano un bene ricco; e povero addirittura era il materiale, il guado, che serviva per la tintura di quei panni e che, sebbene ingombrante, via via che i fustagni furono prodotti più largamente anche fuori d'Italia, fu portato esso pure a grandi distanze e in grandi quantità. L 'autore dice di carichi che avrebbero occupato "una dozzina di carri ferroviari attuali". Il traffico del guado, conclude, "espresso in cifre monetarie superò il livello toccato da quello complessivo degli altri articoli tintorii più ricchi". f) L'ALLUME. Pressoché esaurite, e comunque abbandonate, le miniere del tempo romano dell'Aragona, del Tirolo, della Sicilia, di Ischia e di Volterra, questo minerale si trovava soltanto in partibus infidelium sulle coste dell'Asia Minore. Necessario per sgrassare le fibre e fissare il colore dei panni, nonché per alcune lavorazioni del cuoio e delle pelli, i mercanti delle repubbliche marinare italiane lo acquistavano a Focea, centro della produzione, e a Smirne e in Siria, dove era raffinato, e lo diffondevano dovunque si trovasse una manifattura di panni, il che vuol dire attraverso tutte le strade dei traffici. Dopo che Genova nel 1267 si impadronl di Focea, monopolista divenne Benedetto Zaccaria che lo estraeva con il propri mezzi e lo trasportava con le proprie galee. L 'impresa continuò in mano dei Genovesi fino al 1455 quando i Turchi presero Focea. Poco dopo, un fortunato esame della particolare configurazione rocciosa delle colline presso Civitavecchia nel territorio pontificio portò a trovare un altro, grande giacimento, ed ecco l'allume di Tolfa che risolse la crisi da cui erano state colpite le manifatture tessili del mondo cristiano. Un'idea dell'importanza della scoperta si può desumere dall'annunzio dato da Pio II ("abbiamo vinto la più grande battaglia contro i Turchi") e dalla denominazione di "allume della santa crociata". Ecco ancora una volta un atto politico, la politica dell'allume, con la diffida che il pontefice fece ai principi cristiani di fare entrare nei loro stati l'allume comprato dagli infedeli. g) GLI SCHIAVI. Nella cornice della morale cristiana, agente di trasformazione della schiavitù pur senza il proposito di sopprimerla; nel quadro delle deliberazioni dei concilii, intese al miglioramento delle condizioni materiali e morali degli schiavi, pur senza prendere atteggiamento contrario alla istituzione; sullo sfondo della politica della Chiesa, mirante soprattutto a che gli schiavi non rafforzassero le forze militari degli infedeli, gli schiavi si vedono in movimento dall'Europa centrale alla Penisola Iberica, dalle coste dell'Asia Minore a quelle africane, mutando i soggetti e cambiando le direzioni in rapporto con le vicende politiche. Non si pensi però agli schiavi di una Roma prima della pace romana o a quelli del periodo carolingio. E anche quando divamperanno le lotte per la conquista araba e la riconquista e i combattimenti crociati, sono da tener presenti i trattati fra i principi e i Comuni italiani e i principi musulmani per lo scambio di prigionieri. In sostanza ora lo schiavismo sarà alimentato tutto dalla "tratta". A parte la vendita ai sultani per rafforzare le truppe scelte dei mamelucchi, gli schiavi, maschi e femmine, erano richiesti prevalentemente per usi domestici, nonché in minor misura per i lavori, in specie agricoli, soprattutto presso gli stabilimenti italiani in Terrasanta. Un principio di documentazione a questo proposito risale ai primi anni delle crociate, e la documentazione si allarga al seguito della deviazione degli interessi dei mercanti italiani dalla Siria e dalla Palestina verso le isole dell'Egeo, Alessandria d'Egitto, Costantinopoli, il Mar Nero. Si può aggiungere che la mano d'opera schiavistica ebbe un qualche peso anche in zone (non però italiane) dove sono provati finanche aspri interventi dei lavoratori liberi per ovviare al danno della concorrenza degli schiavi. Pertanto: numero limitato degli schiavi, vasto raggio dei loro spostamenti, e guadagni notevoli ottenuti dai mercanti dalla loro vendita. Fino a poco tempo fa quel commercio era stato studiato soprattutto sotto gli aspetti giuridico e sociale, e ora anche in funzione economica, secondo lo schema suggerito da Marc Bloch, nelle molte opere di Charles Verlinden. http://www.rm.unina.it/didattica/strumenti/sapori/indice.htm Tratto da Armando Sapori, La mercatura medievale, Sansoni (Scuola Aperta), Firenze 1972
5. Le vie dei trafficiGli innumerevoli spostamenti dei mercanti, almeno fino alla età del secolo XIV quando, lo vedremo in seguito, gli uomini di affari presero a divenire sedentari, si inquadrano nella grande mobilità degli uomini del tempo che si muovevano con estrema frequenza a brevi distanze e spesso anche a distanze enormi. Si pensi ai pellegrini, dalla Scozia a Compostella e a Gerusalemme, agli ecclesiastici di vari gradi che si portavano a Roma, ai missionari. I primi circolavano entro i limiti del mondo cristiano, gli altri anche al di là. Si seguivano le vie marine, i corsi d’acqua e le vie di terra. Per mare si correvano rischi gravi che per i mercanti potevano implicare la perdita totale delle merci con quella della nave dovuta alle tempeste se colpita al largo, agli incendi e ai pirati compresi i signori delle città costiere che intercettavano e rapinavano i naviganti e si appropriavano per il diritto di albinaggio di quanto potesse rimanere dai naufragi presso la terra. Per contro c’erano i vantaggi: poter fare grossi carichi che per terra avrebbero richiesto teorie di muli e di carretti; non pagare tanti balzelli che per terra erano dovuti a ogni passo per l’estremo frazionamento politico dei territori; essere liberi dalle pastoie delle leggi corporative e così via. Ci poteva essere inoltre il beneficio della relativa rapidità, s’intende a seconda dei percorsi e delle stagioni. C'era infine il beneficio della scelta, se si trasportavano merci ingombranti o no e povere o ricche, fra i tipi di imbarcazioni che i carpentieri del mediterraneo occidentale moltiplicavano sui modelli greco-romani modificati nei cantieri bizantini. Le vie fluviali facevano risparmiare esse pure delle spese di trasporto e, trattandosi per lo più di scafi non pesanti si potevano portare a terra in caso di bisogno. Le vie di terra, a ogni modo, sopportavano il peso più grande dei traffici. Non si trattava delle strade del mondo romano, diritte e ben lastricate, fatte per il passaggio delle legioni e dei funzionari; ma i mercanti preferivano alla qualità la quantità, ancorché fossero per lo più sentieri impervi fra i monti, viottoli fra le boscaglie, tracciati rudimentali nelle pianure scoperte. Nell'insieme costituivano una rete abbastanza fitta che si prestava, in caso di necessità e magari all'ultimo momento, a cambiare l’itinerario stabilito. Senza dubbio la circolazione era lenta. Né vale la pena di insistere sui dati che abbiamo, non soltanto perché pochi ma anche diversi per uno stesso percorso: diversità che è notevole se si tenga conto della qualità delle persone che lo effettuavano e delle circostanze accidentali. Quello che preme piuttosto è constatare – tanto più che si continua a ripetere che i mercanti non avevano nozione del tempo – che il mercante il tempo lo considerava un fattore che incideva sulle spese e quindi sui profitti, e che faceva del suo meglio per abbreviarlo. Già nel secolo XI seguiva le strade lungo le quali la Chiesa stabiliva gli ospizi per i pellegrini, per riposarsi e riparare le merci durante la notte e per ferrare le bestie. In seguito i mercanti si costituirono punti di appoggio nei quali fissavano loro incaricati che tenevano cavalli di ricambio e cercavano di stabilire orari regolari di partenza. Così nel Dugento l'Arte di Calimala faceva muovere giornalmente, da Firenze e dalla Champagne, due messi che portavano la corrispondenza dei consoli e degli operatori economici. E ai primi del Trecento i corrieri di Venezia, pure regolari, raggiungevano Bruges in una settimana. Più significativo, infine, è un episodio di cui nel 1336 furono protagonisti la Chiesa (l'organizzazione più efficiente dell'epoca), e una compagnia fiorentina, episodio raccontato da Yves Renouard. Quando Benedetto XII volle mandare una partita di grano agli Armeni per il timore che stremati da una lunga e grave carestia abiurassero la fede cristiana, passarono decine di giorni prima che l'ordine giungesse alla società fiorentina dei Bardi, a cui affidò l'operazione, e le disposizioni arrivassero ai funzionari delegati al controllo; mentre i Bardi in meno di venti giorni fecero pervenire le istruzioni ai fattori in Puglia, questi comprarono le 7000 tonnellate richieste, provvidero a trovare i noli e fecero salpare le navi da Napoli.
http://www.rm.unina.it/didattica/strumenti/sapori/indice.htm Tratto da Armando Sapori, La mercatura medievale, Sansoni (Scuola Aperta), Firenze 1972
Lo sviluppo demografico della citta' e' tumultuoso Dal contado non vengono solamente contadini ma anche piccoli signori di comunita' Non possiamo e non dobbiamo trascurare le conseguenze sociopolitiche di questo sviluppo demografico destinato a mutare i rapporti di forza Gli antichi rapporti di potere sono costantemente rimessi indiscussione dal numero della gente nuova
La divisione della citta' in "Sesti" risaliva intorno al 1172-74, all'epoca della realizzazione della nuova cinta muraria , quando il comune di Firenze abbandono il sistema classico della divisione urbana in quattro quartieri . che prendevano nome dalle quattro principali porte della citta' San Pancrazio , Duomo , San Piero , Santa Maria Ad ognuno dei Sesti (o Sestieri) che ne nacquero fu assegnata probabilmente nello stesso tempo, una giurisdizione rurale Il popoloso quartiere di Santa Maria fu diviso nei due sesti di San Pier Scheraggio e di Borgo Santi Apostoli e fu inoltre creato il sesto d'Oltrarno Porta san Pier Maggiore, Porta Duomo, Porta san Pancrazio divennero sesti conservando il loro antico nome , ma incrementando i loro territori , comprendendo oltre oltre alle contrade fra le antiche e nuove mura anche le parrocchie situate dinanzi a queste ultime Altrove : L'aumentato gettito delle imposte favori senza dubbio anche la realizzazione delle importanti opere pubbliche che furono costruite durante l'epoca podestarile di Ottone e Alberto da Mandello e di Ugolino Grotto da Pisa (1218--1220 circa) si deve ascrivere l'accrescimento della seconda cerchia delle mura, la cui costruzione era iniziata intorno al 1172, fino ad includervi gradualmente anche la zona d'Oltrarno. Tale ampliamento della citta',che prima era divisa in quartieri , rese necessaria la sua nuova divisione in sesti (testimoniata per la prima volta nel 1194 infatti si trovano menzionati ASF diplomatico Luco 9 marzo 1193-94 un terreno una piazza e una torre "sexte partis Ultra Arnum " espressione che sembra alludere al sesto d'Oltrarno) Santini ritiene invece che questa divisione in sesti non si sarebbe completata prima del 1220 (in verita' esiste una lunga lista di cittadini di Porte Sancti Pancratii che giurano la Lega Toscana nel 1198 Santini : Nuovi documenti pg 288) Nello stesso tempo furono gettate le basi anche del secondo ponte sull'Arno , quello alla carraia, che gia' nel 1225 veniva contrapposto, quale Ponte Nuovo, al Pons Vetus. Nel 1237 ,quando era podesta un altro membro della famiglia milanese dei da Mandello, Rubaconte, si inizio la costruzione del terzo ponte che da lui prese il nome. Infatti ,secondo il cronista Paolino Pieri , il podesta stesso "piu' ceste ancora poi vi porto' di calcina, et di pietra sul collo suo per ricordanza". Rubaconte venne riconfermato in ufficio, per sei mesi, anche nel 1238 e in questo anno "si cominciaro li Fiorentini a lastricare Firenze , che infino allora non era lastricata "
Errore del Villani: i cronisti quando parlano di cose accadute lontano dai loro tempi...........
Il Villani incorre in una grave svista , nel riferire della costruzione della nuova cerchia di mura avvenuta un 150 anni prima del suo narrare , data questa costruzione al 1078 cioe' cento anni prima della data reale , cosa che fa esclamare allo storico Enrico Fiumi
<<………..Le cronache medioevali hanno valore solo per i tempi vissuti dall'autore. Quando si pensi ,ad esempio , che il Villani , che pure e' uno dei cronisti piu' avveduti , sbaglia di un buon secolo l'epoca della seconda cerchia , la cui costruzione non era stata esageratamente lontana da lui , dobbiamo veramente sorridere di coloro che , per fatti e persone del secolo XII o dei primi del duecento , affidano i loro giudizi alla narrazioni del Malispini , di Dante , dello stesso Villani pag. 16 <<Fioritura e decadenza dell'economia fiorentina>>
Gia' dagli anni 80 del secolo XII ci sono noti forti contrasti tra le famiglie del ceto dirigente fiorentino. Gli scontri tra gli Uberti ed altre famiglie Consolari , inseriscono un seme di discordia all'interno del ceto dirigente e costringono il passaggio dal sistema consolare al sistema podestarile
Interessante l'ipotesi di una esperienza di governo popolare prima del Primo Popolo
Acuta e' l'analisi della dottoressa Silvia Diacciati che esamina tutto il primo cinquantenio del duecento
Una serie di saggi di Silvia Diacciati http://www.fupress.net/index.php/asf/article/view/9824/9118 Popolo e regimi politici a Firenze nella prima metà del Duecento A proposito di A History of Florence. 1200-1575 di John Najemy Consiglieri e consigli del Comune di Firenze nel Duecento. A proposito di alcune liste inedite Che culminano nel libro :
Da inserire in questo arco temporale
Proprio nel primo cinquantenio del XIII secolo si acuiscono i contrasti nel ceto dirigente con la divisione dei milites in Guelfi e Ghibellini , divisione che tende a coinvolgere tutto il resto della popolazione Questa divisione secondo i cronisti trova la sua origine nel 1216 Oggi si concorda nel dire che le conseguenze della divisione in guelfi e ghibellini esplicheranno l'effetto molto piu' tardi E' estremamente interessante lo studio di Enrico Faini
Innocenzo IV, al secolo Sinibaldo Fieschi dei conti di Lavagna (Manarola, 1195 circa – Napoli, 7 dicembre 1254), è stato il 180º papa della Chiesa cattolica dal 1243 alla sua morte.
IL DECENNIO DEL PRIMO POPOLO A FIRENZE Schiacciato tra due macine l'impero ed il papato capaci di intervenire sulla vita interna ed esterna fiorentina il popolo deve subire le parti e inizialmente probabilmente se ne lascia coinvolgere . Dopo aver subito la guerra di Parte in citta' Il Popolo fiorentino ( inteso come la borghesia commerciale ed industriale ) assume un ruolo di potere nel decennio 1250 1260 : si apre la fondamentale esperienza de " Il primo Popolo " Dove gli artigiani e i mercanti assumono per un decennio la guida del Comune ponendo le basi del futuro regime popolare
Mi pare di notare il non uso dei cognomi familiari durante il periodo del primo popolo
ANNO 1260 sconfitta di Montaperti
Nel 1250 morì improvvisamente l'imperatore Federico II che era anche il sovrano della Sicilia. Il 13 dicembre 1250 Federico II, all'età di cinquantasei anni, morì di febbre intestinale a Castel Fiorentino in Puglia. Innocenzo IV lasciò Lione dopo la Pasqua del 1251 e a novembre rientrò in Italia. Risiedette a Perugia per oltre un anno. Doveva ora affrontare gli eredi di Federico: Corrado IV, figlio legittimo, in Germania, e Manfredi, il figlio nato dalla relazione con la contessa Bianca Lancia, in Puglia. Nell'ottobre 1251, Corrado IV scese in Italia invitato a Verona da Ezzelino da Romano. Successivamente giunse in Sicilia, dove Manfredi gli consegnò simbolicamente la sovranità sul regno, trattenendo per sé il principato di Taranto. All'epoca, il Regno di Sicilia comprendeva l'isola di Sicilia e l'Italia meridionale quasi fino a Roma. Saputa la notizia della scomparsa del celebre imperatore, papa Innocenzo IV affermò che il Regno era tornato di proprietà della Santa Sede in quanto era da essa considerata un proprio feudo. Successivamente, Innocenzo lo offrì a Riccardo di Cornovaglia, ma Riccardo non volle combattere contro il figlio di Federico, Corrado IV di Germania, che lo rivendicava. Allora il pontefice propose di infeudare il Regno a Carlo. Saputa questa possibilità, Carlo si consultò con il fratello Luigi IX che gli proibì di accettare l'offerta, poiché considerava Corrado il legittimo sovrano. Il 30 ottobre 1253 Carlo informò, quindi, Roma che non avrebbe accettato il Regno di conseguenza Innocenzo scelse di offrirlo al principe Edmondo di Lancaster, allora di soli nove anni. Nell'aprile 1254 Innocenzo scomunicò Corrado IV, accusato di aver commesso gravi soprusi contro la Chiesa; il pontefice conferì ufficialmente l'investitura del feudo della Sicilia al principe inglese il 14 maggio 1254, ma undici giorni dopo Corrado IV moriva a soli ventisei anni e, avendo egli affidato, secondo testamento, il figlio di due anni Corradino alla custodia della Chiesa, tutto tornò in discussione e l'accordo con il principe inglese fu sospeso. Innocenzo IV, a questo punto, doveva accordarsi con Manfredi. Per questo si recò ad Anagni, dove ricevette una delegazione inviata da Manfredi. Questi chiese che venisse accettata subito la sovranità del piccolo Corradino, ma il Papa ribatté che si sarebbe dovuto attendere che questi divenisse adulto e che nel frattempo, avendone lui la custodia, era lui ad avere la sovranità sulla Sicilia. Manfredi prese tempo e si sottomise inizialmente al Papa, venendo, tra l'altro, nominato vicario pontificio nel sud e principe di Taranto. I rapporti si incrinarono irrimediabilmente il 18 ottobre a causa dell'uccisione da parte dei seguaci di Manfredi del nobile fedele al Papa Borrello d'Anglona. Il figlio di Federico II decise di fuggire in Capitanata, nella colonia musulmana di Lucera, dove si preparò allo scontro armato.
Il Papa si recò quindi a Napoli dove fu accolto trionfalmente il 27 ottobre 1254. Cominciò a concedere le prime autonomie e ad impartire i primi atti amministrativi, quando fu informato del fatto che Manfredi stava organizzandosi militarmente. Il Papa gli inviò contro il suo esercito: a Foggia avvenne lo scontro, che però vide, il 2 dicembre, la vittoria di Manfredi. La notizia giunse ad Innocenzo IV a Napoli, e qui, già ammalato, Innocenzo si spense cinque giorni dopo, il 7 dicembre. by wikipedia
Papa Alessandro IV, nato Rinaldo dei signori di Jenne detto anche dei conti di Segni (Jenne, 1199 circa – Viterbo, 25 maggio 1261), è stato il 181º papa della Chiesa cattolica dal 1254 alla morte. Rinaldo era probabilmente figlio di una sorella di Gregorio IX, della quale si ignora il nome, e di Filippo II, signore di Jenne. Questa parentela ha fatto sì che molti storici, nel corso dei secoli, lo abbiano considerato erroneamente del casato dei conti di Segni. Nell'azione politica e di governo, Alessandro IV si avvalse con ogni probabilità dell'esperienza del potente cardinale Riccardo Annibaldi, nipote di Gregorio IX e dunque suo consanguineo. Successe a Innocenzo IV come tutore di Corradino, l'ultimo degli Hohenstaufen, assicurandogli la sua benevola protezione; ebbe viceversa un rapporto di dura e difficile contrapposizione con lo zio di Corradino, Manfredi di Sicilia. Alessandro IV, scontento per gli infruttuosi tentativi di conversione dei musulmani da parte dei frati mendicanti inviati a Lugarah (Lucera), mirando anche a conquiste sul Regno Svevo, nel 1255 emise la bolla Pia Matris contro Manfredi e i musulmani di Lucera, inneggiando ad una crociata contro di essi.[2] Alessandro comminò la scomunica e l'interdetto contro Manfredi e la sua fazione, ma ciò non servì a indebolirlo. Tantomeno poté arruolare i re d'Inghilterra e di Norvegia in una crociata contro gli Hohenstaufen. Una volta assicuratasi la fedeltà della colonia saracena, Manfredi, chiamato anche Sultano di Lucera (1258-1266)[3], poté arruolare un ingente esercito e muovere guerra all'esercito pontificio, che sconfisse presso Foggia. Roma stessa divenne ghibellina con il Senatore Brancaleone degli Andalò, e Papa Alessandro fu così costretto (1257) a trasferire la Sede pontificia in un luogo più protetto e ben fortificato, la città di Viterbo, dove morì nel 1261. by wikipedia
il conflitto proseguì sotto il comando del suo successore Alessandro IV, papa assai meno energico del suo predecessore, che pronunciò una nuova scomunica nei confronti dello svevo. Al papa non riuscì l'intento di arruolare i re d'Inghilterra e di Norvegia in una crociata contro gli Hohenstaufen; anzi la guerra procedette vantaggiosamente per Manfredi, che nel corso del 1257 sbaragliò l'esercito pontificio e domò le ribellioni interne, rimanendo in saldo possesso del regno, mentre dalla Germania il giovanissimo nipote Corradino gli conferiva ripetutamente i poteri vicariali. Roma stessa divenne ghibellina sotto il controllo del senatore bolognese Brancaleone degli Andalò e il papa fu costretto (1257) a trasferire la sede pontificia a Viterbo, dove morì quattro anni dopo. Nel 1256 Manfredi fondò Manfredonia, nei pressi dell'antica Siponto: nei progetti del regnante, Manfredonia era stata designata a fungere da capitale della Puglia ("Apuliae Caput", dove per Apuliae si intendeva in quel tempo tutto il meridione continentale) e importante centro per i traffici commerciali del Mediterraneo. Diffusasi nel 1258, probabilmente per opera stessa di Manfredi, la voce della morte di Corradino, i prelati e i baroni del regno invitarono Manfredi a salire sul trono ed egli fu incoronato il 10 agosto nella cattedrale di Palermo, luogo per tradizione deputato alle incoronazioni e sepolture dei re di Sicilia, da Rinaldo Acquaviva, vescovo di Agrigento. Tale elezione non venne riconosciuta dal papa Alessandro IV, che ritenne pertanto Manfredi un usurpatore. Il 2 giugno 1259 Manfredi, da poco vedovo di Beatrice di Savoia, sposò, in virtù di una serie di accordi diplomatici, con celebrazioni di grande sfarzo e solennità nel castello di Trani, Elena Ducas, figlia del despota d'Epiro Michele II e di Teodora Petralife[12][13]. Fra il 1258 e il 1260 la potenza di Manfredi, diventato ovunque capo della fazione ghibellina, si estese in tutta Italia. Il comune romano strinse un'alleanza con lui. In Toscana il partito ghibellino, capitanato dalla città di Siena, guidata da Farinata degli Uberti, ottenne una netta vittoria nella battaglia di Montaperti (4 settembre 1260) e divenne così, con l'ausilio delle sue truppe, padrone assoluto di Firenze. Anche in Italia settentrionale, dopo la catastrofe di Ezzelino III da Romano (1259), i ghibellini, rimasti assai forti, fecero capo a lui. Poté nominare vicari imperiali in Toscana, nel ducato di Spoleto, nella Marca anconitana, in Romagna e in Lombardia. Il suo dominio si estese anche in Epiro (Grecia), sulle terre portategli in dote dalla seconda moglie Elena Ducas; la sua potenza fu aumentata anche dal matrimonio della figlia Costanza con Pietro III d'Aragona (1262).
Urbano IV, nato Jacques Pantaléon (Troyes, 1195 circa – Deruta, 2 ottobre 1264), è stato il 182º papa della Chiesa cattolica dal 1261 alla morte.
Nel 1266 Firenze vede il ritorno del trionfante partito guelfo . Si apre un periodo di vendette e di lotte di potere tra i vincitori
Clemente IV, nato Gui Foucois o Guy Le Gros Foulquois o Foulques, italianizzato in Guido il Grosso Fulcodi (Saint-Gilles-du-Gard, 23 novembre tra il 1190 ed il 1200 – Viterbo, 29 novembre 1268), è stato il 183º papa della Chiesa cattolica dal 1265 alla morte. È beatificato l'8 giugno 1864 da Pio IX.
Il 30 novembre 1268 papa Clemente IV firma a Viterbo una bolla indirizzata a Carlo d’Angiò, in cui gli raccomanda Malatesta da Verucchio e Taddeo da Montefeltro per le ottime cose che avevano fatto a favore della Parte Guelfa. L’angioino recepisce il messaggio e l’anno dopo nomina il Malatesta suo vicario a Firenze, mentre nel 1270 Taddeo viene inviato a Lucca con lo stesso incarico. In quel momento i due governano il Comune di Rimini alternandosi nella podesteria; Taddeo, conte di Pietrarubbia, è il capo dei Montefeltro guelfi, mentre suo cugino Guido da Monfefeltro è il più prestigioso fra i leader ghibellini. Sia Malatesta che Taddeo erano stati pure loro dalla parte dell’imperatore, ma l’avevano abbanadonata dopo la sconfitta toccata a Federico II sotto le mura di Parma nel 1248. Sarà uno degli ultimi atti del pontefice, che morirà il 29 novembre. Per la sua successione occorrerà il più lungo conclave della storia, quelo di Vterbo con i suoi oltre mille giorni, finché i cittadini esasperati taglieranno i viveri ai cardinali e addirittura priveranno del tetto la sala in cui non sapevano decidersi. Intanto, colui che Dante chiamerà “il Mastin Vecchio” governa Firenze fino al 1270 con la carica di podestà. A quell’epoca l’Alighieri ha appena 5 anni, ma la sua Commedia è piena di riferimenti a quel periodo cruciale. Il 23 agosto 1268, infatti, si è combattuta la battaglia di Tagliacozzo, dove l’ultimo degli Hohenstaufen, il sedicenne Corradino di Svevia, è stato sconfitto e catturato da Carlo, che lo farà decapitare sulla piazza del mercato di Napoli il 29 ottobre, appena il giorno prima della Bolla di Clemente a Carlo. Due anni prima il figlio naturale di Federico II di Svevia e capo della parte ghibellina, Manfredi d’Altavilla – “biondo era e bello e di gentile aspetto” – era caduto nella battaglia vinta a Benevento sempre da Carlo d’Angiò. E’ l’inizio della fine per la parte imperiale in Italia, anche se il tramonto dei Ghibellini sarà ancora lungo, sanguinoso e segnato da episodi alterni. Non si sa molto del governo del Malatesta a Firenze. Probabilmente non dovette affrontare grossi conflitti di parte, se non altro perché fin dal 1267 ben 4 mila Ghibellini erano stati cacciati o costretti all’esilio; si erano rifugiati quasi tutti nella ghibellinissima Forlì e solo alcuni poterono rientrare in patria dopo la fine del governo guelfo, durato 10 anni di fila. Altri fuorusciti rientreranno nel 1282, dopo il “sanguinoso mucchio” di Forlì: Taddeo, a capo dell’armata guelfa di Romagna, era stato inviato a spazzare via l’ultima roccaforte imperiale. Con lui Giovanni d’Appia (Jean D’Eppe) che conduceva ben 3.400 uomini fra cui 800 francesi e contingenti della Toscana, delle Marche e dello Stato della Chiesa. Il lungo ed epico assedio fu però spezzato dall’astuzia di Guido, che con una falsa resa, a quel che si disse consigliato anche dal celeberrimo astrologo Guido Bonatti, incastrò l’esercito guelfo entro le mura della città per poi massacrarlo. Il cugino Taddeo morì in battaglia. In quella giornata c’era anche il Malatesta, ma era riuscito a salvare la pelle. Nel 1268 Malatesta da Verucchio è già oltre la cinquantina, un’età avanzata per l’epoca. Nessuno, lui compreso, può allora immaginare di trovarsi solo poco oltre la metà della sua vita centenaria: morirà nel 1312. In compenso, in molti hanno già ben chiaro che intende insignorirsi di Rimini. Ma dovranno passare ancora quasi trent’anni prima che nel 1295 il “Mastino” possa azzannare la città in maniera decisiva, instaurando la signoria che durerà oltre due secoli.
https://www.chiamamicitta.it/30-ottobre-1268-il-papa-raccomanda-malatesta-da-verucchio-per-il-governo-di-firenze/
In realta' il quadro politico comunale e' oramai cambiato. La ricca borghesia fiorentina e' oramai consapevole della sua forza politica E la nobilta' guelfa e' sostenuta al potere solo dal timore delle armi di Carlo d'Angio' re delle due Sicilie il vincitore di Benevento
Gregorio X, nato Tedaldo Visconti (o Tebaldo o Teobaldo) (Piacenza, 1210 circa – Arezzo, 10 gennaio 1276), è stato il 184º papa della Chiesa cattolica dal 1º settembre 1271 alla morte. A lui si debbono il Secondo Concilio di Lione e la Costituzione apostolica Ubi Periculum, che regola tuttora, con poche modifiche, l'elezione dei papi. È stato beatificato da papa Clemente XI nel 1713.
Salito al soglio pontificio Gregorio X nel ………, si rese conto che , se non si sottreva alle prepotenze dei francesi ( quelli di Parigi e quelli di Napoli ) rischiava di divenire solo il loro capellano. Penso quindi di richiamare nel gioco politico i Ghibellini italiani Era la solita tattica del Papato , pronto ad allearsi col nemico vinto quando l'amico vinceva troppo e minacciava di divenire il padrone assoluto della penisola. I signori di Saluzzo e del Monferrato furono indotti a ripudiare l'alleanza con gli Angio' . Il ghibellino Ottone Visconti fu nominato arcivescovo di Milano. Firenze fu invitata a riportare la pace fra le due fazioni in modo che i guelfi non prendessero un decisivo sopravvento sui ghibellini. E la corona d'imperatore rimasta senza titolare dopo la morte di Corradino , e che i Francesi cercavano di far assegnare ad uno dei loro principi , venne data con una manovra sotto banco a Rodolfo d'Asburgo , che era stato alleato degli Hoenstaufen. ( Montanelli : Storia d'Italia )
Gregorio X muore nel 1276 Quattro papi si succedono nel corso di quattro anni
Nel 1280 il Cardinale Latino tenta la pacificazione della citta' e fa giurare le paci tra guelfi e ghibellini
Nel 1280 sale al soglio pontificio un papa francese Simone de Brie col nome di Martino IV
Carlo d'Angio' colpevole d'una amministrazione scellerata ( finanze dissestate , amministrazione nel totale disordine ) stava passando un mucchio di guai Aveva posto la capitale del regno a Napoli ridotto la Sicilia e Palermo ad un ruolo di secondo piano Grande era il malcontento a Palermo sfociato il 31 marzo 1282 nei Vespri siciliani I Siciliani ricorsero al Papa Martino IV chiedendogli di assumere posizione a loro favore Ma il Papa francese non se la senti di mettersi contro i francesi ed anzi diede mano libera a Carlo per rioccupare l'isola I Siciliani ricorsero allora all'aiuto di Pietro d'Aragona offrendogli la corona in cambio del suo aiuto Dopo vicissitudine varie e complicazioni diplomatiche gli Angio' persero l'isola Nel 1302 divenne re di Sicilia Federico d'Aragona
In tutto questa confusione Carlo aveva ben altro da fare che occuparsi di Firenze Martino IV era un papa troppo debole per esercitare alcuna pressione Era la grande occasione per il popolo grasso fiorentino !
Nel 1282 istituzione dei Priori che si contrappone ed infine sostituisce i 14 Buonuomini istituiti dal cardinale Latino
Nella vita politica fiorentina il 1282 segna una tappa fondamentale in quanto proprio in questo anno , furono istituiti i Priori delle Arti : fatto che il Davidsohn considero' "uno dei piu' importanti mutamenti statutari che la citta'-repubblica abbia conosciuto e che decise del suo avvenire democratico "............ Cosi comincia un libro che merita di essere consultato : "Archivio delle Tratte" : introduzione ed inventario a cura di Paolo Viti e Raffaella Maria Zaccaria , pubblicato nel 1989 a cura del Ministero per i beni culturali e ambientali --pubblicazioni degli archivi di stato --strumenti CV dicono i curatori : Le pagine che seguono non hanno ne' la funzione , ne' la pretesa di disegnare la storia politico-istituzionale fiorentina per i secoli XIII-XVIII , bensi'soltanto lo scopo di avviare ad un organica lettura dell'inventario dell'Archivio delle Tratte. Questa introduzione intende quindi , esclusivamente fornire , a grandi linee , il quadro della realta' storica , politica , istituzionale in cui si svolse l'attivita' dell'ufficio delle Tratte , proprio per evidenziarne i momenti di maggiore importanza in un ampio e assai diverso spazio di tempo
I PRIORI NEL PERIODO 1282--1532
Bibliografia Viti Paolo e Zaccaria Raffaella Maria Archivio delle tratte
Raveggi Sergio http://193.205.4.30/fileadmin/uploads/risorse/medievale/fonti_strumenti/raveggi_priori.docIl professor Raveggi elenca Priori e Gonfalonieri dalle origini fino al 1343 Vengono identificate le famiglie
Barbadoro Bernardino Consigli della Repubblica fiorentina (1301-1315) In appendice : Priori e Gonfalonieri dal 15 febbraio 1301 al 15 febbraio 1315 Dei Priori e dei Gonfalonieri vengono identificate le famiglie come da "Priorista" Mariani
Marchionne di Coppo Stefani Cronaca Fiorentina Firenze Libri : memorie italiane studi e testi collana diretta da Giovanni Cherubini ,Giuliano Pinto, Andrea Zorzi Priori e Gonfalonieri dalle origini all’aprile 1386 + La cronaca fiorentina compare anche nelle "Delizie degli eruditi toscani" http://www.carnesecchi.eu/libri.htm
Diario di anonimo fiorentino (1382-1401 ) Alle bocche della Piazza a cura di Anthony Molho e Franek Sznura Leo Olschki editore
Pagolo di Matteo Petriboni Matteo di Borgo Rinaldi Priorista ( 1407-1459 ) Gabriella Battista e Jacqueline Gutwirth Istituto nazionale di studi sul rinascimento
Edited by David Herlihy, R. Burr Litchfield, Anthony Molho and Roberto Barducci FLORENTINE RENAISSANCE RESOURCES: Online Tratte of Office Holders 1282-1532 http://www.stg.brown.edu/projects/tratte/
Ecco il link allo studio del prof.Sergio Raveggi http://www.storia.unisi.it/fileadmin/uploads/risorse/medievale/fonti_strumenti/raveggi_priori.doc
Questo studio era gia' stato affrontato a cavallo del settecento dal Benvenuti e dal Mariani in forma manoscritta ( ASFi) Lo studio del Raveggi lo mette a disposizione tramite internet a tutti coloro che sono impossibilitati ad accedere alle risorse dell'archivio . Questo studio e' di altissima affidabilita'
In rete possiamo trovare anche il vasto studio sulle tratte http://www.stg.brown.edu/projects/tratte/ che copre tutto l'arco 1282--1532 Studio vastissimo che comprende Gonfalonieri e Priori , Buonuomini , Gonfalonieri di compagnia , consoli delle arti e che assegna anche una cognomizzazione ai vari eletti ma che non sempre e' interamente affidabile
La cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani , che e' inserita nelle Delizie degli eruditi toscani di padre Ildefonso e' corredata dalla serie di Priori che copre il periodo 1282--1386 ma che non assegna ( e non potrebbe ) cognomizzazioni agli eletti. I link ( libri google ) ai vari tomi delle Delizie li troviamo in questa stessa pagina. Tra le opere edite e' giusto ricordare : I consigli della Repubblica fiorentina a cura di Bernardino Barbadoro ( copre il periodo 15 feb. 1301 -- 14 aprile 1315 )
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Si acuisce lo scontro tra i Magnati e il Popolo Grasso Nel 1293 gli ordinamenti di Giustizia che sanzionano l'esclusione dei Magnati dal governo del Comune
s'inaspriscono le leggi contro i Magnati che ora a parita' di delitto saranno puniti molto piu' gravemente di un popolano , non solo se il Magnate fuggira' saranno gli appartenenti alla consorteria a pagare in sua vece I magnati dovranno versare una cauzione in denaro a garanzia del loro corretto comportamento
si tende a colpire il concetto di consorteria ( insieme di parenti e alleati ) che i Magnati avevano trasformato in bande in grado d'intervenire militarmente trasformando spesso la citta' in un campo di battaglia
Sembra la risposta di una popolo che ha bisogno di pace interna I popolani grassi pur condividendo i provvedimenti vedono in Giano Della Bella un pericolo Giano infatti si appoggia alle arti medie e minori e potrebbe rappresentare un pericolo per la cerchia di famiglie dominanti che appartengono al popolo grasso delle Arti maggiori
Un elenco delle famiglie magnatizie e' in Salvemini : nell'appendice IX di .............. che potete trovare sul sito alla pagina
Nel 1295 Giano Della Bella viene cacciato dai suoi nemici : forse commette l'errore di abbandonare la partita quando ancora tutto era ancora salvabile
Questo periodo e' quello pi' dibattuto dagli storici di un tempo
Gaetano Salvemini esamina la lotta tra il popolo e i Magnati inquadrandolo storiograficamente come una consrguenza della lotta di classe Nicola Ottokar tenta con l'indagine prosopografica ...............
DOCUMENTI :
Battaglia di Campaldino ultima battaglia combattuta con vecchie regole Un nuovo modo di schierare gli eserciti e di combattere le battaglie Esercito cittadino e milizie mercenarie Conseguenze : …………………………………………………………….
L'esercito cittadino cerca di slegarsi dalla dipendenza dai magnati
1294 Elezione di Bonifacio VIII a pontefice I Fiorentini " Quinto elemento del mondo"
Le mire di Bonifacio VIII su Firenze aprono……
Nascono tensioni a Firenze per questioni di rivalita' mercantili . Queste tensioni e divisioni si trasmettono in larga parte della popolazione E Firenze si divide nella parte Bianca e Nera
Un indagine acuta sulla crisi tra guelfi neri e bianchi e' nel libro : " la trasformazione di un quadro politico "
Le guerre di Firenze sono contro un avversario toscano : la partecipazione nelle lotte tra papato ed impero hanno visto raramente la partecipazione di truppe fiorentine fuori di questo ambito Il trecento vedra' i fiorentini impegnati a fronteggiare anche un nemico esterno La calata di Arrigo VII L'ampio tentativo espansionistico dei Visconti La guerra degli otto santi contro lo stato della Chiesa Gli eserciti mercenari che saccheggiano il contado
In questo stesso periodo la Francia inizia quel processo di unificazione sotto un unica monarchia che la portera' alla fine del quattrocento a costituire una potenza europea e a mettere in campo un esercito nazionale , una nobilta' guerriera , e armi e artiglierie avanzatissime
Nel 1305 il Papato si trasferisce ad Avignone ………………………………………..
--------------------------------------------------------------------------------- IL PAPATO AD AVIGNONE
da Wikipedia Papa Bonifacio VIII (1294-1303) perseguì una decisa riaffermazione dei privilegi e del potere pontificio, sia all'interno degli Stati della Chiesa che in ambito europeo. Tale politica lo mise in contrasto da un lato con le potenti famiglie feudatarie romane (in particolare i Colonna), dall’altro con i monarchi europei e principalmente con il re di Francia Filippo il Bello. Lo scontro fu durissimo su entrambi i fronti: ma mentre in ambito interno vide il temporaneo successo del Papa – culminato con la distruzione di Palestrina, feudo dei Colonna – Sciarra Colonna reagì fermamente, sino al punto di oltraggiare il Pontefice con l'episodio noto come schiaffo di Anagni. Trentaquattro giorni dopo tale episodio (11 ottobre 1303), Bonifacio VIII morì, per calcolosi renale. Il suo successore Benedetto XI (1303-1304) si trovò in una situazione difficile: Filippo il Bello era infatti in aperta ribellione all’autorità pontificia e minacciava sia di convocare un concilio del clero francese in cui proclamare l’autonomia della chiesa francese da Roma sia di istituire un processo post-mortem in cui far dichiarare pubblicamente Bonifacio VIII eretico, simoniaco, occultista e servitore del diavolo. I nobili romani intanto avevano iniziato di nuovo a dilaniarsi in guerre intestine che rendevano malsicura la Città eterna nonché l'incolumità del Pontefice. Benedetto XI non ebbe modo di intervenire perché, dopo soli 9 mesi di regno, morì (7 luglio 1304). L'insicurezza di Roma suggerì al Sacro Collegio di tenere il conclave a Perugia: durò ben undici mesi. Questa lunghezza fu dovuta all'incertezza dei cardinali sulla linea che la Chiesa avrebbe dovuto seguire, e di conseguenza quale candidato eleggere: alcuni cardinali propendevano per un ritorno alla politica di forza di Bonifacio VIII, altri per una via più conciliante che – rassicurando il re di Francia - scongiurasse lo scisma gallicano ma soprattutto il processo a Bonifacio VIII; lasciare che una parte del clero (quello francese) giudicasse un Papa e lo dichiarasse eretico avrebbe costituito un pericoloso precedente. Alla fine prevalse la linea accomodante e fu eletto il francese Bertrand de Got, che prese il nome di Clemente V (1305-1314). Egli non era presente al conclave: si trovava infatti a Bordeaux di cui era arcivescovo. Il nuovo Papa chiese ai cardinali di raggiungerlo a Lione per l'incoronazione: non era una novità, già Callisto II era stato incoronato nella vicina Vienne. Essi acconsentirono e, dopo la cerimonia, Clemente V fece ritorno a Bordeaux. Come previsto dai cardinali, Filippo il Bello si mostrò accomodante col Pontefice, e nel 1307 gli propose di barattare il processo a Bonifacio VIII con la distruzione dell'Ordine templare, i cui beni suscitavano l'interesse del monarca. Clemente accettò, ma si rese conto che in un simile frangente era necessario sia riaffermare l'indipendenza della Santa Sede sia tenere strettissimi contatti col sovrano francese: nel 1309 dunque si spostò da Bordeaux (che era sotto il dominio del re di Inghilterra) ad Avignone, che in sé era proprietà dei d'Angiò, sovrani di Napoli (da cui ottenne il permesso ad insediarsi) ma che si trovava in mezzo al Contado Venassino, feudo pontificio. Il Papa qui poteva sentirsi a casa propria ed allo stesso tempo era vicino ai luoghi ed ai personaggi intorno a cui si giocavano i destini della Chiesa. Oltre a queste considerazioni, le relazioni provenienti da Roma circa l'ordine pubblico sconsigliavano il ritorno del Pontefice nella sua sede storica. Se da un lato non è possibile conoscere le intenzioni di Clemente V circa il ritorno a Roma, dall'altro i molti interventi sulla Città eterna e l'Italia in generale lasciano pensare che i Pontefici considerassero transitoria la sede di Avignone
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Clemente V (5 giugno 1305-20 aprile 1314): Bertrand de Got Vacanza Giovanni XXII (7 agosto 1316-4 dicembre 1334) : Jacques Duèse o d'Euse Benedetto XII (20 dicembre 1334-25 aprile 1342) : Jacques Fournier Clemente VI (7 maggio 1342-6 dicembre 1352) : Pierre Roger (il meno propenso al rientro che pubblicamente dichiarò di preferire Avignone a qualunque altro luogo della terra,tanto che nel 1348 comprò la città dalla regina Giovanna I di Napoli per 80.000 fiorini. Innocenzo VI (18 dicembre 1352-12 settembre 1362) : Étienne Aubert 1353-1357: spedizione del cardinale Albornoz Urbano V (28 ottobre 1362-8 dicembre 1370) : Guillaume de Grimoard 16 ottobre 1367: il Pontefice rientra solennemente a Roma sino al 1370, quando nuove rivolte nello Stato della Chiesa lo costringono a tornare ad Avignone. Gregorio XI (30 dicembre 1370-27 marzo 1378) : Pierre Roger de Beaufort venne sollecitato da molte parti a seguire i passi di Urbano V: in questa opera di convincimento fu molto attiva Caterina da Siena. Il Pontefice si rendeva conto che i motivi del trasferimento ad Avignone erano ormai superati: la Francia era assorbita nella Guerra dei cent'anni e la situazione di Roma sembrava volgere al meglio. Non si poteva ulteriormente rimandare senza il rischio di vedere il tracollo del concetto stesso di Santa "Romana" Chiesa. Il 27 gennaio 1377 il Papa fece solenne rientro a Roma
da Wikipedia ----------------------------------------------------------------------------------
Variazioni della popolazione di Firenze
Credo che gli storici di Firenze debbano occuparsi del problema della tumultuosa crescita demografica e delle sue conseguenze politiche . L'arrivo dal contado di tanta gente nuova estranea alle logiche fiorentine e' da una parte alimento e fonte della crescita economica nello stesso tempo diventa un fattore politicamente destabilizzante . Le vecchie famiglie che avevano fino a questo momento governato si trovano ora a fare i conti con nuovi ricchi ( imprenditori e mercanti ) e con un proletariato sempre piu' vasto ed inquieto
La fine del Duecento e i primi decenni del Trecento furono l'età d'oro della Firenze medievale. La sua popolazione crebbe rapidamente accanto alla sua potenza. A partire dal 1284 il Comune iniziò la costruzione di una nuova ed ancora più vasta cerchia di mura, destinata ad accogliere la grande città che i fiorentini sognavano. Ma una tremenda serie di carestie ed epidemie (la "peste nera") bloccarono la crescita della città, tanto che le mura, concluse intorno al 1370, avrebbero racchiuso quasi tutta la popolazione della città per altri 500 anni.
Terzo cerchio di mura paragonato al secondo
Divisione in quartieri e gonfaloni del territorio compreso nel terzo cerchio di mura
Variazioni della popolazione di Firenze fino al 1400
Con gli ordinamenti di giustizia e l'esclusione di un vecchio mondo dal governo del Comune il potere diventa esclusivo appannaggio della classe mercantile . Ed e' il mercante che determina la politica fiorentina nel modo che ritiene piu' adatto a favorire i suoi affari Grandi momenti aspettano Firenze i cui mercanti e banchieri diventano titolari di ricchezze colossali Mercanti e banchieri che hanno bisogno di pace per il mantenimento e lo sviluppo dei traffici
Da Robert Davidshon Storia di Firenze
L'ascesa di nuove famiglie
…………Altre lotte e piu' gravi di quegli omicidi reciprochi e di quei tumulti cittadini incombevano su Firenze , la quale quando Berto Brunelleschi e Pazzino dei Pazzi caddero vittime dei loro nemici , si trovava implicata in competizioni che mettevano a rischio la sua indipendenza .Gia' sotto l'egida di coloro che erano scomparsi di recente , era stata iniziata la politica rischiosa ma lungimirante della citta' , ma essa fu continuata con previdenza e tenacia ammirevoli da uomini che trasmisero bensi i loro nomi a discendenti illustri , ma della cui personalita' quasi nessuna notizia e' pervenuta fino a noi Nei collegi dei Priori dal 1310 al 1313 furono rappresentate una o piu' volte le famiglie Soderini , dell'Antella , Valori , Albizzi , Minutoli , Rimbertini , Minerbetti , da Cerreto ,Foresi , Strozzi , Altoviti , Buonaccorsi , Machiavelli , Rondinelli , Corsini ,Acciaiuoli , Ricci , Alfani , Peruzzi , Medici .a fianco di costoro operavano nel governo giuristi come l'affaccendato notaio ser Matteo Biliotti , abile ed esperto nelle trattative diplomatiche , o l'equivoco giudice e rinomato giurista Baldo d'Aguglione . Fu quell'epoca nella quale mentre le antiche schiatte decadevano , una nuova aristocrazia cittadina sorgeva assai piu' dal grande commercio che dalla grande industria . Il titolo d'onore di questo sorgente patriziato dell'avvenire consistette nel poter annoverare molti dei suoi membri che avevano appartenuto al Collegio dei Priori o che avevano portato il Gonfalone di Giustizia , mentre per il passato le grandi famiglie menavano vanto del loro sangue germanico e delle gesta dei loro avi , che avevano indotto Carlo Magno a ricostruire la presunta distrutta Firenze , o della leggendaria collata che uno dei loro antenati aveva secoli addietro ricevuto dal marchese Ugo . Nessuno di coloro che ressero le sorti del comune fiorentino nel prossimo avvenire si segnalo' in modo speciale , ma la condotta dei governanti nel suo complesso fu ottima , nessuno di loro scrisse il suo nome negli annali della storia fiorentina in lettere d'oro , ma nessuno in lettere di sangue . Cio' fu l'effetto degli ordinamenti , il risultato dello sviluppo democratico , che impedi l'affermarsi di grandi individualita' e spiano' invece agli uomini abili di mezza statura la via alle piu' alte dignita' del Comune . Tutte le caratteristiche che per molto tempo furono proprie della citta' e del governo fiorentino si formarono in questo tempo o apparirono chiare adesso per la prima volta . La classe sociale , che tra le piu' grandi difficolta seppe affermare in alto e in basso la sua signoria , dimostro' tutti i pregi ed i difetti di una classe media ben dotata . Manco' di slancio e di eroico ardimento ; nella azione militare rivelo' il suo lato debole , ma la sua forza fu nella sagace visione delle circostanze , in una politica previdente e cauta e nel talento di attendere il momento propizio e di afferrarlo . Le lotte fiorentine del XIII secolo erano state qualcosa di particolarmente eroico , quelle invece del secolo XIV furono fredde , poco cavalleresche e non ebbero percio' nulla di glorioso .Ma la fortuna dei governanti derivo' dal fatto che essi seppero conoscere la realta' senza farsi illusioni , e se con gli altri potevano usare grandi parole , nel loro intimo non si nascosero che non potevano contare sull'eroismo della gente nova , ne' su quello del vecchio patriziato , che era politicamente ed economicamente tramontato e che aveva un valore sociale fondato soltanto sulla tradizione.
Dice Yves Renouard : L'ultimo trentenio del secolo XIII e il secolo XIV vedono a Firenze l'estendersi della ricchezza degli uomini d'affari e la loro affermazione politica nella citta' . La vittoria di Carlo d'Angio' ha fatto del gruppo di uomini d'affari senesi e fiorentini che lo hanno sostenuto una potenza economica internazionale : I Fiorentini rientrati in Firenze e divenuti capi politici della citta' ,sviluppano rapidamente , nonostante la rivalita' tra le famiglie , la loro attivita' in tutto il mondo cristiano ; e il declino ed il successivo disastro , con il fallimento dei Bonsignori nel 1298 , della grande economia senese , lascia loro il predominio nella banca e nel commercio mondiali . Per ottenerlo ed accrescerlo lungo tutto il corso del secolo XIV , essi approfittano dell'appoggio della Santa sede e del re di Sicilia , gli altri due membri dell'alleanza guelfa e della struttura di tipo continentale delle loro societa'. Gli uomini d'affari fiorentini continuano ad unirsi , come nel periodo precedente , in societa' dai soci numerosi , che raccolgono un rilevante capitale sociale per intraprendere affari di ogni tipo per un periodo di molti anni . Queste societa' si chiamano compagnie . Gli studi del Sapori hanno magistralmente messo in rilievo i particolari della loro organizzazione e della loro attivita'. Si tratta di societa' in nome collettivo : i soci sono responsabili verso i terzi coi loro beni personali , in modo illimitato dei debiti eventuali della compagnia…………………
DATI DEMOGRAFICI DELLE CITTA' E' una questione di quantita' e di dimensioni. All’inizio del Trecento l’ Europa non arrivava ai 70 milioni di abitanti. Verso la fine del secolo, la penisola italiana era abitata da quasi 8 milioni e mezzo di persone. Nel XIV secolo, Milano era comunque la città più popolosa d’Europa con oltre 150mila abitanti. Più di Parigi, unica città europea a superare i 100mila. Gabriella Piccinni, autrice di “Medioevo” ( Bruno Mondadori Editore ) parla a ragione di “metropoli italiane”: Firenze e Venezia infatti all’epoca avevano già più di 100mila abitanti. Ma era tutta la penisola a essere urbanizzata più del continente. Sei città del centro nord contavano tra i 40mila e i 50mila abitanti: Bologna, Verona, Brescia, Cremona, Siena e Pisa. Roma, sede del papato, in quegli anni aveva solo 30mila abitanti. Appena qualche migliaio in più di Perugia, che sfiorava i 25mila. Come Padova, Pavia, Parma, Mantova, Piacenza, Napoli, L’Aquila e Messina, Ancona e Ascoli Piceno. La bella Ferrara, come Forlì, Reggio nell’Emilia, Ravenna e Rimini non arrivava ai 15mila residenti. In Andalusia, Cordova e Granada, popolate da arabi, orientali, ebrei, europei e africani, dopo la “reconquista” scesero di colpo sotto i 50mila residenti. Qualche centinaio di abitanti in meno della prospera città fiamminga di Gand e di Colonia, che allora era la più ricca e popolosa delle città tedesche. La russa Velikij Novgorod, capitale di un vasto stato tra il Baltico, il mar del Nord e gli Urali, non arrivava ai 50mila abitanti. Salonicco, con 55mila abitanti era il centro più popoloso della Grecia. All’alba del XIV secolo, Londra era abitata da appena 35mila persone. E in tutta l’Inghilterra soltanto York, Norwich e Bristol superavano i 10mila abitanti.
Nel basso Medioevo gran parte delle realtà urbane sono città per statuto giuridico, ma il loro spessore demografico ed economico è assai scarso. Intorno alla metà del XIV secolo nell’Impero germanico si contano circa 3000 città: solo 200 hanno una popolazione superiore ai 1000 abitanti e 20 tra i 10 e i 15 mila abitanti. Una situazione non molto dissimile si riscontra in Inghilterra, in Francia, nella penisola iberica.
Da Wikipedia
LA DISCESA IN ITALIA DI ARRIGO VII
Enrico VII di Lussemburgo (il tedesco Heinrich; chiamato da Dante Arrigo; Valenciennes, 1275 – Ponte d'Arbia, 24 agosto 1313) fu conte di Lussemburgo, re di Germania dal 1303, re dei Romani e imperatore del Sacro Romano Impero dal 1312 alla morte. Egli fu il primo imperatore della Casa di Lussemburgo. Durante la sua breve carriera rafforzò la causa imperiale in Italia, divisa dalle lotte partigiane tra le fazioni guelfa e ghibellina, e ispirò i componimenti di lode di Dino Compagni e Dante Alighieri. Tuttavia, la sua morte prematura impedì il compimento del lavoro della sua vita. Enrico, figlio del conte Enrico VI di Lussemburgo, morto nel 1288 nella battaglia di Worringen, e di Beatrice d'Avesnes, fu educato, per influenza della madre francese, alla corte di Parigi. Divenne signore di proprietà relativamente piccole in una zona periferica e prevalentemente di lingua francese del Sacro Romano Impero. Era sintomatico della debolezza dell'Impero il fatto che, durante il suo governo come Conte di Lussemburgo, accettò di diventare un vassallo francese, cercando la protezione di Filippo il Bello (1294). Governò in modo efficace, soprattutto nel mantenimento della pace in dispute feudali locali e cercò di attuare una politica indipendente e di espansione del territorio: nel 1292 aveva sposato Margherita di Brabante, dalla quale avrebbe avuto tre figli, ma anche l'inimicizia tra le due case. Enrico venne coinvolto nella politica del Sacro Romano Impero con l'assassinio di re Alberto I del 1° maggio 1308. Quasi immediatamente, il re Filippo il Bello di Francia cominciò a cercare ostinatamente sostegno per suo fratello, Carlo di Valois, nella elezione a futuro re dei Romani. Convinto di avere l'appoggio del papa francese Clemente V, il suo progetto di portare l'impero nell'orbita della casa reale francese sembrava favorevole, e cominciò a diffondere generosamente denaro francese nella speranza di corrompere gli elettori tedeschi. Anche se Carlo di Valois aveva l'appoggio di Enrico II, arcivescovo di Colonia, sostenitore francese, molti non erano desiderosi di vedere una espansione del potere francese, e meno di tutti Clemente V. Il principale rivale di Carlo sembrava essere Rodolfo, conte palatino di Baviera. Considerate le sue origini, sebbene fosse un vassallo di Filippo il Bello, Enrico non era vincolato da legami nazionali, e questo era un aspetto della sua idoneità come candidato di compromesso tra gli elettori che erano infelici sia con Carlo che con Rodolfo. Il fratello di Enrico, Baldovino, arcivescovo di Treviri, conquistò un certo numero di elettori, tra cui Enrico di Colonia, in cambio di alcune concessioni sostanziali. Di conseguenza, Enrico abilmente negoziò la sua ascesa alla corona, fu eletto con sei voti a Francoforte il 27 novembre 1308 e successivamente fu incoronato ad Aquisgrana il 6 gennaio 1309. Incoronazione di Enrico imperatoreNel luglio 1309, papa Clemente V, dalla sua nuova sede in Avignone, confermò l'elezione di Enrico e inizialmente concordò personalmente di incoronarlo imperatore nella Candelora del 1312, essendo stato il titolo vacante dopo la morte di Federico II. Enrico in cambio, giurò protezione al Papa, e accettò di difendere i diritti della Santa sede, di non attaccare i privilegi delle città dello Stato Pontificio e di andare in crociata, una volta incoronato imperatore. Il 15 agosto 1309, Enrico VII annunciò la sua intenzione di recarsi a Roma, inviò i suoi ambasciatori in Italia per preparare il suo arrivo, e quindi di conseguenza le sue truppe sarebbero state pronte a partire entro il 10 ottobre 1310. Ma Enrico, appena incoronato re, ebbe problemi locali da affrontare prima di poter ottenere la corona imperiale. Gli fu chiesto di intervenire in Boemia da una parte della nobiltà boema e da alcuni ecclesiastici importanti e influenti, infelici del regime di Enrico di Carinzia: fu convinto a sposare suo figlio Giovanni, conte di Lussemburgo, a Elisabetta, la figlia di Venceslao II e così legittimare, a dispetto degli Asburgo, la sua pretesa alla corona boema. Prima di lasciare la Germania, cercò quindi di migliorare le relazioni con gli Asburgo, confermandoli nei loro feudi imperiali (ottobre 1309); in cambio, Leopoldo d'Asburgo accettò di accompagnare Enrico nella sua spedizione italiana e di fornire anche delle truppe. Enrico riteneva necessario ottenere l'incoronazione imperiale da parte del papa, sia a causa delle umili origini della sua casa, sia a causa delle concessioni che era stato costretto a fare per ottenere la corona tedesca. Egli inoltre considerava le corone d'Italia e di Arles, come un necessario contrappeso alle ambizioni del re di Francia. Per garantire il successo della sua spedizione italiana, Enrico entrò in trattative con Roberto, re di Napoli a metà del 1310, con la intento di sposare sua figlia, Beatrice, al figlio di Roberto, Carlo, Duca di Calabria: si sperava così di ridurre in Italia le tensioni che contrapponevano gli anti-imperiali Guelfi, che guardavano al Re di Napoli per la leadership, e i pro-imperiali ghibellini. I negoziati, però, furono interrotti a causa di eccessive richieste monetarie di Roberto e per l'interferenza del re di Francia, Filippo, che non gradiva una tale alleanza. La discesa in Italia Mentre questi negoziati erano in corso, Enrico iniziò la sua discesa nel nord Italia nel mese di ottobre 1310, mentre suo figlio maggiore Giovanni rimaneva a Praga come vicario imperiale. Nel corso della traversata delle Alpi e della pianura lombarda, nobili e prelati di entrambe le fazioni guelfe e ghibelline si affrettarono a salutarlo, mentre Dante diffuse una lettera pregna di ottimismo indirizzata ai governanti e al popolo di Firenze. Decenni di guerra e di lotte aveva visto in Italia la nascita di decine di città-stato indipendenti, ognuna nominalmente guelfa o ghibellina, sostenuta dalla nobiltà urbana a sostegno di un sovrano potente (come Milano), o dalle emergenti classi mercantili incorporate in uno stati repubblicano (come Firenze). All'inizio non dimostrò alcun favoritismo per nessuna delle parti, sperando che la sua magnanimità sarebbe stata ricambiata da entrambe le parti; tuttavia, insistette sul fatto che i governanti attuali di tutta le città-stato italiane avevano usurpato i loro poteri, che le città dovevano tornare sotto il controllo immediato dell'Impero, e che gli esuli dovevano essere richiamati. Infine costrinse le città a rispettare le sue richieste. Anche se Enrico ricompensò la loro sottomissione con titoli e feudi, questo atteggiamento causò una forte risentimento che crebbe nel corso del tempo. Questa era la situazione che il re dovette affrontare quando arrivò a Torino nel novembre del 1310, alla testa di 5.000 soldati, di cui 500 cavalieri. Dopo un breve soggiorno ad Asti, dove intervenne negli affari politici della città con grande costernazione dei guelfi italiani, Enrico procedette verso Milano, dove fu incoronato re d'Italia con la Corona Ferrea il 6 gennaio 1311. I Guelfi toscani si rifiutarono di partecipare alla cerimonia e così ebbe inizio la preparazione all'opposizione ai sogni imperiali di Enrico. Come parte del suo programma di riabilitazione politica, Enrico richiamò dall'esilio i Visconti, i governanti estromessi da Milano. Guido della Torre, che aveva cacciato il Visconti da Milano, si oppose e organizzò contro l'imperatore una rivolta che fu spietatamente repressa, mentre i Visconti riacquistavano il potere e Matteo Visconti veniva nominato vicario imperiale di Milano, e suo cognato, Amedeo di Savoia, vicario generale in Lombardia. Queste misure, oltre a un prelievo di massa imposto alle città italiane, portò le città guelfe a rivoltarsi contro Enrico e determinò un'ulteriore resistenza quando il sovrano cercò di far valere i diritti imperiali su quelle che erano diventate terre comunali e provò a sostituire i regolamenti comunali con le leggi imperiali. Tuttavia, Enrico riuscì a ripristinare una parvenza di potere imperiale in alcune parti del nord Italia, in città come Parma, Lodi, Verona e Padova. Allo stesso tempo ogni resistenza dei comuni del nord Italia veniva soppressa senza pietà. La prima città a subire l'ira di Enrico fu Cremona, dove la famiglia Torriani e i loro sostenitori si erano rifugiati: cadde il 26 aprile 1311 e le mura della città furono rase al suolo. Enrico poi impiegò quattro mesi di tempo nell'estate 1311 nell'assedio di Brescia, che gli fece ritardare il suo viaggio a Roma. L'opinione pubblica cominciò a rivoltarsi contro Enrico; la stessa Firenze si alleò con le comunità guelfe di Lucca, Siena e Bologna e si impegnò in una guerra di propaganda contro il re. Questo comportò anche che papa Clemente V, sotto la pressione crescente da re Filippo di Francia, comincià a prendere le distanze da Enrico e ad abbracciare la causa dei guelfi italiani che si erano rivolti al papato per ottenere sostegno. Nonostante la peste e le diserzioni, Enrico riuscì a ottenere la resa di Brescia nel settembre 1311, poi passò per Pavia prima di arrivare a Genova, dove di nuovo cercò di mediare tra le fazioni in lotta all'interno della città. Durante il suo soggiorno nella città, sua moglie Margherita di Brabante morì. Inoltre, mentre era a Genova scoprì che il re Roberto di Napoli aveva deciso di opporsi alla diffusione del potere imperiale nella penisola italiana e aveva ripreso la sua tradizionale posizione di capo della parte guelfa, che vedeva schierate Firenze, Lucca, Siena e Perugia. Enrico provò ad intimidire Roberto ordinandogli di presenziare alla sua incoronazione imperiale e di giurare fedeltà per i suoi feudi imperiali in Piemonte e Provenza. Mentre gran parte della Lombardia era in aperta ribellione contro Enrico, con rivolte tra il dicembre 1311 e il gennaio 1312, in Romagna il re Roberto rafforzava la sua posizione. Tuttavia, i sostenitori imperiali riuscivano a occupare Vicenza e ricevevano un'ambasciata da Venezia, che offriva l'amicizia della loro città. Dopo aver trascorso due mesi a Genova, il sovrano continuò in nave verso Pisa, dove fu ricevuto con entusiasmo dagli abitanti, ghibellini e nemici tradizionali di Firenze. Qui ancora una volta iniziò a negoziare con Roberto di Napoli, prima di decidere di entrare in un'alleanza con Federico III di Sicilia, per rafforzare la sua posizione e mettere pressione sul re angioino. Poi lasciò Pisa per andare a Roma per essere incoronato imperatore, ma sulla sua strada dovette scoprire che Clemente V non aveva intenzione di incoronarlo lì. La guerra contro Firenze e Napoli Enrico si avvicinò alle mura di Roma, mentre la città era in uno stato di confusione: la famiglia Orsini aveva abbracciato la causa di Roberto di Napoli, mentre i Colonna erano schierati con gli imperiali. Il 7 maggio, le truppe tedesche si fecero strada attraverso il Ponte Milvio ed entrarono in Roma, ma fu impossibile scacciare le truppe angioine dalla roccaforte del Vaticano. La famiglia Colonna controllava stabilmente la zona attorno alla basilica di San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore ed il Colosseo; Enrico fu costretto a svolgere la sua incoronazione il 29 giugno 1312 presso il Laterano. La cerimonia fu effettuata da tre cardinali ghibellini che si erano uniti a Enrico lungo il suo cammino attraverso l'Italia. Roberto di Napoli, nel frattempo, aumentava le sue richieste all'imperatore: voleva che suo figlio Carlo fosse nominato vicario imperiale di Toscana e che Enrico partisse da Roma entro quattro giorni dalla sua incoronazione. Ma Enrico rinunciava a impegnarsi, come papa Clemente V gli aveva chiesto, di cercare una tregua con Roberto di Napoli e anzi minacciava di attaccare il Regno di Napoli, dopo aver concluso un trattato con il rivale di Roberto al trono di Sicilia, Federico d'Aragona. Ma il caos nella città di Roma costrinse Enrico ad allontanarsi e, seguendo il consiglio dei ghibellini toscani, si recò ad Arezzo. Qui, nel settembre 1312, emise una sentenza contro Roberto di Napoli, in quanto vassallo ribelle, mentre da Carpentras, vicino ad Avignone, Clemente V non era disposto a sostenere pienamente l'imperatore. Ma prima che Enrico potesse organizzarsi per attaccare Roberto di Napoli, dovette avere a che fare con i fiorentini. A metà settembre, si avvicinò molto rapidamente alla città toscana: era ovvio che la milizia della città e la cavalleria guelfa non potevano competere con l'esercito imperiale in una battaglia aperta. Siena, Bologna, Lucca e altre città inviarono uomini per aiutare nella difesa delle mura. Così ebbe inizio l'assedio di Firenze: l'imperatore disponeva di circa 15.000 fanti e 2.000 cavalieri, contro 64.000 difensori. Firenze fu in grado di mantenere aperta ogni porta, tranne quella che dalla parte dell'imperatore assediante, e mantenne tutte le sue rotte commerciali funzionanti. Per sei settimane Enrico batté le mura di Firenze e alla fine fu costretto ad abbandonare l'assedio. Tuttavia, entro la fine del 1312, aveva soggiogato gran parte della Toscana e avevano trattato i suoi nemici sconfitti con grande indulgenza. Nel marzo del 1313, l'imperatore tornò nella sua roccaforte di Pisa, e da qui accusò formalmente di tradimento Roberto di Napoli che finalmente aveva deciso di accettare la carica di capitano della lega guelfa. Mentre indugiava a Pisa, in attesa di rinforzi provenienti dalla Germania, attaccò Lucca, un nemico tradizionale di Pisa. Dopo aver ottenuto più denaro che poteva da Pisa (circa 2 milioni di fiorini), Enrico iniziò la sua campagna contro Roberto di Napoli l'8 agosto 1313. I suoi alleati italiani erano restii a unirsi a lui e così il suo esercito era composto di circa 4.000 cavalieri, mentre una flotta era pronta ad attaccare il regno di Napoli dal mare. Il suo primo obiettivo fu la città guelfa di Siena, che cinse d'assedio, ma nel giro di una settimana fu colpito dalla malaria. Mentre si stava rapidamente indebolendo, lasciò Siena il 22 agosto e si rifugiò nella piccola città di Serravalle, non lontano da Ponte d'Arbia, presso Siena, dove morì il 24 agosto 1313. La leggenda vuole che fosse stato avvelenato da un sacerdote tramite un'ostia durante il rito della comunione presso il convento di Buonconvento. Nel punto esatto in cui morì è stata eretta una piccola cappella, situata sul percorso della vecchia via Cassia. Quando il tracciato fu cambiato, la chiesa venne abbattuta e spostata sul ciglio della strada, dove è ancora oggi visibile. Il suo corpo fu portato a Pisa. Enrico non aveva nemmeno 40 anni quando morì e le speranze per un effettivo potere imperiale in Italia, morì con lui. Alla morte di Enrico VII, e per i decenni successivi, la figura centrale nella politica italiana sarebbe stata proprio Roberto di Napoli. Nell'Impero, il figlio di Enrico, Giovanni il Cieco, fu eletto re di Boemia nel 1310. Dopo la morte di Enrico VII, due rivali, Ludovico Wittelsbach di Baviera e Federico il Bello della Casa d'Asburgo, rivendicarono la corona. La loro disputa culminò il 28 settembre 1322 nella battaglia di Mühldorf, dove Federico fu sconfitto. Anche la spedizione italiana di Ludovico (1327-1329), realizzata nello spirito di recuperare le sconfitte di Enrico, fu abortito. L'eredità di Enrico risulta particolarmente evidente nelle carriere di successo di due fra i despoti locali che egli fece vicari imperiali in città del nord, Cangrande I della Scala di Verona e Matteo Visconti di Milano. da Wikipedia
Uguccione della Faggiola, (Casteldelci, 1250 – Vicenza, 1º novembre 1319) Capitano di ventura ed uomo politico, fu tra i protagonisti della vita politica e militare del Medioevo in particolare all'interno delle vicende che contrassegnarono lo scontro tra Papato ed Impero. Nato a Casteldelci nel 1250, che all'epoca era sotto l'amministrazione di Massa Trabaria , al confine tra Romagna, Marche e Toscana, dopo aver tentato di diventare signore di Forlì (1297), contando sulle simpatie ghibelline della città, e dopo essere stato podestà e signore di Arezzo nel 1295 e poi ancora nel 1302 fu vicario del re Enrico VII di Lussemburgo a Genova tra il 1311 e il 1312, fu chiamato a Pisa nel 1313 per esercitarvi la signoria. Il 1315 segna l'anno del massimo fulgore della sua stella nel firmamento del Ghibellinismo toscano, è di quell'anno infatti la Battaglia di Montecatini il fatto d'arme che consolidò ed estese a tutta la penisola la sua fama di abile condottiero.
La battaglia di Montecatini fu combattuta il 29 agosto 1315 tra Uguccione della Faggiola, in quel momento Signore di Pisa e Lucca e una coalizione di forze delle città di Firenze, Siena, Prato, Pistoia, Arezzo, Volterra, San Gimignano, San Miniato, etc. con l'appoggio degli Angioini di Napoli. Contro ogni aspettativa la battaglia fu vinta dall'esercito pisano, guidato da Uguccione della Faggiola. Si trattava di uno scontro impari, da una parte c'era Firenze, allora una delle città più ricche e potenti d'Italia e d'Europa, con numerose città alleate e l'appoggio degli Angioini guidati da Filippo I d'Angiò, figlio del Re di Napoli, Carlo II d'Angiò, dall'altra Pisa, una città in declino dopo la sconfitta della Meloria e Lucca, città di secondo piano nel primo quarto del XIII secolo, e comunque mai troppo entusiasta nell'essere governata dai pisani. Secondo i cronisti dell'epoca fu proprio la grande sproporzione di forze in campo che indusse soprattutto i Fiorentini a sottovalutare e a dare per scontato l'esito dello scontro. Firenze ed i suoi alleati non solo non si preoccuparono di motivare e tenere desto lo spirito combattente dei loro uomini, ma sottovalutarono anche l'unico punto di forza dello schieramento pisano, rappresentato da un contingente di 1800 cavalieri mercenari tedeschi, scesi in Italia con le truppe imperiali di Enrico VII di Lussemburgo i quali si erano poi trattenuti al servizio di Pisa a suon di fiorini, ma nello stesso tempo erano animati da un odio profondo verso i Guelfi e gli Angioini. E in memoria dei soldati tedeschi morti alla battaglia fu edificata a Pisa la Chiesa di San Giorgio ai Tedeschi. Dei tre capi angioini Carlo di Acaia morì in combattimento, il Carlo Tempesta scomparve probabilmente annegato, Filippo di Taranto, febbricitante, non partecipò neppure alla battaglia, e si rifugiò al più presto entro le mura di Firenze. Tra vittime e prigionieri per i quali si dovettero pagare ingenti riscatti la battaglia si trasformò per Firenze in una vera disfatta. Un cronista dell'epoca Giovanni Villani, racconta che tra le grandi famiglie fiorentine, poche furono quelle che non ebbero a contare lutti al proprio interno in seguito alla battaglia. In seguito a questa vittoria per molti versi clamorosa ed inattesa Firenze fu abbandonata da gran parte delle città toscane che si affrettarono a chiedere e a ottenere la pace con Pisa, e riuscì a salvarsi solo grazie ad una ritrovata concordia interna. Nel 1316 i pisani cacciarono Uguccione perché stanchi dei suoi metodi autoritari e dell'esosità delle imposte richieste dalle esigenze militari, questo fatto lo costrinse a cercare rifugio presso Cangrande I della Scala che lo fece podestà di Vicenza. Con questa autorità Uguccione represse duramente la rivolta guelfa del maggio 1317.
FIRENZE DEVE AFFRONTARE IL FORMIDABILE PERICOLO COSTITUITO DA CASTRUCCIO CASTRACANI
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Il ghibellino Castruccio Castracani degli Antelminelli (Lucca, 29 marzo 1281 – Lucca, 3 settembre 1328)
Nato dall'importante famiglia ghibellina degli Antelminelli, Castruccio Castracani fu cacciato da Lucca nel 1300 dalla fazione dei Neri, guidati da Bonturo Dati. Inizialmente visse in esilio a Pisa, visse poi a lungo in Inghilterra, dove la sua abilità nell'uso delle armi gli valse la vittoria in alcuni tornei e gli ingraziò i favori del re Edoardo I d'Inghilterra. Tuttavia un omicidio commesso per motivi d'onore lo costrinse a spostarsi in Francia, dove Filippo il Bello aveva bisogno "d’uomini d’ arme". Fu impiegato dai francesi come comandante della cavalleria, e si distinse nella battaglia di Arras e nella difesa di Thérouanne nella Guerra di Fiandra. Dopo alcuni anni fece ritorno in Italia, dove si trattenne a Verona e Venezia. In seguito alla discesa di Arrigo VII in Italia, si aggregò (1314) alle truppe ghibelline di Uguccione della Faggiuola, capo riconosciuto dei ghibellini toscani e signore di Arezzo e Pisa, assieme al quale partecipò alla presa e al successivo sacco di Lucca, retta sino allora dalla parte guelfa. Combatté come comandante di una parte dell'esercito ghibellino nella battaglia di Montecatini (29 agosto 1315) in cui, con l'aiuto dei soldati dell'imperatore, risultò il principale artefice della vittoria sui fiorentini della Lega Guelfa. Gli storici Giovanni Villani, Scipione Ammirato, Niccolò Machiavelli ricordano i danni arrecati da Castruccio e dalle sue truppe al territorio fiorentino, fra cui Empoli. Caduto in disgrazia presso Uguccione, che lo intravide come concorrente per la signoria, fu da questi imprigionato in attesa di essere giustiziato. Tuttavia a seguito di una rivolta popolare a Lucca e Pisa, Uguccione dovette fuggire, Castruccio fu liberato ed acclamato Capitano Generale della città di Lucca, e poco dopo (12 giugno 1316) Console a vita. La signoria di Lucca Il potere ghibellino e la signoria di Lucca furono consolidati negli anni successivi da Castruccio Castracani. Nel 1320, Castruccio riprese improvvisamente le ostilità contro i fiorentini, irrompendo nel loro territorio, incendiando e razziando dove passava (si trovano notizie del suo passaggio a Prato e nella sua periferia). Nel medesimo anno l'arciduca d'Austria Federico I d'Asburgo lo nominò vicario per Lucca, la Lunigiana e la Val di Nievole, e in tale incarico fu confermato nel 1324 dall'imperatore Ludovico il Bavaro, suo amico e alleato.
------------------------ Il 22 settembre e 23 settembre 1325, nella battaglia di Altopascio, batté nuovamente i fiorentini di parte guelfa, facendo grande razzia di prigionieri, e anche per questo fu nominato, sempre da Ludovico il Bavaro, duca di Lucca. Dopo aver sottomesso altri centri ghibellini, Castruccio aveva conquistato Pistoia e minacciava la stessa Firenze. Le truppe fiorentine si mossero in forze per attaccare Castruccio ad Altopascio, ma questi, non ritenendosi ancora pronto a dar battaglia e attendendo rinforzi dai Bonacolsi, dai Visconti e da Cangrande della Scala, scelse una tattica dilatoria e si acquartierò presso l'attuale Montecarlo. Assediata dal Cardona, la piccola guarnigione di Altopascio, formata da 500 uomini, dovette arrendersi alle preponderanti forze nemiche, costituite da 15.000 fanti e 2.500 cavalieri. Queste erano formate in gran parte da mercenari, tra cui francesi, tedeschi e borgognoni; nonostante l'evidente disparità di forze gli altopascesi riuscirono a resistere 26 giorni, dal 3 al 29 agosto 1325. I vincitori, stanziatisi ad Altopascio, subirono notevoli perdite per l'ambiente malsano (il centro era allora circondato da zone paludose, in particolare il padule di Bientina) e per le risse e la corruzione che serpeggiavano tra i soldati. Per questo, il 9 settembre spostò il campo alla Badia Pozzeveri, ma si rese presto conto di aver commesso un errore, in quanto era ancora meno salubre e difendibile. Nel frattempo Castruccio rinforzò le posizioni di Vivinaia, del Cerruglio (ora Montecarlo) e di Porcari.
Svolgimento Il 21 settembre un manipolo di soldati e braccianti mandati dal Cardona a preparare un nuovo accampamento, nel tentativo di spostarsi verso la più salubre collina di Montecarlo, venne attaccato e distrutto nella zona tra Porcari e Montechiari. Il condottiero guelfo, temendo una caduta di prestigio, si preparò alla reazione schierando le sue truppe nella piana di Altopascio, che gli offriva maggiori vie di fuga. I soccorsi milanesi tardavano ad arrivare perché Azzo Visconti, nipote di Galeazzo, che era giunto a Lucca, prima di muoversi pretendeva tutta la somma pattuita (riceverà dai lucchesi 25.000 fiorini d'oro per il suo intervento). A detta del Villani, a convincerlo vennero mandate le più belle donne di Lucca, compresa la stessa moglie di Castruccio, Pina dei signori di Corvaia. Il 23 settembre 1325 Castruccio, con l'aiuto anche dei milanesi di Azzo Visconti, dovette accettare battaglia e affrontò i guelfi in campo aperto. Al primo attacco primeggiarono i fiorentini, ma alla seconda carica di cavalleria non ressero il contrattacco e furono ridotti allo sbaraglio; i fanti fiorentini vennero travolti dai propri cavalieri in ritirata a rotta di collo (lo stesso Cardona fuggì), mentre la cavalleria lucchese tagliava tutte le vie di fuga. Esito Per Castruccio fu una vittoria strepitosa: i ghibellini riconquistarono Altopascio e diversi altri borghi e molti guelfi, compreso il Cardona, vennero fatti prigionieri. Il 29 settembre anche Signa cadde e il 2 ottobre Castruccio si spinse a Peretola. Venne fatto duca di Toscana dall'imperatore Lodovico il Bavaro, e l'11 novembre (giorno di san Martino) la città di Lucca gli dedicò un trionfo in stile romano, in cui venne mostrato anche il Carroccio conquistato ai fiorentini, con la campana senza battacchio e lo stendardo fiorentino capovolto. Alle porte di Firenze Castruccio fece correre, per scherno, tre palii, uno di cavalieri, il secondo di persone a piedi e il terzo di prostitute. Inoltre, per celebrare la vittoria, coniò una moneta che fu chiamata castruccino.
Con l'aiuto di Filippo Tedici assoggettò Pistoia e consolidò le sue mura abbattute dai Guelfi Fiorentini e Lucchesi nel 1306 Mentre stava quindi muovendo verso Firenze, fu costretto a rinunciare all'assedio per partecipare a Roma all'incoronazione dell'imperatore Ludovico. Durante il soggiorno romano, ricco di soddisfazioni, fu nominato anche Grande Legato per l'Italia. In seguito mise a punto un piano per allagare Firenze chiudendo l'Arno a Lastra a Signa, in località la Gonfolina, che agrimensori interessati ritennero impossibile Ludovico il Bavaro concedette a Castruccio Castracani per i suoi meriti di inserire nel suo stemma araldico ("Can bianco in campo Azzurro"), gli scacchi azzurro e argento dei Duchi di Baviera Fu costretto per l'insurrezione di Pistoia a tornare velocemente a Pisa e, da lì, con il suo speciale corpo di duemila balestrieri, si precipitò sotto le mura di Pistoia. Assediata dall'esercito lucchese, la città non resistette a lungo e in poco tempo Castruccio riusci ad impossessarsene nuovamente. Insieme a Ludovico, Castruccio fu scomunicato nel 1327 da parte del Papa Giovanni XXII, per la sua avversione al potere temporale della Chiesa. Morì a Lucca il 3 settembre del 1328, mentre si preparava a riprendere le armi contro Firenze. Il 6 agosto dello stesso anno era morto a Pescia Galeazzo Visconti, a causa una di malattia che presa stando con Castruccio nelle osterie intorno a Pistoia.
……………………….......................………………………………….. Lo studio del prof . Raveggi permette anche di ricavare il ceto dirigente ciascun sesto
ceto dirigente ...........……famiglie dominanti il Sesto Oltrarno ceto dirigente ...........……famiglie dominanti il Sesto di Porta San Pietro scheraggio ceto dirigente ...........……famiglie dominanti il Sesto di Borgo SS Apostoli ceto dirigente ...........……famiglie dominanti il Sesto di Porta San Pancrazio ceto dirigente ...........……famiglie dominanti il Sesto di Porta del Duomo ceto dirigente ...........…… famiglie dominanti il Sesto di Porta San Piero maggiore
Possiamo vedere come molte delle famiglie formanti l'oligarchia quattrocentesca sono gia' presenti nel ceto dirigente dell'inizio trecento
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http://www.rm.unina.it/didattica/strumenti/sapori/indice.htm Tratto da Armando Sapori, La mercatura medievale, Sansoni (Scuola Aperta), Firenze 1972
1. Il mercante italiano dell'età eroicaa) PERSONALITÀ. Siamo abituati a considerare caratteristica del "Medioev " la solidarietà di gruppo, da quello familiare a quello corporativo, tanto forte da annullare i tratti personali di coloro che del gruppo facevano parte; a ritenere caratteristico del "Rinascimento" l'esplodere della personalità che il Burckhardt trovò nella elite dei tiranni, dei condottieri e degli uomini d'ingegno da loro protetti, i cancellieri e i segretari. Non conosceva, il Burckhardt, i mercanti dei secoli XIII e XIV – non li poteva conoscere perché un secolo fa nell'ambito dell'indirizzo storiografico dell'idealismo gli studiosi non comprendevano l'economia tra le espressioni della struttura di una civiltà –; è per questo che sarà di maggiore interesse presentare sinteticamente all'inizio di questo capitolo la figura del grande uomo di affari del Due e del Trecento non confuso nella anonimità del gruppo ma dal gruppo decisamente emergente con una poderosa e varia personalità: non soltanto mercante e banchiere e reggitore dei Comuni, ma anche tesoriere di principi stranieri, organizzatore dei loro eserciti e delle loro flotte, loro rappresentante diplomatico. Dico di più: non soltanto l'"uomo universale" che non si troverebbe prima del Quattrocento era una realtà di anni precedenti; ma in quegli anni si aveva addirittura la sensazione di tale universalità. Bonifacio VIII, per esempio, che nel giorno della incoronazione ebbe l'omaggio di tutti i signori della cristianità, constatando che tutti erano rappresentati da mercanti di Firenze, pronunciò la frase famosa "i Fiorentini sono il quinto elemento dell'universo". D'altronde, fu proprio per il precoce individualismo che nel campo corporativo la concorrenza fra singoli e fra Arti si iniziò di buon’ora, come si è visto, passando attraverso alle maglie di una legislazione a prima vista rigorosissima; che le prime crepe venarono il blocco già monolitico della famiglia, via via meno accentrato attorno al padre e al nonno capi assoluti della casata e, se c'era, della compagnia mercantile, la quale già dai primissimi del Trecento si scindeva alla morte del genitore per formarne altre a nome dei singoli figlioli. b) ISTRUZIONE [ v. LETTURA 7]. Henri Pirenne, partendo dalla considerazione che ogni commercio appena un po' sviluppato presuppone necessariamente in coloro che lo esercitano un certo livello di istruzione – tanto che si può affermare che l'istruzione dei mercanti di una data epoca è determinata dalla attività economica dell'epoca stessa e nel medesimo tempo ne è un indice certo –, si è chiesto quali furono i mezzi di apprendimento del mercante. Nelle regioni nelle quali ha spinto a fondo le ricerche, le Fiandre, è risalito alla metà del secolo XIII; e, quanto all'Italia, ha avanzato la supposizione che ci si possa spingere addietro: "In Italia l'istruzione dei mercanti nel secolo XIII appare talmente sviluppata e superiore a quella delle regioni del nord che non si può fare ameno di ammettere che si appoggiasse su un lungo passato". Purtroppo mancano prove esaurienti, ma ciò che sappiamo – ed è molto di più di quello che era noto al Pirenne –, per il Due e il primo Trecento, autorizza a tramutare la supposizione in certezza. Comunque si passò dalla scuola presso il convento alla scuola comunale istituita non senza aspre lotte col vescovo e che procedeva in parallelo con la scuola privata: nella quale l'ortodossia degli insegnanti non doveva essere obbligatoria se col tempo ne troveremo a Firenze una in via Ghibellina di cui era titolare Gasparo di Ricco segnato per eretica pravità e fra gli esponenti del tumulto dei Ciompi. Era ordinata su tre gradi: Giovanni Villani così riferisce per Firenze nel primo trentennio del Trecento: "troviamo ch'e' fanciulli e fanciulle che stanno a leggere [sono] da 8 a 10.000; i fanciulli che stanno a imparare l'abbaco e algorismo in sei scuole, da 1000 in 1200; e quelli che stanno ad apprendere la grammatica e logica in quattro grandi scuole da 550 in 600" . Per immettersi nel giro degli affari occorreva infine il tirocinio presso il "fondaco" – laboratorio o negozio di vendita –, la scuola del lavoro pratico. Scrive Donato di Filippo Velluti del figlio Lamberto: "Venne crescendo e puosilo a squola: avendo apparato a leggere e avendo bonissimo ingegno, memoria e intelletto, e buono e saldo parlare, apparava e apprendeva bene; di che in poco tempo fu buono grammatico. Puosilo all'abaco, e diventò in pochissimo tempo buon abachista. Poi nel levai, e avendogli fatto una bottega di lana in prima con Ciore Pitti e poi con Manente Amidei, il puosi alla cassa. Stette parecchi anni senza avervi amore: poi cominciò a porvi amore, e eravi tanto sollecito e tanto sperto, quanto fosse giovane di questa terra; e avendogli messo in mano il libro del dare e dell’avere il tenea guidava e governava come avesse quaranta anni. E per lo suo intelletto e sua grande memoria, se ci fosse vivuto sarebbe stato de’ sufficienti artieri e mercatanti di questa terra". Dal che si ha che il "sufficiente artiere e mercante" era una persona dotata di intelligenza, di grande passione per il suo mestiere, di cultura tecnica.Altro mezzo di apprendimento erano i viaggi. Ci sarebbe da pensare che il bisogno di spostarsi continuamente gli uomini di affari dei secoli della grande avventura l'avessero ereditato dai loro lontani progenitori girovaghi; ma c'era inoltre, in loro, e sempre più, la volontà di rendersi conto delle cose del vasto mondo per la consapevolezza che avrebbe giovato al migliore svolgimento dei loro negozi: ne fanno prova i carteggi ricchi di notizie di ogni genere, e che, portati a conoscenza nell'ambito cittadino, costituivano una delle fonti a cui attingevano gli stessi cronisti. Durante quei viaggi tenevano nota di quanto riguardava le varie piazze: merci richieste e merci offerte, monete correnti e cambi fra loro, pesi e misure e loro equivalenze, modalità delle contrattazioni, spese di trasporti e dazi pagati lungo le vie. Ecco le "pratiche di mercatura" sul modello del Libro delle bellezze dei commerci e la conoscenza delle mercanzie che avevano trovato presso i progrediti colleghi arabi, che è collocato fra i secoli IX e XII e attribuito a Ab-Dimisqùi. Il più noto di questi manuali a stampa, utilissimi alle aziende del tempo e ferri del mestiere per gli storici, è scritto nel terzo decennio del Trecento da Francesco di Balduccio Pegolotti, la cui vita oggi ricostruita quasi per intero fa prova di una di quelle personalità di primo piano di cui or ora dicevo. Fattore della compagnia dei Bardi dal 1300 al 1340, fu dapprima ad Anversa, diresse poi la succursale di Londra dal 1317 al 1319, poi ancora quella di Cipro dal 1326 al 1329; e in queste sedi svolse anche un'opera che si può dire diplomatica trattando condizioni di favore per tutti i mercanti fiorentini con i Signori di quei paesi: nel 1317 con il duca di Fiandra, nel 1324 e nel 1327 con il re di Cipro, nel 1336 col re d' Armenia che concesse addirittura l'esonero da ogni dazio e l’immunità dalle rappresaglie. Negli intervalli fra queste missioni, mentre curava gli affari della società al centro, si occupò di politica ricoprendo più cariche fino a quella di Gonfaloniere di giustizia. Il suo stipendio fu di 200 fiorini d'oro l'anno, dei più elevati tra quanti risultino dai libri contabili delle aziende del tempo, e di cui possiamo farci un'idea sapendo dal Villani che il "salario per i camarlinghi della Camera del Comune, dei loro ufficiali, e massai, e notai, e frati che guardavano gli atti pubblici" ammontava, appunto fra il '36 e il '38, complessivamente a 486 fiorini, e che "le spese di mangiare e bere dei signori Priori [sette più un notaio] e di loro famiglie [un piccolo esercito burocratico compresi gli armigeri e i trombetti]" ammontavano a tre fiorini il giorno. Il problema dell'apprendere le lingue straniere, quando i mercanti italiani andavano all'estero, era pressoché inesistente perché il loro idioma era noto ovunque: anche nel secolo XV, dice Pirre Jeannin, "gli italiani si trovano nella posizione degli anglosassoni di oggi; la loro lingua è la lingua internazionale degli affari". E non fa caso che Giancarlo Affaitadi sia stato per quaranta anni della sua vita nei Paesi Bassi "senza servirsi seriamente di altra lingua che l'italiana". Che cosa aveva imparato il mercante con questi strumenti di apprendimento? Assai più di quanto serve a smentire il pensiero di Werner Sombart "essere un'idea del tutto moderna che i calcoli debbano considerarsi come necessari", mentre il mercante del Medioevo si sarebbe accontentato della "approssimazione". Quanto all'aritmetica, calcolava con estrema esattezza gli interessi composti – diceva "fare capo d'anno" –; l'adeguato di scadenza – diceva "ragguagliare in un dì" e contava anche per mezza giornata se la registrazione era effettuata la mattina o nel pomeriggio –; lo sconto – diceva "scomputo" e provvedeva sempre allo sconto razionale e non a quello commerciale che è più semplice –; nel rapportare infine tra loro le tante monete del tempo era così preciso da spingere le divisioni a molti decimali. "Approssimazione"? Oggi sì che si fanno gli arrotondamenti; non li faceva lui, che in cifre di migliaia e decine di migliaia di lire arrivava fino ai denari, la dodicesima parte del soldo, e la 240ª della lira. Quanto alla contabilità, attraverso a molti libri, ancorché non nettamente caratterizzati, poteva stare al corrente della situazione dell'azienda e stabilire ai bilanci – li diceva "saldamenti" – gli utili e le perdite e attribuirli a ciascuno dei soci, sempre fino al denaro, in proporzione del capitale conferito nella società. Presi in mano i registri di una compagnia del 1318 e impostati tutti i dati entro gli schemi contabili moderni, sono giunto ai medesimi risultati degli "scrivani" di allora. Ricordo infine, a prova della padronanza di tecniche avanzate, l'abilità con la quale già nel Dugento il mercante manovrava nel campo dell'arbitraggio: in una lettera del 5 luglio 1260 [ v. LETTURA 8] – in un momento in cui occorrevano grosse somme per la famosa battaglia di Montaperti (del 4 settembre) – è descritta chiaramente una determinazione di convenienza economica per il procacciamento dei capitali fra tre mercati finanziari, di Francia, di Inghilterra e di Siena: il minor saggio di interesse corrente in Francia fa preferire l'indebitamento in quel paese alla utilizzazione delle disponibilità ottenute in Inghilterra (vendite di sterlini) e alla creazione di debiti in Siena dove, per la scarsità del denaro conseguente appunto alla guerra, l'interesse era particolarmente elevato.Ho insistito sulla volontà della precisione, e poche pagine avanti ho detto della razionalità del mercante nell'organizzare gli affari perché ritengo che i dati acquisiti, elementi ormai sicuri alla mano, aprano non uno spiraglio ma una porta per renderci conto della importanza di una figura che, nello staccarsi nettamente dalla mentalità della massa dei contemporanei, si proietta nel futuro. Primo a pensare – attingo a Jean Le Groff – in termini di quantità e a misurarla, il numero, dapprima strumento di azione al servizio di interessi economici, sarebbe stato poi mezzo di speculazione alla ricerca di verità. Un apporto concreto, pertanto, a una sempre più estesa modificazione di mentalità, che mosse ben prima del secolo XVI, nel quale si è abituati a ravvisarla, il secolo che vide la nascita di Galileo. Misurazione che il mercante fece naturalmente anche del tempo, considerandolo – eresia di fronte al pensiero della Chiesa – non proprietà di Dio ma un bene a disposizione dell'uomo, per il che, appunto, era lecito all'uomo di affari di servirsene nel proprio lavoro; e che ha una espressione fondamentale negli orologi inseriti fin dal 1325 (prima fu Firenze) nella torre dei palazzi comunali per scandire, esattamente, le ore del lavoro. "La misura esatta dell'ora – scrive Marc Bloch – una delle rivoluzioni più profonde fra quante se ne siano mai verificate nella vita intellettuale e pratica delle nostre società" ; e il Le Goff : "Il conflitto fra il ‘tempo della Chiesa’ e il ‘tempo dei mercanti’ costituisce nel corso del Medioevo uno degli avvenimenti di maggior portata della storia del pensiero di quei secoli nel corso dei quali si elabora la ideologia del mondo moderno sotto la pressione del modificarsi delle strutture e delle pratiche economiche ". E Jean Dhondt: "In questo momento è in gioco il processo di laicizzazione dei valori umani essenziali e delle basi stesse della attività dell'uomo: tempi del lavoro, dati della produzione economica e della produzione intellettuale". Oltreché di istruzione tecnica il mercante era dotato di cultura letteraria, tanto che le sue "ricordanze personali" [ v. LETTURA 9] sono testi di lingua a cui hanno attinto i compilatori di vocabolari a cominciare da quello della Crusca. E sono testi di lingua le cronache di Dino Compagni (titolare di una compagnia passata alla sua morte nel 1324 ai figli e che fu trascinata nel 1341 nella serie dei fallimenti che precedettero di poco il famoso crollo di tutte le più grandi ditte fiorentine), di Giovanni Villani [v. LETTURA 10] (socio dei Peruzzi fino al 1308 quando subentrò nel suo posto il fratello Filippo, e dal 1324 della compagnia dei Bonaccorsi di cui faceva già parte il fratello Matteo continuatore della Cronaca), di Marchionne di Coppo Stefani socio degli Acciaiuoli; ed erano mercanti Giovanni Boccaccio che a Napoli curò affari per la compagnia dei Bardi, e Franco Sacchetti esperto di cose mercantesche come risulta dai suoi Sermoni evangelici, nei quali si contengono tante notizie di carattere economico.c) LA PATRIA. Ho detto che il mercante, nel dirigere la cosa pubblica, ebbe presente il proprio interesse; ma aggiungo non nel senso che, se si dava un contrasto, quel suo interesse lo facesse prevalere su quello della sua città. Di fatto, in ogni suo atto di governo, fosse un trattato di commercio o la dichiarazione di una guerra, cercò di raggiungere un duplice e concomitante beneficio per la certezza, così dice Cinzio Violante, che "la salvezza, la potenza, la gloria del Comune si identificavano con la salvezza e la prosperità delle sue aziende" . D'altronde, nei momenti di vero bisogno, appunto soprattutto quando era in gioco la libertà, affrontò volontariamente il sacrificio di danaro ed espose la stessa vita. Mentre Siena si preparava al duello con Firenze, che si sarebbe concluso, come or ora si è detto, a Montaperti, Salimbene Salimbeni, capo di una delle grandi compagnie di Siena, e del tempo, regalò al Comune la grossa somma di 118.000 libbre d'argento promettendone altrettante appena fossero "logre", ossia spese. A Firenze nel 1336 un consorzio fra gli esponenti del mondo capitalistico mercantesco si impegnò "a fornire [il Comune] di moneta per la guerra di Lombardia contro Mastino della Scala", e in breve fu raccolto un buon terzo delle centinaia di migliaia di fiorini d'oro che occorsero per la campagna. Tanto normale era il compimento del loro dovere da parte di quei grandi uomini di affari che i cronisti non ricordano neppure quelli caduti in battaglia, e notizie si hanno piuttosto dai carteggi e dai libri di commercio. Così nella lettera dei senesi Vincenti del 5 luglio 1260 a Giacomo di Guido Cacciaconti in Francia (che si è richiamata, poco addietro, a far prova dell'esperienza del mercante nell'arbitraggio dei cambi) occorre il nome di Orlando Bonsignori, titolare della "Magna tavola", paragonata dal suo storico Mario Chiaudano con le imprese dei Rockfeller e dei Rotschild: "Anco intendemo da te, per tua cedola, che noi dovesimo pregare Orlando Bonsignore ch'elli dovesse mandare dicendo a' suoi chonpangni di chotesto paese, che quando tu volessi inpronto [prestito] da' suoi chonpangni, ch’elino t'el facesero, che i potrebe esare grande pro' per noi. Per la quale chosa ti dicemo chosì, che el detto Orrando Buonsignore non era a Siena quando a lui si scrisse, anzi era ne l'oste a Montepulciano: perciò, quando egli sarà tornato, sì saremo a llui e richordaremleli". Il Bonsignori tornò sano e salvo; rientrò invece ferito, e poi mori, Arnoldo di Arnoldo Peruzzi dalla battaglia dell'Incisa contro Arrigo VII. Ne fa testimonianza questa scheletrica registrazione contabile: "…die 24 di settembre 1312, per fìor. cento d'oro ch'ebe contanti [li aveva tratti dal suo conto corrente presso la compagnia], i quali portò quando andò l'oste a l'Ancisa, quando venne lo 'nperadore; e per fìor. cinquantatre d'oro che si diero a' portatori che 'l rekaro a Firenze e a' medici che 'l medikaro; e fìorini ottantasei e mezo d'oro costò la spesa della sepoltura del detto Arnoldo, il quale morie die 23 di settenbre 1312; e per fìor. sette d'oro e soldi 21 a fìor. per bende e altre cose per la moglie: somma libre 358 s. 9 a fìor". Il Peruzzi, adunque, che poco prima, impersonando a così dire il Comune, aveva ospitato Roberto d'Angiò e trattato con lui l'alleanza contro l'imperatore, non si limitò ad affermare, come statista, che Firenze "non intende piegare le corna a signore alcuno", ma pagò, come soldato, di persona. L 'amore per la patria assunse altri aspetti all'estero dove i mercanti italiani erano esposti alla xenofobia delle popolazioni, testimoniata dai cronisti locali che li accusavano di avidità, di sfruttamento delle risorse locali, e li facevano responsabili della miseria del popolo: "divorano gli uomini e le bestie, i mulini, i castelli, i boschi e le foreste e prosciugano gli stagni e i fiumi; non portano mai con se un ducato, ma soltanto un pezzo di carta in mano e una penna dietro l'orecchio, e con le loro scritture tosano la lana sul dosso delle pecore indigene". In una situazione di psicologia collettiva di questo genere, i loro magazzini erano assaltati e devastati anche con "distruggimento delle persone" senza che potessero aspettare giustizia dai tribunali. I sovrani a loro volta, con la scusa che sarebbero stati usurai, li mettevano in prigione, sequestravano i loro beni, esoneravano chi doveva a loro dal rimborsarli, e alla fine li liberavano esigendo grosse somme a titolo di riscatto. Erano chiamati in blocco "lombardi" (si ricordino le denominazioni di Lombard Street e di Rue des Lombards date a Londra e a Parigi alle vie che erano il centro dei loro affari) e loro rispondevano istituendo un fronte comune, dimenticando le lotte fra le loro città. Nel 1288 appare l'"Universitas mercatorum Italicorum nundinas Campaniae in Regno Franciae frequentantium", che poco dopo, nel 1295, concluse con i conti di Borgogna un trattato di salvaguardia per i mercanti di Como, Firenze, Genova, Lucca, Milano, Orvieto, Parma, Piacenza, Pistoia, Prato, Roma, Urbino, Venezia. Per tal modo l'unità della Penisola, avvertita idealmente dai poeti, era sentita come realtà di interessi comuni da quei mercanti. D'altronde, se il mercante amava la sua patria, la patria non si dimenticava di lui, dovunque fosse. Si può dire che dove c'era una balla di mercanzie provenienti dall'Italia, là si trovava un rappresentante politico, o almeno commerciale, di una città italiana: sollecito a preparare l'ambiente per i nuovi arrivati e a dirimere le eventuali loro discordie interne, e animoso nel minacciare rappresaglie se fossero danneggiati. d) LA FEDE [v. LETTURE 11-12]. Come quegli uomini di affari, nel caso di guerra, non lesinavano danaro per la loro città, così non poco ne sottraevano agli affari – e così si coglie un altro aspetto della loro personalità – destinandolo alla erezione di templi e alle spese del culto, nonché alla creazione di ospedali a soccorso degli "infermi bisognosi", i prediletti da Dio. Il cui nome, per la certezza che era arbitro del loro destino sulla terra e nell'aldilà, lo invocavano in ogni loro atto. I libri di commercio li aprivano tutti con la sua invocazione. In un libro del 1336 di Banchello e Banco Bencivenni fiorentini residenti in Venezia: "Al nome di Dio e della sua benedetta Madre Madonna Santa Maria, e del Beato messer Giovanni Santo Battista Evangelista e del Barone [santo protettore di eccezionale potenza], messer Santo Niccolò, e di tutti i santi e sante della Corte di Paradiso che ci deano guadagno in mare e in terra con salvamento dell'anima e del corpo, amen". E in uno dei Covoni pure fiorentini e dello stesso anno: "Nel nome di Dio e della Vergine Sua Madre Madonna Santa Maria e di tutti i santi e sante di Paradiso e di tutta la Corte del Cielo che ci dieno grazia di ben fare e di ben dire e di guadagno per l'anime e per gli corpi". Sempre in quei libri si trova che in ogni grande società si faceva "compagno" "Messer Domeneddio", assegnandogli una o più quote (oggi diremmo azioni) del capitale sociale, in base alle quali al bilancio gli utili sarebbero distribuiti ai poveri. Altra pratica costante, e stabilita per legge, era il versamento del "danaro di Dio" (altrove denier à Dieu, Gottes Pfennig e cosl via), un'elemosina simbolica di un solo denaro fatta al termine delle trattative per la conclusione di un contratto al quale Iddio era chiamato come testimone: dopodiché, ossia dopo avvenuto il versamento, l’accordo non poteva essere modificato, e tanto meno annullato – "nec moveri nec infringi" –. Ho detto simbolico; ma i contratti erano tanti che si formavano grosse somme: nel 1331 gli ufficiali del Comune di Firenze trassero dalle apposite cassette 24.000 denari pari a 1000 libre che devolsero alla fabbrica del Duomo. Si potrebbe pensare che si trattasse ora di pure formalità e ora di astuti e insieme ingenui accorgimenti, suggeriti del resto dalla stessa Chiesa la quale, nel tumulto di eventi economici non dominabili, si accontentava di salvare almeno le forme. Avendo questo presente si potrebbe sospettare anche la insincerità dei testamenti, che tutti portavano lasciti a enti religiosi, e alcuni anche l'obbligo fatto agli eredi che accertassero le usure commesse dal de cuius e le restituissero alle vittime. Insincerità, tanto che si è detto di "assicurazione con Dio". Certamente, se è possibile dedurre l'amore per la patria dai sacrifici per essa, non è altrettanto facile inferire dalle formule stereotipe dei notai che rogavano i testamenti la religiosità dei testatori; eppure qualche sfumatura dovuta alla dettatura diretta di loro rompe talvolta la monotonia del formulario e apre brevi spiragli di luce sull'animo, appunto, del mercante, facendo pensare a veri atti di pietà e a un pentimento sincero. È il caso, ne riferisco uno, di Scaglia Tifi, di cui ho potuto ricostruire tutta la vita. Da ragazzetto, esule da Firenze in Francia perché di famiglia ghibellina perseguitata dai guelfi al potere dopo Montaperti, aveva portato nel cuore la nostalgia della sua città e l'immagine di una fanciulla che amava. Messosi come "garzone" presso una "compagnia", si fece strada con la volontà e con la intelligenza tanto che divenne tesoriere dei conti di Montbeliard e, assetato di guadagno, distrasse danari dalle loro casse per "applicarli ai propri negozi": confessò il mal fatto nella cattedrale di Parigi, e ciò nonostante quei signori, ai quali era indispensabile, lo confermarono nel delicato incarico, mantenutogli anche da Filippo il Bello quando la Borgogna fu annessa alla Francia. Nella quale occasione, pochi giorni prima della firma del trattato che lui stesso aveva negoziato, ottenne per i"Lombardi" l'annullamento di ogni restrizione ai loro traffici e la concessione di tali privilegi che, assicurandoli dalla concorrenza, li rendevano padroni della vita economica del Paese. Raccolta una fortuna tornò a Firenze e sposò la bimba, ora donna, che lo aveva atteso, e che purtroppo morì senza dargli i figli che aveva sperato. In quel momento, in cui tutto gli era crollato da torno, provò disgusto per il suo operato, lasciò gli affari, si ritirò in un convento dove morì come San Francesco sul pavimento della chiesa mentre i frati pregavano per il suo trapasso, e fu seppellito ai piedi dell'altar maggiore. Che dettando il suo ultimo testamento dimenticasse del tutto la mentalità del mercante non si può dire quando si legge che, avendo disposto in perpetuo una messa nell'annuale della morte, e avendo stabilito il compenso per i cantori, specificò che se qualcuno fosse fioco il compenso lo passasse a un altro dalla voce robusta "che salisse veramente a Dio". Che però a furia di peccati e di dolori il cuore gli si fosse ingentilito sì da offrirlo a Dio " meglio che l’ho avuto in questa terra", appare dall'ordine che nel giorno della sua morte fosse distribuito un pane, la "cena del Nostro Signore", a ciascun povero della città, e che annualmente in perpetuo, prima dell'inverno, il "maestro" della chiesa dello Spirito Santo comprasse per 25 libbre di moneta "stefanense" "panni pesanti di sargia o di altra stoffa che siano adatti a confezionare vestiti e mantelli per i poveri del detto ospedale scelti fra i più bisognosi".http://www.rm.unina.it/didattica/strumenti/sapori/indice.htm Tratto da Armando Sapori, La mercatura medievale, Sansoni (Scuola Aperta), Firenze 1972
Inizia col trecento un periodo storico variegato in parte ancora da sviscerare in cui la societa' fiorentina passa tumultuosamente di esperienza in esperienza
Nei primi decenni viene politicamente sperimentata la dedizione spontanea ad un signore che dovrebbe garantire la difesa dello stato con le sue milizie e con il suo carisma. Una specie di politica "chiodo scaccia chiodo" Probabilmente di fronte a cio' che stava succedendo negli altri stati in cui compariva al posto del libero comune la figura di un "Signore" che accentrava in se i pieni poteri trasformando lo Stato in un possesso privato e ereditario della sua famiglia , i Fiorentini tentano di arginare il problema riccorrendo ad una spontanea dedizione a tempo ad un "Signore liberamente scelto" Con Roberto d'Angio' e con sara' la fortuna a evitare che la Signoria temporanea si trasformi in una Signoria definitiva col Duca d'Atene sara' la debolezza dello stesso e la rabbia del Popolo Grasso e dei Magnati a permettere a Firenze di riacquistare la liberta'
Il breve governo duca d'Atene ha pero' un'importanza notevole La catena di fallimenti che aveva squassato l'economia fiorentina pone fine all'espansione dell'economia fiorentina ( ? ) In una societa' con avanzata impostazione capitalista dell'economia si giunge ad una fase in cui gli operai minuti fortemente sottoposti alle corporazioni artigiane tentano una ribellione e la conquista di diritti del tutto nuovi Si avvia cosi l'esperienza di un governo democratico che per quasi 40 anni governera' Firenze marginalizzando le grandi famiglie del Popolo Grasso La peste del 1348 squilibria vieppiu' la situazione La reazione viene dalla Parte Guelfa inizia la pratica dell'ammonire cioe' di escludere dalla vita politica……………………………………
Storia di Firenze riferimenti cronologici Anni dal 1313 al 1360
Gli studi di Marvin B. Becker hanno definito la composizione sociale di questa oligarchia e ne hanno descritto l’evoluzione storica. Secondo lo storico americano gli uomini che allora dirigevano la città provenivano essenzialmente da tre diversi strati sociali: dal popolo grasso, i cui esponenti erano legati al mondo delle corporazioni e di conseguenza all’industria, alla finanza ed al commercio, ed ancora dagli scioperati e dai magnati, gruppi entrambi identificabili, sia pure con le dovute eccezioni, come un ceto di rentiers. Come è stato osservato, solo i popolani iscritti ad una corporazione potevano esercitare gli uffici cosiddetti dei Tre Maggiori, ovvero la Signoria, composta da Gonfaloniere di Giustizia e Priori delle Arti, ed i due Collegi che, in modo stabile almeno a partire dagli anni Venti, ne affiancavano l’attività con funzioni consultive, ovvero i Dodici Buonuomini ed i Sedici Gonfalonieri delle Compagnie. Dall’esecutivo così formato erano rigorosamente esclusi i grandi, i quali però avevano il diritto di ricoprire altri incarichi di notevole prestigio e di importanza vitale, quali le ambascerie, gli istituti militari, le commissioni fiscali, l’amministrazione delle comunità sottomesse. Di fatto un numero ristretto di cittadini, valutabile in poche centinaia di individui, svolgeva le cariche di maggior rilievo, e controllando in tal modo le leve del potere decisionale gestiva le rendite del Comune e ne indirizzava la politica interna e quella estera. Il patriziato alla guida della città, comunque, non era una casta chiusa ed impenetrabile, come dimostrano le aperture nei confronti delle famiglie tradizionalmente ghibelline e dei casati magnatizi, e come indica la graduale cooptazione tra le sue fila dei migliori elementi inurbati dal territorio, giunti talvolta – invero in pochi casi – sino ai vertici delle istituzioni . Era questo un aspetto cruciale dell’azione di governo dei regimi cittadini, anche di quelli precedenti, che avevano sempre cercato di rafforzarsi estendendo l’area del loro consenso pur lasciando inalterato, per quanto possibile, l’equilibrio tra le forze che li sostenevano. In definitiva era la stessa logica che ispirava i provvedimenti di riconciliazione con i bianchi ed i ghibellini ribelli – oltre ad opportunità di natura economica di cui si darà ragione tra breve – a suggerire l’assimilazione dei nuovi immigrati nelle strutture politiche comunali, riconoscendo così lo sviluppo ed i mutamenti della società fiorentina dovuti all’incremento demografico ed ai flussi migratori, fenomeni questi attivi ed in crescita almeno sino all’inizio del Trecento . L’aumento dei detentori di diritti politici, sebbene quantitativamente contenuto e strettamente controllato dagli esecutivi, era destinato però a rendere ancor più difficoltosa la ripartizione degli uffici, ovvero il motivo principale delle rivolte e sollevazioni dei grandi nonché delle liti e delle discordie tra le maggiori famiglie di estrazione popolare – i "popolani possenti e oltraggiosi" ricordati con acrimonia da Giovanni Villani . La necessità di garantire un’ordinata distribuzione delle cariche ed al contempo di mantenere i rapporti consolidati tra i vari gruppi politici spinse il regime oligarchico a modificare il sistema elettorale sperimentando un meccanismo in grado di unire ad accurati criteri di scelta dei cittadini eleggibili un modello casuale di composizione delle magistrature, necessario per evitare pericolose concentrazioni di potere. Nel 1328, dopo la fine della signoria del Duca di Calabria, la Signoria formò una commissione speciale con il compito di elaborare una metodica che ovviasse a tali esigenze, ed il risultato del suo lavoro fu l’introduzione dello scrutinio, approvato solennemente in quello stesso anno da un Parlamento. Il nuovo sistema era articolato in quattro fasi principali: la prima (reductio o recata) era la stesura di tre liste di nominativi, una delle quali preparata allora ed in seguito dai Capitani della Parte Guelfa; la seconda (squittinio o scrutinio) era la votazione dei nominativi degni di esercitare gli uffici del Comune effettuata dai membri in carica delle più importanti magistrature cittadine; la terza (imborsazione) era la deposizione di cedole recanti i nominativi approvati in alcune borse, ognuna delle quali relativa ad un singolo ufficio; la quarta (estrazione) era il prelevamento casuale dalle borse dei nominativi che avrebbero composto il nuovo ufficio, una volta terminato l’incarico degli ufficiali uscenti . La realizzazione dello scrutinio fu l’esperienza più alta della Firenze repubblicana nel campo delle pratiche elettorale, nonché il successo più duraturo del regime che lo adottò, poiché doveva essere utilizzato per ben due secoli, sino all’avvento del ducato mediceo in età moderna. ( dr Vieri Mazzoni )
sul fallimento delle case bancarie e commerciali fiorentine mancano studi esaustivi , tanto che a volte e’ difficile conoscerne anche la data
Nel 1298 erano falliti i Bonsignori di Siena ( I Rothschild del XII secolo come li chiama il Chiaudiano ) nel 1300 erano falliti i Ricciardi di Pistoia e nel primo decennio del trecento gli Ammanati e i Chiarenti di Pistoia Questi fallimenti avevano favorito le compagnie fiorentine che ebbero campo vinto Dice Yves Renoir : E non tutte ne trassero profitto . infatti era gia' nata una seria rivalita' economica tra le compagnie sorte in firenze dopo il 1270 e pervenute a u buon livello di potenza .la concorrenza le aveva indotte a costituire due gruppi antagonisti , intorno ai principali avversari , gli Spini ed i Cerchi che sono l'anima delle fazioni politiche dei Neri e dei Bianchi . Le loro lotte insanguinarono Firenze dal 1300 al 1302 . La disfatta e l'esilio dei Bianchi trascinano naturalmente con se la rovina economica delle compagnie in cui predominano i loro partigiani , tra le altre quella dei Portinari,la famiglia di Beatrice , i cui membri si rifugiano a Bruges . Tali rivalita' che coincidevano con difficolta' sul mercato estero portarono un colpo molto serio al commercio fiorentino . anche le societa' nere ne furono toccate ed i successivi fallimenti di alcune decine di grandi compagnie caratterizzano i primi venticinque anni del XIV secolo.
I Mozzi fallirono nel 1301-1302 I Franzesi fallirono nel 1307 I Pulci e i Rimbertini fallirono nel 1309 I Frescobaldi fallirono nel 1312 Gli Scali ( che erano una delle piu' antiche e piu' potenti compagnie fiorentine ) falliscono nel 1326 Il Villani afferma che il fallimento degli Scali fu piu' dannoso per Firenze della sconfitta di Altopascio perche' oltre alla rilevante perdita di denaro vi era il rischio di veder perdere la fducia della clientela straniera nelle compagnie fiorentine
Dice Yves Renouard che il 1326 segna una data importante per le compagnie commerciali fiorentine , il fallimento degli Scali induce le altre compagnie commerciali fiorentine ad abbandonare posizioni di lotta per stipulare anzi delle alleanze commerciali Cosi puo' svilupparsi intorno ai Bardi ai Peruzzi , agli Acciaiuoli ,<<le colonne della cristianita' come dice il Villani >>, un gruppo commerciale e finanziario di potenza mai vista… Il regime di solidarieta' non ottiene pero' risultati migliori di quello della concorrenza : i fallimenti interrotti per un certo periodo sono ora simultanei . Firenze gia' in crisi per due guerre precedenti e provata dal conflitto franco-inglese che rovina tutto il commercio nel Nord Europa , attraversa un momento della difficile guerra contro Pisa per il possesso di Lucca , nel 1341 un grave disagio economico e finanziario : un imprudente passo della Signoria presso alcuni signori ghibellini e Luigi di Baviera fa credere a Roberto d'Angio' ed ai napoletani che essa voglia lasciare l'alleanza guelfs di cui e' uno dei pilastri. I capitalisti del regno di Sicilia che avevano tutti i loro fondi in deposito presso le compagnie della citta' alleata , si spaventano e si precipitano agli sportelli per ritirarli. Le compagnie piu' impegnate nel regno di Sicilia furono immediatamente agli estremi. Cosi nel 1342 fallirono ( i crediti che avevano le une con le altre le coinvolsero a catena ) i Dell'Antella , i Cocchi , i Perondoli , i Bonaccorsi ,i Corsini , i Da Uzzano e i Castellani . Le tre piu' grandi non sopravvissero loro a lungo .I Peruzzi e i Bardi avevano concesso negli anni precedenti enormi prestiti al re d'Inghilterra che ora il re inglese sconfitto dai francesi non poteva restituire. I Peruzzi ed i Bardi coinvolsero nella loro caduta anche gli Acciaiuoli . nel 1343 fallirono Peruzzi ed acciaiuoli e nel 1346 i potenti Bardi.
Oramai a Firenze I………………………………………………………………..continua………………………….
Nel …….fallisce la compagnia dei Pazzi Nel 1346 falliscono le compagnie dei Bardi e la compagnia dei Peruzzi Nel 1335 I Bardi e i Peruzzi ed altre banche non poterono negare di prestare una somma enorme , pena la perdita di quanto gia’ prestato , ad Edoardo III . Denaro che serviva al re inglese per la sua guerra contro Filippo VI di Francia Il cattivo andamento della guerra impedi al re inglese di rendere il denaro ( 1.365.000 fiorini secondo il Villani ) …………………………………….
Del fallimento della compagnia degli Scali di Firenze.( 1326 ) Nel detto tempo, a dì IIII d'agosto, fallì la compagnia degli Scali e Amieri e figliuoli Petri di Firenze, la quale era durata più di CXX anni, e trovarsi a dare tra cittadini e forestieri più di IIIIc migliaia di fiorini d'oro; e fue a' Fiorentini maggiore sconfitta, sanza danno di persone, che quella d'Altopascio, però che chi aveva danari in Firenze perdé co·lloro; sì che da ogni parte il detto anno i Fiorentini sì di sconfitte, sì di mortalità, sì di perdita di possessioni arse e guaste, e sì di pecunia, ebbono grande persecuzione; e molte d'altre buone compagnie di Firenze per lo fallimento di quella furono sospette con grande danno di loro.
Del male stato ch'ebbono la compagnia de' Bardi e quella de' Peruzzi per la detta guerra, e tutta la nostra città di Firenze.
Nel tempo ch'era la detta guerra da·rre di Francia con quello d'Inghilterra sì erano mercatanti del re d'Inghilterra la compagnia di Bardi e quella di Peruzzi di Firenze, e a·lloro mani venia tutte sue rendite, e·llane e cose; ed ellino forniano tutte le sue spesarie, gaggi, e bisogne; e sopramontarono tanto le spese e bisogne del re, oltre alle rendite e cose ricevute per lui, che i Bardi si trovarono a ricevere da·rre, tornato dell'oste detta, tra di capitale e provisioni e riguardi fatti loro per lo re più di CLXXXm di marchi di sterlini; e' Peruzzi più di CXXXVm di marchi, e ogni marco valea fiorini IIII e terzo d'oro, che montarono più di MCCCLXVm fiorini d'oro, che valeano un reame. Ben avea in questa somma assai quantità di provisioni fatte a·lloro per lo detto re per li tempi passati; ma come che si fosse, fu la loro gran follia per covidigia di guadagno o per raquistare il loro follemente prestato mettere così di grosso il loro e l'altrui inn-uno signore. E nota che i detti danari non erano la maggiore parte delle dette compagnie, anzi gli aveano inn-accomanda e in diposito di più cittadini e forestieri. E di ciò fu il grande pericolo a·lloro e alla nostra città, poco apresso come si troverrà leggendo. E·cche n'avenne che per cagione di ciò non potendo rispondere a cui dovieno dare in Inghilterra, e in Firenze, e in altre parti dove avieno a·ffare, e del tutto perderono la credenza, e fallirono di pagare, ispezialmente i Peruzzi, con tutto che non si cessassono per le loro grandi posessioni ch'avieno in Firenze e nel contado, e per loro grande potenzia e stato ch'avieno in Comune. Ma per questa difalta e per le spese del Comune in Lombardia molto mancò la potenzia e stato di mercatanti di Firenze; e però di tutto il Comune e·lla mercatantia e ogni arte n'abassò, e vennero in pessimo stato, come inanzi si farà menzione; però che fallite le dette due colonne, che per la loro potenzia, quando erano in buono stato, condivano colli loro traffichi gran parte del traffico della mercatantia di Cristiani, ed erano quasi uno alimento, onde ogn'altro mercatante ne fu sospetto e male creduto. E per le dette cagioni e per altre, come si dirà tosto, la nostra città di Firenze ricevette gran crollo e male stato universale non guari tempo apresso. E per agiunta del male stato delle dette compagnie il re di Francia faccendo pigliare in Parigi e per tutto il reame i loro compagni e cose e mercatantie, e di più Fiorentini per la detta cagione, e per li molti danari che 'l Comune avea presi per forza in presto da' cittadini e spesi nella 'mpresa di Lombardia e di Lucca, onde poi de' rimbalzi e del mancamento della credenza più altre minori compagnie di Firenze poco tempo apresso ne fallirono, come inanzi si farà menzione. Lasceremo di questa matera, e torneremo a seguire il trattato della guerra con messere Mastino.
Del fallimento della grande e possente compagnia de' Bardi. (1345 )
Nel detto anno, del mese di gennaio, fallirono quelli della compagnia de' Bardi, i quali erano stati i maggiori mercatanti d'Italia. E·lla cagione fu ch'ellino avieno messo, come feciono i Peruzzi, il loro e l'altrui nel re Aduardo d'Inghilterra e in quello di Cicilia; che·ssi trovarono i Bardi dal re d'Inghilterra dovere avere, tra di capitale e di riguardi e doni impromessi per lui, DCCCCm di fiorini d'oro, e per la sua guerra col re di Francia no·lli potea pagare; e da quello di Cicilia da Cm di fiorini d'oro. E' Peruzzi da quello d'Inghilterra da DCm di fiorini d'oro e da quello di Cicilia da Cm fiorini d'oro, e debito da CCCm di fiorini d'oro; onde convenne che fallissono a' cittadini e forestieri, a cui dovieno dare più di DLm di fiorini d'oro, solo i Bardi. Onde molte altre compagnie minori, e singulari, ch'avieno il loro ne' Bardi e·nne' Peruzzi e negli altri falliti, ne rimasono diserti, e tali per questa cagione ne fallirono. Per lo quale fallimento di Bardi, e Peruzzi, Acciaiuoli, Bonaccorsi, di Cocchi, d'Antellesi, Corsini, que' da Uzzano, Perondoli, e più altre piccole compagnie e singulari artefici che falliro in questi tempi e prima, per gl'incarichi del Comune e per le disordinate prestanze fatte a' signori, onde adietro è fatta menzione, ma però non di tutti, che troppo sono a contare, fu alla nostra città di Firenze maggiore rovina e sconfitta, che nulla che mai avesse il nostro Comune, se considerrai, lettore, il dannaggio di tanta perdita di tesoro e pecunia perduta per li nostri cittadini, e messa per avarizia ne' signori. O maladetta e bramosa lupa, piena del vizio dell'avarizia regnante ne' nostri ciechi e matti cittadini fiorentini, che per cuvidigia di guadagnare da' signori mettere il loro e·ll'altrui pecunia i·lloro potenza e signoria, a perdere, e disolare di potenza la nostra republica! che non rimase quasi sustanzia di pecunia ne' nostri cittadini, se non inn alquanti artefici o prestatori, i quali colla loro usura consumano e raunano a·lloro la sparta povertà di nostri cittadini e distrettuali. Ma non sanza cagioni vengono a' Comuni e a' cittadini gli occulti giudici di Dio per pulire i peccati commessi, siccome Cristo di sua bocca vangelizzando disse: "In peccata vestra moriemini etc.". I Bardi renderono per patto i·lloro possessioni a' loro creditori soldi VIIII danari III per libra, che non tornarono a giusto mercato soldi VI per libra. E' Peruzzi patteggiarono a soldi IIII per libra in posessioni, e soldi XVI per libra nelle dette di sopradetti signori; e se riavessono quello deono avere dal re d'Inghilterra e da quello di Cicilia, o parte, rimarrebbono signori di gran potenzia di ricchezza; e' miseri creditori diserti e poveri, perché fallì credenze e·lle malvagie aguaglianze delli ordini e riformagioni del nostro corrotto reggimento del Comune, che chi ha podere più ha a suo senno i dicreti del Comune. E questo basti, e forse ch'è troppo avere detto sopra questa vergognosa matera; ma non si dee tacere il vero per chi ha a·ffare memoria delle cose notabili ch'ocorrono, per dare asempro a quelli che sono a venire di migliore guardia. Con tutto noi ci scusiamo, che in parte per lo detto caso tocchi a·nnoi autore, onde ci grava e pesa; ma tutto aviene per la fallabile fortuna delle cose temporali di questo misero mondo.
Ma per la detta loro venuta il re Ruberto entrò in tanta gelosia, che non sapea che·ssi fare, temendo forte Firenze non prendesse rivoltura di parte d'imperio e ghibellina. E molti suoi baroni e prelati e altri del Regno ricchi uomini, ch'aveano dipositati loro danari alle compagnie e mercatanti di Firenze, per la detta cagione entraro in tanto sospetto, che ciascuno volle esere pagato, e fallì a' Fiorentini la credenza in tutte parti dove avieno affare, per modo che poco tempo apresso per cagione di ciò, e gravezze di Comune e per la perdita di Lucca, apresso molte buone compagnie di Firenze falliro, le quali furono queste: quella de' Peruzzi; gli Acciaiuoli, tutto non cessassono allora, per loro grande potenza in Comune, ma poco apresso; e' Bardi ebbono gran crollo, e non pagavano a cui dovieno, e poi pur falliro; falliro i Bonaccorsi, i Cocchi, li Antellesi, quelli da Uzzano, i Corsini, e Castellani, e Perondoli, e più altri singulari mercatanti e più artefici e piccole compagnie a gran danno e rovina della mercatantia di Firenze, e universalmente di tutti i cittadini; che·ffu maggiore danno al Comune che·lla sconfitta o perdita di Lucca. E nota che per li detti fallimenti delle compagnie mancarono i danari contanti in Firenze, ch'apena se ne trovavano. E·lle posessioni in città calarono a volerle vendere le due derrate per uno danaio, e in contado il terzo meno a valuta, e più calaro. Lasceremo a dire della detta matera, e diremo della grande oste, che' Fiorentini feciono per diliberare Lucca dall'asedio di Pisani, e non venne loro fatto.
L'industria laniera a Firenze
Gli anni Venti del Trecento segnarono una svolta fondamentale per l’industria laniera a Firenze. L’avvio di regolari flussi di importazione delle celebri lane inglesi consentì agli imprenditori locali di iniziare la fabbricazione dei cosiddetti panni alla francesca, ad imitazione delle pregiatissime stoffe fiamminghe e brabantesi. Il tessuto fiorentino poteva finalmente elevarsi a prodotto di alta qualità, in grado di rivaleggiare, specie dalla seconda metà del secolo, con gli stessi modelli nordeuropei .Tra i casati che maggiormente si distinsero in questa fase cruciale un posto di grande rilievo spetta certamente agli Albizzi, la cui leadership in seno alla corporazione dei lanaioli fiorentini rimase lungamente incontrastata…………………………………………… ( Lorenzo Fabbri )
Lorenzo Fabbri "Opus novarum gualcheriarum": gli Albizzi e le origini delle gualchiere di Remole http://eprints.unifi.it/archive/00002144/01/110-Fabbri.pdf che cita H. H OSHINO, L’Arte della Lana in Firenze nel basso Medioevo. Il commercio della lana e il mercato dei pannifiorentini nei secoli XIII-XV, Firenze, Olschki, 1980, H. H OSHINO, Note sulle gualchiere degli Albizzi a Firenze nel basso Medioevo, in ID., Industria tessile e commerciointernazionale nella Firenze del tardo Medioevo, a cura di F. Franceschi e S. Tognetti, Firenze, Olschki, 2001, (già pubblicato in "Ricerche storiche", XIX, 1984, pp. 267 -290);
F. F RANCESCHI, Oltre il "Tumulto". I lavoratori fiorentini dell’Arte della Lana fra Tre e Quattrocento, Firenze, Olschki, 1993,P. MALANIMA , I piedi di legno. Una macchina alle origini dell’industria medievale, Milano, Franco Angeli, 1988
Proseguendo in questa sperimentazione di dedizione spontanea e a termine ad un signore che provvedesse alla pace interna tra le famiglie e alla difesa dal nemico esterno i Fiorentini finiscono per incappare nella conclusione piu' naturale Il signore eletto a termine tenta di farsi signore a vita
ASCESA E CADUTA DEL DUCA D'ATENE ANNO 1343
Lasceremo al presente de' fatti d'oltremonti, e torneremo quando fia tempo e·lluogo; e cominceremo il tredecimo libro, come i Fiorentini per lo loro male stato elessono per loro signore il duca d'Atene, e conte di Brenna di Francia, onde seguì alla nostra città di Firenze grandi mutamenti e pericolosi come inanzi leggendo si potrà trovare.
Incomincia il tredecimo libro, come il duca d'Atene occupò la signoria di Firenze, e quello ne seguì.
Convienne cominciare il XIII libro, però che richiede lo stile del nostro trattato; perch'è nuova materia, e grandi mutazioni e diverse rivoluzioni avennero in questi tempi alla nostra città di Firenze per le nostre discordie tra' cittadini, e male reggimento de' XX uficiali, come adietro fatto avemo menzione; e fieno sì diverse, ch'io autore, che fui presente, mi fa dubitare che per li nostri successori apena fieno credute di vero; e fu pur così, come diremo apresso. Tornata la detta nobile e grande oste e male aventurosa da Lucca, e rendutasi Lucca a' Pisani, i Fiorentini, parendo loro male stare, veggendo che meser Malatesta nostro capitano non s'era ben portato nella detta guerra, e per tema del trattato avuto col Bavero, come adietro toccammo, per istare più sicuri, elessono per capitano e conservadore del popolo messere Gualtieri duca d'Atene e conte di Brenna francesco, all'entrante di giugno MCCCXLII, col salaro, cavalieri e pedoni ch'avea mesere Malatesta, per termine d'uno anno. E vollesi a suo diletto overo segacità, per quella seguì apresso, tornare a Santa Croce al luogo di frati minori, e·lla gente sua d'intorno. E poi in calen di agosto apresso, finito il termine di meser Malatesta, gli fu agiunta la capitaneria generale della guerra, e che potesse fare giustizia personale in città e di fuori. Il gentiluomo veggendo la città in divisione, ed essendo cupido di moneta, che·nn'avea bisogno siccome viandante e pellegrino, e ben ch'avesse il titolo del ducato d'Atene no·llo possedea, e per suduzione di certi grandi di Firenze, che al continovo cercavano di rompere gli ordini del popolo, e di certi grandi popolani per essere signori e non rendere i debiti loro a·ccui dovieno dare, e·lle loro compagnie sentendosi in male stato, i quali per inanzi al luogo e tempo ci converrà per necessità fare memoria, al continuo a Santa Croce l'andavano a consigliare, di dì e di notte, che si recasse al tutto la signoria libera della città in mano; il quale duca per le cagioni dette, e vago di signoria, cominciò a seguire il malvagio consiglio, e ad essere crudele e tiranno, per lo modo che nel seguente capitolo faremo memoria, sotto titolo di fare giustizia, per essere temuto, e al tutto farsi signore di Firenze.
Di certe giustizie che 'l duca fece in Firenze per essere signore. Avenne che il dì di san Iacopo di luglio MCCCXLII, essendo molti Pratesi iti alla festa a Pistoia, Ridolfo di meser Tegghia de' Pugliesi venne per entrare in Prato, che·nn'era ribello, con forza degli Ubaldini e con Niccolò conte da Cerbaia, e con certi suoi fedeli, nimici de' Guazalotri, e de' nostri contadini masnadieri sbanditi in quantità di XL a cavallo e CCC a piè, che·lli dovea esere data l'entrata della terra; e per sua sventura no·lli venne fatto, ma fu preso con da XX nostri isbanditi andandosene per Mugello agli Ubaldini, e menato a Firenze. Il duca lasciò i nostri isbanditi, di cui avea la giuridizione, e al detto Ridolfo, che non gli era suddito né sbandito di Firenze, a torto gli fece tagliare il capo; e questa fu la prima giustizia che fece in Firenze, onde molto fu biasimato da' savi uomini di Firenze di crudeltà, e dissesi n'ebbe moneta da' Guazalotri di Prato suoi nimici, overo il fece come dice il proverbio di tiranni: "Chi a uno offende molti minaccia". Apresso all'entrante d'agosto fece pigliare meser Giovanni di Medici stato per lo nostro Comune podestà in Lucca, e fecegli tagliare il capo, aponendoli (e fece confessare) che per danari avea lasciato fuggire di Lucca nel campo di Pisani meser Tarlato d'Arezzo, cui avea in sua guardia; e i più dissero che non v'ebbe colpa, se non di mala guardia. Apresso del detto mese d'agosto fece pigliare Guiglielmo Altoviti stato per lo nostro Comune capitano d'Arezzo, e feceli tagliare il capo, trovando per sua confessione per lui fatte molte baratterie, e alcuni dissono fu procaccio e spendio di Tarlati d'Arezzo, i quali avea mandati presi a Firenze, come è detto adietro; e a·cciò diamo in parte fede; e condannò uno nipote di quello Guiglielmo e Matteo di Borgo stati inn-Arezzo e Castiglione Aretino, ciascuno in D fiorini d'oro, per baratterie. Ancora fece pigliare Naddo di Cenni di Naddo grande popolano, il quale era stato in Lucca camarlingo sopra le masnade, e fecegli rimettere in camera del Comune IIIIm fiorini d'oro, i quali si disse che con inganno avea avuti da' Pisani sotto falso trattato tenuto co·lloro, e giurato sopra Corpus Domini di far loro compiere l'accordo d'avere Lucca, quando Cenni di Naddo suo padre era priore di Firenze, come toccammo nel quinto capitolo adietro. E oltre a·cciò gli fece rimettere in camera fiorini IImD d'oro, i quali confessò avere guadagnati in Lucca nelle paghe de' soldati e vittuaglia; e per grazia e prieghi di molti popolani gli perdonò la vita, e prese da·llui mallevadori di fiorini Xm d'oro, e diegli i confini a Perugia. E per simile modo fece rimettere in camera a Rosso di Ricciardo de' Ricci, compagno e camarlingo del detto Naddo in Lucca, fiorini IIImDCCC d'oro confessati avuti in sua parte, e guadagnati in Lucca sopra i soldati e vittuaglia, e per simile modo per grandi prieghi perdonatogli la vita, e messo in prigione per l'avere e per la persona.
Come il duca ingannò e tradì i priori e prese la signoria di Firenze. Per le sopradette giustizie fatte per lo duca in persone e inn-avere di IIII popolani delle maggiori case di Firenze di popolo, Medici, Altoviti, Ricci, e Oricellai, il duca fu molto temuto e ridottato da tutti i cittadini, e i grandi ne presono grande baldanza, e il popolo minuto grande allegrezza, perch'avea messo mano ne' reggenti, magnificando il duca, gridando quando cavalcava per la città: "Viva il signore "; e quasi in ogni canto o palazzo di Firenze era dipinta l'arme sua per li cittadini, per avere sua benivolenza, e·cchi per paura. E in questi tempi ispirò e si compié l'uficio di XX rettori stati in Firenze e guastatori della republica per le cagioni dette ne' loro processi adietro, e lasciando il Comune in debito di più di CCCCm di fiorini d'oro a cittadini, sanza il debito promesso a meser Mastino. Per le quali cagioni il duca ne montò in grande pompa, e crebbegli la speranza del suo proponimento d'essere al tutto signore di Firenze col favore di grandi e del popolo minuto; e per consiglio di certi de' detti grandi ne richiese i priori ch'allora erano all'uficio. I detti priori cogli altri ordini, dodici e' gonfalonieri, e gli altri consiglieri, in nulla guisa vollono asentire di sottomettere la libertà della republica di Firenze sotto giogo di signore a vita, il quale non mai fu aconsentito o soferto per li nostri padri antichi né a 'mperadori, né a·rre Carlo, né suoi discendenti, e tanto fossero amici o confidenti in parte guelfa o ghibellina, né per isconfitte o male stato ch'avesse il nostro Comune. Il detto duca per sudducimento e conforto quasi di tutti grandi di Firenze, e spezialmente principali quelli della possente casa de' Bardi, e Frescobaldi, Rossi, e Cavalcanti, Bondelmonti, e Cavicciuli, e Donati, e Gianfigliazzi, e Tornaquinci, per rompere gli ordini della giustizia ch'erano sopra i grandi, e così promise loro il duca; e di popolo: Peruzzi, Acciaiuoli, Baroncelli, Antellesi e loro seguaci, per cagione del male stato delle loro compagnie, perché il duca gli sostenea inn-istato, non lasciandoli rompere, né strignere a' loro creditori; e gli artefici minuti, a·ccui spiacea il reggimento stato de' XX e di popolari grassi: tutti gli profersono aiuto in arme. Il duca, il qual era segace e nudrito in Grecia e in Puglia più che in Francia, veggendosi tanto favore, la vilia di nostra Donna di settembre mandò un bando per la città di fare parlamento la mattina vegnente in sulla piazza di Santa Croce per bene del Comune. I priori e gli altri rettori sentendo la traccia del duca e il suo male consiglio, e non sentendosi forti né proveduti, e temendo che faccendosi il detto parlamento non fosse discordia, e romore, e commovizione di città, sì andarono parte de' priori e di loro consiglio la sera a Santa Croce a trattare acordo col duca; e dopo molta tirata e dibattuta la querela, rimase molto di notte in questa concordia col duca, che 'l Comune di Firenze gli darebbe la signoria della città e contado per uno anno, oltre al tempo ch'elli l'avea, con quella giuridizione e patti e gaggi ch'ebbe meser Carlo duca di Calavra e figliuolo del re Ruberto gli anni MCCCXXVI; e questo accordo si fermò per vallate carte per più notai dell'una parte e dell'altra, e per suo saramento che conserverebbe in sua libertà il popolo e·ll'uficio di priori e gli ordini della giustizia, riducendosi il detto ordinato parlamento la mattina in sulla piazza di priori per confermare i patti di su detti. La mattina di nostra Donna, dì VIII di settembre, il duca fece armare sua gente intorno di CXX uomini a cavallo, ch'avea in Firenze de' suoi, e da CCC fanti a piè. Ma quasi tutti i grandi, salvo meser Giovanni della Tosa e' suoi consorti, furonvi co·llui, ch'aveno cavalli, e i detti popolani suoi amici con armi coperte, e l'acompagnaro da Santa Croce alla piazza de' priori presso ad ora di terza. I priori e gli altri ordini scesono del palagio, e assettati a·ssedere col duca sulla ringhiera, e fatta la proposta per meser Francesco Rustichelli giudice allora priore e aringando sopra·cciò; ma com'era ordinato il tradimento, non fu lasciato più dire, ma a grido di popolo per certi scardassieri e popolazzo minuto, e masnadieri di certi grandi, dicendo: "Sia la signoria del duca a vita a vita, e viva il duca nostro signore!". E preso per li grandi pesolone per metterlo in sul palagio, e perché il palagio era serrato gridarono: "Alle scure! "; sicché convenne s'aprisse, e tra per forza e inganno il misono in sul palagio in signoria; e' priori furono messi di sotto nel palagio nella camera dell'arme vilmente. E fu per certi grandi istracciato il libro degli ordini e gonfalone della giustizia, e poste le bandiere del duca in sulla torre, sonando le campane a Dio laudiamo. E fece la mattina due cavalieri, messer Cerritieri de' Visdomini suo scudiere e famigliare, e Rinieri di Giotto da San Gimignano capitano stato di fanti di priori, il quale aconsentì al tradimento a dare e aprire il palagio, ch'agevole gli era a difendere, com'era tenuto e dovea fare per suo uficio; e assentì al detto tradimento messer Guiglielmo d'Ascesi allora capitano del popolo, il quale rimase poi co·llui per suo bargello e carnefice, dilettandosi di fare crudeli giustizie d'uomini. Ma meser Meliaduso d'Ascoli allora podestà non volle consentire al tradimento del popolo di Firenze, anzi volle rinuziare l'uficio della podesteria; ben si disse per alcuno, tutto fece a frode e ipocresia, però che poi pure rimase uficiale del duca. I grandi feciono gran festa d'armeggiare, e·lla sera grandi luminare e falò. Ivi a due dì apresso si fece il duca confermare signore a vita per li opportuni consigli, e mise i priori nel palagio fu de' figliuoli Petri dietro a San Piero Scheraggio con XX fanti solamente, ove n'avieno prima cento, levando loro ogni uficio e signoria; e levò l'arme a tutti i cittadini brivileggiati, o di che stato si fosse, e poi all'ottava di nostra Donna fece il duca gran festa e solennità a Santa Croce per la sua signoria, e fece offerere più di CL prigioni; e 'l nostro vescovo sermonando molto il lodò e magnificò al popolo. In questo modo e tradimento usurpò il duca d'Atene la libertà della nostra città, e anullò il popolo di Firenze ch'era durato intorno di L anni, in grande libertà, e stato, e signoria. E noti chi questo leggerà come Iddio per le nostre peccata in poco di tempo diede e promise alla nostra città tanti fragelli, come fu diluvio, carestie, fame, e mortalità, e sconfitte, vergogne d'imprese, perdimenti di sustanza di moneta, e fallimenti di mercatanti, e danni di credenza, e ultimamente di libertà recati a tirannica signoria e servaggio. E però, per Dio, carissimi cittadini presenti e futuri, correggiamo i nostri difetti. Abbiamo tra noi amore e carità, acciò che piacciamo all'Altissimo, e non ci rechiamo a l'ultimo giudicio della sua ira, come assai chiaro e aperto ci mostra per le sue visibili minacce: e questo basti a' buoni intenditori, tornando a nostra matera de' processi del duca; che poi apresso ch'ebbe la signoria di Firenze, a dì XXIIII di settembre la signoria d'Arezzo, e quella di Pistoia, ove avea già suoi vicari il duca per lo Comune di Firenze, gli si dierono a vita, e poco apresso per simile modo gli si diè Colle di Valdelsa e San Gimignano e poi la città di Volterra, onde molto li crebbe lo stato e signoria, e ricolse a·ssé tutti i Franceschi e Borgognoni ch'erano al soldo inn-Italia, sicché tosto n'ebbe più di DCCC, sanza gl'Italiani; e molti suoi parenti e baroni vennero a·llui infino di Francia per la novella ita di là della sua signoria e groria. E quando ciò fu raportato al re Filippo di Francia suo sovrano, subitamente disse a' suoi baroni che gli erano d'intorno in sua lingua: "Alberges est le pelegrin, mas il i a mavoes ostes", il quale fu un propio motto e di vera sentenzia e profezia, come poco tempo apresso gli avenne………………………………………………
Quello che 'l duca d'Atene fece in Firenze mentre ne fu signore. Come il duca d'Atene fu fatto a vita signore di Firenze per lo modo detto adietro, per avere meno a contendere di fuori, e credendosi fortificare dentro il suo stato e signoria, sì fece di presente pace e accordo co' Pisani e con tutti i loro allegati, non guardando ad onte o vergogne del Comune di Firenze ricevute, ove i Fiorentini speravano ch'elli facesse ogni loro vendetta; e a dì XIII d'ottobre si piuvicò e bandì in questo modo, che·lla città di Lucca rimanesse a' Pisani per XV anni, e poi lasciarla inn-stato comune, e rimettendo al presente li usciti guelfi in Lucca che tornare vi volessono, e rendendo loro i loro beni, mettendovi il duca podestà cui elli volesse, il detto tempo rimanendo a' Pisani la guardia del castello dell'Agosta ch'è in Lucca, e tutta la guardia e dominazione della terra, che·lla podestà per lo duca non avea altro che 'l salaro e 'l nome, che altra signoria poco potea fare più che piacesse a' Pisani, ma pure era una posessione per lo nostro Comune, e freno a' Pisani mentre che 'l duca dominava Firenze, e dando i Pisani al duca ogn'anno per censo per lo san Giovanni VIIIm fiorini d'oro in una coppa dorata d'argento, faccendo franchi i Fiorentini in Pisa per V anni, ove prima eravamo franchi per sempre per li patti antichi, rimanendo d'accordo a' Fiorentini tutte le castella di Valdarno e di Valdinievole, che·ssi tenieno, e Barga e Pietrasanta; e che i Fiorentini dovessono rimettere in Firenze e trarre di bando tutti i loro rubelli e usciti, e nuovi e vecchi, stati al servigio e lega di Pisani, e perdonare agli Ubaldini e Pazzi e Ubertini, e lasciare di prigione i Tarlati d'Arezzo e rendendo loro pace, e trarre di prigione meser Giovanni Visconti di Milano; e così fu fatto di presente; al quale meser Giovanni Visconti il duca vestì nobilemente, e diè cavalli e danari, e fatto acompagnare infino a Pisa, e domandando a' Pisani il mendo di suoi danni e interessi avuti per loro, gli ingrati Pisani nol vollono udire, ma apuosogli ch'egli era venuto in Pisa per trattare cospirazione nella terra per lo duca, e convenne si partisse villanamente nella terra; della quale cosa meser Luchino signore di Milano prese molto sdegno contro a' Pisani, come si potrà trovare leggendo. Per lo detto accordo dal duca a' Pisani tornaro i Bardi e' Frescobaldi e' loro seguaci in Firenze, e' Pisani lasciarono ogni prigione fiorentino e·lloro allegati ch'erano presi in Pisa e in Lucca. A dì XV d'ottobre il duca fece nuovi priori, i più artefici minuti, e mischiati di quelli che loro antichi erano stati Ghibellini; e diè loro un gonfalone di giustizia così fatto di tre insegne, ciò fu di costa all'asta l'arme del Comune, il campo bianco e 'l giglio rosso; e apresso in mezzo la sua il campo azurro biliottato col leone ad oro, e al collo del leone uno scudetto dell'arme del popolo; apresso l'arme del popolo il campo bianco e·lla croce vermiglia, e di sopra il rastrello del re; e mise i priori nel palagetto ove prima stava l'esegutore in sulla piazza con poco uficio e minore balìa, se non il nome, e sanza sonare le campane a martello o congregare il popolo, com'era usanza. Del detto nuovo e disimulato gonfalone i grandi ch'avieno fatto signore il duca e crediansi ch'al tutto il duca annullasse il popolo in detto e in fatto, come avea promesso loro, si turbarono forte, e massimamente perché in que' dì fece condannare subitamente uno de' Bardi in Vc fiorini d'oro o nella mano, perch'avea stretta la gola a uno suo vicino popolano che·lli dicea villania. E così puttaneggiava e disimulava il duca co' cittadini, togliendo ogni baldanza a' grandi che·ll'aveano fatto signore, e togliendo la libertà e ogni balìa e uficio, altro che 'l nome de' priori, e al popolo; e cassò l'uficio di gonfalonieri delle compagnie del popolo, e tolse loro i gonfaloni, e ogni altro ordine e uficiali di popolo cassò, se non a suo beneplacito ritegnendosi co' beccari, vinattieri, scardassieri e artefici minuti, dando loro consoli e rettori al loro volere, dimembrando gli ordini antichi dell'arti a·ccui erano sottoposti per volere maggiori salari di loro lavorii. Per le sudette cagioni e altre fatte per lui, come si troverrà leggendo assai poco apresso, si criò conspirazione contro al duca per li grandi e popolani medesimi che·ll'avieno fatto signore, come tosto si potrà trovare. E fece torre tutte le balestra grosse a' cittadini, e fece fare l'antiporte al palagio del popolo, e ferrare le finestre della sala di sotto per gelosia e sospetto de' cittadini, e fece comprendere tutto il circuito dal detto palazzo a quelli che furono di figliuoli Petri, e·lle torri e case di Manieri e di Mancini, e di Bello Alberti, comprendendo tutto l'antico gardingo e ritornando in sulla piazza. E il detto compreso fece cominciare e fondare di grosse mura e torri e barbacani per farne col palagio insieme uno grande e forte castello, lasciando il lavorio di deficare il ponte Vecchio, ch'era di tanta necessità al Comune di Firenze, togliendo di quello le pietre conce e legname. Fece disfare le case di Santo Romolo per fare piazza al castello infino nel Garbo. E mandò a corte al papa per licenza di disfare San Piero Scheraggio, e Santa Cicilia, e Santo Romolo, ma no·lli fu assentito per la Chiesa. Fece torre a' cittadini certi palagi e fortezze e belle case ch'erano nelle circustanze del palagio, e misevi suoi baroni e sua gente sanza pagare alcuna pigione. Fece fare alle porti nuovi antiporti di costa a' vecchi per più fortezza, e rimurare le porte. Di donne e di donzelle di cittadini per sé e per sue genti cominciato a·ffare di forze e villanie e di laide cose; intra·ll'altre per cagione di donna tolse San Sebbio a' poveri, della guardia dell'arte di Calimala, e diello altrui illicitamente. E per amore di donna rendé gli ornamenti alle donne di Firenze, e fece fare il luogo comune delle femmine mondane, onde il suo maliscalco traeva molti danari. Fece fare le paci tra' cittadini e contadini, e questo fu il meglio che facesse, ma bene ne guadagnò egli e' suoi uficiali grossamente da coloro che·lle richiedieno. Levò gli assegnamenti a' cittadini sopra le gabelle, di danari convenuti loro prestare per forza al Comune per fornire la 'mpresa di Lombardia e quella di Lucca, come adietro è fatta menzione, ch'erano più di CCCLm di fiorini d'oro, asegnati in più anni con alcuno guiderdone. E questo fu gran male, e onde i cittadini più si gravaro, e·ffu rompimento di fede al Comune; e molti cittadini, che dovieno avere grossamente dal Comune, ne furono diserti; e recò a·ssé tutte le gabelle, che montavano l'anno più di CCm di fiorini d'oro sanza l'altre entrate e gravezze. Fece fare e pagare l'estimo in città e in contado, che montò più di LXXXm di fiorini d'oro, onde i grandi e' popolani e' contadini, che vivono di loro rendite, si tennono forte gravati. E quando fece fare l'estimo, promisse e giurò a' cittadini di non fare loro altre gravezze d'imposte o di prestanze, o di nuove gabelle, ma no·llo oservò, ma al continovo gravava i cittadini di prestanze, e facea criare e crescere nuove e sforzate gabelle per uno ser Arrigo Fei; e quelli era suo amico, che sapea trovare modi d'avere danari, onde che venissono. E in X mesi e XVIII dì ch'elli regnò gli vennero a mano di gabelle e d'estimo, gravezze, e condannagioni, e altre entrate presso di CCCCm di fiorini d'oro pure di Firenze, sanza quelli che traeva delle terre vicine ch'elli signoreggiava, de' quali rimandò tra in Francia e in Puglia più di CCm di fiorini d'oro, però che non tenea tra tutte le terre che signoreggiava DCCC cavalieri, e quelli mal pagava; ma al bisogno della sua rovina se n'avide a suo danno e vergogna. Gli ordini de' suoi uficiali e consiglieri erano in questo modo. I priori, come avemo detto, erano in nome, ma non in fatto, sanza alcuna balìa. Era la podestà mesere Baglione da Perugia, che guadagnava volentieri; messer Guiglielmo d'Ascesi chiamato conservadore overo assessino di lui e bargello, e stava nel palagio de' Cerchi bianchi nel Garbo. Tre giudici avea ordinati, che·ssi chiamavano della Sommaria, che tenieno corte nelle nostre case e cortili e logge de' figliuoli Villani da San Brocolo; questi giudici rendieno ragione di fatto con molte baratterie; e uno meser Simone da Norcia giudice sopra rivedere le ragioni del Comune, ed era più barattiere che coloro cui condannava per baratterie, abitava nel palagio fu de' Cerchi dietro a San Brocolo. Di suo consiglio era il vescovo della Leccia sua terra di Puglia; e suo cancelliere Francesco il vescovo d'Ascesi fratello del conservadore; il vescovo d'Arezzo degli Ubertini, e meser Tarlato, e il vescovo di Pistoia e quello di Volterra, e messere Attaviano de' Belforti: questi tenea per sicurtà delle loro terre, e vescovi per una sua coperta ipocresia. Con cittadini avea di rado consigli, e poco gli prezzava e meno gli oservava, ristrignendosi solo al consiglio di meser Baglione, e del conservadore, e di mesere Cerritieri de' Visdomini, uomini corrotti in ogni vizio a·ssua maniera, faccendo i suoi dicreti di fatto e sotto suo sugello, il quale il suo cancelliere si facea bene valere. Signore era di poca fermezza e di meno fede di cosa che promettesse, cupido e avaro e mal grazioso; piccoletto di persona e brutto e barbucino; parea meglio Greco che Francesco, segace e malizoso molto. Fece al suo conservadore impiccare meser Piero di Piagenza uficiale della mercatantia opponendoli baratterie, e che mandava lettere a meser Luchino da Melano, e·cchi disse li fé in parte torto. Fece costrignere i mallevadori di Naddo di Cenni, ch'era a' confini a Perugia, che tornasse con sua sicurtà, e·llui tornato a dì XI di gennaio, non oservandoli fede, il fece impiccare e colla catena in collo, acciò che non si potesse ispiccare, e tolse a' Suoi mallevadori VmDXV fiorini d'oro, opponendo gli avea frodati al Comune in Lucca, oltre agli altri levatoli prima, e tutti i suoi beni confiscò a·ssé, opponendogli ch'egli avea trattato col Comune di Siena e con quello di Perugia contro a·llui, i quali non amavano la vicinanza e signoria del duca; e forse in parte fu vero. Questo Naddo fu un sottile e sagace uomo, e molto grande e prosuntuoso in popolo e in Comune, ma bene guadagnava volontieri. Il padre, Cenni di Naddo, stato molto grande in Comune, per dolore del figliuolo e tema del duca si fece frate di Santa Maria Novella, e fece bene dell'anima sua, se 'l fece con buona intenzione, per fare penitenzia delle colpe commesse in Comune, e spezialmente inn-isturbare l'accordo co' Pisani onorevole assai per lo nostro Comune, come toccammo adietro. In questi tempi, del mese di marzo, fece il duca lega e compagnia co' Pisani, e taglia di IIm cavalieri contro a ogni loro aversaro, i Pisani tenere DCCC cavalieri e 'l duca MCC cavalieri; la qual compagnia molto spiacque ai Fiorentini e a tutti i Toscani guelfi, e poco s'oservò, perché non era piacevole mischiato, né buona compagnia. Del mese di marzo detto il duca fece in contado VI podestadi, uno per sesto, con grande balìa di potere fare giustizia reale e personale e con grandi salari, e i più furono de' grandi, che di nuovo erano stati rubelli, rimessi in Firenze di poco. La qual nuova signoria molto spiacque a' cittadini, e più a' contadini, che portavano la spesa e gravezza. Fece pigliare uno Matteo di Motozzo, e in su uno carro atanagliare, e poi tranare sanz'asse, e impiccare, perch'avea rivelato uno trattato de' Medici e d'altri che doveano offendere il duca, e nol volle credere, a suo pericolo e danno di quello, gli avenne. L'ultimo dì di marzo fece impiccare in su Monterinaldi Lamberto degli Abati, il quale era stato valente uomo all'oste nostra a Lucca della masnada di meser Mastino, perch'elli gli avea rivelato uno trattato che certi grandi tenieno contro al duca con meser Guidoriccio da Fogliano capitano della gente di mesere Mastino, opponendoli il contrario, che tenea trattato con meser Mastino di torli la signoria. La qual cosa non fu vero, ma·ffu vero quello ch'è detto; ma per le sue opere vivea in grande sospetto e gelosia, e chiunque gli rivelava trattato o da beffe o da dovero, o parlava contro a·llui, facea morire; onde più altri di piccolo affare fece a torto morire di crudeli tormenti per mano del suo carnefice conservadore di male opere. Per la Pasqua della Resurresione, MCCCXLIII, tenne gran festa a' cittadini e suoi baroni conostaboli e soldati con grandi corredi, ma con mala voglia di cittadini, e fece tenere giostre nella piazza di Santa Croce per più dì, ma pochi cittadini vi giostrarono, che·ggià a' grandi e a' popolani cominciavano a spiacere i suoi processi. All'uscita d'aprile MCCCXLIII ordinò e cominciò ad afforzare e chiudere San Casciano e afforzare per riducervi dentro le villate d'intorno, e che·ssi chiamasse Castello Ducale, ma poco andò inanzi. Fecesi in Firenze sei brigate di festa, di gente di popolo minuto vestiti insieme ciascuna brigata per sé, e danzando per la terra. La maggiore fu nella Città Rossa, e il loro signore si nomò lo 'mperadore. L'altra a San Giorgio col Paglialoco; ed ebbono zuffa tra queste due. E una ne fu a San Friano, e una nel borgo d'Ognisanti. L'altra in quello di San Pagolo. L'altra nella via larga delli spadai; e·ffu motiva e assento del duca per recarsi all'amore della Comune e popolo minuto, per quella sforzata vanità; ma poco gli valse al bisogno. Per la festa di san Giovanni fece fare l'oferta all'arti al modo antico sanza gonfaloni, e·lla mattina della festa oltre a' ceri usati delle castella, ch'erano da XX, ebbe da XXV pali di drappi ad oro, bracchetti, sparvieri e astori per omaggio d'Arezzo, Pistoia, Volterra, San Gimignano, Colle, e da tutti i conti Guidi, da Mangona, Cerbaia, e da Montecarelli, e Puntormo, Ubaldini, Pazzi, e Ubertini, e d'ogni baroncello d'intorno, che·ffu coll'oferta de' ceri una nobile festa; e raunarsi i detti ceri e pali e·lli altri tributi in su la piazza di Santa Croce, e poi l'uno apresso l'altro andaro al palagio ov'era il duca, e poi a San Giovanni. Fece aggiugnere al palio dello sciamito chermisi di foderallo a rovescio di vaio isgrigiato quant'era l'asta, ch'era molto ricco a vedere. La festa fece ricca e nobile, e·ffu la prima e sezzaia che dovea fare in Firenze per le sue opere. All'uscita di giugno fece fare una sconcia giustizia, che a uno Bettone Cini da Campi, de' menatori de' buoi dell'antico carroccio, il quale di poco l'avea il duca fatto di priori, e per la dignità del carroccio vestitolo di scarlatto, però che, poi ch'elli uscì dell'uficio, si dolfe e disse alcuna parola oziosa per una imposta gli era fatta per lo duca, gli fece cavare la lingua infino allo strozzule e con essa inanzi in su una lancia per diligione mandandolo per la terra, e poi pintone fuori a' confini a Pesero, ove poco apresso per quella tagliatura della lingua morì. Di questa giustiza si turbaro molto i cittadini, e ciascuno la riputava in sé di non potere parlare, né dolersi de' torti e oltraggi; ma la persona di Bettone era degna di quello, e di peggio, ch'egli era publicano e villano gabelliere, e colla piggiore lingua ch'uomo di Firenze, sì che morì nel peccato suo. A dì II di luglio il duca fermò compagnia e taglia con messere Mastino della Scala, e co' marchesi da Esti, e col signore di Bologna, e co·llui contrasse parentado, ma più gli era utole la compagnia e benivolenza de' buoni cittadini di Firenze, la quale al tutto s'avea levata e tolta, e quella che fece con quelli signori poco o niente li valsono al suo bisogno, e poco durò. Assai avemo detto sopra i processi e opere del duca d'Atene fatte in Firenze mentre ne fu signore, e non si potea fare di meno, acciò che sieno manifeste le cagioni perché i Fiorentini si rubellaro della sua signoria, e prendano assempro per lo innanzi quelli che sono a venire di non volere signore perpetuo né a vita. Lasceremo alquanto di questa matera, faccendo incidenza, per raccontare altre novità che furono altrove in questi tempi, tornando assai tosto a contare la fine ch'ebbe in Firenze la sua signoria. Ma di tanto volemo fare prima memoria, e questo sentimmo e sapemmo di vero. Il dì e·ll'ora che prese la signoria, per savi astrolaghi fu preso l'ascendente che·ffu gradi XXII del segno della Libra, segno mobile e opposito del segno d'Aries significatore di Firenze, e in termine di Marti, e Marti nostro significatore era nel detto segno della Libra contrario alla sua casa, e il suo signore Venus nel Leone gradi VIII faccia di Saturno e contradio alla sua tripricità. Per la quale costellazione dissono d'accordo che·lla sua signoria non dovea compiere l'anno, e con mala uscita e vituperevole e con molti tradimenti e romori con arme, ma con pochi micidi. Ma più credo che fosse la cagione il suo male reggimentoe·lle sue ree opere per lo suo pravo libero albitro, male usandolo.
Di certe congiurazioni che furono fatte in Firenze contra il duca d'Atene che·nn'era signore. E' si dice fra·nnoi Fiorentini uno antico e materiale proverbio, cioè: "Firenze non si muove, se tutta non si duole"; e bene che 'l proverbio sia di grosse parole e rima, per isperienza s'è trovato di vera sentenzia, e viene a caso della nostra presente matera; che a certo il duca nonn-ebbe regnato III mesi, che quasi a' più di cittadini non dispiacesse nella sua signoria per li suoi inniqui e malvagi processi, come detto avemo adietro, e più ancora che scritto non s'è per noi; però ch'ogni singulare cosa e sue operazioni nonn-ho potuto sapere né ricogliere, ma per le generali e aperte assai si può comprendere. Prima che' grandi che·ll'aveano fatto signore, e aspettavano da·llui stato e grandezza, come avea loro promesso, sì trovato ingannati e traditi, ed eziandio que' grandi ch'elli avea rimessi in Firenze, non parea loro esere ben trattati; e i grandi e possenti popolani che prima avieno retta la terra, ch'al tutto gli avea anullati e tolto loro ogni stato, onde il nimicavano a morte. A' mediani e artefici dispiacea la sua signoria per lo non guadagnare, e per lo male stato della città, e per le 'ncomportabili gravezze sì d'estimo, sì di prestanze, e d'intollerabili gabelle, e per levare che fece a' cittadini gli asegnamenti sopra le gabelle di danari prestati al Comune. E dove i cittadini avieno speranza che per lo suo reggimento scemasse le spese, e desse loro buono stato, fece il contrario; e per le male ricolte montò il grano in più di soldi XX lo staio, onde il popolo minuto male si contentava. E per li oltraggi delle donne fatti per lui e per le sue genti, e altre forze, e crude giustizie, per le quali cagioni quasi i più di cittadini commossi a mala volontà contro a·llui, onde più congiurazioni s'ordinaro per torli la signoria e·lla vita, chi per una forma, e·cchi per un'altra, non sappiendo al cominciamento l'una setta dell'altra, né s'ardieno a scoprire per le sue crudeli giustizie; che eziandio chi·lle rivelava gli facea morire, come detto è adietro. E principali furono III sette e congiurazioni; della prima fu capo il nostro vescovo degli Acciaiuoli frate predicatore, che al cominciamento delle sue prediche tanto il magnificava e gloriava, e co·llui tenieno i Bardi; ciò furono principali: messere Piero, messere Gerozzo, messere Iacopo, e Andrea di Filippozzo, Simone di Geri, tutti della casa de' Bardi, e rimessi in Firenze per lo duca, e di Rossi Salvestrino e meser Pino, e più suoi consorti. E de' Frescobaldi i caporali il priore di Sa·Iacopo meser Agnolo Giramonte anche di rimessi in Firenze per lo duca, e Vieri delli Scali, e più altri grandi e popolani, Altoviti, Magalotti, Strozzi, e Mancini. Dell'altra congiura era capo meser Manno e Corso di meser Amerigo de' Donati, Bindo e Beltramo e Mari de' Pazzi, e Niccolò di mesere Alamanno, e Tile Benzi de' Cavicciuli e certi degli Albizi. Della terza era capo Antonio di Baldinaccio degli Adimari, e Medici, e Bordoni, Oricellai, e Luigi di Lippo Aldobrandini, e più altri popolani mediani. E più modi si trovò che cercaron di torli la signoria e·cchi la vita, chi con trattato di Pisani, chi con Sanesi e Perugini e con conti Guidi, alcuni d'asalirlo in palagio andando al consiglio; ma per sua gelosia, di ciò si provide, che due volte mutò i sergenti e' famigliari che guardavano il palagio, e per sospetto fece ferrare le finestre del palagio; alcuni di saettarlo quando andava per la terra. L'altra setta ordinaro d'asalirlo in casa gli Albizi il dì di san Giovanni, che vi dovea venire a vedere correre il palio; anche per sospetto non v'andò. La terza setta aveno ordinato, imperò ch'egli cavalcava sovente per amore di donna da casa i Bordoni alla Croce a Trebbio. Questi v'allogaro due case, una da ciascuno capo della via, e quelle guernirono d'arme e di balestra e di sbarre per asserragliare la via dall'uno capo e dall'altro e inchiuderlo nel mezzo, e ordinati da L masnadieri arditi e franchi, che 'l dovieno assalire con certi caporali giovani e grandi e popolani a·ccui ne calea, e aveano voglia di farlo, e assalito il duca, levare la terra a romore, e' caporali di fuori dovieno esere in arme a cavallo e a piè al soccorso e per atterrare lui e sua compagnia; che al principio cavalcava con XXV o XXX di sua gente disarmati, con alquanti cittadini grandi e popolani, di coloro medesimi ch'erano congiurati contro a·llui. Ma tanto gli fu messo sospetto, che poi menava a sua guardia II masnade di L di sue genti a cavallo armati e da C fanti, e smontato lui da cavallo restavano armati in sulla piazza del palazzo a sua guardia: ma poco gli valieno al suo riparo per l'ordine preso per le dette congiure alla sua rovina; però che quasi tutti i cittadini erano commossi contro a·llui per le sue ree opere. Ma come piacque a Dio, per lo meno male, la terza setta e congiura, la qual era più pronta a·cciò fare, fu scoperta per uno masnadiere sanese, che dovea essere a·cciò fare; il rivelò a meser Francesco Brunelleschi, non per tradimento, ma per consiglio e come a suo signore, credendo il sapesse e tenesse mano alla congiura; il quale cavaliere per paura di non esere incolpato, overo per male di suoi nimici, che di tali erano caporali alla detta congiura, il manifestò al duca, e menogli il detto fante sotto fidanza, il quale ritenne segreto e disaminollo, e seppe d'alcuno ch'era de' detti congiurati e caporali di masnadieri; e di presente fece pigliare Pagolo di Francesco del Manzeca orrevole popolano di porta San Piero, tutto fosse brigante, e uno Simone da Monterappoli a dì XVIII di luglio, e questi per tormento confessarono e manifestaro come Antonio di Baldinaccio era loro capo con più altri; il quale Antonio richesto, per sicurtà di sua grandezza comparì. Il duca il fece ritenere nel palagio; e·llui preso, tutti gli altri principali d'ogni setta per tema di loro chi·ssi partì della città, e·cchi si nascose, onde tutta la città fu in gelosia e in grande sospetto e tremore. Il duca trovando la congiura contro a·llui sì grande, e·cche tanti grandi e possenti cittadini vi tenieno mano, non ardì di fare giustizia de' detti presi; che·sse di sùbito l'avesse fatta, e corsa la terra colla sua gente e popolazzo minuto che 'l seguiva, rimaneva signore; ma il suo peccato l'accecò, e·lli misse tanta viltà e paura nell'animo, che non sapea che·ssi fare; e mandò d'intorno alla terre e castella per la sua gente, e al signore di Bologna per aiuto, il quale gli mandò CCC cavalieri. E pensossi di fare una grande vendetta e crudele di molti cittadini con grande tradimento, che perché sabato mattina a dì XXVI di luglio era il dì di santa Anna, e il dì dinanzi fece richiedere più di CCC di maggiori cittadini di Firenze, grandi e popolani d'ogni famiglia e casato, che venissono dinanzi a·llui in palagio per consigliarlo quello ch'avesse a·ffare de' presi, con intenzione (e questo fu poi fuori di Firenze manifesto) che come fossono ragunati nella sala del palagio, ch'avea le finestre ferrate, come detto avemo, di fare serrare la sala, e quanti dentro ve n'avesse fare uccidere e tagliare, e correre la terra al modo fece l'empissimo Totila Fragellum Dei quando distrusse Firenze. Ma Iddio, che sempre ha guarentita al bisogno la nostra città per le limosine e per li meriti delle sante persone religiose e laici, che vi sono innocenti, la guardò di tanto male e pericolo; che prima misse sospetto in cuore a tutti i richiesti di non andare in palagio al detto consiglio, intra' quali ve n'avea molti di congiurati, e poi il dì medesimo quasi tutti i cittadini di grande accordo insieme, diponendo tra·lloro ogni ingiuria e malavoglienza, scoprendosi l'una setta all'altra, di loro ordine e trattati tutti s'armarono per rubellarsi da·llui, come diremo apresso nel seguente capitolo. Come la città di Firenze si levò a romore, e cacciaronne il duca d'Atene che·nn'era signore. Essendo la città di Firenze in tanto bollore, e sospetto e gelosia, sì per lo duca avendo scoperte le congiurazioni fatte per tanti cittadini contra·llui, e fallitoli il suo proponimento di non potere raccogliere i nobili e possenti cittadini al falso e disleale consiglio, e d'altra parte i cittadini i più possenti sentendosi in colpa della congiura, e sentendo il mal volere del duca, e che già nella terra avea più di DC cavalieri di sue masnade, e ogni dì agiugneva; e·lla gente del signore di Bologna e certi altri Romagnuoli che venieno in suo aiuto avieno già valicata l'alpe, dubitarono che·llo indugio non fosse a·lloro pericolo, ricordandosi del verso di Lucano: "Tolle mora, semper etc. ". Gli Adimari, e Medici, e Donati principali, sabato sonata nona, usciti i lavoranti delle botteghe dì XXVI di luglio, il dì di santa Anna anni Domini MCCCXLIII, ordinarono in Mercato Vecchio e in porta San Piero che certi ribaldi fanti fitiziamente s'azzuffassono insieme, e gridassono: "All'arme, all'arme!"; e così feciono. La terra era insollita e in paura, incontanente tutta corse a furore e a sgombrare i cari luoghi; e di presente, com'era ordinato, tutti i cittadini furo armati a cavallo e a piè, ciascuno alla sua contrada e vicinanza, traendo fuori bandiere dell'armi del popolo e del Comune, com'era ordinato, gridando: "Muoia il duca e' suoi seguaci, e viva il popolo e 'l Comune di Firenze e libertà!". E di presente fu abarrata e aserragliata tutta la città ad ogni capo di vie e di contrade. Quelli del sesto d'Oltrarno, grandi e popolani, si giurarono insieme e baciarono in bocca, e abarraro i capi de' ponti, con intenzione che se tutta la terra di qua si perdesse, di tenersi francamente di là. E mandato il dì dinanzi da parte del Comune segretamente per soccorso e aiuto a' Sanesi; e certi di Bardi e Frescobaldi stati a Pisa e tornati di nuovo in Firenze mandarono per loro ispezialtà per aiuto a' Pisani. La qual cosa quando si seppe per lo Comune e per li altri cittadini, forte se ne turbaro. La gente del duca sentendo il romore s'armaro e montaro a cavallo, e chi potéo di loro al cominciamento corsono alla piazza del palagio in quantità di CCC a cavallo; gli altri, chi·ffu preso, e rubato per li alberghi, e·cchi per le vie fediti e morti e scavallati, e per li serragli impacciati, e rubati i cavalli e·ll'arme. Al cominciamento trassono al soccorso del duca in sulla piazza di priori certi cittadini amici del duca, cui avea serviti, che non sapieno il segreto delle congiure; ciò furono de' principali: messer Uguiccione Bondelmonti con alcuno suo consorto e cogli Acciaiuoli, e meser Giannozzo Cavalcanti e di suoi consorti, e Peruzzi, e Antellesi, e certi scardassieri e alcuno beccaio, gridando: "Viva lo signore lo duca!". Ma come s'avidono che quasi tutti i cittadini erano sommossi a furore contro a·llui, si tornarono a casa, e seguirono il popolo, salvo messere Uguiccione Bondelmonti, cui il duca ritenne seco in palagio, e i priori dell'arti per sicurtà di sua persona, i quali erano rifuggiti in palagio. Essendo levato il detto romore e tutta gente ad arme, quelli de' cinque sesti, ond'erano capo gli Adimari, per scampare Antonio di Baldinaccio loro consorto e gli altri presi per lo duca, e Medici, e Altoviti, e Oricellai, e degli altri offesi da·llui, com'è detto adietro, presono le bocche delle vie che menano in sulla piazza del palagio de' priori, ch'erano più di XII vie, e quelle abarrarono e aforzarono sicché nullo non potea entrare né uscire del palagio e piazza, e di dì e di notte si combattero colla gente del duca, ch'erano in sul palagio e 'n sulla piazza, ov'ebbe alquanti morti, ma molti fediti di cittadini per lo molto saettamento e pietre che venia del palagio dalla gente del duca. Ma alla fine la gente del duca ch'era in sulla piazza, la sera medesima, non poterono durare e non avendo da vivere, lasciando i loro cavalli, i più di loro si fuggiro nel compreso del palagio ov'era il duca e' suoi baroni, e alquanti si guerentirono tra' nostri lasciando l'armi e cavalli, e·cchi preso e·cchi fedito. E come si cominciò il detto romore, Corso di meser Amerigo Donati co' suoi fratelli e altri seguaci ch'avieno loro amici e parenti in prigione assaliro e combattero la carcere delle Stinche, mettendo fuoco nello sportello e bertesca ch'era di legname, e collo aiuto de' prigioni dentro ruppero le dette carcere, e uscinne tutti i prigioni, e con quello empito, crescendo loro séguito di meser Manno Donati, e di Niccolò di meser Alamanno, e Tile di Guido Benzi de' Cavicciuli, e Beltramo de' Pazzi, e di più altri, ch'avieno loro amici in bando e presi in palagio, assalirono combattendo il palagio della podestà, ov'era mesere Baglione da Perugia podestà per lo duca, il quale né egli né sua famiglia si misono a risistenza, ma con grande paura e pericolo si fuggì a guarentigia in casa gli Albizi, che 'l ricolsono; e·cchi di sua famiglia si fuggì in Santa Croce; e rubato il palagio d'ogni loro arnesi infino alle finestre e panche del Comune; e ogni atto e scritture vi furono prese e arse, e rotta la carcere della Volognana, e scapolati i prigioni; e poi ruppono la camera del Comune, e di quella tratti tutti i libri ov'erano scritti gli sbanditi e rubelli e condannati, e arsi tutti; e simile rubati gli atti dell'uficiale della mercatantia sanza contasto niuno. Altra ruberia od offensione corporale non fu fatta in tanto scioglimento di città, se non contro alla gente del duca; che·ffu gran cosa, e tutto avenne per l'unità in che·ssi trovaro i cittadini a ricoverare la loro libertà e quella della republica del Comune. E·cciò fatto, il detto sabato quelli d'Oltrarno apersono l'entrata de' ponti, e valicaro di qua a cavallo e a piè in arme, e cogli altri cittadini de' V sesti feciono levare le sbarre e serragli delle rughe mastre, colle 'nsegne del Comune e del popolo cavalcarono per la città gridando: "Viva il popolo e Comune in sua libertà, e muoia il duca e' suoi! "; e trovarsi i cittadini più di mille a cavallo ben montati, e inn-arme tra di loro cavalli e di quelli tolti alla gente del duca, e più di Xm cittadini armati a corazze e barbute come cavalieri, sanza l'altro minuto popolo tutto in arme, sanza alcuno forestiere o contadino; il quale popolo fu molto amirabile a vedere, e possente, e unito. Il duca e sua gente veggendosi così fieramente assaliti e assediati dal popolo nel palagio con più di CCCC uomini (e non avea quasi altro che biscotto e aceto e acqua), ma credendosi guarentire dal furioso popolo, la domenica fece cavaliere Antonio di Baldinaccio il quale non si volea fare di sua mano; ma i priori, ch'erano rinchiusi in palagio, vollono si facesse a onore del popolo di Firenze; poi lasciò lui e gli altri cui avea presi, e puose in sul palagio bandiere del popolo, ma però non cessò l'asedio e furia del popolo. La domenica di notte giunse il soccorso di Sanesi, CCC cavalieri e CCCC balestieri molto bella gente, e co·lloro sei grandi e popolani cittadini di Siena per ambasciadori. I Saminiatesi mandato al servigio del nostro Comune IIm pedoni armati, e' Pratesi D. E venne di presente il conte Simone da Battifolle, e Guido suo nipote con CCCC fanti. E di nostri contadini armati il seguente dì vennero in grandissima quantità al Comune e a' singulari cittadini, onde tutta la città fu piena d'innumerabile gente. I Pisani mandavano alla richiesta di loro amici, come toccammo adietro, sanza assento del Comune, D cavalieri, i quali vennero infino al borgo della Lastra di là da Settimo. Sentendosi in Firenze, se n'ebbe grande gelosia e grande mormorio contro a que' grandi a·ccui richiesta venivano; e per lo Comune e per loro fu contramandato che non venissono, e così feciono; ma tornandosi adietro, da quelli di Montelupo e di Capraia e d'Empoli e di Puntormo furono assaliti, e tra morti e presi più di cento pure de' migliori; e perderono più di CC cavalli, che furono loro tra morti e rubati. Arezzo sentito come il duca era assediato da' cittadini di Firenze, incontanente si rubellarono alla gente e uficiali del duca per li Guelfi. E il castello dentro fatto per li Fiorentini rendé Guelfo di meser Bindo Bondelmonti. E Castiglione Aretino rendé Andrea e Iacopo Laino de' Pulci, che·nn'erano castellani, a' Tarlati. Pistoia si rubellò, e ridussonsi a·lloro libertà e a popolo guelfi, e disfeciono il castello fatto per li Fiorentini e ripresono Serravalle. E rubellossi Santa Maria a Monte e Montetopoli tenendosi per loro; rubellossi Volterra, e tornò alla signoria di meser Attaviano de' Belforti, che prima la signoreggiava; e Colle, e San Gimignano dalla signoria del duca, e disfeciono le castella, e rimasono i·lloro libertà. Tale fu la rovina della signoria del duca in Firenze e d'intorno. In pochi giorni venuti in Firenze i Sanesi e·ll'altra amistà, il vescovo con certi buoni cittadini grandi e popolani feciono richiedere a bocca tutta buona gente, e sonare la campana della podestà, e bandire parlamento per riformare lo stato e signoria della città. E congregati tutti in Santa Reparata in arme il lunedì apresso, di grande accordo elessono l'infrascritti XIIII cittadini, VII grandi e VII popolani con piena balìa di riformare la terra e fare uficiali e leggi e statuti, per tempo fino a calen di ottobre vegnente; ciò furono del sesto d'Oltrarno messer Ridolfo di Bardi, messer Pino de' Rossi, e Sandro di Cenni Biliotti; di San Piero Scheraggio messer Giannozzo Cavalcanti, messer Simone Peruzzi, Filippo Magalotti; per Borgo meser Giovanni Gianfigliazzi, Bindo Altoviti; per San Brancazio messer Testa Tornaquinci, Marco degli Strozzi; per porta del Duomo messer Bindo della Tosa, messer Francesco de' Medici; di porta San Piero mesere Talano degli Adimari, messer Bartolo de' Ricci. I detti XIIII elessono per podestà il conte Simone, e ragunavansi nel vescovado. Ma il detto conte, come savio, rinuziò e non voll'essere giustiziere de' Fiorentini; e però chiamato meser Giovanni marchese da Valiano, e infino che penasse a venire elessono luogotenente di podestà l'infrascritti VI cittadini, uno per sesto, III grandi e III popolani; messer Berto di meser Stoldo Frescobaldi, Nepo delli Spini, meser Francesco Brunelleschi, Taddeo dell'Antella, Paolo Bordoni, Antonio degli Albizi; e stavano nel palagio del podestà con CC fanti pratesi, tegnendo ragione sommaria di ruberie e forze e di simili, sanz'altro uficio. In questa stanza non cessava l'assedio del duca, di dì e di notte combattendo il palagio, e di cercare di suoi uficiali. Fu preso uno notaio del conservadore per li Altoviti stato crudele e reo, fu tutto tagliato a bocconi. E apresso fu trovato meser Simone da Norcia stato uficiale sopra le ragioni del Comune, il quale molti cittadini cui a diritto e cui a torto avea tormentati crudelmente e condannati, per simile modo a pezzi tutto tagliato. E uno notaio napoletano, ch'era stato capitano di sergenti a piè del duca, reo e fellone tutto fu abocconato dal popolo. E ser Arrigo Fei, ch'era sopra le gabelle, fuggendosi da' Servi vestito come frate, conosciuto da San Gallo fu morto, e poi da' fanciulli tranato ignudo per tutta la città, e poi in sulla piazza de' priori impeso per li piedi, e sparato e sbarrato come porco: tal fine ebbe della sua isforzata industria di trovare nuove gabelle, e·lli altri di su detti della loro crudeltà. I signori XIIII col vescovo, e 'l conte Simone e·lli ambasciadori di Siena al continuo erano in trattato col duca per trarlo di palagio, e sovente a vicenda a parte a parte di loro entravano e uscivano di palagio, benché poco piacesse al popolo. Alla fine nulla concordia asentiva il popolo, se non avessono dal duca il conservadore, e 'l figliuolo, e meser Cerritieri per farne giustizia. Il duca in nulla guisa l'asentiva, ma i Borgognoni ch'erano assediati in palagio s'allegarono insieme, e dissono al duca che inanzi che volessono morire di fame e a tormento, darebbono preso lui al popolo, non che i detti tre, e ordinato l'avieno, e il podere avieno di farlo, tanti erano, e sì erano forti. Il duca veggendosi a tal partito acconsentì; e venerdì, a dì primo d'agosto, in sull'ora della cena i Borgognoni presono meser Guiglielmo d'Ascesi, detto conservadore delle tirannie del duca, e un suo figliuolo d'età di XVIII anni, di poco fatto cavaliere per lo duca, ma bene era reo e fellone a tormentare i cittadini, e pinsollo fuori dell'antiporto del palagio in mano dell'arrabbiato popolo, e di parenti e amici cui il padre avea giustiziati, Altoviti, Medici, Oricellai, e quelli di Bettone principali, e più altri, i quali, in presenza del padre per più suo dolore, il suo figliuolo pinto fuori inanzi il tagliarono e smembrarono a minuti pezzi; e·cciò fatto pinsono fuori il conservadore e feciono il somigliante, e chi·nne portava un pezzo in sulla lancia e·cchi in sulla spada per tutta la città; ed ebbevi de' sì crudeli, e con furia bestiale e tanto animosa, che mangiaro delle loro carni cruda e cotta. Cotale fu la fine del traditore e persecutore del popolo di Firenze. E nota che·cchi è crudele crudelmente dee morire, disit Domino. E fatta la detta furiosa vendetta molto s'aquetò e contentò la rabbia del popolo; e·ffu però scampo di meser Cerritieri, che dovea esere il terzo; ma saziati i loro aversari no·llo domandaro; e fuggendosi la sera fu nascosto e poi traviato da certi di Bardi, e altri suoi amici e parenti. E per la detta furiosa vendetta fatta sopra il conservadore e 'l figliuolo, ch'avea giudicati Naddo di Cenni e Guiglielmo Altoviti e gli altri, poco apresso si feciono cavalieri due delli Oricellai e poi due delli Altoviti; la qual cosa poco fu loro lodata da' cittadini. Ma torniamo a nostra matera de' fatti del duca, che·lla domenica apresso, dì III d'agosto, il duca s'arrendé e diede il palagio al vescovo e a' XIIII e a' Sanesi e conte Simone, salve le persone di lui e di sue genti. La qual sua gente n'uscirono con gran paura acompagnati da' Sanesi e da più buoni cittadini. E il duca rinuziò con saramento ogni signoria e giuridizione e ragione ch'avesse aquistata sopra la città contado e distretto di Firenze, dimettendo e perdonando ogni ingiuria; e a cautela promettendo di retificare ciò, quando fosse fuori del contado di Firenze. E per paura della furia del popolo, con sua privata famiglia rimase in palagio alla guardia de' detti signori infino mercoledì notte di VI d'agosto; e raquetato il popolo, in sul mattutino uscì di palagio acompagnato dalla gente de' Sanesi e del conte Simone, e di più nobili e popolani e possenti cittadini ordinati per lo Comune. E uscì per la porta di San Niccolò e passò Arno al ponte a Rignano salendo a Valembrosa e a Poppi; e·llà fatta la ritificagione promessa, passò per Romagna a Bologna, e dal signore di Bologna fu bene ricevuto, e donatogli danari e cavalli; e poi se n'andò a Ferrara e a Vinegia. E·llà fatte armare II galee, sanza prendere congio di più di sua gente che gli erano iti dietro, lasciandogli mal contenti di loro gaggi, privatamente di notte si partì di Vinegia, e·nn'andò in Puglia. Cotale fu la fine della signoria del duca d'Atene, ch'avea con inganno e tradimento usurpata sopra in Comune e popolo di Firenze, e il suo tirannico reggimento mentre la signoreggiò, e com'elli tradì il Comune, così da' cittadini fu tradito. Il quale n'andò con molta sua onta e vergogna, ma con molti danari tratti da·nnoi Fiorentini, detti orbi e inn-antico volgare e proverbio per li nostri difetti e discordie, e lasciandoci di male sequele. E partito il duca di Firenze, la città s'aquetò e disarmarsi i cittadini, e disfecionsi i serragli, e partirsi i forestieri e' contadini, e apersonsi le botteghe, e ciascuno attese a·ssuo mestiere e arte. E detti XIIII cassarono ogni ordine e dicreto che 'l duca avea fatto, salvo che confermarono le paci tra' cittadini fatte per lui. E nota che come il detto duca occupò con frode e tradigione la libertà della republica di Firenze il dì di nostra Donna di settembre, non guardando sua reverenza, quasi per vendetta divina così permisse Iddio che i franchi cittadini con armata mano la raquistassono il dì di sua madre madonna santa Anna, dì XXVI di luglio MCCCXLIII; per la qual grazia s'ordinò per lo Comune che·lla festa di santa Anna si guardasse come pasqua sempre in Firenze, e si celebrasse solenne uficio e grande oferta per lo Comune e per tutte l'arti di Firenze.
Quando il Villani ed anche il Davidsohn , ci abbandonano a prenderci per mano E' Marchionne di Coppo Stefani
Cronaca Fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, a cura di N. Rodolico, "Rerum Italicarum Scriptores. Nuova Edizione", tomo XXX, parte I, Città di Castello, 1903-1955. Pagine V-CXXI Recentemente ripubblicata in ristampa anastatica dalla casa FIRENZE LIBRI Che possiamo trovare comunque all'interno delle "Delizie degli eruditi" di padre Ildefonso
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P>Alla caduta del duca di Atene i popolani grassi : la ricca borghesia commeciale , bancaria e industriale riteneva di poter disporre di nuovo del potere e di poter imporre inoltre l'ammorbidimento degli ordinamenti di giustizia associando al governo i Magnati.
Rubrica 582 ( Stefani ) Come i fiorentini Feciono parlamento , e riformarono la Terra per tutto settembre data balia a 14 cittadini. Lunedi a di 28 luglio , si ragunarono i cittadini e feciono sonare le campane del palagio del Podesta .E qui di comune concordia fu diliberato quattordici cittadini , sette popolari e sette grandi a riformare Firenze, come a loro piacesse per tutto settembre 1343. Questi cittadini si ragunarono al vescovado insieme col vescovo; cio' furono questi : Messer Agnolo vescovo di Firenze Messer Ridolfo dei Bardi Messer Pino dei Rossi Sandro Bigliotti Messer Giannozzo Cavalcanti Messer Simone Peruzzi Filippo dei Magalotti Messer Giovanni dei Gianfigliazzi Bindo di messer Oddo Altoviti Messer Testa dei Tornaquinci Marco degli Strozzi Messer Francesco dei Medici Bindo di Messer Biligiardo Tosinghi Messer Bartolo dei Ricci E con loro ebbono ad esser rogati delle scritture due notai , li quali furono questi : Ser Guido Gili Arsoli Ser Ugolino di ser Tonto da Gambassi
Costoro ragunandosi elessero per Podesta' il marchese da Varliano , messer Giovanni , e perche' non era presente , diedono balia a sei cittadini infino alla sua venuta .Li furono questi : Messer Berto di messer Stoldo Frescobaldi grande Taddeo dell'Antella popolano Nepo degli Spini grande Pagolo Bordoni popolano Messer Francesco Brunelleschi grande Antonio di Lando degli Albizzi popolano Questi eletti in luogo del Podesta' Marchese che si aspettava , doveano stare in palagio del podesta' , e avieno 300 fanti alla guardia. Li quali aveano balia solo di ruberia , o di forze , o di chi ormannattentasse contro liberta' , di fatto sommariamente in avere e in persona punire, siccome a tutti , o le due parti di loro , paresse. Nondimeno l'arme s'usava e die e notte si saettava nel palagio al Duca; e il popolo cercava gli ufficiali del Duca se aveano arme.
Rubrica 586 Siccome la citta' si riformo' d'uffici , e divisessi a quartieri
Come lo Duca fu ito via , li 14 cittadini collo Vescovo insieme si restrinsero a riformare la Terra , e praticato collo consiglio dei Grandi e popolani grassi e con gli artefici piu' ragionamenti , che parvero trattati , perocche' i Grandi che furono principali a volere liberta', voleano parte in ogni ufficio Le famiglie l'assentiano , il popolo non parea per lo Priorato , ma pure per la pace ed unione s'assenti che d'ogni cosa avessero parte . E perche' erano pochi ………………………………
Rubrica 587 I Priori primi dell'ufficio di liberta' secondo i loro quartieri
Rubrica 588 Come i fiorentini furono in armi e cacciarono li Grandi di Palagio e degli uffici
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La reazione del popolo delle arti medie e delle arti minori e' tale da mostrare tutto quello che di nuovo vi era nella societa' fiorentina Tutta quella parte della popolazione finora tenuta al margine facendo conto sul numero prendeva il potere
Rub. 589. ( Stefani ) Come si riformo l' uficìo dei Priori, e fecessi dodici buoni uomini. Come li quattro Priori furono fuori, e levati li quattro grandi degli otto Configlieri, li Priori elessero, oltre a' quattro Consiglieri , otto altri ; sicchè li tornò il numero de' dodici Buoni uomini, come innanzi al Duca erano ; ed elessero, senza aggiugnere al Priorato niuno uomo, uno de' Priori per Gonfaloniere di giustizia ; ciò fu Sandro da Quarata, e li 14 col Vescovo li confermarono , e poi elessero sedici Gonfalonieri, quattro per ogni quartiere, ed il consiglio del popolo colle capitudini, pure li priori e le capitudini , e misero consiglio 75 uomini per quartieri. Ed ogni legge, ed ogni statuto rimase ; a' Signori, e a' Dodici, e a' Gonfalonieri, ed al Consiglio la guardia della Terra.
GOVERNO DEL POPOLO MINUTO
O meglio governo delle arti mediane e del popolo minuto I popolani grassi sono messi in minoranza L'ago della bilancia diventano le arti mediane
Rubrica 594 Come la Città di Firenze si riformò a popolano stato. Nel detto anno , e mese d' Ottobre si ragunarono i Priori, gli Ambasciadori Sanesi , e li Perugini, e col consiglio delle 21. Capitudini dell' Arti, e d' altri buoni uomini, feciono ordine in questo modo : che li Priori fosserò nove, due popolani grassi, tre mediani , e tre artefici ; ed il Gonfaloniere della giustizia a fosse , 1' uno mese dell' un membro, e 1' altro dell' altro , ed a quartieri ; e così per simile i Gonfalonieri, e buoni uomini, e fecesi lo squittino in questo modo : che a farlo in palagio co' Priori fossero tutti i Consoli dell'arti ch'erano 53 col Proconfolo, e li 5 della Mercatanzia , e 28. Arroti per quartiere, tutti artefici; e furono in tutto 207. Lo' partito si vincesse per 110 fave nere , e chi vincesse il partito, fosse imborsato Priore, e Gonfaloniere , e Dodici , ciascuno in una borsa de' detti uficj. E qui diliberarono, che ne' Gonfalonieri stesse la discrezione , quelli, che dovessero ire a partito , li quali fosserò uomini buoni. Andarono a partito circa 4000 rimaserne circa 200. E cominciossi a trarre per lo quartiere di Santo Spirito e per S.Croce e per li altri quartieri.
Rubrica 595 Come si riposono gli ordini di giustizia ai grandi , e feronsi di popolo alcuni
Nel detto anno e mese li popolani a petizioni degli ambasciatori senesi e perugini avendo riposti gli Ordini della Giustizia ai Grandi , feciono certi popolani , dei meno rei , secondo si credettono . ………………………………………………………….
Il governo popolare durera' per quasi quaranta anni e culminera' con le fibrillazioni del tumulto dei Ciompi e della successiva presa del potere di alcune famiglie oligarchiche capeggiate dagli Albizzi E' un esperienza estremamente importante che precorre le attuali democrazie Per circa quaranta anni il controllo sul comune viene esercitato non dai piu' ricchi ma da chi poteva contare sull'appoggio del numero E' il Rodolico lo storico che piu' sembra aver intuito l'importanza di questa esperienza politica
Saranno anni densi di avvenimenti e di difficolta' a cui questo governo democratico sapra' reagire con vigore L'oligarchia che aveva dominato i primi quarantanni del trecento si apprestera' a tramare per riprendere il potere agitando lo spauracchio del ghibellinismo Con la deludente calata di Arrigo VII , si era di fatto spenta ogni mena ghibellina chiudendosi di fatto la lotta tra Papato ed Impero , ma agitare lo spauracchio dei ghibellini , creare la psicosi del nemico era utile dal punto di vista politico Cosi la parte oligarchica si rinserro' in "Parte Guelfa" e comincio' ad esercitare un azione di sbarramento verso quei popolani che piu' erano ritenuti pericolosi agli interessi oligarchici S'introduce l'elemento psicologico nella battaglia politica La taccia di esponente ghibellino serve a condizionare l'opinione della gente S'introduce la pratica dell'ammonire
Giano Della Bella negli anni 1293-1295 aveva saputo coagulare intorno a se l'appoggio delle arti medie e minori , ma non aveva saputo crearne un soggetto politico Ora invece le Arti mediane e minori diventano un soggetto politico E' evidente che nella societa' fiorentina molte cose dovevano esser cambiate Probabilmente i fallimenti di tante societa' mercantili avevano travolto numerosi piccoli risparmiatori che avevano collocato ivi i loro risparmi e che non erano stati tutelati dallo stato per cui avevano finito per pagare lo scotto maggiore Questo aveva forse generato un clima di sfiducia verso le famiglie che avevano dominato i primi 40 anni del trecento Probabilmente il conseguente ristagno economico dovuto alle perdite finanziarie aveva alimentato una condizione di rancore e di sfiducia verso la vecchia classe dirigente alimentando la voglia di sperimentare situazioni nuove
A dire che la strada
Gli immensi fallimenti dei Peruzzi e dei Bardi vieppiu' alimenteranno il malcontento
CARESTIA del 1346 e del 1347
Ai fallimenti fece seguito un annata di scarsi raccolti (1346 ) e l’anno successivo le colture furono danneggiate da una grandinata di enorme intensita’ Sicuramente si faceva sentire un clima di recessione economica ,le migliaia di azionisti delle compagnie che avevano perso i loro risparmi e non avevano piu’ i soldi per continuare i loro traffici ed i loro negozi , sicuramente un numero notevole di lavoratori perse il posto di lavoro
LA PESTE NERA DEL 1348
La peste nera del 1348 e’ un avvenimento quasi impossibile da descrivere I suoi effetti sono imprescindibili L’Europa , Firenze , in quell’anno perdono meta’ della propria popolazione Dopo la peste Firenze e’ un’altra citta’ Anche se la peste ha decimato prevalentemente la classe piu’ povera ( per condizioni igieniche , per peggior nutrizione ) anche le maggiori famiglie hanno visto aprirsi larghissimi vuoti Quindi vi e’ un forzoso rinnovo della classe politica Cambia anche tutta la panoramica dell’economia europea : una popolazione dimezzata e quindi un dimezzamento o quasi della domanda di merci L’arricchimento dei sopravvissuti che ereditano i beni dei morti ( cioe’ delle classi medie Quindi vi sono in Europa e a Firenze meno persone con piu’ disponibilita’ economiche E’ evidente che il mercato economico e quello del lavoro non puo’ che subire grandissime modificazioni E’ piu’ difficile vendere certe merci e’ piu’ facile venderne altre E’ piu’ difficile trovare lavoratori disposti a tutto Anche psicologicamente vi e’ una modifica : la grande moria la grande paura ha reso tutto il senso della precarieta’ della vita
IL TRECENTO E' UN PERIODO DI CONTINUE LOTTE PER FIRENZE
DISCESA DI ARRIGO VII
LOTTE CONTRO CASTRUCCIO CASTRACANI DEGLI ANTELMINELLI
LOTTE CONTRO IL DUCATO DI MILANO La figura di maggior rilievo del periodo storico in questione, è Giangaleazzo Visconti (1351- 1402), che sogna di guidare un regno italiano, capace di imporsi in Europa alla pari dei regni che si stavano già formando nel continente, il riferimento va soprattutto a Francia ed Inghilterra. La politica della famiglia Visconti è sempre stata chiara, poiché ogni membro della casata ha sempre puntato ad espandere i propri territori . Il culmine del successo visconteo arriva con Giangaleazzo Visconti – definito poi “Il Grande ” – che attraverso la diplomazia e gli inganni politici nonché gli scontri militari riuscì a conquistare gran parte dell’Italia Settentrionale .
Anno 1353 Pace di Sarzana con i Visconti di Milano
LOTTE CONTRO PISA
Anno 1364 Pace con Pisa
LOTTE CONTRO IL PAPATO
Anni 1375-1378 La guerra degli otto santi Vedi Rodolico ………………………………………………………………………………………… Vedi Gherardi………………………………………………..
Interdetto di Gregorio XI che danneggia l'attivita' commerciale delle compagnie fiorentine in tutta Europa Grande abilita' degli Otto Santi Corrompono Giovanni acuto che mandato dal Papa contro Firenze passa dalla loro parte. Confiscano i beni della chiesa fiorentina Fomentano rivolte antipapali nelle terre sottoposte al dominio della Chiesa Accordo di pace favorito da Santa Caterina
Nel 1375 i legati pontifici stavano ri-assoggettando i territori dello Stato della Chiesa in vista di un imminente ritorno del papa a Roma da Avignone. L'Italia non si era ancora ripresa dallo choc della peste nera del 1348 e ancora ne subiva ciclicamente le conseguenze con ondate residue di epidemia, carestia e stagnazione economica dovuta alla mancanza di manodopera. I legati pontifici, tutti di origine francese e mal visti dalla popolazione locale, erano alle prese con altri problemi a Bologna, quando giunse da Firenze la richiesta di grano che il cardinale nella città emiliana Guglielmo di Noellet declinò seccamente. L'azione venne interpretata come un tentativo di indebolire Firenze prima di provare a conquistarla, aggravata dall'ingresso delle truppe di Giovanni Acuto nel territorio fiorentino (sebbene il legato si affrettasse a smentire che il condottiero inglese fosse ancora al soldo della Chiesa). Per rivalsa, incitati soprattutto nei ceti subalterni dai semiereticali "fraticelli" nemici della ricchezza della corte avignonese, i fiorentini entrarono in lotta contro il Papa, fomentando la rivolta anche nelle altre città assoggettate: Viterbo, Perugia, Città di Castello, Montefiascone, Foligno, Spoleto, Gubbio, Narni, Todi, Assisi, Chiusi, Orvieto, Orte, Toscanella, Radicofani, Sarteano, Camerino, Fermo, Ascoli e molte altre. A Firenze venne creata una magistratura apposita degli Otto di Guerra con Alessandro Bardi, Giovanni Dini, Giovanni Magalotti, Andrea Salviati, Guccio Gucci, Tommaso Strozzi, Matteo Soldi e Giovanni Moni. Coluccio Salutati, cancelliere della Repubblica fiorentina, inviava infuocate lettere ai romani perché si ribellassero. Nel 1376 si unì alla lega Bologna, fortemente sovvenzionata a ribellarsi da Firenze: a scopo dimostrativo Giovanni Acuto compiva pochi giorni dopo l'eccidio di Forlì. Fu allora (31 marzo 1376) che Papa Gregorio XI decise di scomunicare i fiorentini dichiarando decaduto qualsiasi credito verso di loro ed iniziando con lo scacciare seicento di loro da Avignone confiscando tutti i loro beni. La contromossa dei fiorentini fu quella di iniziare a chiamare gli otto magistrati della guerra "Otto santi", a sottolineare la legittimità morale delle loro rivendicazioni. Nel frattempo il papa aveva assoldato la compagnia dei Brettoni, famosi per la loro ferocia, che mosse l'assedio contro Bologna prima di dirigersi, secondo i progetti, su Firenze. L'assedio di Bologna si risolse con un atto simbolico, la sfida a duello tra i mercenari stranieri e gli italiani Betto Biffoli e Guido d'Asciano. Quando Caterina da Siena, grande mediatrice tra gli interessi opposti dei fiorentini e del papato, ottenne il rientro del papa in Italia (in viaggio dal 13 settembre 1376 al 17 gennaio 1377), si aprì un nuovo tavolo di trattative da Roma. La diplomazia però non ebbe esito, mentre anche Bolsena si ribellava e Cesena veniva messa a ferro e fuoco. Con la tregua stipulata da Bologna, i fiorentini decisero di arruolare Giovanni Acuto dalla loro parte (aprile 1377), mentre il clero fiorentino veniva pesantemente tassato ed obbligato a riaprire le chiese e celebrare le funzioni. L'intransigenza degli Otto (la cui mancata deposizione era ormai l'unico motivo di attrito col pontefice) venne mediata dall'intervento di Bernabò Visconti, che convocò una conferenza di trattative a Sarzana, nella riviera di levante ligure, (12 marzo 1378) interrotta pochi giorni dopo (il 27) per la morte di Gregorio XI. Il successore Urbano VI riuscì a far firmare un pace poco dopo (28 luglio) a Tivoli. I fiorentini si impegnarono a pagare, in cambio della cancellazione dell'interdizione, la somma di 350.000 fiorini. Che poi vennero pagati solo in parte.
LOTTE PER IL POSSESSO DI LUCCA
CLIMA STORICO ECONOMICO
Dopo la peste e' facile pensare ad una fase di ristagno economico L'afflusso di nuova manodopera dal contado manodopera non inquadrata nelle corporazioni e quindi poco controllabile L'emergere di una nuova classe politica Tensione
Come detto e' Rodolico lo storico che per primo si sforza di analizzare il periodo
Merita un esame approfondito la crescita economica degli Albizzi imprenditori dell'Arte della lana
Lo studio dell'opposizione politica esercitata dalla Parte Guelfa e' stato minuziosamente eseguito dal dr Vieri Mazzoni
VIERI MAZZONI : La legislazione antighibellina e la politica oligarchica della Parte Guelfa di Firenze nel secondo Trecento (1347-1378) VIERI MAZZONI : Dalla lotta di parte al governo delle fazioni. I guelfi e i Ghibellini del territorio fiorentino nel trecento VIERI MAZZONI : Il patrimonio e le strategie insediative della Parte Guelfa di Firenze nel primo trecento VIERI MAZZONI : Note sulla confisca di beni dei Ghibellini a Firenze nel 1267 e sul ruolo della Parte Guelfa VIERI MAZZONI : Nuovi documenti sul cronista fiorentino Marchionne di Coppo Stefani VIERI MAZZONI : Ascesa e caduta di una famiglia di popolo nel trecento : gli Zagoni di Prato Vieri Mazzoni e Francesco Salvestrini Strategie politiche e interessi economici nei rapporti tra la Parte Guelfa e il Comune di Firenze. La confisca patrimoniale ai "ribelli" di San Miniato
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Reazione della grande borghesia indutriale e mercantile appoggiata in Parte Guelfa
Pratica delle ammonizioni
Dottorato di ricerca in Storia medievale
Dr .Vieri Mazzoni La legislazione antighibellina e la politica oligarchica della Parte Guelfa di Firenze nel secondo Trecento (1347-1378) Esame finale: 4 marzo 2003 - Commissione giudicatrice: proff. Renato Bordone (Università di Torino), presidente, Elisa Occhipinti (Università di Milano) e Sergio Raveggi (Università di Siena) Volume I INTRODUZIONE CAPITOLO I. Guelfismo e ghibellinismo a Firenze nel passaggio tra Duecento e Trecento CAPITOLO II. Il Comune e la Parte Guelfa dalle lotte tra bianchi e neri al tumulto dei ciompi (1301-1378) CAPITOLO III. Pratiche esclusorie e proscrizioni contro i "ghibellini" nel secondo Trecento CONCLUSIONI FONTI Volume II Tomo I APPENDICE I: Legislazione concernente ghibellini ed ammoniti (1347-1382) Tomo II APPENDICE V: Atti relativi ad alcune ammonizioni (1359) Abstract Almeno sin dalla metà del Duecento - da quando cioè le fonti ne rendono possibile lo studio - le parti guelfa e ghibellina di Firenze appaiono come formazioni abbastanza aperte e permeabili tanto all'adesione di nuovi membri quanto all'abbandono degli antichi fautori. Dopo la caduta dell'ultimo regime ghibellino ed il definitivo passaggio del Comune al campo guelfo, avvenuto nel 1266, la fazione imperiale registrò, con ogni probabilità, un numero massiccio di defezioni, che la indebolirono progressivamente, trasformandola in una piccola comunità di fuoriusciti, senza alcuna chance di rivalsa e spesso proiettati verso interessi e terre lontani dalla città di origine. Nel 1280, tuttavia, gli accordi stipulati con i guelfi sotto l'egida della Chiesa e grazie alla mediazione del Cardinal Latino Malabranca consentirono il ritorno dall'esilio di molti ghibellini, dietro garanzia della cancellazione di bandi e condanne e del riconoscimento dei diritti politici, questi ultimi ratificati mediante l'instaurazione di un regime bipartitico. In effetti solo poche casate fedeli agli Imperatori - invero le più autorevoli e rappresentative - rifiutarono la pacificazione, preferendo vivere fuori dalla madrepatria e condurre una lotta senza speranza, anziché sottomettersi, mentre molte altre famiglie già loro alleate furono velocemente cooptate nel governo dei Priori delle Arti, espressione delle corporazioni bancarie mercantili e manifatturiere, che in breve tempo sostituì l'artificiosa ed effimera costruzione voluta dal Cardinal Latino. Il processo di assimilazione di guelfi e ghibellini in un nuovo ceto dirigente proseguì sino ai primi anni del Trecento, allorché la divisione del fronte guelfo tra bianchi e neri riportò in auge le antiche differenze. La vittoria dei neri, propugnatori di un guelfismo estremo, sui bianchi, maggiormente propensi all'intesa con i sostenitori dell'Impero, provocò la cacciata di questi ultimi ed il loro ulteriore avvicinamento ai ghibellini ribelli, cui fecero seguito violenze e devastazioni in molte zone del territorio fiorentino ed assalti contro castelli e centri fortificati. Sebbene il governo cittadino non corresse mai un vero pericolo di essere sovvertito, fuori dal circuito delle mura urbane la situazione rimase critica almeno sino al 1308, quando scomparvero gli ultimi esponenti radicali dei neri e la vita politica riacquistò una parvenza di normalità. Il progressivo sbandimento dei ghibellini ed il loro reintegro - seppur parziale - nelle attività pubbliche riprese dopo la fine dell'oltranzismo guelfo, ed anzi, paradossalmente, trasse nuovo impulso dalle crisi manifestatesi in occasione della discesa in Italia dell'Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo e del tentativo egemonico di Castruccio Castracani Antelminelli da Lucca, rispettivamente negli anni Dieci e Venti del Trecento, allorché i rettori cittadini avvertirono la necessità di dividere il fronte degli avversari adottando un atteggiamento conciliante e varando un'amnistia generale, dalla quale furono esclusi soltanto gli oppositori irriducibili. La strategia ebbe successo, ed in un modesto lasso di tempo consentì il logoramento della parte estrinseca, di cui rimanevano sporadiche tracce ancora agli inizi degli anni Quaranta, ma che di fatto era venuta meno al termine degli anni Venti in concomitanza con la morte del Castracani e con la partenza del successore del defunto Arrigo VII, ovvero l'Imperatore Ludovico IV di Baviera. In sostanza è possibile affermare che a Firenze il dualismo tra guelfi e ghibellini, già decaduto alla fine del Duecento, venne superato in via definitiva nei primi decenni del secolo successivo, come indica altresì la scomparsa della Parte Ghibellina, le cui ultime attestazioni certe sono di poco posteriori alla pace del Cardinal Latino, e la parallela istituzionalizzazione della Parte Guelfa, esistente in forma autonoma sin dai tempi dell'esilio e formalmente riconosciuta dagli statuti del 1322. Occorre sottolineare come in tale contesto scomparvero le leggi specifiche disponenti l'esclusione dei ghibellini dalle magistrature cittadine, senza dubbio emanate sin dal 1266 e probabilmente cassate nel 1280, a seguito degli accordi sanciti dal legato pontificio, per lasciare il posto ad una congerie di norme che riservavano l'esercizio degli uffici pubblici ai soli guelfi, tra i quali, però, erano annoverati molti antichi seguaci della fazione imperiale, ormai del tutto redenti. Questo quadro di soluzione della dicotomia tra le parti e di assimilazione degli ex ghibellini nel ceto dirigente comunale, tuttavia, cambiò bruscamente nel corso degli anni Quaranta, per effetto di un mutamento drastico ed imprevisto dello scenario politico. Nel 1342, infatti, il regime di stampo oligarchico, che sin dal 1308 aveva retto la città, entrò in una crisi irreversibile, culminata con il ricorso ad una signoria temporanea affidata ad un principe angioino. La caduta di quest'ultimo, avvenuta nel 1343, determinò la nascita di un governo allargato, nel quale, accanto ai membri del patriziato cittadino - numericamente in minoranza - confluirono anche esponenti delle arti minori ed individui e famiglie di recente immigrazione, alterando in tal modo i tradizionali rapporti di forza e gli equilibri interni. Per un breve periodo, corrispondente al quinquennio 1343-1348, gli esecutivi rispecchiarono nella composizione e nella conduzione questo nuovo stato di cose, finché lo scoppio dell'epidemia di peste nel 1348 - la celeberrima Morte Nera - non causò la morte di molti dei novi homines recentemente abilitati alla guida del Comune, consentendo, o, meglio, favorendo, una ripresa degli oligarchi, da qualche anno in ombra, ed il loro reinserimento, in quantità cospicua, nelle borse da cui venivano tratti i nominativi dei magistrati cittadini. Gli esiti di questa riforma elettorale, dal carattere assolutamente straordinario, si manifestarono appieno nei tre decenni successivi, durante i quali si fronteggiarono due schieramenti abbastanza definiti negli intenti, anche se eterogenei nella composizione: l'uno favorevole al patriziato e ad una conduzione politica ristretta, nonché contrario alla partecipazione di immigrati recenti ed artefici minuti alla cosa pubblica, e perciò descritto come "oligarchico", l'altro sostenitore di un ceto dirigente allargato e comprendente nuovi cittadini ed uomini immatricolati nelle corporazioni minori, e quindi convenzionalmente definito "democratico". Al quadro generale così delineato - invero già di per sé alquanto complesso - occorre altresì aggiungere le attività di due fazioni, guidate dalle famiglie degli Albizi e dei Ricci e formate dai loro alleati ed accoliti, le quali per il ventennio che va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta supportarono rispettivamente il fronte oligarchico e quello democratico. Vari indizi, poi, dimostrano che, almeno dal 1347, gli oligarchi si erano stretti attorno alla Parte Guelfa, già in antiquo roccaforte dell'aristocrazia e dei magnati, prendendone di fatto il controllo ed imponendosi sui guelfi moderati, bendisposti verso il fronte democratico, e talvolta esponenti di quella posizione, per conferire nuovi poteri all'associazione e renderla quanto più possibile autonoma ed indipendente dal Comune. Tale indirizzo, perseguito con grande costanza per quasi trent'anni, ebbe come scopi principali il risanamento economico della Parte, il suo affrancamento dalla giurisdizione delle magistrature cittadine, e, soprattutto il ripristino delle leggi contro i ghibellini. Quest'ultimo obbiettivo, ottenuto sin dalla fine degli anni Quaranta ed accompagnato dalla rinascita di un guelfismo intransigente, era stato pensato dagli oligarchi in funzione di una strategia esclusoria volta contro gli avversari democratici, i quali, accusati in modo più o meno strumentale di essere ghibellini, ovvero discendenti di fautori dell'Impero, potevano essere proscritti ed estromessi dalla politica attiva. Il revival del massimalismo guelfo ebbe successo sia grazie alle pressioni esercitate dai Capitani di Parte sugli esecutivi comunali quanto in virtù di una complessa crisi nelle relazioni fra stati, che vide l'emergere di un concreto pericolo per l'indipendenza di Firenze rappresentato dall'espansionismo dei Visconti di Milano, in passato vicari degli Imperatori. In effetti l'applicazione delle norme contro i ghibellini, demandata agli organi giudiziari del Comune, non ebbe grandi sviluppi, poiché i processi per ghibellinismo, avviati su denuncia sia di ufficiali della Parte Guelfa che di privati cittadini, ad essa legati o meno, furono pochi, oltre che concentrati nell'arco di un venticinquennio e, soprattutto, risolti per lo più con sentenze assolutorie. Giova ricordare come gli stessi uomini della societas guelforum fiorentina esitassero a farsi promotori di tali accuse nelle corti comunali, forse perché ben consapevoli dell'influenza in ambito giudiziario della Signoria, non sempre a loro favorevole, e come parimenti agissero anche i privati. Del resto l'analisi prosopografica degli imputati in questi procedimenti indica che solo un'esigua minoranza aveva avuto legami con l'antica pars Imperii, o con suoi sostenitori, e sempre mediante vincoli familiari vecchi di una o più generazioni, dimodoché è possibile affermare che la legislazione antighibellina era realmente un'arma politica degli oligarchici contro i democratici. La scarsità di risultati nell'offensiva giudiziaria rivolta contro questi ultimi convinse infine i partefici ad introdurre una nuova pratica esclusoria, di maggior efficacia perché totalmente demandata all'arbitrio degli ufficiali guelfi: l'ammonizione. La nuova procedura poteva colpire tanto singoli individui quanto intere famiglie e consorterie, era basata su una valutazione insindacabile dei Capitani di Parte e di altri membri dell'associazione scelti ad hoc, ed aveva importanti riflessi in campo legale poiché rivestiva il valore di prova nei processi per ghibellinismo. Grazie alle ammonizioni, comminate per un ventennio a partire dal 1358, allorché vennero impiegate per la prima volta, centinaia di persone ed intere consorterie persero i diritti politici, venendo così eliminate dalla contesa per le cariche pubbliche, ed in svariate occasioni l'attività dei governi fu piegata al volere dei partefici, che non ebbero remore a minacciare apertamente la proscrizione dei membri di quegli esecutivi. Come è facile immaginare, gli aderenti allo schieramento democratico tentarono di limitare lo strapotere degli uomini della Parte e di arginare l'oltranzismo guelfo che gli oligarchici propugnavano, ma la tattica di aumentare il numero e di alterare la composizione degli uffici della societas guelforum, originariamente adottata su iniziativa dei Ricci, si dimostrò prima inutile, mercé l'attento controllo degli scrutini operata dagli avversari, ed infine inapplicabile, quando, agli inizi degli anni Settanta, l'associazione divenne completamente autonoma ed indipendente dal Comune. Soltanto l'avvio di una forma parallela di esclusione extragiudiziale, ovvero l'inserimento nel novero dei magnati - e la conseguente perdita della rappresentanza nei collegi degli esecutivi - di quei popolani che avessero assunto comportamenti sopraffattori e violenti, o che di simili crimini fossero stati denunciati e ritenuti colpevoli dalle autorità cittadine, valse a contrastare il diffondersi delle accuse di ghibellinismo e delle ammonizioni. È opportuno sottolineare come l'introduzione di tale provvedimento cadesse nel 1372, in uno dei momenti di massimo fulgore della Parte Guelfa, ma anche nell'anno che vide l'emarginazione dalle principali magistrature comunali dei vertici delle famiglie Albizi e Ricci, le quali, alleandosi, avevano posto fine alla lotta di fazione, determinato un pericoloso accentramento di potere, e lasciato privo di una guida riconosciuta i democratici. Nonostante la reazione di questi ultimi, la seconda metà del decennio registrò una recrudescenza di ammonizioni ed un acuirsi dello scontro con gli oligarchici raccolti attorno alla società dei guelfi fiorentini, finché, nel 1378, la tensione giunse al culmine, ed una Signoria di ispirazione democratica, vista l'impossibilità di giungere ad un'intesa con i partefici in materia di proscrizioni, decise un rafforzamento degli Ordinamenti di Giustizia e delle norme contro i magnati. Dinanzi alla prospettiva di essere definitivamente emarginati dalla vita politica i guelfi estremisti risposero con un colpo di mano, cosicché alcune centinaia di loro si riunirono armati presso il Palagio di Parte, ma infine desistettero da ogni iniziativa violenta e fuggirono dalla città. La defezione degli oligarchi segnò la fine del predominio della Parte Guelfa e delle attività esclusorie che attorno ad essa ruotavano, ma precedette di poco anche la caduta del regime, in auge sin dal 1343, rovesciato poche settimane dopo dal tumulto dei ciompi. |
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Dr Vieri Mazzoni
Per tutto il Duecento, a Firenze, lo scontro tra guelfi e ghibellini fu assai virulento; all'inizio del secolo successivo, però, esso potè dirsi risolto. Alla metà del Trecento, tuttavia, i nomi delle due fazioni ebbero un imprevedibile revival perché impiegati dall'oligarchia per imporsi in politica. Tornarono allora in auge la Parte Guelfa fiorentina, le liste di proscrizione, le leggi contro i ghibellini, i processi politici e una nuova pratica esclusoria: l'ammonizione; tutti impiegati secondo modalità incredibilmente moderne, per non dire attuali.
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Il libro del biadaiolo Carestie ed annona a Firenze dalla meta' del 200 al 1348 Giuliano Pinto Leo S. Olschki editore 1978 |
L’aumento del prezzo del grano
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Cronaca Fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, a cura di N. Rodolico, "Rerum Italicarum Scriptores. Nuova Edizione", tomo XXX, parte I, Città di Castello, 1903-1955. Pagine V-CXXI Recentemente ripubblicata in ristampa anastatica dalla casa FIRENZE LIBRI
M. B. Becker, Florence in Transition, 2 voll., Baltimora, The John Hopkins Press, 1967-1968.
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Intorno al 1370 viene completata la terza cerchia delle mura
FIRENZE.
Di Antonio Pucci di Firenze. Egli fu il primo a scrivere nello stile piano, che in seguito prese il nome di bernesco. Morì nel 1373.
SETTANTATRE mille trecen correndo, Lasciando adunque il dir dello autore S' io non dicessi della mia Fiorenza Perchè alla gente, che ancor non è nata, E ciò si vede per gli scritti, che hanno Secondo il mio parer come io ti dico, L' altro quartier di là dal fiume sosta, E sopra il detto fiume ha quattro ponti Appresso ha del comun belle mulina, Le mura poi, che cerchian questa terra, E dal lato di fuori hanno d' altezza i Ben trenta braccia di buona misura, Ed infra '1 cerchio delle belle mura, Le torri, che 1' adornan son sessanta, E gli fossi di fuor son larghi in bocca E dieci braccia poi la via seconda, Quindici milia braccia la cittade Gira d'intorno, e non è maraviglia, Se alcun dice che gira cinque miglia, Firenze è dentro tutta lastricata, E fra l'altre ha due vie, che stanno in croce, L' una si move alla Porta alla Croce, Dall' una all' altra, andando drittamente, E misurar volendo 1' altra faccia Dalla Porta a San Gal, ch' è a tramontana, A dirittura seguitar la traccia Infino al sito di Porta Romana, La qual si chiama San Pier Gattolino, Son cinquemilia braccia di cammino, Appresso ha dentro più di cento chiese, Lascio dell' altre, e vo' della maggiore S' ella si compie come è situata, Sì bella chiesa non fu già mille anni, Appresso a questa si è San Giovanni, Che a tutto il mondo debb' esser notorio, Chè ogni altro tempio avanza senza inganni. |
Di Nostra Donna ci è poi 1' Oratorio, Ecci il Palagio de i Signor sì bello, Cercando la città per ogni verso, " -, E più di ventimilia cittadini ' Dentro ci son tra grandi e popolari, , E questi sono i casati più cari ; Ciò sono : i Bardi, i Rossi, e Frescobaldi, E Pulci, Gherardini arditi e baldi, E Cerchi, e Nerli, Pazzi, e Giandonati, Bostichi, Berlinghieri savi esperti, Albizzi, Ricci, Strozzi, e Baroncelli, Peruzzi, Giugni, Bastari, e Covoni, Sacchetti, Pigli, Serragli, e Biliotti, Quei da Panzano, Davizi, e Bagnesi, E Gianfigliazzi, Cocchi, Scali, e Spini, Agli, Vecchietti, Asini, e Ferrucci, Aldobrandin, Bombeni, e Raffacani, Guadagni, Lupicani, e Boverelli, Aglioni, e Sirigatti, Valorini, E Passavanti, e Usimbardi, e Giuochi, Soldanier, Lachi, Pratesi, e Amieri, Macchi, Magaldi, Erri, e Giambollari, Manfredi, Michi, Figliopetri, e Zati, Girolami, Brancacci, e Ferrantini, E Falconier, Palarcioni, e Villani, Benizi, Bettaccioni, e Cafferelli, E Corbizi, Bellandi, e Ricchemanni, Angiolini, Arganelli, e Figiovanni, E Falconi, Sassetti, e Porcellini, Que' da Sommaio, Chiarmontesi, e Baldi, Baronci, Cosi, Alfieri, e Cornacchini, Aliotti, Bellincion, Casi, e Tedaldi, Lottini,, Borsi, e poi que' da Rabatta, Que' della Casa, Mazzinghi, e Monaldi, Bonciani, Ardingbi, e di più non si tratta, |
Bastiti que' di che memoria è fatta. Firenze governa oggi sua grandizia De' qua' son due artefici minori, E per due mesi han del Comun pensieri E dodici son poi lor Consiglieri, Che duran quattro mesi per misurai L' uno è il Consiglio del Popol chiamato, E Capitani della Guelfa parte: Appresso va in Consiglio del Comune/ E convien poi, che a seguizione il mandi E niun grande puote essere Priore, Nè Ghibellino alcun, nè forestiere Firenze è terra di mercatanzia : Ed ecci ogni Arte, pogniam che ventuna Son quelle, che hanno del Comun balìa. Le quai ti conterò ad una ad una, E chiaramente poi conoscerai, , Che par città non ha sotto la luna. La prima è di Giudici e Notai, La terza, Cambiatori e Monetieri, La quarta, Lana, come molti sanno, La quinta, Porta è Santa Maria, Di Setaiuoli, e di molti altri, i quali La sesta, sono Medici e Speziali, La settima, Vaiai e Pellicciai. L' ottava, son Beccai; e poi la nona, La decima, de' Fabbri grossi suona. L' undici, Linajuoli, e Pannilini, Maestri della pietra Cittadini Con Fornaciai s' accostan di leggieri: La terzadecim' è di Vinattieri, Che vendon vin, che ne berebbon gli agnoli, Quintadecima, sono i Pizzicagnoli. Seguitan poi Coreggiai e Spadai. Decimanona sono i Chiavaioli, Con Calderai, ed altri lor mestieri. L' ultima, son Fornai e Panattieri: |
Questa Città è ricca, e sofficiente Ma quando ella dimostra suo potere, Quando alle spese gli mancan 1' entrate, E pon cinquantamilia di fiorini, Tre per migliaio a ciò ch' è di valsente, E chi n' ha due o men, sicuramente Di maggior somma chi non vuol prestare, E se de' creditori è grande il Monte, E quasi d' ogni mese una prestanza Che asperamente rotta e percossa Fu pel diluvio, e più bella, che prima> Sicchè 1' è quasi grande sanza stima, Secondo che le cose sono andate, Il nostro Comune è di pregio adorno, E dico, se le donne Fiorentine Incoronate d' ariento e d' oro, .Ben fe chi la chiamò quinto elimento, Perchè io la veggio riposata in pace ; Veggiole sotto in parte el Casentino, Agli Ubaldini ha tolto ogni ridotto Dell' Alpe, e del podere, e d' ogni lato, Non tacerò del bel Castel di Prato, E veggio Pisa con Firenze in gioia, Poichè acquistato ha tanto al tempo mio.
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Si passa anche da un'esperienza di lotta di classe che lascia segni profondi nella societa' fiorentina e che meriterebbe ulteriori approfondimenti
19 luglio 1378
Mentre e' Gonfaloniere Salvestro dei Medici i Ciompi prendono il potere
31 agosto 1378
Le corporazioni delle Arti maggiori proclamano la serrata delle manifatture
Chiamano a raccolta i loro adepti e rovesciano il governo dei Ciompi
N. Rodolico, I ciompi. Una pagina di storia del proletariato, "Biblioteca Storica Sansoni. Nuova Serie, XI", Firenze, G. C. Sansoni Editore, 1945.
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Tra il 21 e il 24 gennaio del 1382 avviene l’abolizione dell’Arte dei Tintori e di quella dei Farsettai; metà dei priori dovranno appartenere alle Arti Maggiori – Gonfaloniere compreso; il 18 dicembre dello stesso anno i due terzi del Consiglio del Popolo e del Consiglio di Podestà sono membri delle Arti Maggiori; l’atto finale si può considerare quello che avviene tra il 23 e il 24 maggio del 1387 dove il Governo della Repubblica deciderà che al di fuori di Firenze nessuna carica politica potrà essere data a membri delle Arti Minori.
Anthony Molho e Franek Sznura......" Alle bocche della piazza, diario di un anonimo fiorentino (1382-1401) 1986 Leo S. Olschki editore Firenze |
La restaurazione oligarchica chiude il XIV secolo
Archivio delle Tratte: Introduzione e inventario. Edited by Paolo Viti and Raffaella Maria Zaccaria. Rome: Archivio di Stato di Firenze, 1989. John M. Najemy, Corporatism and Consensus in Florentine Electoral Politics, 1280-1400. [Chapel Hill: University of North Carolina Press, 1982].) Becker, Marvin. "A Study of Political Failure: The Florentine Magnates, 1280-1343". Medieval Studies. 1965; 27: 246-308.
Mercanti scrittori. Ricordi nella Firenze tra Medioevo e Rinascimento, a cura di V. Branca, Milano, Rusconi, 1986 (in particolare Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi; Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi; Francesco Datini, Testamento).
Molho, Anthony. "The Florentine Oligarchy and the Balie of the Late Trecento". Speculum. 1968; 43: 23-52. Molho, Anthony. "Politics and the Ruling Class in Early Renaissance Florence". Nuova Rivista Storica. 1968; 52: 401-20. Molho, Anthony. Marriage Alliancein Late Medieval Florence. Cambridge Mass.: Harvard University Press, 1994. Molho, Anthony. "Names, Memory, Public Identity in Late Medieval Florence". Ciappelli , Giovanni and Patricia Lee Rubin, eds. Art, Memory, and Family in Renaissance Florence. Cambridge: Cambridge University Press, 2000.
Brucker G. A . , Dal Comune alla Signoria. La vita pubblica a Firenze nel primo Rinascimento, "Biblioteca storica", Bologna, Società editrice il Mulino, 1981,
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LOTTE CONTRO IL DUCATO DI MILANO
La figura di maggior rilievo del periodo storico in questione, è Giangaleazzo Visconti (1351- 1402), che sogna di guidare un regno italiano, capace di imporsi in Europa alla pari dei regni che si stavano già formando nel continente, il riferimento va soprattutto a Francia ed Inghilterra. La politica della famiglia Visconti è sempre stata chiara, poiché ogni membro della casata ha sempre puntato ad espandere i propri territori . Il culmine del successo visconteo arriva con Giangaleazzo Visconti – definito poi “Il Grande ” – che attraverso la diplomazia e gli inganni politici nonché gli scontri militari riuscì a conquistare gran parte dell’Italia Settentrionale .
Anno 1353 Pace di Sarzana con i Visconti di Milano
I VISCONTI E L'ESPANSIONE VERSO LA TOSCANA
( da wikipedia )
Le fortune dei Visconti iniziarono nel 1262, quando Ottone Visconti fu nominato arcivescovo di Milano. La nomina fu piuttosto casuale, Ottone venne infatti nominato da un intervento della curia papale che per sedare i conflitti interni al capitolo metropolitano, normalmente incaricato della nomina, decise di nominare un esterno. Ottone, (1207-1295) che all'epoca era il cappellano del cardinale Ottaviano degli Ubaldini, per oltre 15 anni non poté entrare in città dove era in corso una lotta di potere fra il partito aristocratico che voleva strappare il controllo del Comune ai populares guidati dai Della Torre. La battaglia di Desio (1277) In cui le truppe di Ottone sconfissero quelle di Napoleone Della Torre, pose fine alla dominazione torriana e all'indipendenza del comune di Milano, Ottone fece ingresso in città, si insediò e, dopo un'iniziale fase di appoggio al partito aristocratico, cominciò ad accrescere e consolidare il potere dei parenti.
Nel 1287, in seguito alla distruzione di Castelseprio e alla sconfitta dei Della Torre, Ottone riuscì a far sì che il nipote Matteo Visconti (1250-1322) fosse nominato "Capitano del popolo". I rapporti con la città non furono facili, nel 1302 vi fu un breve ritorno del Della Torre durante il quale Matteo Visconti fu esiliato. Nel 1310, approfittando della riconciliazione imposta dalla discesa dell'imperatore Enrico VII di Lussemburgo, Matteo rientrò a Milano e l'anno successivo, forte del titolo di vicario imperiale conferitogli dall'imperatore, riuscì a estromettere definitivamente i Della Torre dando inizio ad un'opera di unificazione della Lombardia proseguita poi dai suoi successori.
La reazione guelfa e pontificia non si fece attendere, costringendo Matteo I ad abdicare a favore del figlio Galeazzo I (1277c.-1328) che la fronteggiò valorosamente finché fu preso prigioniero da Ludovico il Bavaro (1327). Dei suoi fratelli, Marco (morto nel 1329) fu condottiero, mentre Luchino (1292-1349) e Giovanni (1290-1354) assursero alla signoria dopo la morte di Azzone (1302-1339), figlio di Galeazzo I, che l'aveva riavuta nel 1329.
Si può dire che a partire dall'inizio del XIV secolo i Visconti possano essere già considerati Signori di Milano.
L'opera di unificazione fu completata da Azzone Visconti (1302 - 1339), figlio di Galeazzo e nipote di Matteo, che si adoperò per gettare le basi di una struttura che coordinasse politicamente i suoi domini e che accentrasse il potere nelle mani della dinastia.
Nell'anno 1327, con la morte del padre, rimase lui come unico erede ed in opposizione al pontefice, comprò il titolo di Vicario di Milano dall'Imperatore Lodovico il Bavaro.
Nel 1332 al governo del nuovo Vicario, si associarono gli zii Luchino e Giovanni Visconti, figli di Matteo, in una sorta di triumvirato. L'altro zio Lodrisio, rimastone fuori, inscenò invano una serie di congiure per spodestare i tre; quando tutti suoi complici furono arrestati da Azzone (23 novembre 1332), e rinchiusi nelle prigioni di Monza (dette i forni), fu costretto a fuggire a Verona, dove ospite di Mastino II della Scala, tesse una serie di alleanze, tra i quali rientravano gli scaligeri stessi ed il Signore di Novara Calcino Tornielli, nemico dell'Arcivescovo Giovanni. si venne allo scontro decisivo il 21 febbraio 1339 nella Battaglia di Parabiago, vinta dai "triumviri".
Con Giovanni Visconti, alla metà del XIV secolo si ebbe la prima grande espansione dei possedimenti della famiglia con la vittoria sui Signori di Verona (gli Scaligeri) e con la sottomissione addirittura di Genova e Bologna.
Luchino Novello (morto nel 1399), figlio di Luchino, venne fatto uccidere da Giovanni. La dinastia fu continuata dalla progenie di Stefano, figlio di Matteo, i cui tre figli Matteo II (1319-1355), Galeazzo II (1320-1378) e Bernabò (1323-1385), le diedero lustro e potenza. Finalmente a Galeazzo II succedette nel 1378 il figlio Gian Galeazzo (1351-1402),
Gian Galeazzo Visconti, (Pavia, 15 ottobre 1347 – Melegnano, 3 settembre 1402), detto Conte di Virtù dal nome di Vertus in Champagne, titolo portato in dote dalla prima moglie Isabella di Valois è stato signore di Milano, Verona, Crema, Cremona, Bergamo, Brescia, Belluno, Pieve di Cadore, Feltre, Pavia, Novara, Como, Lodi, Vercelli, Alba, Asti, Pontremoli, Tortona, Alessandria, Valenza, Piacenza, Bobbio, Parma, Reggio Emilia, Vicenza, Perugia, Vigevano, Borgo San Donnino e le valli del Boite, nonché primo Duca di Milano.
Figlio di Galeazzo II e Bianca di Savoia, fin da giovane diede prova di grande sagacia e di speciali attitudini militari. Dopo un periodo contrassegnato da tensioni fra i vari membri della potente famiglia Visconti, Gian Galeazzo - nipote di Bernabò Signore di Milano - ne assunse il controllo. Nel 1380 assecondò Bernabò nella lotta contro i veneziani, e nello stesso anno fu nominato vicario imperiale. Finse dapprima grande amore allo zio e ne sposò la figlia, sua cugina Caterina, ma ben presto fece prigioniero Bernabò con l'inganno e, con un colpo di mano, si impadronì dello stato nel 1387. Ebbe nelle sue mani il potere sulla città lombarda, acquistandosi la benevolenza dei soldati e del popolo permettendo il saccheggio del palazzo e dei tesori di Bernabò. Mirò ad abbattere gli Scaligeri; conquistò Verona e Vicenza e nel 1391 fece guerra ai Carraresi. Assalito dal duca di Bavaria e dal conte di Armagnac, nel 1392 dovette accettare la pace. Negli anni seguenti unificò i vastissimi domini familiari in Lombardia, parte del Piemonte e del Veneto, Emilia e alcune città dell'Italia centrale. Conquistó Bologna nel 1402 in seguito alla battaglia di Casalecchio.
Gian Galeazzo spese 300.000 fiorini d'oro in gigantesche opere d'ingegneria idraulica per poter deviare a suo piacimento il fiume Mincio da Mantova e il Brenta da Padova, togliendo così ogni mezzo di difesa a queste due città. Sempre a Gian Galeazzo si devono la Certosa di Pavia, l'avvio dei lavori di edificazione del Duomo di Milano e, probabilmente, il completamento del palazzo di Pavia, cominciato da suo padre Galeazzo Visconti. Era, all'epoca, di gran lunga la più splendida residenza principesca d'Europa. In questo palazzo trasportò la sua celebre biblioteca e la grande collezione di reliquie sacre, verso le quali nutriva particolare devozione.
Nel 1395 acquistò per 100.000 fiorini dall'imperatore Venceslao il titolo di Duca di Milano, dopo aver sconfitto la casata dei Pusterla, grandi proprietari terrieri di Milano e dintorni.
IL SOGNO DI GIAN GALEAZZO DI UNIFICARE L'ITALIA SOTTO IL SUO DOMINIO
Negli anni successivi continuò a combattere, spesso per cause ingiuste, spesso in violazione di trattati da lui stesso conclusi. Il progetto di Gian Galeazzo era d'unificare l'Italia sotto un grande stato nazionale con Milano alla testa, analogamente a quanto stava avvenendo in quegli anni in Francia e in Spagna. Per questo ingrandì continuamente il proprio stato, arrivando a includere parti del Veneto, dell'Emilia, dell'Umbria e della Toscana.
In quest'ultima regione trovò la strenua opposizione di Firenze, mentre riuscì a conquistare Pisa, Siena e la vicina Perugia.
GIAN GALEAZZO
Visconti, duca di Milano. http://www.treccani.it/enciclopedia/gian-galeazzo-visconti-duca-di-milano_(Dizionario-Biografico)/
- Figlio di Galeazzo (II) Visconti e di Bianca di Savoia (sorella di Amedeo VI detto il conte Verde), nacque a Milano il 16 ott. 1351. Poco si conosce dell'infanzia e dell'educazione di G., svoltesi probabilmente nel castello di Pavia, eletto a dimora da Galeazzo dopo la conquista della città. Ospite di riguardo del nuovo signore fu Francesco Petrarca che, secondo il racconto di P.C. Decembrio, per il giovanissimo G. coniò l'emblema araldico della tortora nel sole radiante con il motto "à bon droit" (Novati, p. 55). Creato cavaliere all'età di quattro anni dall'imperatore Carlo IV di Lussemburgo già nel 1360 sposò con la decisiva mediazione sabauda Isabella di Valois, figlia del re di Francia Giovanni II. L'unione, che rivestiva grande importanza nella strategia di affermazione dei Visconti, costò ai signori di Milano un cifra enorme, compresa fra i 400.000 e i 600.000 scudi: a tanto, secondo l'indignata reazione del cronista fiorentino Matteo Villani (Cronica, libro IX, cap. CIII), il re di Francia aveva venduto la propria carne. Dote della sposa fu la contea di Sommières, poi sostituita da quella di Vertus - più vicina a Parigi -, da cui G. derivò il titolo di conte di Virtù, al quale rimase sempre particolarmente legato. Nonostante le aspettative di cui era circondato, non fu un matrimonio fortunato: tre dei figli - Gian Galeazzo (n. 1366), Azzone (n. 1368 - m. 1380) e Carlo (n. 1372) - morirono giovanissimi e la stessa Isabella morì nel dare alla luce l'ultimogenito. Solo l'unica figlia, Valentina (n. 1370), sopravvisse alla madre e ai fratelli. Né molto più fortunati furono i primi passi di G. sulla scena politica: sebbene richiesto di aiuto dal cognato Carlo (IV) di Valois contro il conte di Bar, si guardò bene dall'intervenire in affari così lontani, rimandando il proprio esordio al 1372, quando ricevette il comando delle milizie che cercarono vanamente di assediare Asti, occupata dai Savoia. Divampata frattanto la guerra che opponeva Galeazzo e Bernabò Visconti alla Lega italica, G. fu posto a capo dell'esercito che si opponeva alle scorrerie sabaude: complice l'inesperienza del giovane principe, le truppe andarono però incontro a una dura sconfitta presso Montichiari il 7 maggio 1373, e lo stesso G. rimase ferito in combattimento. Ricevuta il 9 marzo 1374 la procura paterna per trattare con Amedeo VI di Savoia, capitano generale della Lega, il 6 giugno seguente sottoscrisse con questo la pace di Casale, trattato che definiva le rispettive zone di influenza. Ormai iniziato alla politica e alle armi, G. fu emancipato dal padre l'8 genn. 1375, ricevendo contestualmente il governo su Novara, Vercelli, Alessandria, Tortona, Valenza e Casale, con la facoltà di fare pace e guerra con il conte di Savoia; Galeazzo si riservava invece Pavia, Como, Piacenza, Bobbio e il titolo di dominus generalis, secondo un piano di successione che preludeva alla sua definitiva uscita di scena avvenuta il 4 ag. 1378 quando, ormai da tempo malato, si spense nel castello di Pavia.
Da questo momento ebbe inizio per il Visconti la difficile gestione dello Stato, gestione condivisa con lo zio Bernabò, la cui politica, tutta protesa a favorire i propri figli legittimi e naturali, entrò presto in urto con le ambizioni del nipote, nient'affatto disposto a cedere il passo all'altro ramo visconteo. Un primo forte attrito nacque intorno alle ambizioni siciliane dei Visconti: rispolverando un precedente progetto matrimoniale, Bernabò avviò trattative per unire Maria, giovane regina di Sicilia succeduta al padre Federico IV nel 1377, con uno dei propri figli, scontrandosi però con il veto di papa Gregorio XI, contrario a un rafforzamento del potente signore di Milano. Della situazione cercò allora di profittare G., pronto a raccogliere le proposte che ai Visconti continuavano a giungere dalla Sicilia. Grande la preoccupazione di Bernabò, che se da un lato cercò di ostacolare il nipote, dall'altro provò a volgere a proprio vantaggio quella che poteva sembrare un'intollerabile sconfitta della sua politica: usando tutto il suo ascendente, riuscì infatti a imporre a G. il matrimonio fra il secondogenito ed erede di questo, Azzone, e la propria figlia Antonia, nozze che preludevano a un sempre più stretto controllo sul genero, una volta partito G. per la Sicilia. Il progetto tuttavia non andò in porto: la convergente opposizione degli Aragonesi, tutt'altro che disposti a rinunciare all'isola, di papa Urbano VI, succeduto a Gregorio XI nel 1378, e della casa di Baviera - dietro il cui schieramento è stata vista la mano di Bernabò, suocero di Stefano di Baviera - bloccarono definitivamente le mire di G., che nel giro di breve tempo non solo vide svanire le proprie ambizioni regali ma si ritrovò legato alle scelte politiche dello zio. Attraverso una politica endogamica, volta a unire gli eredi di Galeazzo con i propri, Bernabò cercò infatti di preservare l'unità del dominio e allo stesso tempo di affermarvi la sua primazia come maior domus: questo il senso della doppia unione matrimoniale che nel 1380 portò G. e sua sorella Violante a sposare Caterina e Ludovico, entrambi figli di Bernabò. Di fronte al tentativo dello zio di stringerlo in un abbraccio sempre più vincolante, G. si premurò di richiedere a Venceslao di Boemia la concessione del vicariato imperiale (17 genn. 1380), titolo che lo metteva al riparo dalle possibili rivendicazioni di Bernabò. Impegnato G. nel consolidamento del confine occidentale, dal 1378 spostato verso Asti sottratta con l'inganno a Secondo Ottone di Monferrato, e intento Bernabò a rivendicare i diritti della moglie Beatrice Della Scala sui domini paterni, le occasioni di attrito fra i due sorsero intorno a quelle questioni che potevano mutare gli equilibri e i rapporti di forza in seno alla famiglia. Se qualche divergenza si era avuta nella politica viscontea in Toscana, più gravi conseguenze poteva avere l'alleanza di Bernabò con Luigi II duca d'Angiò e conte di Provenza, in cerca di aiuti per riconquistare il Regno di Napoli. L'intesa, suggellata dalla promessa di matrimonio fra Lucia, figlia di Bernabò, e Luigi II, si configurava come un rafforzamento intollerabile dell'altro ramo della famiglia, e proprio l'avanzato stato dei preparativi indusse G. a rompere gli indugi e a liberarsi una volta per tutte dello zio. Il 6 maggio 1385, fingendo un pellegrinaggio alla Madonna del Monte, sopra Varese, fece sapere allo zio di volergli rendere visita, senza tuttavia entrare in Milano, così da non attardarsi troppo. Senza alcuna scorta e preceduto solo dai figli Ludovico e Rodolfo, Bernabò raggiunse il nipote fuori dalla pusterla (porta) di S. Ambrogio: qui, al segnale convenuto, Iacopo Dal Verme e Ottone da Mandello lo immobilizzarono, mentre altri componenti il nutrito seguito di G. arrestarono i due figli. Tumulti di popolo - che portarono alla distruzione di parte dell'archivio visconteo - salutarono la fine di Bernabò e l'avvento di G., cui il Consiglio generale di Milano conferì il titolo di dominus, sanzionando formalmente il mutato reggimento politico. Il 25 maggio Bernabò venne condotto nel castello di Trezzo, dove rimase fino al 19 dicembre, quando - racconta il Corio - "fugli dato il tosico in una scodella di fagioli" (Storia di Milano, I, p. 883). Eliminato lo zio, permaneva la minaccia rappresentata dalla sua numerosa prole, oltre trenta tra figli legittimi e naturali: se nessuna solidarietà era venuta loro dalle città del dominio, poco partecipi della lotta in corso e interessate, semmai, solo agli sgravi fiscali promessi da G., maggiori preoccupazioni venivano da quegli accordi matrimoniali con cui Bernabò aveva saputo legare i figli alle principali casate signorili della penisola e d'Europa. Protezione era stata offerta da Antonio Della Scala, signore di Verona, a Carlo Visconti, che fuggiva dopo avere vanamente cercato di spingere il cognato John Hawkwood (Giovanni Acuto), celebre condottiero, a dare l'assalto al castello di Trezzo; ma aiuti aveva offerto il signore di Verona anche a Giovanni Mastino, il più giovane dei figli di Bernabò, che resisteva assediato nella cittadella di Brescia. La politica apertamente ostile di Antonio Della Scala indusse G. a promuovere una lega, siglata a Pavia l'8 ag. 1385, con i signori di Mantova, Padova e Ferrara: sorta come alleanza difensiva contro le compagnie di ventura - e come tale celebrata da Coluccio Salutati, cancelliere della Repubblica fiorentina, che colse l'occasione per contrapporre la politica del conte di Virtù a quella di Bernabò, protettore dei condottieri (Bueno de Mesquita, p. 70) - finì con l'assumere, per l'esclusione del signore di Verona, un chiaro significato antiscaligero. Già il 25 agosto seguente G. sottoscriveva con Francesco il Vecchio da Carrara una nuova lega e questa volta il nemico veniva esplicitamente indicato in Antonio Della Scala. In questa prima fase la posizione viscontea fu improntata alla cautela: saputo della vittoria dei Padovani alle Brentelle (25 giugno 1386), G. si affrettò a congratularsi col Carrarese, cui inviò un'ambasceria capeggiata dall'esule veronese Guglielmo Bevilacqua, ma allo stesso tempo si premurò di mandare una legazione anche agli sconfitti. G. studiava, dunque, la situazione: mentre proibiva ai propri sudditi di porsi al servizio dell'uno o dell'altro offriva segretamente il proprio aiuto sia al Carrarese, sia allo Scaligero, cercando di individuare l'obiettivo più facile e il momento più opportuno per intervenire. Il 21 apr. 1387 inviò ad Antonio Della Scala una lettera di sfida, secondo il costume dell'epoca. Col signore di Milano si schierarono Niccolò d'Este, Francesco Gonzaga, Antonio di Arco e Francesco da Carrara, cui G. prometteva Vicenza, riprendendo così i termini dell'accordo prospettato con la lega dell'agosto 1385. Attaccato su più fronti, abbandonato da Venezia e impossibilitato a ricevere il soccorso delle compagnie di ventura, bloccate in Romagna dai Malatesta, alleati di G., Antonio Della Scala riuscì a resistere fino al 18 ott. 1387, quando fu costretto a capitolare per il tradimento di alcuni concittadini. Rifugiatosi a Venezia, non si dette però per vinto: il 21 genn. 1388 G. faceva giustiziare un famiglio di Antonio, sorpreso a Piacenza con 100 libbre di arsenico e accusato di voler avvelenare il pozzo del castello di Pavia (Pavia, Bibl. C. Bonetta, Archivio storico civico di Pavia, b. 1).
I cronisti Galeazzo e Bartolomeo Gatari raccontano di denari versati da G. all'imperatore per l'acquisto di Verona (Soldi Rondinini, La dominazione viscontea a Verona, p. 46), mentre una bolla di Bonifacio IX definisce esplicitamente G. "imperialis vicarius in Mediolanensi et Veronensi civitatibus" (Archivio di Stato di Pavia, Università, Notaio Griffi, b. 8, c. 156v: 3 marzo 1392): sono notizie allo stato attuale prive di altri riscontri, ma comunque indicative della temperie in cui si consumò l'espansionismo visconteo in Veneto, tra l'impotenza dell'Impero, che aveva visto fallire i propri tentativi di mediazione e si era risolto ad accettare il fatto compiuto, e l'avallo della Chiesa romana, pronta non solo a riconoscere i nuovi domini viscontei, ma anche ad assecondare i progetti di G. per la sostituzione dei quadri ecclesiastici locali con figure più gradite al signore di Milano.
Caduta Verona il 18 ottobre, già il 24 seguente fu la volta di Vicenza. I disegni di G. venivano allo scoperto: servitosi del Carrarese per conquistare le terre scaligere, non solo non aveva alcuna intenzione di spartire il bottino, ma volgeva ora le sue mire contro gli stessi domini padovani, dove Francesco il Vecchio aveva nel frattempo abdicato (29 giugno 1388) in favore del figlio Francesco Novello. Raggiunto un accordo con Venezia (29 maggio), G. apriva le ostilità alla fine di giugno: una breve campagna militare portò il 21 novembre a un deciso affondo nel territorio padovano e mentre il Carrarese si recava a Pavia per chiedere un armistizio, le truppe viscontee occupavano la città. I patti questa volta vennero rispettati: cedute alla Serenissima Treviso e Ceneda, rimasero a G. le città di Feltre, Belluno e Padova. Sua cura fu ora quella di tranquillizzare i sempre più preoccupati governi di Firenze e Bologna: a costoro G. propose dunque una lega fondata sul principio della non aggressione. Troppo poco per chi pretendeva un'esplicita rinuncia alle ambizioni milanesi sulla Toscana e la Romagna. Le trattative segnarono a lungo il passo e solo il 9 ott. 1389 venne chiusa la lega di Pisa: l'accordo, che non aveva valore retroattivo, veniva a sancire la divisione delle aree di influenza, confinando quella milanese non oltre la città di Modena: si accoglievano dunque alcune delle richieste fiorentine, ma allo stesso tempo si riconosceva al Visconti il diritto di intervenire a favore dei suoi alleati toscani, a cominciare da Siena, con cui aveva stipulato un accordo il 22 settembre. Le basi dell'intesa erano debolissime, e già il 10 ottobre la Signoria fiorentina chiudeva un altro trattato con Bologna, Pisa, Lucca e Perugia.
Si veniva così profilando quello scontro fra Firenze e Milano che avrebbe dominato la scena politica per oltre un decennio. Combattuto su più fronti - militare, diplomatico, perfino letterario, con una vivace tenzone che oppose gli umanisti fiorentini ai letterati della corte viscontea, gli uni sostenitori del reggimento repubblicano, arbitro delle libertà democratiche, gli altri teorici di un principato forte, superamento delle divisioni municipali e garante della pace - il dissidio assorbì ogni risorsa dei contendenti e ne orientò la politica delle alleanze. Da un lato G., pronto a continui mutamenti di campo tra Francia e Impero pur di trovare appoggi contro gli "arciguelfi"; dall'altro la Signoria fiorentina, anima e finanziatrice di ogni alleanza antiviscontea.
La guerra era ormai prossima e G. cercò di attivare i propri agenti nelle città che gli si opponevano, a cominciare da Bologna, dove una vasta congiura fu sventata solo all'ultimo. La risposta fiorentina non fu meno decisa: assicuratasi i servigi della "grande compagnia" di John Hawkwood, cercò di coalizzare un ampio schieramento, con principi accomunati oltre che dall'ambizione di conquista, anche da un sentimento di personale rivalsa verso Gian Galeazzo. Dell'alleanza facevano dunque parte Francesco Novello da Carrara, fuggito dal confino visconteo di Asti dove era stato destinato dopo aver formalmente ceduto la città di Padova (11 febbr. 1389), Carlo Visconti, figlio di Bernabò, nonché Giovanni di Armagnac e Stefano di Baviera, sposati con due figlie dello scomparso signore di Milano. Il conflitto si aprì nel maggio del 1390 e fu subito accompagnato da gravi rivolte nelle terre viscontee oltre il Mincio, che portarono alla perdita di Padova, rioccupata dal Carrarese (21 giugno 1390). Il momento pareva propizio per la coalizione antiviscontea, ma le forze del duca di Baviera, varcate le Alpi, non lasciarono più gli acquartieramenti di Padova, alimentando presso i Fiorentini il timore di segrete intese con Gian Galeazzo. Più deciso parve invece l'Armagnac: radunate le truppe necessarie, penetrò in Lombardia al principio dell'estate 1391. Di fronte all'avanzata francese G. cercò di indebolire l'avversario e se con abili maneggi riuscì a privare l'Armagnac dell'appoggio del re di Francia, con non meno efficaci lusinghe economiche convinse il condottiero Bertrand de La Salle e le sue 1500 lance a mutare schieramento. Lo scontro pareva ormai imminente quando accadde l'imprevisto: il 25 luglio, in una piccola scaramuccia presso Alessandria, il conte d'Armagnac venne disarcionato; fatto prigioniero da Iacopo Dal Verme, morì dopo qualche ora, probabilmente per i postumi della caduta. Le truppe francesi, rimaste senza comando, furono facilmente sbaragliate e la propaganda viscontea ebbe buon gioco nel rappresentare l'episodio come una vittoria italiana sullo straniero. Chiusa con un lodo che riconosceva a G. il possesso di Feltre e Belluno ma non di Padova (pace di Genova, 20 genn. 1392), la guerra non aveva prodotto per G. alcun risultato: al contrario, non solo la perdita di Padova significava un duro colpo per le ambizioni milanesi nel Veneto, ma aveva portato alla costituzione di un attivissimo centro di propaganda antiviscontea, promotore già nel febbraio 1392 di una nuova lega. Contro coalizioni sempre più vaste a G. parve ormai giunto il momento di cogliere i frutti di quei legami che univano la corte viscontea a quella di Parigi.
Fin dal 1385 erano stati presi contatti per unire Luigi di Valois, duca di Touraine (poi dal 1392 duca di Orléans), fratello del re di Francia, con Valentina Visconti. Incurante delle trattative precedentemente avviate con Giovanni di Görliz, fratello di Venceslao re dei Romani, G. offrì la propria figlia al duca di Touraine, prospettando una ricchissima dote, comprendente le contee di Asti e Vertus, 450.000 fiorini d'oro, gioielli per altri 75.000 e soprattutto il fedecommesso a favore della stessa Valentina e dei suoi discendenti qualora G. non avesse avuto eredi maschi. La proposta, allettante soprattutto per i suoi risvolti dinastici, non fu fatta cadere: il contratto fu sottoscritto a Parigi il 27 genn. 1387 e la sposa lasciò Pavia il 24 giugno 1389.
È dunque alla Francia, legata da molti interessi alle vicende italiane - fra cui la questione dell'eredità angioina a Napoli e il sostegno, nel quadro dello scisma d'Occidente, al pontefice di obbedienza avignonese, Clemente VII - che G. si rivolse per abbattere Firenze e i suoi collegati. Nel novembre 1392 inviò alla corte di Parigi il suo ambasciatore Niccolò Spinelli, artefice di un ampio progetto politico incentrato sulla discesa in Italia di un forte contingente militare francese: espulso Bonifacio IX, le truppe oltramontane avrebbero dovuto consentire l'insediamento di Clemente VII e questi, a sua volta, avrebbe infeudato a un principe francese, quale Luigi d'Orléans, genero di G., ampi territori del Patrimonium, dando origine al Regno di Adria. In cambio dell'appoggio ricevuto e del riconoscimento di Clemente VII, la Francia avrebbe permesso a G. libertà d'azione nel Veneto (in seguito si promise anche la città di Bologna). L'ambizioso disegno sembrò prendere corpo fra il 1392 e il 1393 e tuttavia difficoltà interne alla corte francese, divisa dalla rivalità fra le fazioni armagnacca e borgognona, problemi finanziari, forti resistenze di Clemente VII alla alienazione di un vasto patrimonio della Chiesa, la scomparsa dello stesso papa nel 1394, e, ancora, la priorità data dalla Francia alla conquista di Genova, furono tutti motivi che ne determinarono il naufragio. Già dal 1393, però, G. aveva cercato di diversificare i propri referenti internazionali, riallacciando e rilanciando i rapporti con l'Impero. A Praga aveva dunque inviato, nel 1394, uno dei suoi più fidati consiglieri, il vescovo di Novara Pietro Filargis, con l'incarico di avviare trattative per la concessione di un titolo della gerarchia feudale che non solo desse più solidi fondamenti di legittimità al suo potere, ma che lo ponesse al di sopra dei feudatari imperiali presenti nel dominio. Le trattative non furono facili: interrotte dalla prigionia del re dei Romani, catturato nel 1394 da alcuni principi ribelli, vennero successivamente osteggiate dall'azione di disturbo di una legazione fiorentina. L'11 maggio 1395, tuttavia, l'atteso riconoscimento fu concesso e il 5 settembre seguente, durante una grandiosa cerimonia in S. Ambrogio, G. fu incoronato duca di Milano. Da questo momento il Visconti poté vantare un titolo che non solo aveva uno spessore giuridico ben superiore a quello del vicariato - tale, per esempio, da offrirgli una nuova arma, la potestà di conferire feudi giurisdizionali, con cui cercare di imbrigliare il particolarismo signorile - ma che soprattutto presentava ridottissimi margini di reversibilità: difficilmente revocabile per le limitazioni imposte dal diritto feudale, era trasmissibile ai discendenti legittimi. La dinastizzazione del potere dei Visconti poteva ora dirsi definitivamente affermata. Al prezzo di 100.000 fiorini il Visconti era diventato principe dell'Impero, titolare di un potere sovrano svincolato dalla necessità di riconoscimenti e legittimazioni da parte dei corpi territoriali.
Al primo diploma imperiale, che riconosceva la nuova dignità solo sulla città di Milano e il suo distretto, ne seguì un secondo (13 ott. 1396) che estendeva i poteri ducali a tutti i domini viscontei, sanciva l'adozione di un sistema successorio basato sulla primogenitura maschile legittima ed erigeva Pavia in contea, appannaggio dell'erede al trono. Nel 1397 un nuovo diploma portò alla costituzione della contea di Angera (25 gennaio), omaggio alla casata viscontea, che i genealogisti di corte facevano discendere da Anglo, figlio di Enea e mitico fondatore di Angera. Falso, invece, il diploma del 30 marzo 1397 con cui Venceslao avrebbe concesso a G. il Ducato di Lombardia. In esso, piuttosto, si possono ravvisare quelle ambizioni per la costituzione di un potentato dal profilo istituzionale sempre più alto delle quali non si faceva mistero alla corte pavese, dove poeti prezzolati come Francesco di Vannozzo e trattatisti come Guglielmo Centueri, vescovo di Pavia, discutevano - il secondo facendo ricorso nella sua opera De iure monarchiae ad argomentazioni tratte anche dalla letteratura giuridica contemporanea (tra gli autori citati è presente anche Baldo degli Ubaldi) - la possibile concessione del titolo regio a Gian Galeazzo.
Superate le tensioni sorte nel 1396 con la Francia intorno al possesso di Genova, cui G. rinunciò pur di non compromettere i rapporti con Carlo VI, fu possibile un riavvicinamento fra Pavia e Parigi, duro colpo all'alleanza che Firenze aveva nel frattempo stretto con la Francia. Per colpire la Signoria fiorentina G. pensò questa volta di rivolgersi a Venceslao, cui offrì la propria mediazione per ottenere da Bonifacio IX la tanto attesa incoronazione imperiale: disceso in Italia per la cerimonia, il re dei Romani avrebbe dovuto coprire l'azione viscontea contro Firenze. Il forte rischio di un coinvolgimento francese indusse però il duca a desistere e a volgere le sue mire contro la vicina Mantova, già da qualche anno staccatasi dall'orbita viscontea. Rotto il 15 luglio lo sbarramento di Borgoforte, le truppe di G. misero a ferro e a fuoco il Serraglio, ponendo quindi l'assedio a Governolo. Nonostante la reazione della Lega, solo l'entrata in campo di Venezia e del conte di Savoia al principio del 1398 indussero G. ad accettare le proposte per una tregua decennale (11 maggio 1398). L'esito deludente del conflitto non fermò però l'espansionismo visconteo, ormai avviato verso la costituzione di un vasto stato regionale. Assicuratosi il controllo della Lunigiana, dove fu repressa la ribellione di alcuni esponenti della casata dei Malaspina, alleatisi con la Lega, G. ritenne fosse ormai giunto il momento di stringere la morsa attorno a Firenze. Al principio del 1399 acquistò da Gherardo Leonardo Appiani la città di Pisa, già da alcuni anni protettorato milanese; il 6 settembre seguente fu la volta di Siena, datasi al duca di Milano pur di contrastare le mire fiorentine. Solo Lucca rimaneva autonoma, ma sempre più forte era la pressione viscontea. L'avanzata di G. sembrava non avere ostacoli: appoggiandosi a una delle fazioni che si fronteggiavano a Perugia si impadronì della città al principio del 1400: occupato il maggiore centro dell'Umbria, a ruota seguirono la dedizione di Assisi, Spoleto, Gualdo e Nocera. Di fronte a un accerchiamento che si faceva di anno in anno sempre più stringente, Firenze ripose tutte le sue speranze nei rivolgimenti che interessavano la corte imperiale, dove i principi elettori avevano rovesciato il filovisconteo Venceslao contrapponendogli Roberto di Baviera. Per indurre il nuovo sovrano a intraprendere una spedizione contro G., Firenze non solo si impegnò per un ingente contributo finanziario, ma di fronte alla titubanza del nuovo re dei Romani non esitò ad alimentare presso il monarca il convincimento di un tentativo di avvelenamento compiuto dal Visconti ai suoi danni. La spedizione tedesca mosse da Augusta il 25 sett. 1401 con l'appoggio del Carrarese, ma già il 24 ottobre le sorti del conflitto erano segnate: in uno scontro presso Brescia le truppe viscontee attaccarono una colonna nemica facendo diversi prigionieri: episodio di modeste proporzioni ma sufficiente per indurre le forze imperiali a ritirarsi. Nessun ostacolo si frapponeva più ai disegni egemonici di Gian Galeazzo. Sconfitte le truppe di Giovanni Bentivoglio presso Casalecchio (26 giugno 1402), le forze ducali entrarono il 30 giugno a Bologna. L'accerchiamento di Firenze era ormai completo: diffidati i Guinigi dal consentire ai Fiorentini l'uso di Motrone e occupati gli altri porti della Toscana, il duca sperava di affamare la città prima dell'assalto finale. Ma l'assalto non venne. Dapprima ritardato da difficoltà finanziarie e da rivalità fra i capitani di G., il piano subì una definitiva battuta d'arresto per l'improvvisa scomparsa del duca. Preceduta dal passaggio di una cometa, che dai contemporanei fu interpretato come presagio di sventura, la morte - forse di peste, forse di malaria - colse G. il 3 sett. 1402 nel castello di Melegnano.
Era la fine dell'ambizioso progetto visconteo. Se nelle intenzioni del suo fondatore il Ducato cessava di essere un semplice aggregato di terre e di città che si raccordavano individualmente al dominus per assumere invece una fisionomia più coesa, la scomparsa di G. rese manifesti tutti i limiti di una simile costruzione. Nonostante gli sforzi per la costituzione di un organismo statale unitario - direzione nella quale andavano importanti provvedimenti, dalla revisione degli statuti delle città suddite, alla nuova disciplina del processo civile - non il Ducato, con il suo nuovo portato istituzionale e giuridico, ma la tempra del duca si rivelò essere il vero collante del dominio. Disciplinato ma non dissolto dalla politica di G., il particolarismo riemergeva con tutto il suo vigore centrifugo, portando alla frantumazione dell'edificio visconteo, complice anche una suddivisione ereditaria che non contribuiva a preservarne l'unità. Secondo il testamento del 1401, integrato dal codicillo del 25 ag. 1402, il titolo ducale, con il nucleo centrale del dominio, andò al primogenito Giovanni Maria; al secondogenito Filippo Maria la contea di Pavia e due nuclei periferici, comprendenti le città più occidentali e più orientali dello Stato. A Gabriele Anglo, suo figlio naturale nato dalla relazione con Agnese Mantegazza (successivamente legittimato), la città di Pisa e il borgo di Crema.
Dell'opera del primo duca di Milano molto si perse nei rivolgimenti che seguirono la sua scomparsa: ciò che invece non venne meno fu l'impronta fortemente accentrata impressa da G. all'apparato di governo, forse il lascito più duraturo della sua eredità. Nuovi organi, il Consiglio segreto e il Consiglio di giustizia, erano stati istituiti per sovrintendere alla amministrazione dello Stato; la Cancelleria, prima con Pasquino de' Cappelli, poi, dopo la sua condanna per tradimento, con il vicentino Antonio Loschi - autore della celebre Invectivain Florentinos -, era notevolmente cresciuta, mentre profondi interventi avevano trasformato anche l'apparato finanziario. Fra il 1384 e il 1388 le entrate dei Comuni cittadini vennero assorbite dalla Camera e nuove regole fissate per l'appalto delle tesorerie; come corollario, anche le spese militari vennero a dipendere direttamente dal centro, consentendo una gestione più controllata. Al governo delle finanze furono preposte nuove figure, i maestri generali delle Entrate, chiamati a sostenere economicamente il peso dell'espansionismo signorile: di qui una fortissima pressione fiscale, con esazioni ordinarie integrate pressoché annualmente da prelievi straordinari, il ricorso a prestiti forzosi ma anche spericolate manovre monetarie sul corso dell'argento. G. fu dunque l'artefice di una profonda riforma del sistema di governo visconteo, un intervento che per la sua ampiezza interessò anche quel vasto settore della società occupato da persone e istituzioni ecclesiastiche: nel giro di due decenni le immunità fiscali e giudiziarie dei chierici vennero ridotte, i pia loca del Ducato sottoposti al controllo di un officiale signorile e l'impetrazione di uffici e benefici vietata senza speciale licenza del dominus. Una proibizione, quest'ultima, che combinata con le pressioni esercitate da G. sul pontefice romano - sensibile alle istanze di un principe mai apertamente schieratosi rispetto allo scisma -, consentì al Visconti un forte controllo sulla nomina dei quadri ecclesiastici del dominio. A questa politica si collegano anche le numerose fondazioni cui il principe accordò il suo patrocinio: le chiese del Carmine di Milano e Pavia, la cattedrale ambrosiana, cui concesse ampie esenzioni fiscali, e soprattutto la certosa di Pavia, destinata nelle intenzioni del duca a divenire il sepolcreto della dinastia. Committente di alcuni splendidi codici miniati - fra cui il celebre Offiziolo, che la mano di Giovannino de' Grassi rende uno dei massimi capolavori dell'"Ouvraige de Lombardie" -, G. non si segnalò per particolari interessi letterari, sebbene accogliesse nella biblioteca del castello - arricchita dopo le conquiste venete dei volumi già dei Carraresi e degli Scaligeri - umanisti come il Crisolora, il Filargis, il Decembrio e il Loschi. Accordò invece ogni favore all'Università di Pavia, per la quale ottenne da Bonifacio IX l'erezione a Studium generale e dove attirò i più celebri lettori del tempo: un articolato piano di potenziamento che mirava a fare dello Studium la principale università del dominio e il centro della elaborazione giuridica e ideologica signorile.
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Da segnalare inoltre che, benché questo repertorio termini col 1385, presso la Società storica lombarda si conservano ancora le schede preparatorie per gli anni seguenti, almeno fino al 1402. Annales Mediolanenses, in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., XVI, Mediolani 1730, coll. 772-840; P. de Castelletto, Ordo funeris Iohannis Galeatii Vicecomitis ducis Mediolani, ibid., coll. 1021-1036; Iohannes de Mussis, Chronicon Placentinum, ibid., coll. 522-560; S. de Gazata - P. de Gazata, Chronicon Regiense, ibid., XVIII, ibid. 1731, coll. 80-98; G. Gatari - B. Gatari, Cronaca Carrarese, a cura di A. Medin - G. Tolomei, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XVII, pp. 255-497; Antiqua ducum Mediolani decreta, Mediolani 1654, ad nomen; Codex Italiaediplomaticus, I-IV, a cura di I.C. Lünig, Francofurti-Lipsiae 1725-35, ad indices; Documenti diplomatici tratti dagli archivj milanesi, a cura di L. Osio, I, 2, Milano 1864, pp. 243-287; P. 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di Andrea Gamberini
Dizionario biografico degli Italiani
TRECCANI
Con Scisma d'Occidente o Grande Scisma si intende la crisi dell'autorità papale che per quasi quarant'anni, dal 1378 al 1417, lacerò la Chiesa occidentale sulla scia dello scontro fra papi e antipapi per il controllo del soglio pontificio.
L'origine dello scisma è da ricercare nel trasferimento della sede apostolica da Avignone a Roma, voluta da papa Gregorio XI nel 1377 dopo circa un settantennio di permanenza nella cittadina provenzale. Morto Gregorio l'anno successivo, i Romani si sollevarono contro il collegio cardinalizio con l'obiettivo di scongiurare la prevedibile elezione dell'ennesimo papa francese, che nei loro timori avrebbe potuto disporre il ritorno della Curia ad Avignone. Il popolo reclamò a gran voce la scelta di un papa gradito, gridando nelle piazze Romano lo volemo, o almanco italiano ("Romano lo vogliamo o, almeno, italiano").
L'8 aprile 1378 i cardinali, come di costume, si riunirono in conclave ed elessero al trono di Pietro il napoletano Bartolomeo Prignano, arcivescovo di Bari, che assunse il nome di Urbano VI. Già valente e rispettato amministratore della Cancelleria Apostolica ad Avignone, Urbano, da papa, si dimostrò severo e esigente.[2] Alcuni cardinali, in particolare quelli francesi, che si erano riuniti ad Anagni per congiurare contro il papa (qualcuno di essi propose anche la cattura e sostituzione del nuovo pontefice),[2] abbandonarono Roma e si riunirono a Fondi, sotto la protezione del conte Onorato I Caetani (1336-1400). Il 20 settembre di quello stesso anno, dopo appena cinque mesi, i cardinali "scismatici" elessero papa il cardinale Roberto di Ginevra, che prese il nome di Clemente VII. La decisione di eleggere un nuovo papa era motivata dal fatto che taluni cardinali avrebbero preferito un altro pontefice più vicino alle loro idee politiche. Tentarono quindi di far passare come invalida l'elezione di Urbano VI, contestando l'indipendenza del conclave da pressioni esterne. Dopo qualche tempo, l'antipapa Clemente VII ristabilì la propria corte ad Avignone, in opposizione alla sede romana di Urbano VI. Con due pontefici in carica, la Chiesa occidentale fu spezzata in due corpi autocefali e la stessa comunità dei fedeli risultò divisa fra "obbedienza romana" e "obbedienza avignonese".
Rispetto ai conflitti d'autorità del passato, che pure avevano dilaniato più volte la Chiesa, la rottura del 1378 presentava aspetti molto più gravi e preoccupanti. Non si trattava di papi e antipapi nominati da fazioni rivali, ma di pontefici eletti in apparente legittimità da coloro che soli ne avevano il potere: i cardinali.
Da questione puramente ecclesiastica, il conflitto si trasformò ben presto in una crisi politica di dimensioni continentali, tale da orientare alleanze e scelte diplomatiche in virtù del riconoscimento che i sovrani europei tributarono all'uno o all'altro pontefice. All'obbedienza avignonese si allinearono i regni di Francia, Aragona, Castiglia, Cipro, Borgogna, Napoli, Scozia, Sicilia e il Ducato di Savoia; restarono invece fedeli a Roma i regni d'Inghilterra, Portogallo, Danimarca, Norvegia, Svezia, Polonia, Ungheria, l'Irlanda, gli Stati italiani e le Fiandre. Nei domini imperiali e nei territori dell'Ordine Teutonico, ufficialmente obbedienti a Roma, si registrarono oscillazioni a livello locale. Il dilemma provocato dallo scisma coinvolse anche grandi personalità religiose, quali i futuri santi Caterina da Siena - schierata dalla parte di Urbano VI - e Vicente Ferrer – sostenitore di Clemente VII.
Le curie papali di Roma e Avignone continuarono ad agire con pretesa di legittimità anche oltre i pontificati dei due primi contendenti, eleggendone i successori e perpetuando così lo scisma. Nel 1389, alla morte di Urbano VI, i cardinali romani elevarono al soglio pontificio Pietro Tomacelli, che assunse il nome di Bonifacio IX, mentre ad Avignone, scomparso Clemente, fu eletto nel 1394 Pedro Martìnez de Luna, papa Benedetto XIII. Uno spiraglio sembrò aprirsi nel 1404, quando alla morte di Bonifacio IX i cardinali del conclave si dissero disposti ad astenersi dall'eleggere un successore qualora Benedetto avesse accettato di dimettersi. Di fronte al rifiuto del papa avignonese, i cardinali romani procedettero all'elezione e la scelta cadde su Cosimo de' Migliorati, papa col nome di Innocenzo VII. Due anni dopo, nel 1406, gli successe il cardinale Angelo Correr (Gregorio XII).
Nel frattempo, negli ambienti colti dell'Europa cattolica, teologi ed eruditi cominciarono a ipotizzare soluzioni adeguate al problema, che rischiava ormai di delegittimare la funzione stessa del papato e gettare la cristianità occidentale nel caos. Il rimedio più ovvio apparve la convocazione di un concilio ecumenico che ricomponesse lo scisma e mettesse fine alla controversia, ma i due rivali si opposero energicamente, non potendo accettare che si attribuisse a un concilio un potere superiore a quello del papa.
Apparentemente impraticabile per l'opposizione dei contendenti, la soluzione conciliare fu ripresa nel 1409, quando la maggior parte dei cardinali di entrambe le parti si riunì a Pisa per tentare la via del compromesso. Il concilio stabilì la deposizione di Benedetto XIII e Gregorio XII, dichiarati eretici e scismatici, e l'elezione di un nuovo pontefice, che salì al trono papale col nome di Alessandro V. Quello che avrebbe dovuto essere l'atto finale di uno scisma che da trent'anni lacerava la comunità cattolica finì invece col complicare ulteriormente la situazione: Benedetto e Gregorio, supportati da larghi strati del mondo ecclesiastico, dichiararono illegittimo il concilio e si rifiutarono di deporre la carica, cosicché da due i papi contendenti divennero tre.
La soluzione della crisi fu possibile soltanto qualche anno dopo, grazie all'iniziativa di Sigismondo di Lussemburgo e del nuovo pontefice pisano Giovanni XXIII, succeduto nel frattempo ad Alessandro V. Convocato a Costanza, in Germania, nel 1414, il nuovo concilio chiuse i lavori soltanto nel 1417, quando tutte le questioni che minacciavano la stabilità della Chiesa furono adeguatamente discusse e superate. Affermata l'autorità del concilio, i padri conciliari dichiararono antipapi Giovanni XXIII e Benedetto XIII. Il papa Gregorio XII, accettando l'autorità del concilio e per il bene della Chiesa preferì dimettersi spontaneamente. Nel corso di un breve conclave i padri elessero pontefice il cardinale Oddone Colonna, che assunse il nome di Martino V. Il concilio di Constanza non nega l'autorità papale ed è profondamente cosciente dell'importanza vitale che il supremo pontefice ha per la Chiesa "Quanto più il papa rifulge tra tutti i mortali per la sua altissima potestà" [SESSIONE XXXIX (9 ottobre 1417)].
L'elezione di Martino V rappresentò la definitiva ricomposizione dello Scisma d'Occidente: Roma fu ripristinata quale sede naturale della cattedra apostolica e Avignone chiuse la sua esperienza di centro della Cristianità.
Attualmente, nel novero dei papi ufficiali, la linea di successione pontificia riconosciuta dalla Chiesa cattolica è quella romana: Urbano VI, Bonifacio IX, Innocenzo VII, Gregorio XII e Martino V sono considerati papi; Clemente VII, Benedetto XIII, Alessandro V e Giovanni XXIII sono invece da considerarsi antipapi.
SCOMPARSA LA MINACCIA DEL VISCONTI DAL NORD ORA FIRENZE DEVE FRONTEGGIARE LA MINACCIA CHE VIENE DAL SUD
LADISLAO
Ladislao I di Napoli, detto il Magnanimo, noto anche come Ladislao d'Angiò-Durazzo o Ladislao di Durazzo (Napoli, 11 luglio 1376 – Napoli, 6 agosto 1414),
fu re di Napoli e detentore dei titoli di re di Gerusalemme, re di Sicilia, conte di Provenza e Forcalquier (1386-1414), e del titolo di re d'Ungheria dal 1390 al 1414. Dal 1406 fu anche principe di Taranto. Fu l'ultimo discendente maschio del ramo principale della dinastia degli Angioini.
Figlio di Carlo III e di Margherita di Durazzo, divenne re di Napoli nel 1386, all'età di dieci anni, sotto la reggenza della madre. Fu questo un periodo di grandi sconvolgimenti per il regno: con la morte di Carlo, Napoli era precipitata nel caos e la debolezza della reggente rischiò seriamente di far crollare la monarchia degli Angiò-Durazzo. Lo scontro vedeva contrapposti i sostenitori del giovane re e il partito favorevole agli Angioini di Francia, che cercava di approfittare della grave situazione di crisi per scalzare dal trono la famiglia regnante. Fra i capi del partito angioino filo-francese figuravano alcuni esponenti della famiglia dei Sanseverino e lo stesso Ottone di Brunswick, vedovo della regina Giovanna I.
Costituito un consiglio di magistrati che reggesse le sorti del regno in questa fase, i filo-francesi proclamarono re Luigi II d'Angiò, futuro capo del ramo cadetto degli Angioini e figlio di quel Luigi I che la regina Giovanna aveva nominato erede in contrapposizione a Carlo III. Lo scontro assunse presto le proporzioni di una vera e propria guerra. Nel corso del 1387 i sostenitori degli Angioini francesi occuparono la capitale, costringendo la reggente Margherita col piccolo Ladislao e la famiglia a barricarsi in Castel dell'Ovo, dal quale fuggirono alla volta di Gaeta. Luigi d'Angiò poté così impossessarsi del regno, ma domare i baroni ribelli fu un'impresa che lo tenne occupato per anni. Per il re minorenne ed esiliato giunse presto un importante sostegno: nel 1390 saliva al soglio pontificio Bonifacio IX, il napoletano Pietro Tomacelli (precisamente, di Casarano, in provincia di Lecce), che prese le parti di Ladislao contro il pretendente Luigi.
A partire da quello stesso anno, il figlio di Carlo III diventò anche pretendente al trono d'Ungheria e Dalmazia. Nelle mire alla corona magiara fu fortemente osteggiato da Sigismondo di Lussemburgo, marito della regina Maria. Quest'ultima, spodestata da Carlo III, era tornata sul trono dopo aver fatto uccidere l'usurpatore, caduto vittima di una congiura ordita dalla regina insieme alla madre Elisabetta. Malgrado le opposizioni, molti nobili ungheresi, avversi a Sigismondo, sostennero i diritti di Ladislao, che il 5 agosto 1403 fu incoronato a Zaravecchia re d'Ungheria. Questo titolo, però, non gli fu mai riconosciuto effettivamente.
Nel 1399, ventitreenne, Ladislao si lanciò alla conquista del trono e riuscì ad occupare Napoli, mentre Luigi era impegnato nella lotta contro i principi pugliesi. Sopraffatto dalla determinazione del giovane Durazzesco, Luigi abbandonò la propria causa e fece ritorno in Francia. Per Ladislao era giunto il momento di imporsi come unico e legittimo sovrano e per ottenere lo scopo non esitò a perseguitare i nemici e stroncare le velleità dei filo-francesi. Spietato nella costruzione del suo potere, il giovane re si dimostrò subito ancora più scaltro e dispotico di suo padre Carlo, che pure aveva seminato terrore e morte nell'imporre il proprio dominio. All'alba del XV secolo, Ladislao I si affermava come capo politico e militare di straordinaria tempra, di indole spregiudicata e di grandi ambizioni.
La sua prima preoccupazione fu dunque quella di consolidare il potere monarchico su Napoli a spese dei baroni, obiettivo che non esitò a perseguire commissionando l'assassinio di molti dei suoi rivali. La casata dei Sanseverino, ispiratrice della rivolta filo-francese, fu duramente punita con una sfilza di lutti che ne sfibrarono la capacità sovversiva.
Ladislao e il sogno di un Regno d'Italia
Domate le insidie interne, Ladislao volse ben presto la sua attenzione all'esterno dei confini del regno. Fu in questi anni che nacque in lui il sogno di costruire una grande realtà statuale che comprendesse l'intera penisola italiana, unificata sotto la corona di Napoli e le insegne dei Durazzo. L'idea di un Regno d'Italia che precede di oltre quattrocento anni l'impresa risorgimentale e alla quale Ladislao dedicherà tutti i propri sforzi nel corso della sua breve esistenza. Negli anni a venire, infatti, avrebbe approfittato della situazione di crisi in cui versava la composita realtà politica italiana per espandere notevolmente il suo regno e il suo potere soprattutto a discapito dei domini papali, appropriandosi e disponendo a suo piacimento di molti dei territori pontifici.
La conquista dello Stato Pontificio
I propositi espansionistici del re cominciarono a palesarsi nel 1405, sotto il pontificato di Innocenzo VII, del quale Ladislao si professava difensore mentre mirava a sottrargli la sovranità sul Patrimonio di San Pietro. Il re condusse una vittoriosa campagna nel Lazio, giungendo a minacciare la stessa città di Roma, sulla quale intendeva imporre la propria signoria e collocare la propria corte. Ma la città seppe resistergli, soprattutto con l'avvento al trono di Pietro di papa Gregorio XII. Ladislao non abbandonò i suoi propositi e nel 1408 tornò alla carica, cingendo d'assedio Roma. In breve la città fu costretta a consegnarsi al sovrano, così come più tardi cadranno altre importanti roccaforti come Perugia. In poco tempo, il re di Napoli aveva di fatto esteso il suo controllo fino all'Umbria, dalla quale era pronto a muovere contro Firenze e gli Stati settentrionali, portando il confine settentrionale del Regno di Napoli fino alla rocca di Talamone sul mar Tirreno, dove si svilupperà in seguito lo Stato dei Presidi.
La Lega tra Firenze e Siena
La grave minaccia che Ladislao rappresentava per i comuni del centro Italia non in suo dominio (in Toscana) e quelli del nord Italia, portò alla costituzione di una lega capeggiata dalle città di Firenze e Siena, alle quali si aggiunsero i rappresentanti di altre città come Bologna. Papa Alessandro V (che nel 1409 era stato eletto dal concilio pisano che aveva deposto Gregorio XII e Benedetto XIII nel vano tentativo di ricomporre lo Scisma d'Occidente) si oppose strenuamente a Ladislao: dopo averlo scomunicato, richiamò in Italia Luigi II d'Angiò e lo nominò re di Napoli. Nello stesso anno le milizie della Lega tentarono, senza successo, la liberazione di Roma, mentre Ladislao vendeva alla Repubblica di Venezia i suoi diritti sul Regno di Dalmazia per la somma di 100 000 ducati.
La campagna di Ladislao procedeva secondo i suoi piani, ma la costituzione di un fronte compatto ed armato contro di lui rischiava di mandare a monte i suoi disegni di conquista. Mentre i nemici gli si opponevano con forza, Ladislao trovò l'appoggio della città di Genova, che strinse con lui un'alleanza in funzione antifrancese. Nel frattempo le deboli guarnigioni napoletane lasciate a difesa di Roma non furono in grado di respingere l'attacco delle forze alleate di Firenze e Siena e la città si consegnò loro ai primi del 1410, seguita da altri castelli della zona fra i quali Tivoli. Malgrado le perdite, Ladislao resisteva bene agli urti e la sua minaccia continuava a far tremare l'Italia. Pochi mesi dopo la perdita di Roma, Luigi d'Angiò fece ritorno dalla Francia con nuovi rinforzi, mentre il Concilio di Pisa, alla morte di Alessandro V, eleggeva l'antipapa Giovanni XXIII.
Lo scontro con Luigi II d'Angiò
Nel 1411 Ladislao siglò la pace con Firenze e Siena, togliendo dal suo cammino due rivali scomodi. A continuare la guerra contro di lui restarono solo Luigi d'Angiò e Giovanni XXIII, il quale rientrò a Roma e prese possesso della sede vaticana. Lo scontro fra il re di Napoli e l'Angioino francese vide la vittoria dell'esercito napoletano: per il pretendente si avvicinava l'ora di abbandonare l'impresa. Fiaccati nel morale dalle sconfitte e dalle malattie, i soldati di Luigi fecero pressioni perché si mettesse fine alle ostilità. In agosto, il Duca d'Angiò rinunciava per la seconda volta ad accaparrarsi il trono di Ladislao e faceva ritorno in Francia, dove morì nel 1417.
I progetti del re di Napoli incontravano ormai l'opposizione del solo Giovanni, che però non disponeva di risorse militari sufficienti a frenare l'avanzata del nemico. Fu così che l'antipapa si decise ad avviare trattative con Ladislao per giungere ad un compromesso ed evitare lo scontro armato. Nel giugno del 1412 i due siglarono la pace: Giovanni rinunciava definitivamente a sostenere Luigi d'Angiò e investiva Ladislao del Regno di Napoli. Questa pace segnò in apparenza la fine dell'impresa del sovrano napoletano. In realtà, Ladislao l'accettò con l'intento di guadagnare tempo e rafforzare la propria supremazia militare in vista di una nuova campagna di conquista.
Nel giugno del 1413, infatti, il re marciava nuovamente verso Roma alla testa del suo esercito, comandato dal capitano di ventura lucano Angelo Tartaglia e, quasi senza colpo ferire, entrava nella città e la saccheggiava. Con una certa facilità prese possesso di altri importanti presidi e in breve l'intero Stato della Chiesa fu di nuovo nelle sue mani. Agli inizi del 1414 Ladislao era pronto ad invadere le regioni del nord Italia e Firenze, quest'ultima nuovamente divenendo suo primo bersaglio. Mentre la città toscana era occupata dalle truppe napoletane, la diplomazia fiorentina tentò tutte le strade per evitare lo scontro, riuscendo a strappare un accordo di pace al re, il quale a sua volta progettava una nuova campagna militare per asservire il resto della penisola.
Il 7 luglio da Castel dell'Uovo nominava Alessandro Zangale, Nicola de Leo, giudici a contratto per la Terra di Lavoro e Molise, e Luca Tagliamondo, giudice a contratto e gli concedeva, in deroga alle leggi, di esercitare anche l'ufficio di pubblico notaio (cfr. "Re Ladislao d'Angiò Durazzo",vd. sotto).
La morte
Ma i progetti dell'ambizioso sovrano erano destinati a non realizzarsi mai. Colpito da una malattia, re Ladislao I rientrò a Napoli, dove morì il 6 agosto 1414 all'età di appena 38 anni. In molti hanno sollevato il dubbio che la sua morte non sia avvenuta per cause naturali, bensì per avvelenamento, messo in atto da Firenze per liberarsi della sua minaccia. In realtà, si sa che la morte fu dovuta a una malattia infettiva dell'apparato genitale
GIOVANNI CAVALCANTI
Storie ……………………… storia di Firenze vol I
Storie ……………………… storia di Firenze vol II
La lotta politica a Firenze
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Cappóni, Neri di Gino.
Uomo politico e storico fiorentino (1388-1457); nelle lotte tra gli Albizzi e i Medici, cercò di fare, come già Nicolò da Uzzano, opera di moderatore. Determinò il richiamo dall'esilio di Cosimo de' Medici, ma lo fronteggiò, così come aveva fatto fino al 1434 nei confronti dell'ambizioso Rinaldo degli Albizzi. Partecipò alla battaglia di Anghiari del 1440, della cui vittoria menò vanto. Su appunti e ricordi del padre, scrisse i Commentari sull'acquisto di Pisa, con pretese artistiche; è autore inoltre dei Commentari delle cose seguite in Italia tra il 1419 e il 1456 e della Cacciata dei conti di Poppi e acquisto di quello stato per il popolo fiorentino.
Amico di Baldaccio di Anghiari che avrebbe potuto rappresentare il suo braccio armato
ANNO 1441 : UCCISIONE DI BALDACCIO DA ANGHIARI
Baldaccio da Anghiari
Di Luigi Passerini
Baldo di Piero Bruni, noto come Baldaccio Bruni o Baldaccio d'Anghiari (Anghiari, circa 1400 – Firenze, 6 settembre 1441),
Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 5 (1963) TRECCANI
di Piero Pieri
BALDACCIO
d'Anghiari. - D'umili condizioni, nacque a Ranco presso Anghiari attorno al 1400; servì a lungo specialmente i Fiorentini, quale condottiero di fanti, e nel 1437 ottenne la cittadinanza fiorentina. Nel febbraio 1438 sposò Annalena Malatesta, avendo come testimone alle sue nozze Neri Capponi, che contendeva a Cosimo il Vecchio de' Medici il primato in Firenze. Ma la sua importanza emerse quasi all'improvviso nel 1440 durante la guerra del 1439-41 condotta da Filippo Maria Visconti contro Venezia Firenze e il Papa, soprattutto nelle ripercussioni che essa ebbe in Toscana.Nell'aprile 1440 Niccolò Piccinino tenta infatti dalla Lombardia una grande diversione in Toscana, riesce a superare l'Appennino e si spinge fin presso Arezzo, quindi cerca di sollevare l'Umbria e di legare a sé i Senesi; richiamato quindi in Lombardia dal Visconti dopo la rotta di Soncino, vuol prima dar battaglia ed è vinto ad Anghiari il 29 giugno. In questo periodo B. non è più al servizio dei Fiorentini, mentre Anghiari fornisce altri quattro condottieri a Firenze, e precisamente Angelo Pieri, con una condotta di 300 cavalli, Gregorio Vanni, a capo di 300 fanti, Leale di Cristoforo, con 60 fanti, e Piero d'Anghiari, tornato dal reame di Napoli.
Il 12 maggio 1440 B. è nell'Umbria meridionale, a Collelungo, presso Todi; appare in buoni rapporti col Piccinino e col conte d'Urbino, Guidantonio da Montefeltro, alle cui dirette dipendenze si trova; sembra che abbia ottenuto dall'uno e dall'altro licenza d'andarsene e d'agire per conto proprio; infatti in questo stesso tempo mostra di voler essere in buone relazioni con Firenze. Dopo quasi un mese B. lascia Collelungo e si porta a Fighine, fra Chiusi e Acquapendente, e pare che voglia molestare questa cittadina e Orvieto; ma il 27 giugno parte da Fighine con 50 cavalli e 500 fanti, finge d'andare verso il Patrimonio, poi piega a destra, traversa il territorio senese meridionale, tocca Istia d'Ombrone presso Grosseto, passa al sud di Massa Marittima e il 1° luglio è presso Suvereto, terra del principato di Piombino; la prende e la mette a sacco: le sue masnade, salite, pare, a un migliaio d'uomini, devastano e depredano il territorio del principato. Il signore di Piombino, Iacopo II Appiani, così brigantescamente assalito, chiede soccorso a Siena, a Firenze, al cognato Rinaldo Orsini conte di Tagliacozzo, per un intervento presso il papa, e prega Niccolò Piccinino di richiamare Baldaccio. Ma a Firenze, dopo la vittoria d'Anghiari e la ritirata del Piccinino dalla Toscana, riprende il sopravvento il partito della politica forte, che mira a rafforzare ed estendere il dominio fiorentino su tutta quanta la Toscana e a ristabilire il protettorato su Piombino, conseguito nel 1419 e perduto quattordici anni dopo; perciò la Signoria appoggia segretamente B., mentre il papa appoggia Piombino e i Senesi non osano intervenire. I richiami del Piccinino restano quindi lettera morta. Passa così l'estate, mentre da Suvereto B. continua le scorrerie e i ricatti. Nella seconda metà di novembre Firenze sembra voglia agire energicamente, sostenendo le bande di B. con proprie schiere e allegando il pretesto che la protezione fiorentina è desiderata dalla popolazione stessa di Piombino. Ma la mossa non è simultanea; il tentativo insurrezionale dei partito fiorentino si manifesta in Piombino la sera del 21 novembre, e Iacopo II riesce a domarlo, mentre B. colle sue schiere è sotto le mura di Piombino il mattino del 22, quando tutto è tornato tranquillo. E non basta che con lui sia il capitano generale dei Fiorentini, Pier Giovanni Paolo Orsini, con alcune sue schiere e con lo stesso Neri Capponi. Tuttavia il 26 novembre, Iacopo accetta la perpetua accomandigia di Firenze, e B. abbandona Suvereto dietro un compenso di 8500 fiorini sborsatigli dal signore di Piombino (24 genn. 1441).
Il 27 dic. 1441 Iacopo II veniva a morte e la madre di lui donna Paola (dei Colonnesi) prendendo a governare il piccolo stato dichiarava di non riconoscere la capitolazione con Firenze; d'altro lato, però, il genero Rinaldo Orsini pretendeva pure alla successione, e così pure lo zio dell'estinto, Emanuele Appiani, da vent'anni esule nel Regno di Napoli. Firenze, però, ove riprendeva il sopravvento il partito mediceo contrario a una politica di continue guerre e avventure, non pareva volersi più mescolare nella questione di Piombino.
Il 23 apr. 1441 B. passava al servizio del papa, con 700 soldati fra cavalieri e fanti, e combatteva in Romagna contro Francesco Piccinino. Ma il 17 luglio Filippo Maria Visconti intavolava improvvisamente trattative di pace, e il 14 agosto cessavano le ostilità anche sull'Appennino emiliano. B. mal si adattò alla nuova situazione. Una settimana prima egli si era recato a Firenze, ma non sappiamo per quale motivo.
La fine della grande guerra in Lombardia faceva affluire verso la Toscana frotte di mercenari disoccupati; entravano in Firenzuola 200 cavalli e 700 fanti (e una fonte parla di 1200 tra cavalli e fanti, mentre altri ancora erano attesi), tutti tremendi saccheggiatori.
B. intanto da Firenze correva in Umbria, al castello di Fighine da lui conquistato l'anno prima. Il papa, in urto con Siena, che aveva ospitato i profughi Vitelleschi, aveva permesso che l'11 - 12 agosto il suo condottiero Simonetto entrasse saccheggiando nel territorio senese; B. chiese e ottenne una licenza dal papa, forse per unirsi a Simonetto. Ma eccolo il 17 agosto con una piccola schiera davanti a Suvereto, d'accordo con Emanuele Appiani, per avere di nuovo la forte base d'operazione contro Piombino. Il castello però si difende, i partigiani d'Emanuele non si muovono, B. deve retrocedere. Il condottiero si reca tosto a Prato, dove da Firenzuola sono venute calando le sue schiere, quindi si muove con loro verso Serravalle e prosegue poi fino al piano di Lucca, dove lo troviamo il 25 agosto. Già il 21 la Signoria di Firenze ha espresso al B. disappunto per il fatto che le sue schiere siano scese nel territorio fiorentino intimandogli di non molestare i Senesi. Il condottiero risponde che i suoi soldati in quel di Lucca si sono comportati come frati, che lui sta per fare cosa grata alla Signoria, e poi riscrive di ritenere che "le Signorie Vostre siano di quella volontà" e che del resto ha qualche intesa coi Genovesi. Egli pensava forse di poter passare al servizio di Genova. In realtà il governo fiorentino aveva dissuaso B. dal molestare Siena e Lucca, e il condottiero aveva dovuto abbandonare il piano, forse concertato col papa, d'andare contro Siena partendo dal contado pisano mentre Simonetto teneva impegnati i Senesi nella Maremma meridionale. Ricomincia a pensare a Piombino: il 26 agosto, lasciato il pian di Lucca, è a Vicopisano con 300 cavalli e un migliaio di fanti in attesa di altri 200 cavalli; passa quindi l'Arno e procede oltre Rosignano e Cecina; a Giovanni da Lignano, fuoruscito bolognese, scrive: "Io andrò in luogo che se 'l pensiero mi riesce io sarò mio uomo e potrò andare ove vorrò". La sera del 28 è sotto le mura di Piombino, avendo presso di sé Emanuele Appiani. Ma il partito legittimista non osa muoversi; la città è preparata alla difesa: come prima davanti a Suvereto, così ora davanti a Piombino il colpo di mano fallisce.
Del resto la marcia delle schiere di B. era stata accompagnata dalle solite ruberie, e ormai Firenze non voleva che il condottiero irrequieto molestasse neppure Piombino, mentre il papa era probabilmente irritato con lui che, anziché molestare i Senesi, moveva contro lo staterello di Rinaldo Orsini, nel frattempo salito al potere, suo protetto.
B., fallito il colpo di mano su Piombino, retrocesse verso la Valdarno inferiore, pensando ora d'andare in Garfagnana, territorio estense; ma da Firenze i Dieci gli scrissero d'abbandonare l'impresa ed egli allora lasciò partire 300 suoi fanti rimasti a Vicopisano, che il 3 settembre occuparono e saccheggiarono Castelnuovo, indirizzando il grosso verso San Miniato. Egli si affrettò verso Firenze, dove giunse il 4 settembre e qui, lo stesso giorno, pare che, d'accordo col papa, passasse al servizio di Guidantonio da Montefeltro. Ormai B. diventava sempre più pericoloso e molesto per Firenze, proprio quando il partito mediceo avrebbe voluto una politica di raccoglimento: padrone di Fighine, in Umbria, di Ranco, Sorci e Borgo alla Collina nel contado aretino, con le sue schiere in continuo aumento, e ingrossate anche da fuorusciti aretini e pistoiesi, avvezzo a non obbedire più a nessuno e bramoso di farsi uno stato, era motivo di preoccupazione continua per la Signoria di Firenze, che dapprima non aveva sdegnato di servirsi di lui nelle sue mire sopra Piombino. Il 1° settembre era entrata in carica una nuova Signoria, presieduta da Bartolomeo Orlandini, ostilissimo a B., mentre Neri Capponi, suo protettore, era da una quindicina di giorni partito da Firenze per trattare con Venezia della pace generale. Lo stesso giorno il gonfaloniere accennò, parlando coi priori, alla necessità di severi provvedimenti contro B. e non trovò opposizione fra i colleghi. Ma la decisione di toglierlo di mezzo fu presa la sera del 5, allorché si seppe ch'era passato di nuovo al servizio del conte d'Urbino, del quale si diffidava. Il 6 sett. 1441 il "villano" d'Anghiari era chiamato a Palazzo Vecchio dal gonfaloniere, e quivi veniva aggredito, ferito e gettato da una finestra. La sua testa mozza fu esposta a truce esempio per il popolo.
B. è rimasto nella storia soprattutto perché legato alla politica di Cosimo il Vecchio, e perché posto accanto alla maggiore schiera dei condottieri finiti tragicamente per i sospetti dei governi che se n'erano serviti. Non si può negare tuttavia che in un'epoca in cui la fanteria era in Italia, e si può dire in Europa, tanto scaduta, egli ci appare soprattutto come un temuto condottiero di fanti. Ma sebbene Antonio Petrucci scrivesse al governo senese il 5 luglio 1440: "Baldaccio è uomo delli Fiorentini et è delli famosi connestabili che sieno in Italia", in realtà il suo nome non appare legato a nessuna delle imprese di grido del tempo, né ad alcuna innovazione tattica. E in un periodo in cui gli Stati tendevano a legare a sé e fissare al suolo, attraverso infeudazioni, condottieri e compagnie di ventura, in una risorgente forma di feudalismo guerriero, le milizie di B., formate soprattutto da ribaldi d'ogni specie, rappresentavano una forma sempre più anacronistica. In Francia più che mai in questo periodo la monarchia tendeva a sterminare tali residui della guerra dei Cento anni; e qualche cosa di analogo ci sembra aver fatto Cosimo, sebbene all'opera negativa di distruzione non si accompagnasse quella positiva della ricostruzione militare delle forze dello Stato.
Bibl.: Si vedano specialmente: L. Passerini, B. d'A., in Arch. stor. ital., s. 3, III, 2 (1866), pp. 131-166, e R. Cardarelli, B. d'A. e la Signoria di Piombino nel 1440 e 1441, Roma 1922, lavoro accuratissimo, basato su indagini d'archivio. Cfr. anche O. Berti, Carta degli sponsali di Annalena Malatesta con B. d'A., in Giorn. stor. d. Archivi toscani, I (1857), p. 42; D. Secchioni, B. d'A. "uomo di guerra eccellentissimo", in Atti e Memorie dell'Accademia Petrarca di lettere, arti e scienze, n. s., XXVIII-XXIX (1940), pp. 313-318; L. Simeoni, Le Signorie, II, Milano 1950, pp. 664 s., 680, 689; Encicl. Ital., V, p. 940.
durante la guerra del 1439-41 condotta da Filippo Maria Visconti contro Venezia Firenze e il Papa, soprattutto nelle ripercussioni che essa ebbe in Toscana.
Nell'aprile 1440 Niccolò Piccinino tenta infatti dalla Lombardia una grande diversione in Toscana, riesce a superare l'Appennino e si spinge fin presso Arezzo, quindi cerca di sollevare l'Umbria e di legare a sé i Senesi; richiamato quindi in Lombardia dal Visconti dopo la rotta di Soncino, vuol prima dar battaglia ed è vinto ad Anghiari il 29 giugno. In questo periodo B. non è più al servizio dei Fiorentini, mentre Anghiari fornisce altri quattro condottieri a Firenze, e precisamente Angelo Pieri, con una condotta di 300 cavalli, Gregorio Vanni, a capo di 300 fanti, Leale di Cristoforo, con 60 fanti, e Piero d'Anghiari, tornato dal reame di Napoli.
La battaglia di Anghiari
Questa fu una di quelle battaglie dall'immenso significato politico perche' dopo questa battaglia la Repubblica di Firenze amplio' enormemente il proprio dominio territoriale impadronendosi di tutto il Casentino e di buona parte dell'Alta valle Tiberina.
Fu uno scontro per nulla sanguinoso
La battaglia non avrebbe nemmeno dovuta avvenire . Fu l'impulsivita' di Niccolo Piccinino convinto di poter cogliere di sorpresa le truppe della lega a farla avvenire
Durante la Guerra tra il Ducato visconteo di Milano ( duca Filippo Maria Visconti ) e la Serenissima Repubblica di Venezia erano alleati di Venezia il Papa e la Repubblica di Firenze
Comandava le truppe del Visconti il condottiero Niccolo' Piccinino mentre le forze della lega antiviscontea erano comandate da Francesco Sforza
Francesco Sforza rompendo gli indugi si era mosso a liberare Brescia assediata da truppe milanesi
Le truppe comandate dal Piccinino avevano immediatamente occupato la Toscana orientale ,nel Casentino e nell'Alta Valle del Tevere occupando Vitta di Castello e Borgo San Sepolcro
I Fiorentini si trovarono inaspettatamente attaccati sui loro confini orientali
Si riunirono allora alle forze del Papa per fronteggiare la minaccia : L'esercito della coalizione concentratosi nei pressi del piccolo borgo di Anghiari comprendeva 4000 soldati del Papa, guidati dal cardinale Ludovico Trevisan ( detto Scarampo Mezzarota ) legato del papa Eugenio IV, un pari contingente fiorentino guidato dal vecchio Neri Capponi e da Bernardetto dei Medici, ed una compagnia di 300 cavalieri di Venezia, guidati da Michelotto Attendolo. Altri capitani erano Simonetta da Castelpeccio , Giovanpaolo Orsini , Niccolo da Pisa
Nel frattempo il Piccinino che disponeva di forze molto superiori e dell'appoggio dei Conti Guidi e degli abitanti di borgo San Sepolcro riceveva dal Visconti l'ordine di ritornare in Lombardia per fronteggiare Francesco Sforza che liberata Bresci dall'assedio minacciava di marciare su Milano
La battaglia di Anghiari fu combattuta il 29 giugno 1440 ( SS Pietro e Paolo ) tra le truppe milanesi ed una coalizione guidata dalla Repubblica di Firenze.
Prima di abbandonare il territorio il Piccinino decise di attaccare di sorpresa le forze della lega che sapeva accampate ad Anghiari
Si diresse in gran segretezza dapprima verso Borgo San Sepolcro dove convinse circa 2000 uomini ad unirsi a lui prospettando di porre a sacco Anghiari citta rivale di Borgo , poi si diresse verso Anghiari
L'esercito della Lega ( avvertito dalle spie in tal senso ) riteneva il Piccinino in movimento verso la Lombardia e non si aspettava per niente un attacco tanto che le truppe erano state poste in libera uscita
Erano le prime ore del pomeriggio del 29 giugno 1440 quando le forze del Piccinino mossero verso Anghiari
Si dice che il comandante dei cavalieri veneziani Michelotto Attendolo Sforza intento a far ginnastica notasse in distanza la polvere sollevata dall'esercito nemico in avvicinamento ed intuita la verita' allertasse le forze della lega e che nel frattempo coi suoi cavalieri veneziani riuscisse a bloccare l'avanguardia milanese su quell'unico ponte attraverso il canale che permetteva l'accesso al campo della coalizione. L'eroica difesa dei cavalieri veneziani che tennero eroicamente il ponte permise alla maggior parte dell'esercito della coalizione di prepararsi allo scontro,
Alle truppe della coalizione si aggiunsero volontari di Anghiari guidati dai capitani Agnol Taglia, Grigorio di Vanni ,Leale di Anghiari
Le forze milanesi, pur numericamente molto superiori erano imbottigliate nello stretto passaggio del ponte e si impedivano a vicenda
I cavalieri veneziani furono infine fatti retrocedere dal sopraggiungere del grosso dell'esercito comandato dai capitani Francesco Piccinino e Astorre II Manfredi. I milanesi avanzarono ma il loro fianco destro fu presto ingaggiato dalle truppe papali e fiorentine e costretto a retrocedere sul ponte. La battaglia proseguì per quattro ore, fino a quando una manovra di accerchiamento tagliò fuori un terzo delle truppe milanesi sul lato toscano del canale. La battaglia proseguì nella notte e terminò con la vittoria della coalizione
Vi furono nella battaglia molti morti nelle file delle due parti ( nonostante quello che racconto' poi il Machiavelli )
Il Piccinino riusci a sfuggire alla cattura rifugiandosi a Borgo con mille cavalieri caddero prigionieri Astorre Manfredi , Lodovico da Parma , Romano da Cremona , Sacromoro Visconti , Danese e Antonello Della Torre
I fiorentini furono lestissimi ad approfitare della situazione
Occuparono militarmemente tutte le citta' abbandonate dal Piccinino in nome della Repubblica
Poi prendendo a pretesto il tradimento dei Conti Guidi che avevano mostrato amicizia al Piccinino , assediarono i borghi del Casentino e il castello di Poppi mettendo fine al secolare feudo dei Conti Guidi ed annettendo il territorio
Cosi all'indomani della battaglia di Anghiari la Repubblica fiorentina si ritrovava padrona di due grandi regioni orientali: il Casentino e l'alta valle Tiberina
E' da ricordare che tra le file dei Milanesi figuravano molti membri di famiglie esiliate da Cosimo come gli Albizzi e i Gianfigliazzi
Vedi Lorenzo Taglieschi Annali della Terra di Anghiari
Lorenzo Taglieschi (1598-1661) raccolse molte memorie storiche della sua terra ancora in parte inedite e conservate nelle biblioteche comunali di Anghiari e di Sansepolcro; le Memorie historiche e Annali della terra d'Anghiari
CONGIURA DEI PAZZI anno 1472
AMMIRATO
POLIZIANO
ESTRATTO WIKIPEDIA
Dal 1469 la città era di fatto retta dai figli di Piero (scomparso quell'anno), Lorenzo e Giuliano, che allora avevano rispettivamente venti e sedici anni. Lorenzo seguiva attivamente la vita politica con lo stesso metodo di suo nonno Cosimo, cioè senza ricevere incarichi diretti ma controllando tutte le magistrature e i punti chiave attraverso uomini di fiducia.
Non è chiaro se l'idea di una congiura nacque a Firenze dalla famiglia Pazzi o piuttosto a Roma, nella mente del loro più importante alleato, Papa Sisto IV. In ogni caso l'idea di eliminare fisicamente i signori di fatto della città catalizzò tutta una serie di figure a loro avverse, che si organizzarono nella congiura vera e propria.
Con l'elezione al soglio pontificio di Sisto IV Della Rovere (1471), il nuovo papa, sfrenato nepotista, aveva manifestato infatti l'interesse ad impadronirsi dei ricchi territori fiorentini per i suoi nipoti, tra i quali il nobile Girolamo Riario, e per le sue costose opere a Roma (come l'abbellimento e riorganizzazione della Biblioteca Vaticana da lui promosso). Egli inoltre vedeva con occhio sfavorevole le mire espansionistiche dei Medici verso la Romagna.
Il papa aveva anche già manifestato la sua opposizione ai Medici, esautorandoli dall'amministrazione delle finanze pontificie in favore della famiglia dei Pazzi, appunto. Essi sostenevano davanti a Lorenzo che questo cambio di preferenza era dovuto solo ai loro meriti commerciali, non a scorrettezze, ma Il Magnifico probabilmente aspettò il momento giusto per vendicarsi di questo smacco commerciale. Tenere le finanze pontificie infatti portava enorme prestigio e ricchezza, sia dalle commissioni sui movimenti, sia dallo sfruttamento delle miniere di allume dei Monti della Tolfa, in territorio pontificio presso Civitavecchia, le uniche allora conosciute in Italia, garantendo il monopolio di questo insostituibile fissante per la tintura dei panni e per i colori delle miniature.
Quindi i Pazzi e il papa erano in stretta alleanza a Roma, ma ancora l'idea di una congiura non doveva essersi manifestata, anzi le due famiglie fiorentine, sebbene rivali, erano anche imparentate dopo il matrimonio tra Guglielmo de' Pazzi e Bianca de' Medici, sorella di Lorenzo, nel 1469.
La scintilla che accese gli animi viene di solito individuata nella questione dell'eredità di Beatrice Borromei, moglie di Giovanni de' Pazzi. Nel 1477, dopo la morte del suo ricchissimo padre Giovanni Borromei, Lorenzo fece promulgare una legge retroattiva che privava le figlie femmine dell'eredità in assenza di fratelli, facendola passare direttamente ad eventuali cugini maschi. Così Lorenzo evitò una notevole crescita del patrimonio dei Pazzi.
La frattura tra le due famiglie si manifestò rapidamente, anche quando Lorenzo rinfacciò ai Pazzi di aver prestato trentamila ducati al papa affinché suo nipote si impossessasse della Contea di Imola, così pericolosamente a ridosso dei territori fiorentini, prestito che il Banco Medici aveva già rifiutato e che egli aveva chiesto di non fare a nessun banco fiorentino.
Fu probabilmente in quel periodo (1477 circa) che la congiura prese piede, soprattutto ad opera di Jacopo e Francesco de' Pazzi. Ad essi si aggiunse Francesco Salviati, arcivescovo di Pisa, in attrito coi Medici che avevano tramato per non dargli la cattedra fiorentina favorendo invece un loro congiunto, (Rinaldo Orsini). La guida di Firenze liberata sarebbe dovuta spettare a Girolamo Riario.
Il papa si premurò di trovare altri appoggi esterni: la Repubblica di Siena, il Re di Napoli, oltre alle truppe inviate dalle città di Todi, di Città di Castello, di Perugia e Imola (tutti territori pontifici). Recentemente è stata scoperta, dal professor Marcello Simonetta, una lettera cifrata che prova con certezza il fondamentale coinvolgimento di Federico da Montefeltro, Duca d'Urbino, nella congiura, e Lorenzo non sospettò mai di lui.
Il pontefice raccomandò di evitare spargimenti di sangue, ma questo suggerimento venne ignorato dai congiurati: i due Medici infatti dovevano essere eliminati fisicamente. Il braccio dell'azione, inteso come responsabile dell'omicidio o con stratagemmi o di suo pugno, era rappresentato da Giovan Battista Montesecco, sicario di professione.
Originariamente il piano prevedeva di uccidere i due rampolli della famiglia Medici, Lorenzo e Giuliano, durante un banchetto che essi avevano organizzato alla Villa Medici di Fiesole il 25 aprile, tramite l'uso di veleno che Jacopo de' Pazzi e il Riario avrebbero nascosto in una delle libagioni destinate ai due fratelli. L'occasione del banchetto era data dall'elezione a cardinale del diciottenne Raffaele Riario, forse ignaro delle trame dei congiurati (in realtà forse avvisato dallo zio Sisto IV).
Quel giorno però un'indisposizione improvvisa di Giuliano rese vana l'impresa che fu rimandata al giorno successivo, durante la messa in Santa Maria del Fiore.
La domenica l'ignaro cardinale Riario Sansoni invitò tutti alla messa in Duomo da lui officiata, come ringraziamento della festa organizzata il giorno prima in suo onore. Alla messa si recarono i Medici e i congiurati, con l'eccezione però del Montesecco, che si rifiutò di colpire a tradimento dentro un luogo consacrato. Vennero allora ingaggiati in fretta e furia due preti in sostituzione: Stefano da Bagnone e il vicario apostolico Antonio Maffei da Volterra.
Essendo però Giuliano ancora indisposto, Bernardo Bandini (il sicario destinato a Giuliano) e Francesco de' Pazzi decisero di andare a prenderlo personalmente. Nel percorso dal Palazzo Medici a Santa Maria del Fiore, i cronisti ricordano come i congiurati abbracciassero a tradimento Giuliano per vedere se indossasse una cotta di maglia sotto le vesti, ma egli a causa di un'infezione ad una gamba era uscito senza indossare il solito giaco sotto le vesti, che lo proteggeva, e senza il suo "gentile", nome scherzoso con il quale usava chiamare il suo coltello da guerra, che gli sbatteva contro la gamba ferita. Quando arrivarono in chiesa la messa era già iniziata.
Al momento solenne dell'elevazione, mentre tutti erano inginocchiati, si scatenò il vero e proprio agguato: mentre Giuliano cadeva in un lago di sangue sotto i colpi del Bandini, Lorenzo, accompagnato dall'inseparabile Angelo Poliziano e dai suoi scudieri Andrea e Lorenzo Cavalcanti, veniva ferito di striscio sulla spalla dagli inesperti preti e riusciva a entrare in sacrestia, dove chiuse le pesanti porte e si barricò. Il Bandini si avventò, ormai in ritardo, e sfogò la sua foga su Francesco Nori, che interpose il suo corpo tra l'omicida e Lorenzo, sacrificando la sua vita e dando la possibilità a Lorenzo di fuggire.
Jacopo de' Pazzi aveva completamente sbagliato la valutazione della risposta della popolazione fiorentina. Quando si presentò in Piazza della Signoria con un gruppo di compagni a cavallo gridando "Libertà!" invece di essere acclamato venne assalito dalla folla in un incontenibile movimento popolare che dal Duomo a tutta la città si accaniva contro i congiurati.
Le truppe del papa e delle altre città che attendevano appostate attorno a Firenze, al suono delle campane sciolte si insospettirono e lo stesso Jacopo de' Pazzi uscì dalla città portando la notizia del fallimento, per cui non fu sferrato nessun attacco.
L'epilogo fu molto doloroso per i Pazzi e per i loro alleati tanto che entro poche ore dall'agguato Francesco, ferito nell'agguato e rifugiatosi nella sua casa, e l'arcivescovo di Pisa Francesco Salviati penzolavano impiccati dalle finestre del Palazzo della Signoria. Al grido di "Palle, palle!", ispirato al blasone dei Medici, i Palleschi scatenarono infatti una vera e propria caccia all'uomo in città, che fu feroce e fulminea.
Pochi giorni dopo anche Jacopo de' Pazzi veniva impiccato, e anche il suo congiunto, non responsabile della congiura, Renato de' Pazzi, e i loro corpi gettati nell'Arno. Bernardo Bandini riuscì a fuggire dalla città, arrivando a rifugiarsi a Costantinopoli, ma venne scovato e consegnato a Firenze per essere giustiziato il 29 dicembre 1479. Il suo cadavere impiccato venne ritratto da Leonardo da Vinci. Giovan Battista da Montesecco, sebbene non avesse partecipato all'esecuzione della congiura, venne arrestato e, dopo essere stato sottoposto alla tortura, rivelò i particolari della macchinazione, compreso il coinvolgimento del papa, che egli additò come il principale responsabile. Fu decapitato. I due preti assassini vennero catturati pochi giorni dopo e linciati dalla folla: ormai tumefatti e senza orecchie, giunsero al patibolo in Piazza della Signoria e vennero impiccati.
Lorenzo non fece niente per mitigare la furia popolare, così fu vendicato senza che le sue mani si macchiassero di colpe. I Pazzi vennero tutti arrestati o esiliati e i loro beni confiscati. Fu proibito che il loro nome comparisse su alcun documento ufficiale e vennero cancellati tutti gli stemmi di famiglia dalla città, compresi quelli che erano presenti su alcuni fiorini coniati dal loro banco, che furono riconiati.
Lorenzo colse così l'occasione per serrare il potere nelle sue mani: subordinò infatti le assemblee comunali e la struttura della Repubblica a un consiglio di 70 membri, in larga parte persone di sua fiducia, che doveva rispondere solo a lui.
La reazione dei Medici fu istantanea e sanguinosa: i Pazzi e gli altri congiurati furono uccisi o catturati come il cardinale Riario Sansone, rinchiuso nella fortezza di Volterra. Per contro papa Sisto IV scomunicò subito Lorenzo ed i membri degli organi dello Stato fiorentino, lasciando loro un mese di tempo per chiedere il perdono papale, liberare i prigionieri e consegnare i colpevoli delle uccisioni successive alla congiura che sarebbero stati sottoposti alla giustizia dello Stato Pontificio stesso. Non solo, Sisto IV firmò un’alleanza con Ferrante d’Aragona e la Repubblica di Siena che mirava ad allontanare Lorenzo da Firenze. A niente valsero le ambascerie e le prese di posizione dei Medici che accusavano espressamente Sisto IV di essere un artefice della congiura al pari del nipote Girolamo Riario. Firenze, ricca di risorse finanziarie e con grandi capacità mercantili, non era preparata alla guerra non avendo mai puntato troppo a diventare una potenza militare. Lorenzo corse subito ai ripari ed assoldò numerosi capitani con le relative truppe e chiese l’aiuto degli Stati amici che, già impegnati militarmente in altre operazioni o timorosi di trovarsi troppo indifesi dagli attacchi esterni (Venezia dai turchi, che poi attaccheranno la repubblica in Friuli, e Milano da Genova, che poi si rivolterà reclamando la persa indipendenza), non poterono che fornire, anche a pagamento, uno scarso aiuto in fatto di truppe. La differenza tra le forze in campo era notevole, tanto più che, mentre a capo dei nemici di Firenze venne posto Alfonso II di Napoli, Duca di Calabria, figlio di Ferrante d’Aragona, con pieni poteri, ben difficilmente Lorenzo avrebbe potuto contare su un comando unitario in considerazione della disomogeneità delle truppe a sua disposizione i cui comandanti e si trovano spesso in contrasto tra di loro.
La guerra che seguì fu una guerra atipica, senza scontri frontali e sanguinosi tra tutte le forze in campo. Fu combattuta in borghi e castelli che venivano occupati, saccheggiati e abbandonati e poi di nuovo occupati soprattutto da parte delle forze alleate del Papa. Alla fine del giugno 1478 le truppe guidate da Alfonso di Calabria giunsero in Toscana congiungendosi con quelle dell’alleato Duca di Urbino nei pressi di Montepulciano. Mentre le truppe fiorentine si ritirarono verso Arezzo, le truppe napoletane si limitarono a scorribande nei territori del Chianti e della Valdelsa. Frattanto Firenze cerca di nominare un capo dell’esercito e nomina quattro capitani cui tutte le forze avrebbero dovuto obbedienza: Niccolò Orsini, conte di Pitigliano, Giangiacomo Trivulzio, Alberto Visconti e Galeotto della Mirandola. Mentre le truppe nemiche si avvalgono dei rinforzi portati da Don Federico, l’altro figlio di Ferrante d’Aragona, ed occupano Castellina in Chianti il 18 agosto e Radda in Chianti il 24 dello stesso mese, i fiorentini, che aspettano l’arrivo dei rinforzi promessi dal re di Francia, sono indecisi e prudenti. Le scorribande e le incursioni si susseguono con le inevitabili devastazioni sia nei territori del Chianti sia in quelli del Valdarno; lo stesso succede in tempi successivi in Valdarbia, in Valdicecina, in Valdichiana, in Valdelsa ed in Maremma. Firenze, per tutto l’inverno, continua le sue iniziative politiche e diplomatiche verso gli alleati invitandoli ad inviare le proprie truppe anche per presidiare la parte nord della Toscana, già oggetto di scorribande. Nonostante i ripetuti inviti, gli aiuti tardano a venire ed anche le truppe inviate da Ercole d’Este non possono molto. I castelli vengono occupati, ripresi e di nuovo occupati, come Casole o come i Castelli dell’Umbria, e subiscono notevoli distruzioni. Lo scontro decisivo però non arriva. Cadono quindi in mano nemica Vico, Certaldo, Castelfiorentino e Barberino. Il 22 settembre anche il Poggio Imperiale di Poggibonsi, dopo alcuni giorni di assedio, passa in mano nemica. La Valdelsa è quindi interamente occupata con la sola esclusione di Colle ben fortificato e ben difendibile. Nonostante le forze della Lega fiorentina non possano opporre molta resistenza, anziché dirigersi verso Firenze, le truppe di Alfonso di Calabria e Federico da Montefeltro si trattengono in Valdelsa.
Il Commissario di Colle, Angelo Spini, a più riprese, aveva chiesto rinforzi a Firenze, che riuscirono solo ad inviare 400 uomini al comando del veneziano Carlino di Novello che godeva di grande reputazione. Mentre i colligiani presidiavano il Castello, gli aiuti esterni si piazzarono nel Borgo. Alfonso di Calabria cercò di indurre Colle a una resa onorevole prima dell’inizio delle ostilità, inviando i suoi araldi. Dopo il rifiuto ottenuto dai Magistrati del Comune, Il Duca inviò i suoi esploratori per preparare l’attacco, ma furono attaccati con gravi perdite. Il 24 settembre il grosso delle truppe di Alfonso di Calabria si stabilì intorno a Colle ed ebbe inizio l’assedio. L’esercito nemico poteva contare su circa 100 squadre di uomini a cavallo e circa 5.000 soldati, oltre a grosse bombarde. I fiorentini avevano posto il loro campo a San Casciano ed a niente valsero gli inviti dei Medici, di Lorenzo stesso ma soprattutto del suo cancelliere Bartolomeo Scala, colligiano, a spostarsi più vicini a Colle, a San Gimignano. Non potendo inviare altri aiuti (anche perché le truppe veneziane, ad esempio, avevano ricevuto l’ordine di non esporsi troppo Firenze si limitò ad esprimere parole di stima, apprezzamento ed incitamento nei confronti dei colligiani, arrivando a concedere, in perpetuo e con tutti i diritti civili e politici, a tutti i cittadini nati o che fossero nati a Colle la cittadinanza fiorentina. Il primo assalto avvenne il 3 ottobre, ma la baldanza degli assedianti fu ben presto placata. Lo scontro, che si protrasse fino a notte, fu durissimo ed ingenti furono le perdite da ambo le parti. Mentre Colle rimaneva assediata, vi furono alcune sortite nel campo nemico che causarono diverse perdite tra gli assedianti e, cosa più importante, la messa fuori uso di alcune bombarde. L’attacco successivo, durato quattro ore, avvenne probabilmente il 16 ottobre, ma anche in questo caso venne respinto con successo e con gravi perdite per gli assedianti, che si trovarono attaccati anche dalle truppe fiorentine stanziate a San Gimignano. Il 21 ottobre vi è un nuovo assalto che si protrae per diverse ore, ma i colligiani, baldanzosi per la resistenza ed i successi finora ottenuti, oltre che adirati per il comportamento della Repubblica di Siena, che voleva impadronirsi della città, e delle sue truppe che catturavano ed impiccavano i soldati ed i messaggeri incaricati di portare fuori dalla città assediata i messaggi per le forze alleate, riescono ancora una volta, sia pure con gravi perdite, a respingere il nemico. Dopo questo assalto gli assedianti iniziano a scaricare colpi di bombarda sulla città danneggiando fortificazioni e case. Viene fatto ricorso anche a metodi meno "ortodossi", come ammassare il bestiame morto e lo sterco sotto le mura, e all’uso di frecce avvelenate. Ma la resistenza continua. Per facilitare le difese, il 26 ottobre, viene abbandonato e dato alle fiamme il Borgo di Santa Caterina, considerato poco difendibile, per concentrare le difese nel Castello, e viene distrutto il ponte levatoio che collegava i due "terzi" della città per evitare sia facili attacchi sia defezioni tra i difensori. Donne, bambini e feriti vengono fatti uscire dalle mura e, grazie anche alla benevolenza del Duca Alfonso di Calabria, hanno via libera. Una fuga dal Castello assediato viene tentata dalle truppe veneziane di Carlino di Novello, ma vengono respinte dagli stessi assalitori e sono costrette a rimanere, Per dare il buon esempio i sospettati di connivenza con il nemico ed i soverchiatori, vengono impiccati. Un tentativo di aiuto da parte di Firenze, con armi e uomini, fallisce miseramente per l’intervento degli assedianti. Il grosse delle truppe rimane al sicuro a San Casciano. Anche Firenze si trova a mal partito: deve presidiare altre zone per evitare di rimanere isolata e rispondere agli attacchi che le venivano portati a nord ed ai confini con la Romagna dalle truppe di Francesco da Tolentino e di Roberto di San Severino. La difesa, comunque, continua. Frattanto viene preparato un nuovo assalto che prevede un attacco in massa con macchine da guerra e mine. Attorno al 10 novembre gli assedianti iniziano l’attacco nella zone del ponte. La resistenza è dura ed i tentativi di salire le mura vengono respinti con ogni mezzo, anche con la calce bollente. Dopo due giorni di attacco gli assedianti si ritirano. Il Duca Alfonso di Calabria, costernato per il nuovo insuccesso, al pari dei colligiani, stremati e consci che Firenze non potrà essere di aiuto, giungono entrambi a più miti consigli.
Contro la volontà degli abitanti, convinti di poter resistere ancora, il 2 novembre alcuni emissari, i colligiani Antonio del Pela e Antonio di Piero Alberto ed il fiorentino Andrea del Borgo, si recano nel campo nemico per trattare la resa con Alfonso di Calabria e Federico da Montefeltro, oltremodo lieti di terminare un assedio che si protraeva, senza successo da troppo tempo e con la cattiva stagione ormai alle porte. Furono gli assediati a porre le condizioni della resa: il mantenimento dell’autonomia amministrativa e giudiziaria, l’incolumità per gli abitanti ed i soldati, l’esenzione dal pagamento di ogni tassa per un periodo di 20 anni in considerazione dei danni subiti, la libertà di ingresso per i "forestieri" in considerazione delle perdite umane subite. Le condizioni poste dai colligiani, furono tutte accolte dal Duca Alfonso di Calabria. Probabilmente le motivazioni di questo, oltre che nella volontà di porre finalmente fine all’assedio, vanno ricercate non solo nella volontà di accattivarsi la simpatia dei nuovi sudditi, ma anche nella stima e nel rispetto che il Duca, durante l’assedio, aveva provato nei confronti della popolazione assediata che aveva reagito con coraggio e determinazione. A riprova di questo "...Alfonso hebbe a dire, che se i regnicoli suoi vassalli fussero stati tutti così valorosi, fedeli, et obbedienti, come trovò i Colligiani, sì nella guerra mossa loro, come quando li signoreggiò, che gli sarìa bastato l’animo di impadronirsi di tutto il mondo ...."[1] L’amicizia restò anche dopo che la città era tornata sotto l’influenza fiorentina, tanto che per molti anni il Duca continuò ad inviare i suoi araldi e trombettieri in occasione delle celebrazioni in onore di Sant’Alberto, uno dei patroni della città, che si svolgevano il 17 agosto.
Con la fine dell’assedio di Colle e la fine delle operazioni militari ebbe in pratica fine la cosiddetta Guerra dei Pazzi. Il 24 novembre, il Duca di Calabria, comunicò ufficialmente a Firenze, per volere del papa, del re e su richiesta sia del re di Francia Luigi XI sia del Duca di Milano, la fine delle operazioni belliche. Le trattative di pace, peraltro già iniziate da Lorenzo il Magnifico, divengono quindi ufficiali. I medici, che, come detto, non disponevano di forze militari sufficienti a far fronte a una guerra che li distraeva dai traffici commerciali e dalle operazioni finanziarie, non persero tempo: lo stesso Lorenzo, con apposito mandato degli organi cittadini, si recò a Napoli per trattare direttamente con Ferrante d’Aragona. La pace era sponsorizzata anche dal nuovo signore di Milano Ludovico Sforza, che poteva vantare buoni rapporti con il re di Napoli. Le condizioni di pace che Sisto IV voleva imporre erano durissime: notevoli restrizioni territoriali, una pesante ammenda, il pagamento dei danni di guerra, l’umiliazione di Lorenzo che avrebbe dovuto recarsi a Roma per chiedere il perdono del papa stesso. Firenze, che voleva tornare in possesso dei territori perduti e mantenere la propria influenza sui territori della Romagna, respinse con decisione queste condizioni e il papa accettò la mediazione degli inviati del re di Francia e del re di Inghilterra Edoardo IV. Colloqui ufficiali e trattative segrete si alternarono ripetutamente. Alla fine, il 13 marzo 1480, la pace fu firmata a Napoli. Le terre occupate e la loro restituzione furono rimesse alla discrezione del re e del papa (per i territori della Romagna); la Repubblica di Siena doveva essere reintegrata nei possessi precedenti la guerra; i Pazzi e gli altri congiurati dovevano essere scarcerati e reintegrati nei loro possessi, il Ducato di Milano avrebbe riavuto i territori perduti. Lorenzo, che aveva mantenuto il suo potere su Firenze nonostante le mire del papa, però non era contento delle condizioni raggiunte e continuava a trattare con Ferrante d’Aragona con cui intratteneva buoni rapporti. Se Firenze era scontenta, anche Venezia, esclusa dagli accordi, di pace, si lamentava e Siena mirava ad entrare in possesso delle terre occupate entro 15 miglia dalla città come stabilito dagli accordi dell’alleanza. Le terre di Toscana continuavano ed essere occupate dai vincitori: Certaldo, Colle, Monte San Savino, Poggibonsi e Vico erano occupate dai napoletani, mentre Siena occupava Castellina, Monte Dominici e San Polo in Chianti. Nacque quindi una nuova alleanza, un nuova Lega a cui partecipavano il Regno di Napoli, il Ducato di Milano, la Repubblica di Firenze ed il Ducato di Ferrara. Intanto le truppe pontificie avevano occupato Forlì che fu subito assegnato a Girolamo Riario.
Ma un fatto nuovo, l’invasione turca delle Puglie alla fine del mese di luglio, distolse l’attenzione di tutte le forze in campo ed il Re di Napoli fece appello agli alleati della Lega. Subito Firenze contribuì finanziariamente alla difesa e questo l'agevolò non poco nei contrasti con Siena per il dominio dei territori contesi. Inoltre venne richiesto il perdono al papa che lo accettò togliendo la sua scomunica a Lorenzo in cambio della fornitura di galere armate per la difesa via mare. Intanto le trattative per i territori toscani contesi procedevano e Firenze si sarebbe vista costretta a sborsare notevoli indennità. Vi fu quindi, da parte del papa, una ulteriore richiesta di contributi e di forze militari per la difesa dai turchi che, dopo alcune trattative, Firenze concesse chiedendo che venissero riviste le precedenti concessioni. Dopo proposte e controproposte che interessavano anche i territori contesi, Firenze elargì i contributi per la difesa, indennizzò le truppe napoletane per i danni della guerra e ritornò in possesso delle terre contese.
Le truppe napoletane lasciarono Colle il 4 aprile 1481 e Monte San Savino il 6 aprile. Nonostante la Repubblica di Siena avesse già da tempo festeggiato la conquista dei nuovi territori tra cui Colle, non poté che prendere atto della volontà dei più importanti alleati. Sedici mesi dopo la fine dell’assedio la terra di Colle ritornò libera nell’influenza di Firenze. Inizia quindi per la città di Colle un nuovo periodo di pace e di prosperità durante il quale Firenze contribuì al restauro delle opere di difesa e fortificazione. Lorenzo il Magnifico, sia pure sconfitto militarmente, aveva mantenuto intatto il suo potere su Firenze e la sua influenza politica.
ESTRATTO DA WIKIPEDIA
Un fuoruscito venne infatti catturato con una lettera che prometteva di svelare in dettaglio le trame di Piero per rientrare in Firenze; alla lettera si aggiunse una relazione che elencava tutti gli amici che il Medici aveva a Firenze e il piano di una congiura che doveva consumarsi alla metà di agosto. Cinque cittadini, tra quelli ricercati e ascoltati dalla Signoria, furono accusati di alto tradimento, imprigionati e costretti a confessare un delitto che forse non avevano commesso. Tra costoro vi fu Ridolfi, principale esponente del suo casato e parente stretto di Piero de’ Medici.
Una Pratica di 200 persone fu convocata e dopo lunga discussione i cinque accusati furono riconosciuti colpevoli e per loro venne raccomandata la pena di morte. Le accese discussioni che seguirono misero in luce una profonda spaccatura nella classe dirigente tra i favorevoli a un'azione guidata dalla prudenza e i fautori di una giustizia immediata. I condannati reclamarono il loro diritto di appello al Gran consiglio, secondo una legge approvata nel 1495. La Signoria, favorevole alla concessione, fu bloccata da pesanti minacce e finì per convocare (il 21 agosto 1497) una nuova Pratica, ove si misero in luce i pericoli che sarebbero sorti da un eventuale accoglimento dell’appello da parte del Consiglio: la possibilità di una sollevazione popolare, i possibili inserimenti di poteri stranieri e un ulteriore aggravarsi della divisione cittadina. Tutti questi rischi sconsigliavano vivamente il ricorso all’appello. La Signoria, già pronta a rifiutare le conclusioni della Pratica, fu bloccata da violente prese di posizione in favore di questa, in particolare da parte di Francesco Valori. La sorte dei prigionieri fu così segnata.
Lo stesso giorno Niccolò Ridolfi e gli altri cospiratori furono giustiziati nel palazzo del Bargello.
Uffici intrinseci
Gonfalonieri di Giustizia e Priori delle Arti nel periodo 1282 1532
……: Elenchi dei Gonfalonieri di Giustizia e dei Priori delle Arti ………………………………….: Elenchi dei Gonfalonieri di compagnia e dei BuonuominiSenatori del Ducato e del Granducato di Toscana
………………………. : Elenchi dei Senatori del Ducato poi Granducato di Toscana
Consoli delle Arti nel periodo 1282 1532………………………………….Elenchi dei Carnesecchi Consoli delle Arti
Consoli dell'Arte dei medici e degli speziali Consoli dell’Arte dei medici e degli speziali dalle origini al 1351 tratti dall’opera del prof Raffaele Ciasca
Otto di Guardia e di Balia ……………………………………………: Otto di Guardia e di Balia tra i Carnesecchi ( contributo dr Paolo Piccardi )
Buonuomini delle Stinche ……………………………Carnesecchi che hanno svolto la carica di "Buonuomini delle Stinche" ( contributo dr Paolo Piccardi )
I consigli …………………………………………………………………………..I consigli
Uffici estrinseci
" Dominio e patronato: Lorenzo dei Medici e la Toscana nel Quattrocento" di PATRIZIA SALVADORI
La giustizia, era una figura consueta nella vita politica delle citta’ e dei centri maggiori della Toscana , anche prima della dominazione fiorentina . Ma mentre nel periodo precedente il Podesta’ veniva scelto direttamente dalle Magistrature locali , che attingevano a un nucleo di professionisti itineranti , provenienti anche da altri Stati italiani, con la dominazione di Firenze questi ufficiali vennero definitivamente sostituiti da cittadini fiorentini , sprovvisti per lo piu’ di un adeguata preparazione giuridica e appartenenti in buona misura al ristretto nucleo di famiglie che componevano il ceto dirigente urbano (6)
La figura del Rettore si trovava pertanto a operare in quel dualismo di poteri che caratterizzava le formazioni territoriali del Quattrocento, poiche’ l’ufficiale estrinseco doveva da un lato rappresentare il potere centrale nelle zone del dominio , e dall’altro tutelare , secondo l’antica tradizione comunale, gli interessi delle citta’ e dei paesi nei quali ricopriva l’incarico per un breve lasso di tempo.(7)
(4) I Salari potevano variare da una somma di 4000 lire al semestre per le cariche di Capitano e Podesta di Pisa ( che avevano al seguito una quarantina di persone ) fino alla somma di 250 lire per le podesterie piu’ piccole; l’importo del salario era stabilito dalla Dominante. ANDREA ZORZI Giusdicenti e operatori pg 520
(6) Sebbene a cavallo tra il XIV e il XV secolo si assista ad un ampliamento del numero complessivo delle famiglie ammesse a tali uffici , di fatto queste cariche soprattutto quelle piu’ importanti , erano concentrate in un ristretto numero di casati . Circa venti famiglie ricoprirono in modo stabile un nutrito numero di incarichi e solo quattro di esse (Rucellai , Carnesecchi , Corsini , Corbinelli ) fecero parte in modo continuativo del vertice.
ANDREA ZORZI : Giusdicenti e operatori pg 531
"La trasformazione di un quadro politico. Ricerca su politica e giustizia…." di ANDREA ZORZI
Ne’ contribuirono a migliorare il livello medio di qualita’ dell’esercizio delle giurisdicenze la marginalizzazione delle quote di uffici spettanti agli artigiani e ai membri delle corporazioni minori che nel giro di pochi decenni tra XIV e XV secolo furono ridotte da 1/3 del totale degli uffici estrinseci a ¼ delle sole podesterie minori , in conseguenza della concentrazione del potere , nella seconda meta’ del quattrocento , per esempio su circa 250 gruppi familiari ammessi agli uffici ,il 20% occupo’ mediamente il 46% del totale degli incarichi, con un vertice del 5% di famiglie ( tra le quali sempre presenti Rucellai , Carnesecchi , Corsini , Corbinelli )
che da solo ne copri in media il 18%………………
………………………………… Espansione territoriale dello stato fiorentino
Vicari e Podesta' : Vicari e Podesta'
Vicari e Podesta' : Vicari e podesta'
Vicari e Podesta : Vicari e Podesta'
Capitani di Giustizia di Castrocaro Capitani di Giustizia di Castrocaro : elenco dal 1403 al 1500 : Contributo del dr Cristiano Verna
Vicari e Podesta' Podesta' e Vicari
Vicari e Podesta' I Vicari/Podesta di Lari : Elenchi
Vicari e Podesta' I Vicari/Podesta di San Miniato al Tedesco : Elenchi
Vicari e Podesta' I Vicari/Podesta di Poppi : Elenchi
Vicari e Podesta' I Vicari/Podesta di Pescia : Elenchi
Governatori e Capitani Livorno : Elenchi ………………………….per la cortesia della dottoressa Serafina Bueti e del personale ASLi
Vicari e Podesta' Autoritadi Livorno : Elenchi…………………da Wikipedia
Vicari e Podesta' I Vicari del Valdarno superiore : Elenchi ………………………………..contributo del conte Massimo Cavalloni
Vicari e Podesta' Vicari fiorentini a Vicopisano : Elenchi…………………..Tratto dal sito del Comune di Vicopisano dagli studi di Filippo Mori
Vicari e Podesta' Podesta' fiorentini al Castello di Carmignano : Elenchi……by Giuliana Serpentini
Vicari e Podesta' Podesta' fiorentini a Fiesole : Elenchi……
Vicari e Podesta' Arezzo : Elenchi……
Vicari e Podesta' Borgo San Sepolcro : Elenchi Gonfalonieri di Giustizia
Vicari e Podesta' Autorita di Volterra: Elenchi…………………da Wikipedia
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STORIA DI BORGO SAN SEPOLCRO
Annali, E Memorie Dell' Antica, e Nobile Città Di S. Sepolcro Intorno alla ...
Di Pietro Farulli
BORGO SAN SEPOLCRO
alle pag i commissari fiorentini tra cui Simone Carnesecchi (1450 ) Paolo Carnesecchi ( 1490 ) Giovanni Carnesecchi
Le vite d'uomini illustri fiorentini
Di Filippo Villani,Giammaria Mazzuchelli (conte),Alessandro Goracci
alle pagine la storia di Borgo San Sepolcro
alle pagine elenco gonfalonieri di giustizia
tra cui Gasparo Carnesecchi
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UFFICIALI DELLA VAL DI CHIANA
Ufficiali della Val di Chiana ......Ufficiali della Val di Chiana
Ufficiali della Val di Chiana ......Ufficiali della Val di Chiana
DA VEDERE :
Storia di Firenze : il portale per la storia della citta' il principale sito sulla storia di Firenze
Firenze e il mare ………………………la ricerca continua dello sbocco al mare
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Nei tempi antichi la giornata e la notte in Italia erano misurati in modo un po particolare. Questo spiega perche' spesso negli atti le ore sembrano messe a casaccio Ho reperito in rete due articoli molto interessanti uno a firma del dr. Sergio De Mitri ed uno a firma del dr. Orlando Papei : due articoli indispensabili
Misurazione del tempo ………………………Alcuni testi sulla misurazione del tempo nei secoli passati ( dr. Sergio De Mitri ; dr. Orlando Papei )
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il fiorino d'oro con l'immagine di San Giovanni
LA MONETA E I SISTEMI DI MISURA La moneta fiorentina ………….La moneta fiorentina
Sistemi di misura ………….i sistemi di misura
Bibliografia : ……………………………………………. |
In lavorazione IL QUOTIDIANO
Vorrei ricordare i seguenti libri del prof Giuliano Pinto , che aiutano a farsi un idea piu' delle abitudini e degli usi del quotidiano
Il Libro del Biadaiolo. Carestie e annona a Firenze dalla metà del '200 al 1348, Firenze, Olschki Toscana Medievale: Paesaggi e realta' sociali by Giuliano Pinto Hardcover, Le Lettere, ISBN 8871661060 (88-7166-106-0) Citta e spazi economici nell'Italia Comunale by Giuliano Pinto Hardcover, CLUEB, ISBN 8880913107 (88-8091-310-7) Economie Urbane ed etica economica nell'Italia medievale by Giuliano Pinto, Giacomo Todeschini, Roberto Greci Hardcover, Laterza, ISBN 8842076457 (88-420-7645-7) Il Contratto di mezzadria nella Toscana medievale by Giuliano Pinto, Paolo Pirillo Hardcover, L.S. Olschki, ISBN 8822235126 (88-222-3512-6) Incolti, Fiumi, Paludi: Utilizzazione delle risorse naturali nella Toscana medievale e moderna by Giuliano Pinto, Alberto Malvolti Hardcover, L.S. Olschki, ISBN 8822251997 (88-222-5199-7) Lontano Dalle Citta: Il Valdarno Di Sopra Nei Secoli XII-XIII by Giuliano Pinto, Paolo Pirillo Hardcover, Viella, ISBN 8883341503 (88-8334-150-3) Desinari Nostrali: Storia Dell'alimentazione a Firenze E in Toscana by Giuliano Pinto, Zeffiro Ciuffoletti Hardcover, Polistampa, ISBN 8883048938 (88-8304-893-8)
Giuliano Pinto, è professore ordinario di Storia medievale a partire dal 1986, prima nell'Università di Siena, poi dal 1989 a Firenze.
I catasti agrari della Repubblica fiorentina e il catasto particellare toscano: secoli 14-19, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1966. Elio Conti
MERCATURA
E vorrei ricordare solo alcuni libri sulla mercatura :
Italia e Francia nel commercio medievale, Roma, Edizioni del lavoro, 1966
La crisi delle compagnie mercantili dei Bardi e dei Peruzzi, Firenze, Olschki, 1926
Armando Sapori
Francesco di Jacopo del Bene, cittadino fiorentino del Trecento, Roma, Istituto Giapponese di Cultura, 1968. Hidetoshi Hoshino
Sergio Tognetti Il banco Cambini Affari e mercati di una compagnia mercantile-bancaria nella Firenze del XV secolo Sergio Tognetti Un’industria di lusso al servizio del grande commercio Il mercato dei drappi serici e della seta nella Firenze del Quattrocento
Antonella Astorri ,La Mercanzia a Firenze nella prima metà del Trecento. Il potere dei grandi mercanti, Firenze, Olschki, 1998.
Storia del commercio e dei banchieri di Firenze in tutto il mondo conosciuto …………………. http://books.google.it/books?id=9bXBT5WUP0wC&pg=PA221&dq=peruzzi+simone&cd=1#v=onepage&q=&f=false Simone Peruzzi In questo libro possiamo trovare alcune notizie difficilmente reperibili altrove
The rise and decline of the Medici bank, 1397-1494, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1963. Traduzione italiana: Il Banco Medici dalle origini al declino, 1397-1494, Firenze, La Nuova Italia, 1970. Raymond de Roover
IL SISTEMA FISCALE
L' imposta diretta a Firenze nel Quattrocento : 1427-1494, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1984. Elio Conti
Le finanze della repubblica fiorentina. Imposta diretta e debito pubblico fino all’istituzione del Monte, Firenze, Olschki, 1929 Bernardino Barbadoro
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VICOPISANO E IL QUOTIDIANO
Filippo Mori archivista dell'archivio storico di Vicopisano e' il curatore di alcune pagine decisamente belle :
http://www.viconet.it/archivio/vicari_pre.php http://www.viconet.it/archivio/vicari.php Che ci forniscono l'elenco dei Vicari di Vicopisano per i periodi 1417-1532 e 1532-1765
http://www.stemmi.altervista.org/ Una pagina sugli stemmi del palazzo Pretorio. Le fotografie sono documentariate con una descrizione molto accurata.
http://www.viconet.it/archivio/studi.php Una pagina molto stimolante : Contiene degli studi interessanti che investono la vita quotidiana della comunita' di Vicopisano nelle varie epoche : traspaiono necessita' , usi ed abitudini comuni a tanti altri luoghi della Toscana
Filippo Mori
Un processo per stupro nel XVII sec. L'alluvione del Settembre 1557: relazione del Vicario La scuola a Vicopisano nel Cinque e Seicento Usi e costumi nel Comune di Vicopisano nella prima metà dell'Ottocento La fonte di Cucigliana Lo stato della manifattura dell'Olio a Buti nel 1768 Vicopisano e i beni culturali : una supplica del 1829 Lacrime di marmo: i monumenti ai caduti della Prima Guerra Mondiale nel Comune di Vicopisano 1944: la Liberazione nel Comune di Vicopisano
Francesco Alunno
Gli statuti medicei di Vicopisano (Comune, Vicariato, Podesteria ) Cenni storici sul vicariato di Vicopisano
Renzo Giorgetti L'antico oriuolo di Vicopisano
Miria Fannucci Lovitch
Vicopisano : la rocca vecchia verso la porta Gostantina e la casa del Podesta' presso detta porta L'altare , la compagnia del SS Crocefisso , la Deposizione La statua lignea trecentesca della Pieve di Vicopisano e l'oratorio di San Giovanni Battista Notizie sulla Prioria di San Mamiliano e sull'ospedale e chiesa di Santa Buona a Vicopisano ( XV-XIX secolo )
Grazie ad una lunga ed attenta opera di recupero durata circa 15 anni, Vicopisano possiede uno splendido complesso artistico e museale, interamente visitabile. Comprende : Il palazzo Pretorio ( corredato degli stemmi dei Vicari fiorentini ) con le stanze dei Vicari e le carceri vicariali , l'esposizione dei reperti di San Michele alla verruca , l'archivio storico. La rocca del Brunelleschi. |
IL QUOTIDIANO VISTO DA "GENEALOGIA TOSCANA"
Genealogia Toscana e' la societa' dei due genealogisti professionisti : Vilma Domenicali e Vasco Piccioli
Il loro approccio alla ricerca genealogica e' condensabile nella descrizione che Vilma Domenicali da di se' :
La storia è sempre stata la mia passione, ma sono le piccole storie, quelle che parlano della gente comune, che più mi interessano. Avvenimenti da scovare in archivi sterminati, eventi che la storia non si è occupata di registrare.……………………. …..La storia locale è un'ottima fonte di ricerca che mi aiuterà a ricostruire il loro modo di vivere. Come si vestivano, cosa mangiavano, come si divertivano, i rapporti con gli altri nelle attività quotidiane. …….. ……………………. Mi sono specializzata nelle ricerche sulla storia locale, fonte di informazioni utilissime per la ricostruzione delle vicende. Non tralascio i grandi avvenimenti storici, mettendoli in relazione con gli episodi accaduti nelle famiglie oggetto delle indagini. Nelle vicende delle famiglie oggetto delle nostre attenzioni, nei fatti della loro vita quotidiana, trovo un legame con situazioni relative alla "grande" storia, che in qualche modo hanno avuto una ricaduta sul loro piccolo mondo.
Cosi in alcune sezioni del loro sito il quotidiano prende vita :
http://www.genealogia-toscana.it/index.php?loc=documenti http://www.genealogia-toscana.it/index.php?loc=storie
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RESIDUI DI MITOLOGIA L'UOMO E' DA SEMPRE UN ANIMALE RELIGIOSO : PAURA SUPERSTIZIOSA , SPERANZA , BISOGNO DI GIUSTIZIA Cesare Saccaggi (Tortona, 7 febbraio 1868 – Tortona, 3 gennaio 1934)
La Bibbia che di libro sacro ha solo il nome essendo una raccolta contraddittoria di documenti profani , racconta il pensiero degli antichi che allora opinavano naturalmente su un origine da un seme che identificavano in Adamo ed Eva , inconsapevoli del metodo darwiniano e dei problemi evoluzionistici
Non credo in un Adamo ed in una Eva primordiali, ritengo vi siano molti stipiti primordiali e le vicende degli incroci del nostro DNA molto complicate
Era una religione dichiaratamente nemica delle elucubrazioni scientifiche sino dai tempi di San Paolo , e che tale si mantiene ai giorni nostri
https://axismundi.blog/2021/02/02/cristiani-e-pagani-un-conflitto-inconciliabile/
Ma quale sarà il destino di quelli che in vita loro non hanno mai sentito parlare di Gesù? Dante colloca (perlomeno) nel Limbo i giusti che non conobbero Cristo, come Virgilio, la sua guida, ma altri li ritenevano dannati tout court. Il che, almeno per i Germani e i Norreni, creava un problema enorme: i loro antenati. Your predecessors, former princes of the Frisians, dying unbaptized, are undoubtedly damned, dice a re Rathbod il vescovo Wulfram [13]. E però re Rathbod, che aveva già i piedi in acqua replica al vescovo Wulfram che se il suo battesimo non salverà i suoi antenati preferisce stare con loro; e dunque rifiuta il battesimo: fonte regenerationis noluit mergi [14]. [13] «I tuoi antenati… morendo senza battesimo, sono certamente dannati» «Non volle essere immerso nel fonte battesimale». Ibidem. Robert Robinson, The history of the baptism, Applewood Books, 2009, p. 118. [14] «Non volle essere immerso nel fonte battesimale» Ibidem.
Con DARWIN e la FISICA QUANTISTICA il mondo ha cominciato a ricevere risposte meno favolistiche , che ci impongono comportamenti sociali nuovi o perlomeno riflessioni nuove sui nostri comportamenti sociali ed in particolare sui doveri sociali che ogni uomo ha verso l'altro uomo In avanti non ci sara' piu' l'attesa del premio o della punizione divina ma dovra' esserci necessariamente una giustizia umana funzionante nel controllo del comportamento sociale
L'orologiaio cieco (titolo originale The Blind Watchmaker: Why the Evidence of Evolution Reveals a Universe Without Design) è un libro di Richard Dawkins, L'orologiaio cieco è un libro originale, pieno di informazioni, paradossi, osservazioni inaspettate; un classico della divulgazione scientifica contemporanea che costituisce la più completa e chiara spiegazione, rivolta al grande pubblico, della teoria dell'evoluzione e della selezione naturale, oltre che una circostanziata difesa del darwinismo dai numerosi attacchi di cui ancora oggi è fatto segno dalla vecchia cultura dei terrapiattisti
L'orologiaio cieco (titolo originale The Blind Watchmaker: Why the Evidence of Evolution Reveals a Universe Without Design) è un libro di Richard Dawkins, Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. In questo libro l'autore affronta il tema della complessità del mondo biologico dal punto di vista della moderna biologia evolutiva, spiegando come l'estrema improbabilità legata alle sofisticate configurazioni degli esseri viventi possa trovare una risposta soddisfacente nella corretta conoscenza del funzionamento dei sistemi selettivi secondo logiche darwiniane. Rifacendosi alla celebre analogia dell'orologiaio del filosofo e teologo William Paley, Dawkins la modifica in quella dell'orologiaio cieco, dove l'affascinante varietà e complessità degli organismi diventano una conseguenza inevitabile di processi di selezione naturale che rendono superflua la necessità dell'esistenza di un disegno intenzionale ad opera di un'entità sovrannaturale. Per spiegare il modo in cui si sono sviluppati organi estremamente sofisticati come l'occhio o l'ancor più singolare sistema di ecolocazione ultrasonica del pipistrello, non bastano però meccanismi legati a semplici variazioni casuali, che anche nel caso di tempi lunghissimi, come quelli della vita sulla terra, non risulterebbero minimamente sufficienti al raggiungimento di un tale grado di complessità. Ma un sistema di selezione cumulativa, in cui ad ogni passo i miglioramenti vengono messi alla prova, scartando le soluzioni meno efficienti, è la soluzione che avviene in natura per arrivare a creare ordine dal caos, ottenendo risultati strabilianti, in grado di sfidare le leggi di probabilità. Per simulare questi meccanismi e renderli più semplici da comprendere e visualizzare, l'autore ha quindi sviluppato un semplice programma per computer in grado di creare e modificare strutture bidimensionali ramificate secondo schemi che simulano i meccanismi biologici, compresa la derivazione genetica, in questo caso rappresentata attraverso parametri numerici operanti sulle forme stesse. Questi semplici "biomorfi", selezionati nella loro evoluzione secondo logiche arbitrarie operate dall'autore, sostituitosi in questo all'opera della selezione naturale, hanno mostrato una notevole capacità di ricreare forme di estrema complessità in un numero limitato di passaggi. L'autore prende spunto da questo esperimento per sostenere come l'opera di passaggi piccoli e graduali risulti l'unica via percorribile dal punto di vista evoluzionistico, poiché salti più significativi non potrebbero sfruttare il meccanismo di selezione cumulativa, affidando il successo della mutazione unicamente al caso, rendendo perciò altamente improbabile qualsiasi cambiamento efficiente. Per sostenere questa visione, e per sfatare una delle obiezioni più comuni al meccanismo evolutivo secondo logiche darwiniane, Dawkins mostra come si ritrovino nelle tracce fossili ed in natura innumerevoli esempi di come queste variazioni continue di efficienza si siano prodotte e sviluppate in organi ed esseri viventi. Fatto ulteriormente dimostrato dai numerosi casi di convergenza evolutiva, in cui problemi simili hanno portato specie diverse a sviluppare indipendentemente soluzioni sovrapponibili, come l'ecolocazione di pipistrelli e cetacei, o le molte strategie sociali comuni a formiche e termiti. Il tutto sotto il controllo di una molecola dotata della fondamentale capacità dell'autoreplicazione, il DNA, che tramite la ripetizione di semplici sequenze riesce ad immagazzinare una sbalorditiva quantità di informazioni, le quali a loro volta possono dare vita a strategie per la sopravvivenza di grande raffinatezza e complessità, tra cui gli organismi viventi. Questo grazie a meccanismi di interazione tra geni di tipo collaborativo che nel tempo hanno portato alla creazione di sistemi biologici sempre più complessi, ed alla parallela competizione tra gli organismi biologici stessi, impegnati in una rincorsa senza fine per la sopravvivenza. Nell'ultima parte l'autore si occupa delle teorie che si sono poste come alternative al darwinismo classico, come quella degli equilibri punteggiati, mostrando come in questo caso le supposte differenze siano il frutto di alcuni fraintendimenti e manipolazioni mediatiche, piuttosto che reali differenze nei meccanismi proposti. Riguardo a teorie decisamente in opposizione a quella proposta dal neodarwinismo, come quella di Lamarck, o quella mutazionista, l'autore ne illustra i punti deboli, e come il neo-darwinismo risulti molto più efficace nello spiegare le sorprendenti capacità di adattamento degli organismi all'ambiente.
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Ci sono in Italia un 15% di agnostici , ed un 65% di cattolici , e la nostra cultura e' del tutto cattolica
Cosi viviamo in una societa' , in cui uomini che non si sposano ci spiegano come vivere , che crede alla piu' innaturale ed astrusa delle cose cioe' in un uomo partorito da una vergine ( sesso come innaturale ! ), alla resurrezione senza aver mai conosciuto nessun risorto, che ha un dio maschio ma ha creato un Olimpo composto di una dea-madre ( la Madonna) piu' venerata di dio e da migliaia di dei minori ( santi e martiri) , crede nei miracoli senza averne mai aver avuto le prove di uno solo , nelle stigmate di padre Pio scomparse alla sua morte, nella liquefazione del sangue di san Gennaro, nei commerci di Lourdes e di Medugorje, nei milioni di reliquie di ossi , di lenzuoli e croci , predica l'amore e pratica sistematicamente la violenza, odia gli ebrei per avergli ucciso dio , crede vagamente allo sterminio di undicimila vergini, alla casa volante di Loreto o di Monte San Savino, ci terrorizzerebbe con i tormenti del purgatorio e dell'inferno se nel frattempo gli uomini non se ne fossero dimenticati,
pueralita' indigeribili digerite solo per paure superstiziose ( non e' vero ma ci credo )
e nessuno piu' vede tutte le falsificazioni storiche che hanno segnato la storia dell'affermazione cattolica come religione di Stato e come raccoglitrice delle beneficenze
Tutte queste persone ( 65%) temono , tutte queste persone sperano
E la cultura tutta la nostra cultura e' stata invasa dalla menzogna piu' puerile
La ricerca della felicita' sancita dalla costituzione americana e' rimandata al regno dei cieli
La giustizia ha due facce quella terrena e quella divina , rimandando a dio la punizione del colpevole , rimandando a dio la giustizia sociale
la realta' e' sgradevole , e' che :
noi viviamo una volta sola , vorremmo rivivere ma non e' possibile
noi non vedremo piu' nostra madre e nostro padre , noi non vedremo piu' i nostri fratelli e le nostre sorelle
Qui in questo nostro mondo e' la nostra unica irripetibile occasione di amore e di felicita'. Non esiste domani
Una speranza falsa come la religione puo' spingerci a rimandare cio' che non e' rimandabile
V SECOLO---XI SECOLO : LA RELIGIONE CATTOLICA PASSA DI GESTIONE : DAGLI UMILI E DISEREDATI AI DOMINANTI ED AI POTENTI
In una lucida piccola sintesi intitolata :"il santo" compresa nel volumetto "l'uomo medievale" ed edito da GLF editore Laterza , Andre Vauchez trateggia uno dei punti cruciali della storia europea : il rapporto tra nobilta' e Chiesa tra un potere e quello spirituale della Chiesa
Un volumetto , una decina d'euro, un pieno di riflessioni illuminanti per capire meglio la storia dell'oggi . Per farlo si prende in considerazione l'uomo medievale : il guerriero , il religioso , il contadino ,la donna, l'intellettuale,l'artista , il mercante , il santo ,l'emarginato
Si vede cosi come tanti luoghi comuni profondamente radicati in noi nascano da lontano ---e come li abbiamo assorbiti solo respirando l'aria---
da André Vauchez : Il santo
.........Se il santo diventa allora una risorsa per i diseredati e per le vittime dell'ingiustizia , non si presenta tuttavia ---ad eccezione di qualche martire altamente politicizzato come san Leger d'Autun (morto nel 678 ) -----come avversario del potere temporale.
Al contrario uno dei tratti caratteristici dell'epoca e' la simbiosi che si stabilisce tra le classi dirigenti ecclesiastiche e laiche.
Si e' talvolta utilizzato il termine "agiocrazia " per indicare il periodo che va dalla fine del secolo VI alla fine dello VIII , tanto questo e'stato ricco di santi associati , talvolta molto strettamente al potere , come san Eligio in Francia o , a Roma , san Gregorio Magno che si sostitui alla vacillante autorita' imperiale e prese nelle sue mani la difesa e l'amministrazione della citta'. Si tratta, qui , di un caso limite e, a Nord delle Alpi, la situazione era sensibilmente diversa : non sono tanto gli esponenti della Chiesa che accedono al potere quanto l'aristocrazia franca , anglosassone o germanica che stabilisce la sua manomissione sulla Chiesa, pur aiutandola ad impiantarsi nella regioni rurali che fino a quel momento erano sfuggite alla sua influenza e sostenendo attivamente l'impresa di cristianizzazione condotta presso le popolazioni germaniche ancora pagane da missionari come san Bonifacio in Turingia e san Corboliano di Freisling in Baviera
La principale conseguenza di questa stretta collaborazione tra Clero e quadri dirigenti fu, come ha ben dimostrato K.Bosl , la legittimazione religiosa della situazione sociale eminente dell'aristocrazia nei confronti del resto degli uomini , liberi o no. La credenza che si affermo allora , secondo cui il santo non puo' essere che nobile e che un nobile ha piu' possibilita' di diventar santo di un altro qualunque, non era , almeno all'origine una sovrastruttura ideologica imposta dalle classi dominanti o dalla Chiesa. Essa aveva radice nella convinzione , comune al cristianesimo tardo-antico e al paganesimo germanico e condivisa tanto dai dominanti quanto dai dominati , che la perfezione morale e spirituale poteva difficilmente svilupparsi al di fuori di un illustre lignaggio. Di qui lo stretto legame che si stabili a questa epoca nei fatti , e che diventera' in seguito un luogo comune agiografico difficile da rimettersi in discussione , fra santita' potere e nobilta' del sangue.
la Prima conseguenza di questa affermazione dell'"Adelheilige---il santo nobile--- fu l'esclusione della gente d'origine sociale oscura da quelle vie regie della santita' che costituivano allora l'episcopato e la dignita' abbaziale . Ormai, e per un pezzo gli umili ---questa massa anonima di servi che agli occhi dell'aristocrazia non avevane' pensiero ne' liberta'----non potranno accedere alla gloria degli altari se non per la via eremitica che fino allo CI secolo , non fu molto molto diffusa in Occidente. In una societa' dove poverta' ed estrema ascesi si trovavano ad essere relegate al margine , i servitori di Dio di cui si conservava il ricordo dopo la morte furono soprattutto i fondatori di chiese o di monasteri poiche la gratitudine dei clerici e dei monaci si manifestava con la redazione di "una Vita" o con l'istituzione di un culto in loro onore. Le famiglie nobili stimolarono d'altronde spesso
il loro zelo distribuendo esse stesse delle reliquie dei loro membri piu' illustri . Cosi fecero per esempio , i primi Carolingi col loro antenato sant'Arnolfo , vescovo di Metz (morto nel 640 ) o con santa Gertrude di Nivelles ( morta nel 659), figlia del maestro di palazzo di Pippino di Landen e4 di santa Itta , sorella di santa Begga. In questi personaggi, dell'uno o dell'altro sesso , e attraverso le loro biografie si esprime una nuova concezione di santita', fondata su una nascita illustre , l'esercizio della autorita' e il possesso di richezze spesso considerevoli , messi al servizio della diffusione della fede cristiana. Talvolta , specialmente negli uomini ci si aggiungeva la bella presenza fisica e una grande affabilita' nelle reazioni sociali. Siamo molto lontani dall'ideale ascetico del V secolo e piu' ancora dai santi delle origine cristiane
In complesso l'Occidente doveva ereditare dall'alto Medioevo tutta una serie di rappresentazione mentali nel campo della santita' che solo lentamente e parzialmente saranno rimesse in discussione nei secoli seguenti.Tra questi tratti fondamentali figurano la preponderanza maschile ( il 90% dei santi dell'epoca e' di uomini ), quella degli adulti ----l'infanzia non suscitava allora alcun interesse particolare----e soprattutto gli stretti legami tra nascita aristocratica e perfezione morale e religiosa
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André Vauchez : Il santo
Ha studiato all'École normale supérieure e all'École française de Rome. La sua tesi, sostenuta nel 1978, fu pubblicata nel 1987 in inglese con il titolo Sainthood in the Later Middle Ages ed è divenuta un classico di riferimento per lo studio di questo argomento. Vauchez fu nominato direttore degli studi medievali dell' École française de Rome (1972–1979), ricercatore presso il Centre national de la recherche scientifique e professore di storia medievale presso l'Università di Rouen (1980–1982) e l'Università di Parigi X Nanterre (1983–1995). Ha ricevuto il Premio Balzan di storia medievale nel 2013. (Wikipedia)
NEL TRECENTO E QUATTROCENTO FUORI D'ITALIA SI ERANO COMPLETATE UNA SERIE DI TRASFORMAZIONI
E TUTTO SI ERA PREPARATO
ESISTEVANO GRANDI STATI NAZIONALI UNIFICATI SOTTO UNO STABILIZZATO POTERE MONARCHICO ASSOLUTISTA
( MENTRE IN ITALIA L'EQUILIBRIO SI ERA SPOSTATO DAL COMUNE ALLA SIGNORIA )
DAL PUNTO DI VISTA SOCIO ECONOMICO E IDEOLOGICO : UN NUOVO MODELLO DI FEUDALIZZAZIONE------------OCCORRERANO TRE SECOLI PER LIBERARSENE IN PARTE---------CO=N LA RIVOLUZIONE FRANCESE
QUINDI INIZIA ORA AD INIZIO 500 LA FINE DI QUEL MONDO CHE ERA STATO CONOSCIUTO FINO AD ALLORA : DOMINATO DALLA CHIESA CATTOLICA E DALL' IMPERO
L'IMPERO ERA ENTRATO IN CRISI NEL XIII SECOLO CON LA SCONFITTA DEL PROGETTOGHIBELLINO E LA CHIESA AVEVA AVUTO IL SOPRAVVENTO
ORA L'IMPERO PER UNA INCREDIBILE SORTA DI EVENTI RISORGEVA ASSOCIANDOSI AD UN ENTITA' NAZIONALE ( LA SPAGNA )
LA CHIESA AVEVA VISSUTO IL SUO TRIONFO SENZA SAPERSI RINNOVARE ED ORA ENTRAVA IN ROTTA DI COLLISIONE CON LA CULTURA E CON LA SCIENZA
E SI ARROCCAVA A DIFENDERE L' INDIFENDIBILE
ALLA TESTA DELL' IMPERO UNA FAMIGLIA GLI ASBURGO
CHE CON CARLO V E IL RAMO SPAGNOLO DARANNO VITA A SFORTUNATE E MEDIOCRI PERSONALITA' IN GRADO DI DISSIPARE UNA DELLE SITUAZIONI PIU' FORTUNATE MAI VISTE NELLA STORIA
ALLA TESTA DELLA CHIESA UNA SERIE DI MEDIOCRI PERSONALITA' ( NONOSTANTE IL GIUDIZIO ATTUALE DEGLI STORICI ) TROPPO PICCOLE PER CAPIRE L'INCREDIBILE SERIE DI AVVENIMENTI CHE SI PREPARAVANO : ERANO I NODI CHE VENIVANO AL PETTINE
L'impero viene lentamente soppiantato dagli Stati nazionali : Inghilterra , Francia , Spagna , Ungheria , Polonia , Svezia ............ E gli stati sono proprieta' di un uomo e della sua famiglia e vengono trasmessi come possesso eraditario LA CONCEZIONE ASSOLUTISTICA DEL POTERE CHE PREVEDE LA PRESENZA DIVINA NEL POTERE , LA SCARSA DIFFUSIONE DELLA CULTURA , COSTRINGE L'INTELETTUALE A NON PORRE DOMANDE SCOMODE ALLA SUA INTELLIGENZA
LA DIFFUSIONE DELLA ISTRUZIONE E LA CIRCOLAZIONE DELLA CULTURA SONO I SOLI MEZZI CHE HA LA GENTE PER DIFENDERSI DAL SOPRUSO DI POCHI POTENTI CHE IN OGNI ETA' TENTARONO, TENTANO E TENTERANNO DI SOPRAFFARE I PIU' DEBOLI
DOMINAZIONE SPAGNOLA SULL'ITALIA
Madrid diventa il centro del mondo europeo L'ITALIA SI FA APPENDICE DEL MONDO SPAGNOLO L'oro e l'argento americano invadono la Spagna e dalla Spagna l'Europa Architetti , artisti , mercanti , artigiani di tutte le parti d'Italia gravitano intorno alla corte spagnola Come tante api laboriose la miglior intelligenza italiana guarda a Madrid come alla capitale di una parte consistente di Europa Le ingenti spese militari e una mentalita' arretratissima della nobilta' spagnola condannerano l'economia spagnola La mentalita' controriformista ( difesa di un cattolicesimo cupo ) la Spagna condanna all'arretratezza culturale se stessa e le nazioni dominate
La dominazione spagnola in Italia iniziò ufficialmente nel 1559 con la pace di Cateau-Cambrésis attraverso la quale fu dichiarata la fine delle guerre tra Spagna e Francia. Da qui seguì la spartizione della sovranità sui territori della penisola italiana I domini spagnoli in Italia compresero i tre regni meridionali di Sicilia (dal 1282), Sardegna (dal 1324), e Napoli (dal 1504), il piccolo protettorato costiero dello Stato dei Presidi (appannaggio della corona di Napoli), e il ducato di Milano (dal 1556). Il re di Spagna, sovrano di questi territori, era rappresentato da un proprio viceré in ciascuno dei tre regni; il ducato di Milano era invece retto un governatore, in quanto il sovrano spagnolo lo possedeva nella sua funzione di Duca di Milano e, come tale, feudatario del Sacro Romano Impero. Il possesso definitivo di questi stati, contestato soprattutto dalla Francia, fu riconosciuto alla Spagna asburgica con la pace di Cateau-Cambrésis del 1559 (che pose fine alle guerre d'Italia del XVI secolo) e si protrasse per tutto il Seicento; ebbe termine con la guerra di successione spagnola, innescata dall'estinzione degli Asburgo di Spagna (1700) e conclusasi con la perdita di tutti i territori italiani da parte dei nuovi sovrani, i Borbone di Spagna. Poiché questi Stati erano stati acquisiti dai re spagnoli nella loro qualità di sovrani d'Aragona, la loro amministrazione competeva inizialmente al Supremo Consiglio d'Aragona. Dal 1556 in poi, a seguito delle riforme di Filippo II, dell'amministrazione di Napoli, Sicilia e Milano fu incaricato il nuovo Supremo Consiglio d'Italia, mentre la Sardegna rimase all'organo summenzionato. by Wikipedia
Di fatto l'ingerenza e la supremazia spagnola nelle cose italiane era iniziata gia'da tempo ed aveva comunque evitato l'ingerenza francese che mirava ad estendere il Regno al nord Italia L'Italia che era stata tenuta di fatto disunita dallo politica dei Papi mirante ad evitare che nord e sud si unissero sotto un unico governo si presenta e si presentera' composta da entita' territoriali tra loro divise e troppo piccole e deboli per poter resistere alla pressione dello straniero La scellerata politica papale antiunitaria si ritorce ora anche contro lo stesso patrimonio della Chiesa che continua ad esistere solo per volonta' straniera La reazione controriformista che pervade Italia e Spagna si esplica sul terreno spirituale opprimendo la liberta' intellettuale dell'individuo La compania di Gesu' fondata da Ignazio di Loyola , approvato da papa Paolo III con la bolla Regimini militantis ecclesiae (27 settembre 1540) diventa il braccio armato di un oscurantismo feroce che pervade a poco a poco tutti i paesi cattolici
L'europa diventa ora non l'Europa delle nazioni ma un Europa in mano a poche famiglie che prendono possesso dei territori e degli uomini come di un patrimonio personale e da lasciare in eredita' ai figli ed ai parenti
L'ABBRACCIO MORTALE DELLA SPAGNA : NOBILTA' E RELIGIONE
La Chiesa cattolica che era stata fino al 1300 la forza che con l'Impero si era disputata la guida del mondo occidentale ora crolla definitivamente Per il lungo periodo avignonese si era limitata a scomparire ............................................... Ora mendica l'appoggio della potenza spagnola per imporre l'ortodossia
Gli stati italiani di piccola o piccolissima dimensione , incapaci di rappresentare una forza militare adeguata a fronteggiare le nuove entita' nazionali erano altresi incapaci di unirsi in leghe durature e fidate........................
Venezia con la caduta di Bisanzio e l'avanzata dell'impero ottomano ai confini austriaci...................................
Firenze aveva piu' di ogni altro stato subito l'attenzione dei due papi medicei che non avevano rinunciato a nulla per tentare di riportare Firenze sotto il dominio della propria famiglia
In realta' a pagare per primo la politica spagnola sara' il vicereame di Napoli e la Sicilia (abbandonata a se stessa ) che gia' dal 1500 sara' iln completa balia degli spagnoli L'Italia del Centro Nord ( ed anche la Toscana ) economicamente rappresentera' all'interno del mondo spagnolo l'elite industriale Questo avverra' fino alle prime decadi del seicento quando comunque il tessuto industriale , mercantile e bancario italiano sara' travolto ed atterrato dal dissesto spagnolo
Il malgoverno spagnolo avra' conseguenze su un certo clima di violenza e di banditismo nella vita civile Si diffondera' un bigottismo malsano, ed un malsano senso dell'onore , un ignoranza diffusa sulla cultura industriale Mentre il resto d'Europa viaggera' in senso contrario verso un mondo di conquiste scientifiche e di scolarizzazione
Vedremo molti Carnesecchi scivolare lentamente fuori dal ceto dirigente Altri li vedremo arrabattarsi tra corte e industria Di altri piu' resilienti noi vedremo la resistenza mercantesca fin quasi alle soglie del settecento e la loro sconfitta senza gloria
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Bibliografia utilizzata per la storia fiorentina
Allo scopo di poter essere utile ad altri riporto nella pagina apposita la bibliografia sulla storia fiorentina di cui mi sono servito :
Disporre di una buona bibliografia permette di razionalizzare l'utilizzo del proprio tempo, di indirizzare in modo corretto le proprie ricerche .
Devo ringraziare il dr Enrico Faini per avermi fornito a suo tempo di un ottima bibliografia , di cui non so quanto sia riuscito a fare buon uso
Fonti di storia di Firenze : Libri e Web
Sono grandi le difficolta' per l'appassionato che voglia studiare la storia di Firenze . Nel caso poi abiti distante da Firenze queste sono spesso insormontabili A parte l'impossibilita di frequentare l'Archivio di Stato e quindi di consultare i documenti originari c'e' la pure la grande difficolta' a reperire molti dei libri che sarebbero necessari Ad esempio tutti citano "Le delizie degli eruditi toscani" monumentale opera settecentesca di padre Ildefonso di san Luigi eppure questa e' un opera di difficilissimo reperimento. Il lettore non ha modo di consultarla e accedere ai dati Anche le opere di Pietro Santini sono molto difficili da trovare ………………………………………………………………………………. E' evidente che sarebbe necessaria la digitalizzazione elettronica di certe opere rare ma indispensabili agli studi E occorrerebbe digitalizzare i documenti dell' Archivio per facilitare la consultazione a distanza Qualcosa sembra muoversi ma sempre troppo poco. Non resta che plaudire alle singole e sporadiche iniziative ..............................................................
COSI SCRIVEVO QUALCHE ANNO FA PRIMA CHE GOOGLE SI MUOVESSE IN QUESTO SENSO DIGITALIZZANDO MOLTI LIBRI RARI E INTROVABILI METTENDOLI A DISPOSIZIONI DI TUTTI RIVOLUZIONANDO IL MODO DI FARE RICERCA ; E ANCHE ASFi HA NEL FRATTEMPO FATTO QUALCHE PASSETTO IN AVANTI
.............................................................. L'opera del Duomo di Firenze ha messo in rete le copie digitali dei registri di battesimo in Firenze a partire dal 1450 , L'universita' di Siena ha digitalizzato per intero l'opera di Emanuele Repetti : Il dizionario storico e geografico della Toscana . Anche la Brown University ha messo in rete due fonti assai importanti come l'archivio delle tratte e i dati del catasto 1427 relativi alla sola Firenze ( anche se su questa opera si possono avanzare alcuni dubbi ) L'Archivio di stato di Firenze ha messo in rete parte dei dati del Ceramelli Papiani …………………………………………………………… ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………
Se vi capitera' di andare all' ARCHIVIO di STATO di FIRENZE per la prima volta , seguite i consigli di Roberto Segnini e Paolo Piccardi http://www.carnesecchi.eu/asf.htm
Bibliografia su Firenze
Vorrei evidenziare la pagina di questo stesso sito in cui e' elencata una vasta bibliografia sulla storia di Firenze : http://www.carnesecchi.eu/Bibliografia.htm
DOVE COMPERARE I VOSTRI LIBRI
Io devo un necessario ringraziamento al sig. Massimiliano della Libreria Chiari di Firenze nelle descritte obiettive difficolta' di reperimento fortunatamente ho avuto da lui un aiuto importante e per suo tramite sono riuscito a procurarmi alcuni libri che difficilmente avrei potuto trovare altrimenti .
www.libreriachiari.it …catalogo www.firenzelibri.it………..catalogo
ed altri libri ho acquisito tramite l'organizzazione http://www.maremagnum.com/maremagnum/main.jsp?idlanguage=4http://www.maremagnum.com/index.php
DOVE TROVARE RISORSE GRATUITE SULLA RETE
Google ha cominciato una vasta opera di digitalizzazione di libri antichi Digitate su http://books.google.it/ e troverete una piccola miniera di libri attinenti la storia fiorentina
Sul sito http://www.archeogr.unisi.it/repetti/………………………………………….Grazie all'Universita' di Sienapotete trovare il testo di quell'immensa fonte di notizie che e' il Repetti : Dizionario storico geografico della Toscana un'opera indispensabile e altrimenti di difficile e costoso reperimento
due siti di grande importanza sono i siti delle tratte per le cariche della signoria e quello del catasto fiorentino ( con i limiti evidenziati da Paolo Piccardi nella pagina sul catasto 1427 di questo sito )
http://www.stg.brown.edu/projects/tratte/ http://www.stg.brown.edu/projects/catasto
altri siti molto interessanti ed in sviluppo sono http://documents.medici.org/medici_index.cfm
non dimenticate di consultare : http://www.operaduomo.firenze.it/risorse/battesimi/frame.htm l'elenco di tutti i battesimi celebrati in Firenze dalla meta' del quattrocento all'eta' moderna
e il sito del Convento domenicano di Santa Maria Novella ricco di documentazione
I ricordi di Pitti
Sul sito dell'istituto che porta il nome del mercante pratese Marco Datini http://www.istitutodatini.it/biblio/online/sparse7/ http://www.istitutodatini.it/biblio/htm/volumi.htm
potete trovare diversi libri sul commercio in epoca medioevale in particolare i testi del MELIS
http://www.storia.unive.it/_RM/didattica/strumenti/sapori/saggi/sez4/cap1.htm………………………………..Alcune opere di Armando Sapori
potete trovare anche il "Diario fiorentino" di Luca Landucci sul sito http://www.bibliotecaitaliana.it:6336/dynaweb/bibit/autori/l/landucci/diario_fiorentino/@Generic__BookTextView/2;pt=120e comunque potrete ritrovarlo dalla pagina 17 alla 25 in questo sito
Documenti sul Savonarola http://oll.libertyfund.org/Home3/Book.php?recordID=0964 scelta di prediche e di scritti di Fra Girolamo Savonarola con nuovi documenti intorno alla sua vita P.Villari E. Casanova ed Sansoni 1898 public domain
Finalmente l'Archivio di Stato di Firenze mette in rete la raccolta del Ceramelli - Papiani http://www.archiviodistato.firenze.it/ceramellipapiani/servlet/action?navigate=Log
Ottima anche la raccolta di stemmi delle famiglie fiorentine
Il sito dell'opera del Duomo : http://www.operaduomo.firenze.it/ http://duomo.mpiwg-berlin.mpg.de/ENG/HTML/S010/C059/T001/TBLOCK00.HTM
troverete cronologie della storia fiorentina nei siti : http://www.cronologia.it/cronofi0.htm ……………………………………………………………….curato dal dr Paolo Piccardi e nel portale della storia di Firenze http://www.storiadifirenze.org/ in questo portale che dovra' essere il punto di riferimento sulle ricerche storiche sulla storia di Firenze potrete trovare molti contributi di diversi ricercatori
Sul sito http://www.liberliber.itPotete trovare gratuitamente alcune grandi opere di storia fiorentina
Villani Machiavelli Guicciardini
Che pure potete trovare in http://www.classicitaliani.it/index171.htm
Dall'Archivio di Stato di Arezzo si possono trovare tre opere interessanti www.maas.ccr.it/PDF/Arezzo.pdf www.maas.ccr.it/cgi-win/h3.exe/aguida/d12202
alcuni siti mettono a disposizione importanti nuove ricerche http://e-prints.unifi.it/view/subjects/M-STO_01.html http://www.storia.unifi.it/_PIM/default.htm http://www.storiadifirenze.org/
vorrei segnalare in modo particolare i testi del dr Enrico Faini e i testi di Silvia Diacciati ,e quelli di Jean Bouttier , di Andrea Zorzi , e di Franek Sznura
http://eprints.unifi.it/archive/00000978/ http://eprints.unifi.it/archive/00000741/ http://e-prints.unifi.it/archive/00000505/ http://e-prints.unifi.it/archive/00000789/ http://www.storia.unifi.it/dotmed/archivio/resoconti/cronaca_diacciati.htm http://www.storia.unifi.it/SDF/annali/2006/Diacciati.htm
alcune genealogie di famiglie fiorentine compaiono nel bellissimo sito di Davide Shama' …………………… http://www.sardimpex.com/
http://www.uan.it/alim/letteratura.nsf ……………………………………………………………..ARCHIVIO DELLA LATINITA’ ITALIANA NEL MEDIOEVO http://www.storiamedievale2.net/Fonti/indice.htm http://www.storiamedievale2.net/Fonti/siti.htm http://www.mondimedievali.net/Glossario/indice.htm http://www.comunediatessa.it/pergamene/pergamene.htm ………………………alcune pergamene interessanti anche i mercanti fiorentini nel 1300
http://www.cronologia.it/storia/aa1528a.htm
http://www.condottieridiventura.it/
http://www.storiaecultura.it/labo/cast/mufirenze/firenze1.htm
http://www.opificio.arti.beniculturali.it/
http://www.storiamedievale.net/ http://www.mondimedievali.net/
http://www.archiviosanminiato.org/archivio/inve/Vicariato/civili1.html http://webtext.library.yale.edu/xml2html/beinecke.SPINELL.con.html#SI http://webtext.library.yale.edu/xml2html/beinecke.BALD.con.html http://www.archivistorici.com/archivi/ns.asp http://www.heraldica.org/topics/national/italy/touring2.htm http://www.mondimedievali.net/Castelli/toscana.htm
http://www.iacopi.it/I_AREZZO.htm http://www.geocities.com/emilioweb/remigio/p_re9013.htm http://www.geocities.com/emilioweb/p_prior1.htm
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http://gens.labo.net/it/cognomi/ http://www.melegnano.net/cognomi/cognomi0001l.htm
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ing. Pierluigi Carnesecchi La Spezia anno 2003